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cap. 1 - L’AMBIENTE FAMILIARE E LA FORMAZIONE INTELLETTUALE DEL GIOVANE
CARLO SINO ALLA TESI DI LAUREA
La tesi di laurea
Sul piano più strettamente politico, la fine del 1920 segna la prima
adesione al socialismo turatiano. Le convinzioni repubblicane del ’19, la
comprensione dei problemi e delle aspirazioni del “popolo” dovuta alla guerra ma
anche ai libri ed alle idee di Amelia Rosselli, la crisi dell’interventismo
democratico e l’insoddisfazione per le carenze della politica salveminiana
costituiscono le premesse dell’evoluzione di Carlo verso il movimento
socialista.
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Alla svolta del ’21 contribuiscono anche fattori d’altro peso. Anzitutto, il
dilagare della violenza fascista in Toscana e la vittoria, all’interno del
fascio fiorentino, della tendenza più reazionaria.
Anche in Toscana, il fallimento dell’occupazione delle fabbriche segnava il
riflusso socialista e l’intervento risoluto delle forze di destra nella lotta
antibolscevica. Tra l’autunno del ’20 e gli inizi del ’21, l’azione del fascismo
toscano cresce in violenza ed intensità e si qualifica sempre più chiaramente
come la milizia degli agrari e della borghesia reazionaria.
Un altro tratto che caratterizza lo squadrismo toscano è il violento
antisemitismo.
E’ possibile, dunque, comprendere quali ragioni inducessero Carlo Rosselli
alla diffidenza ed all’ostilità verso il movimento dei fasci. Anzitutto,
l’estrema violenza degli squadristi favorita dalla complicità delle forze di
polizia. Nelle sue lettere e nei suoi primi scritti Carlo aveva mostrato di non
amare la violenza, da qualunque parte provenisse. A questo si aggiunga la
naturale reazione di Rosselli di fronte alla rozza propaganda antiebraica
d’alcuni fascisti. Rosselli studiava allora all’Istituto Superiore di Scienze
Sociali Cesare Alfieri di Firenze, e assieme studiava legge, dapprima un anno a
Ferrara, quindi a quella di Siena.
La tesi di laurea che egli discusse nel luglio 1921, relatore l’economista
Riccardo Dalla Volta, prova che nel suo atteggiamento non c’era soltanto una
scelta istintiva, di “gusto” tra fascisti e socialisti, ma anche, e soprattutto,
una convinzione maturata attraverso la conoscenza di una vasta letteratura
europea sui problemi del socialismo.
Il tema scelto per la dissertazione rivela l’interesse con cui il giovane
segue i problemi politici ed economici del suo tempo: proprio nel momento in cui
l’occupazione delle fabbriche e la crisi nei rapporti tra CGL e Partito
socialista pongono drammaticamente il problema dell’avvenire e delle prospettive
del sindacato nello stato moderno, Rosselli tenta di tracciare un panorama delle
tendenze e della storia del sindacalismo in Europa.
Per capire bene, la profondità e la peculiarità delle prospettive affrontate
da Rosselli nella tesi di laurea, mi sembra importante sottolineare la cultura e
gli studi, in particolare, che Carlo compì per il suddetto lavoro sul
sindacalismo.
Per tradizione di famiglia i Rosselli avevano legami col mondo intellettuale
anglosassone, ed a quel mondo si guardava con interesse. Carlo trovò i suoi temi
iniziali in John Stuart Mill, ed il suo orientamento socioeconomico fu
alimentato dal dibattito condotto dai liberali inglesi contro i conservatori.
Carlo aveva una mentalità di tipo inglese, avversa alla retorica, alla
teatralità, alla violenza.
Gli studiosi del pensiero di Carlo Rosselli hanno indicato i testi da lui
consultati per la stesura della sua tesi di laurea nel luglio del 1921: da
Georges Sorel ai coniugi Webb, da Ivanoe Bonomi ad Arturo Labriola, ma
l’impostazione dottrinale della tesi trasse origine dalla pubblicistica inglese,
che dalla fine dell’800 aveva cominciato a discutere di “old” e “New liberalism”:
il nuovo liberalismo, sociologicamente più avanzato, avrebbe dovuto incontrarsi
con il mondo del lavoro a causa dell’evoluzione economica del paese, facendo
ricorso al riformismo.
Rosselli, fin dal 1920, accolse l’orientamento progressista del “New
liberalism”, critico verso il liberalismo ottocentesco, ormai privo d’entusiasmo
e di finalità. E’ da aggiungere che a Firenze Mill era molto noto.
Gli storici sono d’accordo nell’attribuire grande importanza alla dottrina
di G. D. H. Cole; in essa il giovane Carlo trovò la visione di una società
fondata sulle autonomie associative. Nel 1920 era uscito di Cole, “Guild
Socialism Re-Stated”, il cui primo capitolo aveva come titolo “The Demand for
Freedom”. Il proposito politico era abbastanza chiaro: <<The principal social
phenomenon of our times is the rise of working class organisation, first and
foremost in Trade Union form; this working-class organisation already represents
a very great social power, but it is a power unrecognised in the constitution>>.
Per Cole “Guild socialism” significava una teoria delle istituzioni ed una
politica diretta alla trasformazione della struttura sociale, in modo da formare
una vera “Democratic Community”. A tal fine proponeva un’azione “revolutionary”,
che fosse evolutionary, vale a dire <<the consolidation of all forces on the
lines of evolutionary development with a view to making the revolution>>. Un
linguaggio politico che ritroviamo in Carlo Rosselli.
Nel 1920 era uscito anche l’altro volume di Cole, “Social Theory”, che ebbe
un notevole successo editoriale; un testo che si lasciava leggere per la
chiarezza delle idee. La premessa di Cole sui diritti, le opportunità e le
organizzazioni delle classi sociali, era questa: <<Gli operai, attraverso le
Trade Unions ed altre società, condividevano con le alte classi ciò che era
stato largamente negato alle classi popolari, ossia l’opportunità di libere
associazioni aventi un comune intento, e la conseguente valorizzazione della
struttura sociale circostante>>.
Cole preferiva parlare di “Social Theory”, perché intendeva riferirsi alla
società ed alle diverse forme d’associazione, ed anche perché intendeva legare
la sfera sociale all’etica in modo da poter affrontare, attraverso lo studio
della “Community”, il problema della “Democracy”.
Se si riconosceva l’importanza delle associazioni, si doveva modificare il
senso della democrazia quale rappresentanza dei singoli, perché l’eletto
rappresentava un intento comune ad un gruppo di persone. Da qui la necessità di
modificare le varie forme d’associazione e le loro funzioni; questa
trasformazione, però, non poteva avvenire secondo la teoria marxista, che
persisteva a considerare la “Society as a Whole”.
Cole parlava di “Regionalism”, di “local government”, di “churches”.
Rosselli, quando lesse questo volume, forse fu colpito dal capitolo XII sulla
“Liberty”, nel quale si difendeva <<the place of individual liberty in the
community>>; il liberalismo non poteva rimanere confinato nella difesa della
“personal liberty”; doveva sostenere <<the balance of functional associations in
Society>>.
Cole fornì al giovane Rosselli una serie di concetti e di termini che erano
novatori, rispetto alla tematica politica seguita dai partiti politici italiani;
Cole parlava di cittadini, associazioni, società, d’azioni individuali e
d’azioni associative, di comunità e di teoria sociale. Impossessarsi di questo
linguaggio significava avere una prospettiva tematica originale, e Carlo
utilizzò questo linguaggio nel campo degli studi economici sindacali.
Nella bibliografia essenziale Cole citava Bertrand Russell e J. Ramsay
MacDonald. Nel 1918 Bertrand Russell aveva pubblicato il volume “Roads to
freedom” su socialismo, anarchismo e sindacalismo, ristampato nel 1920.
Dopo un’analisi critica di <<Marx and socialist doctrine>>, Russell nel
capitolo terzo ricordava che Marx non aveva avuto in Inghilterra molti seguaci;
il socialismo era stato ispirato in gran parte dai “Fabians”; lo stesso
“Indipendent labour Party” era ricorso alle idee dei fabiani.
J. Ramsay MacDonald nel volume “A Policy for the Labour Party”, edito nel
1920, ricordava al lettore che il partito laburista era <<a combination of Trade
Unions, cooperative and Socialist Societies>>, <<professional Societies and
local Labour Parties>>, vale a dire una federazione d’associazioni che concepiva
la società come “Community”.
Il metodo proposto dal Labour Party era un <<democratic parliamentary
constitutionalism>>, perciò, aprendosi ai liberali, il “Labour movement”, doveva
comprendere <<the interests of all classes that give service to the community>>.
Ramsay MacDonald, considerato allora come il maggiore teorico del partito
laburista, aveva salutato favorevolmente “the New liberalism”, e sosteneva che
il “liberalism” con tutte le sue “virtues” doveva diventare “Socialism”; il
socialismo avrebbe segnato lo sviluppo della società civile. Auspicava, pertanto
un nuovo movimento politico formato da socialisti, liberali, progressisti e
radicali. Dietro la scelta fatta da Carlo Rosselli, di prendere come argomento
della propria tesi accademica il movimento sindacale, c’era una finalità
politica.
Il “colosso sindacale britannico” era staccato dalla dottrina marxista e
preferiva parlare di “liberal democracy”, e di “Socialism” ispirato a John
Stuart Mill, laddove il sindacalismo italiano minacciava occupazioni di
fabbriche.
Per ricostruire la parte inglese della cultura politica di Carlo sono da
vedere anche le nuove edizioni di vecchie opere ripubblicate nel 1920. Nel 1920
fu ristampata l’opera di Sidney e Beatrice Webb: “The History of trade unionism”;
nell’introduzione di questa “revised edition” del ’20, gli autori riconoscevano
che il “Trade Unions Movement” aveva adottato un programma sociale ed una nuova
organizzazione politica. Sempre nel 1920 fu ristampata l’altra opera di Sidney e
Beatrice Webb, “Industrial Democracy” nell’introduzione all’edizione del 1920
gli autori proponevano <<a Socialist Commonwelt in order to secure for the whole
community the maximum of offective individual freedom>>.
Hobhouse nel 1904 aveva pubblicato il volume “Democracy and Reaction”, e nel
capitolo conclusivo dedicato a “Liberalism and Socialism”, in polemica con “the
old liberalism”, ossia quello di Cobden, aveva sostenuto che il moderno
liberalismo, richiamandosi a Mill, aveva raccostato i principi di libertà e
d’eguaglianza, e si era avvicinato a “the socialistic ideal”, infatti, <<the
liberal and socialist have attacked the problem of progress and of social
justice>>; di conseguenza <<the true socialism is avowedly based on the
political victories which liberalism won and serves to complete rather then to
destroy the liberal ideas>>; anche le differenze tra un aperto “liberalism” ed
un razionale “collectivism” dovrebbero sparire.
La ragione era per Hobhouse da trovare nel fatto che il sistema produttivo
inglese non tendeva <<to that sharp separation of the proletariat from the
captains in industry on which the marxian teaching was based>>. Nella successiva
edizione del 1909, Hobhouse aveva aggiunto un’introduzione, concludendo che non
c’era divisione di principio e di metodo tra gran parte del labour party e di
più avanzati liberali: <<The ideas of socialism, when traslated into practical
terms, coincide with the ideas to which liberals are led when they seek to apply
their principles of liberty, equality and the common good to the industrial life
of our time>>. In altre parole <<liberalism and socialism move on converging
lines>>.
Nel 1911 uscì a Londra di Hobhouse il volume “Liberalism” e, nel capitolo
secondo su “The elements of liberalism”, il paragrafo quattro era dedicato alla
“Social Liberty” prefigurando il liberalismo come “constructive theory of
society”, e come “a movement” compatibile tanto con le istituzioni
rappresentative quanto con la vita sociale. Hobhouse criticava la “Manchester
School” che tendeva ad una <<restricted view of the function of government>>;
invece con un moderno liberalismo <<individualism can work in armony with
socialism>> per pervenire ad una <<social liberty and living equality of
rights>>.
Il liberalismo vecchio stile di Gladstone era diverso dal liberalismo di
Stuart Mill: Mill era convinto che “the pubblic welfare” poteva accordarsi con
“the rights of the individual”, infatti, <<social well-being cannot be
incompatible with individual well-being>>, perciò poteva ben essere considerato
come il sostenitore del “liberal socialism”. Questo “liberalism” doveva venire
incontro alle “poorer classes”, perché <<the right to work and the right to a
living wage are just as valid as the rights of persons>>. Nel capitolo ottavo,
“Economic Socialism”, Hobhouse sosteneva che <<a liberal socialism must be
democratic>>, inoltre deve perseguire il bene comune <<in terms of the wellfare
of all the individuals who constitute a society>>.
Di conseguenza, la crescente cooperazione del liberalismo politico e del
socialismo politico ha rimpiazzato l’antagonismo del secolo scorso per “the
necessities of democracy”. Hobhouse in conclusione, si compiaceva che
“liberalism and labour” avessero imparato “to co-operate”, infatti, il “Labour
Party” aveva rafforzato “its alliance with liberalism”, per questo si poteva
parlare di “liberal revival”. Questo testo di Hobhouse fu ristampato nel ’19 e
anche nel ’23, ossia quando Rosselli era a Londra. E’ da osservare che nella
breve bibliografia finale figuravano gli scritti di Stuart Mill, i “Throughts on
Democracy” ed i “Duties of Man” di Giuseppe Mazzini, nonché il volume di Lowes
Dickinson, “Liberty and Justice”, titolo che Rosselli non dimenticherà.
Lowes Dickinson in questo volume concepito sottoforma di “political dialogue”
sosteneva che giustizia e libertà sono fondamentali ideali della democrazia. In
una vera democrazia ci sono soltanto “different functions” e tutti i cittadini
possono raggiungere egualmente alte funzioni; in conclusione il “modern
socialism” può imboccare la via democratica dell’equità e della libertà.
Hobhouse continuò nella difesa del “liberal socialism” e nella stampa si
elogiavano di lui “The elements of social justice”, una monografia, nella quale
il tema centrale verteva sul nesso tra libertà individuale e “social and
political freedom”, nonché tra “justice and equality”. Davanti al concetto di
giustizia tutti s’inchinano perché la giustizia è una forma d’eguaglianza, come
diceva Aristotele, la giustizia deve fondarsi sull’armonia tra gli interessi
personali e quelli generali. L’ultimo capitolo terminava con una discussione
sulla “Democracy”, che doveva mettere insieme i tre principi di “liberty”,
“equality” e “community”.
Nella prefazione di questo volume l’autore ringraziava Hobson di aver letto
il manoscritto.
John Hobson, sociologo mazziniano ed economista eretico, fu autore d’opere
molto note, non certo sconosciute a Carlo Rosselli. Nella stessa collana di “Liberalism”,
era uscito il volume “The Science of Wealth” di Hobson, dove si esaminavano i
fattori che impedivano un libero flusso tra capitale e lavoro, ed ostacolavano
il formarsi di un’organica unità nel sistema produttivo; ma la conclusione
politica era trattata nel capitolo XI, “The Labour movement and State socialism”:
lo Stato poteva intervenire a migliorare socialmente le condizioni di vita della
massa degli operai, non essendo più accettabile la nozione di Stato che <<exists
merely to protect the lives and property of individual citizens>>.
Si ritrovava il concetto, caro ai fabiani, di “ad armony of individual
interests” con “the claims of society”, quale organico complesso.
Due anni prima, nel 1909 John Hobson aveva pubblicato il volume “The Crisis
of Liberalism. New Issues of Democracy”, che era la conclusione di un dibattito
culturale, apertosi su la “Manchester Guardian”, intorno al pensiero liberale
nei rapporti con la democrazia ed il socialismo. Nella prima parte del volume
s’indicavano le ragioni della crisi del vecchio liberalismo ottocentesco, ma
nella seconda parte Hobson studiava <<the relation between new liberalism and
socialism>>, sostenendo che l’antagonismo tra questi due movimenti politici
poteva sparire con una politica progressista in campo educativo, sociale ed
economico: la libertà individuale non era in contrasto con il principio della
“eguaglianza delle opportunità”, e con l’idea di un benessere esteso a tutta la
comunità.
Il punto centrale, dell’analisi socio-politica di Hobson, era il capitolo
“Socialism in Liberalism”. Non bisognava muovere dal presupposto che il
liberalismo fosse il partito dei capitalisti, ma dalla politica sociale radicale
inglese che aveva riconosciuto i diritti e le funzioni del “lavoro”. Bisognava
continuare in questa direzione: il liberalismo doveva avanzare con coraggio ed
energia verso un cammino di ricostruzione sociale, ed il socialismo doveva
perdere l’intento rivoluzionario <<in taking a way the property of the rich and
giving it to the poor>>, e dare maggiore spazio all’individualità.
Leggendo la tesi del luglio 1921 non si fa fatica a capire perché Salvemini
l’accolse così male. Il lavoro è la rivelazione di un temperamento politico: vi
abbondano le dichiarazioni di fede, le intuizioni di chi sente appassionatamente
i temi che discute.
La tesi ha essenzialmente un carattere politico-sociologico e non è facile
darne una sintesi soddisfacente proprio perché indugia di frequente sull’una o
sull’altra questione teorica e si allontana dal tema centrale per una serie di
divagazioni marginali. Il lavoro sul sindacalismo di Rosselli, tuttavia, con
rapide escursioni nella storia, con lampi di riflessioni politiche e
sociologiche, risulta di non agevole lettura, proprio nel senso dell’omogeneità,
della linearità di un pensiero troppo spesso tralasciato per rincorrere altre e
svariate teorie.
Scopo dell’autore è di fornire un panorama del sindacalismo moderno nelle
sue varie tendenze: sicché dopo una breve e piuttosto generica introduzione
sulle “associazioni di mestiere attraverso la storia” in cui Rosselli tratteggia
per sommi capi le vicende delle organizzazioni sindacali da Roma all’età
contemporanea, il lavoro tratta nei successivi capitoli del sindacalismo
rivoluzionario, di quello riformista, e, più brevemente, delle associazioni
cristiane dei lavoratori. Un sintetico sguardo alle ultime tendenze del
movimento sindacale ed una sommaria appendice sugli avvenimenti principali della
storia sindacale italiana concludono la dissertazione.
Già dall’impianto del lavoro è possibile comprendere cosa interessi di più
Rosselli: la discussione teorica e la situazione attuale, i problemi d’oggi del
movimento. La tesi che egli espone merita di essere analizzata.
Rosselli parte da un giudizio esatto sulle corporazioni: <<Il liberale,
l’individualista figlio della rivoluzione francese, mirano quasi con orrore
queste unioni d’artigiani e le ritengono limitatrici della libertà umana. Ma, in
verità, essi, delle corporazioni, non vedono che il periodo della decadenza e
della rovina, sì da dimenticare come il risveglio delle arti, dei commerci,
delle industrie, si debba in gran parte all’azione corporativa>>.
Ma non per questo sogna un impossibile ritorno al passato, ritiene che le
corporazioni medievali siano <<il frutto caratteristico di un’epoca di libertà e
d’autonomia comunale che è impossibile possa riaffacciarsi nella storia>> e, in
polemica con i cattolici, conclude che <<l’abolizione delle corporazioni
s’imponeva come un male doloroso ma necessario, come un’operazione grave e
pericolosa che doveva liberare la società da un cancro fatale alla sua vita>>.
La lotta di classe per Rosselli è una realtà innegabile: <<il socialismo non
ha fatto che dare una concretazione teorica ad un fatto esistente, fatale, e che
quindi adesso non si può né si deve addebitare>>. Non c’è da illudersi, egli
afferma, che tale lotta possa aver fine, “essa è la vita stessa dell’umanità”:
<<vi saranno sempre coloro che predomineranno. Quel che si deve cercare è che il
predominio sia in ragione delle qualità morali, intellettuali, superiori.
Elevare la lotta di classe in regioni superiori. Noi troviamo, infatti, nella
storia dell’umanità quest’evoluzione nella élite dirigente: dal più forte
fisicamente siamo passati al più ricco, al più nobile, ed ora la supremazia sta
lentamente volgendosi in favore del più intelligente, del più elevato
intellettualmente>>.
Ma, proprio perché la lotta di classe è un dato permanente della storia
umana, la solidarietà “anche se limitata ad una sola classe” rappresenta un
fatto positivo: Rosselli ha fiducia nella solidarietà esclusiva che naturalmente
si crea tra i produttori. <<Perché lo spirito di solidarietà possa albergare
potente nell’animo degli uomini – osserva – occorrono interessi ben potenti, ed
urgenti, capaci di riempire tutta la vita, ed oltre a ciò occorrono una
similitudine d’ambiente, un ripetersi di circostanze, onde sentire fortemente il
legame sociale>>.
Alla luce di simili considerazioni, Rosselli prorompe in un’appassionata
invettiva contro la “libertà di lavoro” difesa dagli economisti liberali: <<Ah!
Questa famosa libertà di lavoro! Quanti delitti si commettono in nome di essa!
Ma che cosa essa significa infine per i suoi apologisti? La libertà di una
minoranza di opprimere una maggioranza. Concludendo, noi ci domandiamo: che
significato aveva quel famoso concetto di libertà del lavoro sanzionato dalla
rivoluzione dell’89? A noi sembra che avesse un valore puramente negativo>>.
L’autore sottolinea un punto che gli sembra di particolare importanza: il
contrasto in atto tra autonomia e centralizzazione nelle organizzazioni
sindacali. <<E’ il conflitto eterno fra centro e periferia ma indubbiamente però
la vittoria resterà ai primi, giacché quanto più si sviluppa il movimento
sindacale e tanto più viene sentita la necessità di un organo centrale con
potere effettivo>>.
Qui preme notare, attraverso le affermazioni generali riportate, la
posizione problematica del giovane: accetta la lotta di classe ma aspira ad
elevarla “in regioni superiori”, verso una nuova “meritocrazia”; comprende
appieno i motivi della lotta ai crumiri ma rifiuta per principio “la violenza
materiale”; è favorevole, infine, all’occupazione delle fabbriche ma disapprova
l’azione “non coordinata di gruppi locali”.
Analogo atteggiamento mostra Rosselli nei capitoli centrali della sua tesi,
quelli che illustrano le tendenze e l’azione del sindacalismo rivoluzionario e
di quello riformista. Quantunque in più punti egli dichiari d’essere favorevole
al metodo riformista e nelle pagine conclusive affermi esplicitamente “di
credere fermamente nella vittoria del socialismo a metodo riformista”, alcuni
aspetti del sindacalismo rivoluzionario lo affascinano inducendolo a sfumare
certi giudizi.
I testi a cui Rosselli fa riferimento nell’esporre le teorie dei
sindacalisti rivoluzionari sono essenzialmente il Sorel, l’Arturo Labriola ed il
Bert, allievo di Sorel. Di Sorel, Rosselli accetta anzitutto l’idea
dell’educazione morale necessaria al proletariato che si salda bene allo spirito
mazziniano della sua formazione: <<il socialismo perché sia benefico all’umanità
occorre che sia conquista; occorre anche ricordare, che seppure la borghesia è
rilassata ed in piena decadenza, la sua storia è un eroismo continuato: si è
organizzata, ha lottato, ha atteso soffrendo e finalmente con la rivoluzione
dell’89 è riuscita a vincere definitivamente. Questa stessa lotta e questi
stessi principi dovrà essere pronto a sopportare il proletariato, ed è perciò
che occorre un’azione morale e educativa che foggi i nuovi lottatori>>.
E, in relazione a quest’esigenza, apprezza lo slancio “idealistico e
volontaristico” impresso al socialismo: <<il socialismo sarà ma potrebbe anche
non essere – ripete Rosselli –, questo dubbio non esiste per il marxista puro;
per lui il rivolgimento sociale deve essere inevitabilmente per il dogma della
continua concentrazione capitalistica. Da ciò deriva che il socialismo non viene
più considerato dalla generalità dei sindacalisti rivoluzionari come un problema
di carattere esclusivamente economico, ma come un problema anche morale, in
relazione appunto all’elemento volontaristico>>.
Al sindacalismo rivoluzionario, inoltre, Rosselli attribuisce il merito di
una sacrosanta reazione in nome di soluzioni federalistiche contro il
collettivismo accentratore. Ma mentre condivide la sfiducia nello Stato e le
severe critiche dei sindacalisti e degli anarchici all’istituto parlamentare ed
ha accenti interessanti sui pericoli della burocratizzazione a cui va incontro
il socialismo di Stato, non accetta le soluzioni di fondo proposte dai soreliani
per l’organizzazione della società futura: <<noi accettiamo il federalismo solo
se con esso s’intende un grande decentramento amministrativo e la cessione di
parte delle funzioni statali ad enti inferiori allo Stato e dotati di una certa
autonomia>>.
Ma, accanto ai meriti, Rosselli indica con chiarezza gli aspetti, a suo
avviso, pericolosi e negativi di una simile ideologia. Egli rimprovera ai
seguaci di Sorel l’esaltazione della violenza e della guerra, l’avversione alla
democrazia, il culto delle “minoranze audaci”. Tendenze, egli osserva, comuni al
nazionalismo e tali da compromettere gravemente la realizzazione del socialismo.
Anzi, Rosselli sottolinea con vigore che si tratta di un <<errore profondo della
dottrina e della pratica sindacalista rivoluzionaria: si astrae dalla massa, da
quella stessa massa che si vuole riscattare e si finisce in pratica fatalmente
con la dittatura della minoranza>>.
Anche la tesi centrale del sindacalismo, lo sciopero generale come mito
propulsivo dell’azione rivoluzionaria, viene respinta dal giovane studioso.
Rosselli afferma che la teoria dei miti è una “solenne truccatura” e che in ogni
caso non può applicarsi allo sciopero generale <<giacché nel momento stesso in
cui lo chiama tale egli ci fa intendere tutta la sua fede nel mito stesso>> ma
<<mito riconosciuto è mito superato. Il fedele non stima che l’inferno sia un
mito ma è certo che l’inferno esiste>>. E dunque, <<la conclusione che si deve
trarre è che lo sciopero generale deve considerarsi niente altro che un’arma con
la quale molti credono di poter dare il colpo mortale al regime capitalista>>.
Inoltre, nota Rosselli, lo sciopero generale ha “carattere essenzialmente
distruttore, catastrofico” sicché si rivela <<molto proficua dal punto di vista
dell’intuizione della società futura un’invasione delle fabbriche e delle terre,
parte degli operai desiderosi di lavorare per proprio conto, che non lo sciopero
generale, che significa astensione, sospensione, d’ogni attività e di tutta la
vita sociale>>.
Dalla critica non si salva nemmeno il “troppo spinto” internazionalismo.
Rosselli ritiene che in taluni casi l’antimilitarismo e l’antipatriottismo dei
sindacalisti rivoluzionari possono addirittura <<indebolire lo stato e fare il
gioco delle nazioni più aggressive e incivili>>, ma egli è convinto che <<questa
specie d’odio contro la nazione è ben ridicolo -, è un po’ rinnegare se
medesimi. La nazione è qualche cosa di reale, di vivente, di necessario, che
nessuna teoria può giungere a distruggere>>. D’altra parte, egli conclude, <<pur
attraverso questa formulazione errata e dannosa, noi ci sentiamo concordi coi
sindacalisti rivoluzionari quando essi affermano la superiorità
dell’Internazionale dei popoli>>.
La formula adottata nella tesi segna un passo avanti notevole rispetto alle
idee, vicine ad un certo “nazionalismo sentimentale”, del ’18 e del ’19 e marca
l’inizio di quell’evoluzione verso un deciso internazionalismo. Come tesi di
compromesso riflette certo le posizioni di Turati e del gruppo riformista ma
anche quelle di sindacalisti rivoluzionari come Arturo Labriola che “in
Economia, Socialismo e Sindacalismo”, un’opera letta ed utilizzata da Rosselli,
sosteneva che <<niente si oppone a che un socialista senta questa comunanza
ideale con i simili suoi e sia pertanto patriota>>.
L’esposizione dell’ideologia dei sindacalisti rivoluzionari induce peraltro
Rosselli a pronunciarsi esplicitamente in più punti su Marx e sul revisionismo.
Rosselli sottolinea più volte l’inaccettabilità di una condizione che
escluda l’alleanza tra proletariato e borghesia avanzata e soprattutto consideri
la borghesia come un blocco reazionario compatto. Seguendo la tesi del Bonomi de
“Le vie nuove del socialismo” che a sua volta, non faceva che riecheggiare la
posizione di Bernstein, Rosselli insiste sul semplicismo della schematizzazione
marxista e sulla funzione di una parte almeno della borghesia: <<Si dimentica
completamente la piccola borghesia che vive del suo lavoro. Non si parla mai
della masse rurali. Per i sindacalisti, il contadino non esiste. Gravissimo
errore giacché la grande massa in molti paesi, come in Italia è rurale ed una
rivoluzione veramente proficua deve basarsi sul proletariato delle campagne. La
conferma ci viene data dalla rivoluzione dell’89 e dalla rivoluzione russa>>.
Per quanto riguarda la concezione materialistica della storia, anche qui si
sente l’influenza della lettura d’opere come quella di Prezzolini, che, a sua
volta scrivendo “La teoria sindacalista” subiva il fascino dell’idealismo
crociano e nella definizione della storia accettata da Rosselli si sente l’eco
di quella crociana, una simile valutazione si lega d’altronde perfettamente a
quella concezione del socialismo come fede, come rivoluzione morale prima che
economica in cui lo spirito mazziniano di Rosselli si salda in pieno con le idee
recepite attraverso la lettura di Sorel, di Leone e di Labriola.
Si tratta di un punto fermo nel pensiero di Carlo: <<E’ inutile – egli
scrive – affannarsi a negare il carattere religioso del socialismo; esso è; la
massa convinta lo rende tale. Inutile affermare che il carattere essenziale del
socialismo è l’economico; quando esso penetra nel popolo si trasforma, si
allarga.
Il vero socialista è un religioso; il socialismo è fede. Da questo lato
peraltro è innegabile che il socialismo nel suo sviluppo attuale non può
costituire un sistema completo; esso si arresta alla vita terrena, disprezza la
metafisica dell’anima, non è sufficiente a soddisfare la sete spirituale;
occorre un ideale ben più caldo, più smisurato, vago ed infinito e più ideale;
la visione in un futuro che non si realizzerà forse mai, ma verso il quale anima
e corpo possano tendere, soffrire, lottare, sperare, avvicinandosi con
approssimazioni progressive.
E tutto ciò perché non si ha il coraggio di proclamare che il socialismo è
una religione, ed il completamento dell’ideale ultraterreno mediante un ideale
terreno. Per i primi si tratta di una nuova religione che discende dalla terra;
dall’uomo, religione del mondo che trae la sua forza dal mondo, dal popolo, per
il popolo. Questo è dunque un grande, il grande ideale al quale può essere
corollario necessario il Sindacalismo, il movimento operaio esclusivamente
economico>>.
C’è in quell’affermazione, come afferma Nicola Tranfaglia, che “il
socialismo è fede”, che “il vero socialista è un religioso” l’eredità
dell’ebraismo. Inteso, comunque, come una visione ed un modo di rivivere la
storia umana che Carlo sentiva congeniale al suo temperamento.
Certo, Rosselli era e rimase un “laico”: non c’era in lui un problema
religioso legato all’origine ebraica; Carlo mantenne sempre un certo distacco,
una certa diffidenza verso il sionismo, anche se ammirava l’idealismo dei
migliori.
Nella tesi di laurea del giovane Rosselli c’era in essa, sia pure tra
incertezze e contraddizioni, una parte “positiva”: il tentativo di indicare
quelle tesi che egli riteneva feconde per l’avvenire del movimento operaio
internazionale e particolarmente italiano.
Rosselli, intanto, non crede alla possibilità per i sindacati di una
“neutralità politica” e nell’ascesa del Labour Party in Inghilterra scorge
l’accentuarsi della tendenza alla politicizzazione. Pronostica la futura
dissoluzione dello Stato nei sindacati: <<I sindacati – scrive Rosselli - in un
futuro regime socialista si trasformeranno in organi ufficiali, sì da obbligare
i lavoratori a far valere i loro diritti di produttori in organizzazioni
distinte non organizzate>>.
Per quanto riguarda i Consigli di fabbrica, convinto che la divergenza tra
sindacalisti rivoluzionari e riformisti “sta nel metodo”, giusta la distinzione
soltanto di metodo tra rivoluzionari e riformisti mutuata dal Bonomi, Carlo
sembra sottovalutare la profonda divergenza che sui consigli di fabbrica divide
l’“Ordine Nuovo” dai dirigenti riformisti della CGL. Non ha esperienza diretta
della questione sindacale.
In concreto, ancora una volta, Rosselli guarda all’Inghilterra dove i
consigli di fabbrica <<hanno per oggetto esclusivamente questioni che non
toccano la produzione>> ed è persuaso che <<i consigli di fabbrica nei vari
paesi finiranno per seguire l’esempio inglese, anche in questo campo il
migliore>> . Insiste sui “nuclei locali di produttori”, come base della società
futura, ma al modello d’ispirazione francese, anarchicheggiante, collega le più
recenti esperienze inglesi e tedesche: <<il Socialismo gildista inglese ha
certamente una grande base di verità e si adatta all’attuale ambiente
economico>>.
Il punto di vista gildista fu sostenuto magistralmente da Hilferding, degli
indipendenti tedeschi di destra. Anche per lui sindacati operai e consigli di
fabbrica sono i fattori principali della preparazione dell’economia socialista.
Perché la socializzazione non diventi un’organizzazione fiscale e burocratica,
aggiunge Hilferding, i rami di produzione socializzati dovranno essere gestiti
da organi di “autogoverno” dell’industria, da “parlamenti” nei quali abbiano
posto e voto coloro che hanno parte diretta nell’industria, i consumatori della
relativa industria, e , insieme con essi, i rappresentanti degli interessi
generali, da nominarsi dagli organi centrali dell’economia.
Questi singoli “parlamenti industriali” a loro volta essere collegati tra
loro in un parlamento superiore dell’economia” cui spetterà di fissare le
direttive generali. Però, anche in questa industria socializzata, non deve
introdursi una uguaglianza meccanica, né deve cessare la concorrenza. Il
socialismo significa solamente “uguaglianza delle posizioni iniziali”.
Quello che merita di essere rivelato è la scelta del socialismo gildista che
gli consente di esaltare il federalismo proudhoniano ed il concetto soreliano
del “libero produttore”, cellula fondamentale della società socialista.
Rosselli credeva nella vittoria del sindacalismo riformista, perciò scriveva
nella sua tesi sul gildismo inglese: <<Il socialismo gildista è ancora poco
conosciuto in Italia, ma probabilmente in esso è la soluzione del problema
dell’ordinamento futuro della società. La concezione socialista collettivista,
che faceva dello Stato il grande organo accentratore con una immensa burocrazia,
dopo le recenti esperienze russe e di tutti i paesi, sembra che vada
tramontando>>. Dietro il gildismo, c’era l’esperienza politica laburista con
tutto l’apparato del riformismo inglese.
Ed ha ragione Maurizio Degli Innocenti ad affermare che la familiare ed
antica simpatia verso l’Inghilterra, l’attenzione alle vicende del socialismo
europeo, il gildismo, confluivano in una riflessione il cui intento era <<di
pervenire ad una teoria economica del sindacato della quale il movimento
laburista inglese appariva sempre il momento della verifica>>.
Il movimento sindacale riformista si doveva richiamare ad un socialismo non
grettamente materialistico, che, senza aspettare “il fatale di là da venire”,
potesse fare subito <<i conti con le masse lavoratrici, col popolo che soffre>>.
La convinzione ideologica di Rosselli è ben delineata: <<Noi crediamo
fermamente nella vittoria del socialismo a metodo riformista, e di conseguenza
del sindacalismo riformista. Con ciò per altro non neghiamo senz’altro qualunque
valore al metodo rivoluzionario; esso può presentarsi necessario in determinati
periodi storici come mezzo per giungere al fine; noi non crediamo che la Russia
avrebbe potuto fare a meno di compiere la rivoluzione, il trapasso violento.
Vaglio doloroso, ma necessario e fatale, date le condizioni ambientali
dell’antico regime, vera via senza uscita e senza speranza. Ma in altri paesi,
come in Italia, le condizioni sono senza dubbio profondamente diverse>>.
Carlo concludeva che i teorici sindacalisti rivoluzionari non potevano
intravedere <<un’epoca lontana in cui tutti gli uomini saranno fratelli, come
pure non esisteranno le guerre e le forme di lotte sanguinose>>. Ad avere una
visione ideale e costruttiva erano i “Fabians” ed i sostenitori “del New
liberalism”: gli uni e gli altri mostravano anche fiducia nel regime
parlamentare rappresentativo.
Proprio concludendo il suo lavoro e dichiarando la sua preferenza per una
soluzione riformista, Rosselli esprime sul movimento operaio un giudizio
fiducioso ed ottimistico: <<Si può veramente concludere che il movimento
italiano è giunto ad una maturità paragonabile quasi a quella dei più antichi
movimenti esteri. Dopo anni funesti di scetticismo, il popolo italiano si è
risvegliato e lentamente ha elevato una rete fittissima d’organizzazioni
sapientemente costruite e riunite. Assalti improvvisi potranno arrestare
momentaneamente questo mirabile organismo proletario, ma non più distruggerlo,
sfasciarlo. La sua vita esteriore si svolge, sì nelle sedi delle Camere, delle
Federazioni, delle Leghe; ma ad essa fa riscontro una vita interiore ancor più
possente e radicata nella coscienza di milioni di lavoratori; questa vita
interiore un vento di distruzione non può ormai cancellare>>.
Concludendo l’analisi della tesi di laurea sul sindacalismo, è importante
sottolineare una costante di grande importanza in Rosselli: la fedeltà al metodo
liberale. Tra gli autori citati, Pareto ricorre spesso con la sua opera su “Les
systemes socialistes” apparsa nel 1901-02 ed è in dubbio che la teoria della
circolazione delle elitès dell’avvicendarsi delle aristocrazie e la
stessa convinzione propria del pragmatismo che l’azione politica sia all’origine
d’ogni teoria sociale, avesse fortemente impressionato il giovane studioso che
in più punti vi si riferisce. E, tuttavia, Rosselli mentre è convinto del ruolo
decisivo che le elitès hanno nella storia, non accetta la concezione che
fa delle elitès l’unica realtà attiva della storia, il motore di tutto
quanto accade.
La fine del corso di studi all’Istituto di Scienze Sociali lo spinge ad
uscire dal mondo accademico, ed a guardare in faccia la realtà e gli avvenimenti
decisivi che si preparano nell’estate del 1921.
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