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cap. 1 - L’AMBIENTE FAMILIARE E LA FORMAZIONE INTELLETTUALE DEL GIOVANE
CARLO SINO ALLA TESI DI LAUREA
La guerra
Fu, con strana coincidenza, proprio la guerra europea che segnò la fine
della crisi fisica e l’inizio della maturazione intellettuale di Carlo. Quell’estate
del ’14, così tragicamente segnata dal destino per la gran famiglia europea, ed
anche per la piccola famiglia Rosselli, che alla guerra doveva dare il maggiore
dei figli, vide un improvviso risveglio intellettuale ed una rivoluzione fisica
che trasformarono totalmente un ragazzo dal non perfetto equilibrio fisico,
dalle grandi inquietudini, in un giovane cosciente della sua forza ed assieme
cosciente della realtà.
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Amelia Rosselli ricorda nel suo Memoriale che, allo scoppio della guerra,
Carlo chiese di fare qualcosa e lavorò da volontario nell’ufficio notizie per le
famiglie dei soldati ed a preparare pacchi per i prigionieri.
Nel maggio, il dottor Scupfer che lo curava, era incerto se mandarlo in
montagna o al mare; alla fine la signora Amelia decise per il mare, a Viareggio.
Là, al Frassino, le giungevano gli echi di un Carlo che si emancipava, che si
faceva notare per la freschezza e l’indipendenza di giudizio; e là fin dai primi
giorni <<cominciarono ad arrivare lunghe, interminabili lettere di Carlo, da
Viareggio, nelle quali esponeva le sue idee>>. Quelle lettere, dice la signora
Amelia, manifestavano <<una maturità di pensiero impressionante e larga
conoscenza geografica>>.
Era quella soltanto “la politica” nel senso più difficilmente umanizzabile;
urto di stati, spostamento d’interessi, equilibrio di forze; una politica che ha
un lato pratico importante, ad intendere la quale la preparazione tecnica
ricevuta lo aveva certo predisposto. Ma, nello stesso tempo, ci doveva essere in
lui la passione di divenire grande, di conoscere anche lui i dettagli di quella
grossa cosa per la quale tutti prendevano partito.
A quell’epoca la trasformazione di Carlo si era già compiuta. Fin dal suo
ritorno al Frassino nell’autunno del ’14 <<era un altro>> agli occhi sorpresi ed
ammirati della madre: <<Alto, magro, asciutto, benché tarchiato nelle spalle
larghe e nel petto, col viso abbronzato dal sole e dal vento di mare, gli occhi
sfavillanti, e su quella pelle bronzea come spiccava il vestito bianco! Era
bellissimo, di maschia bellezza>>. Fu allora che si mise a studiare con quella
passione e quel vigore diligente che mantenne poi sempre; che si mescolò
maggiormente ai giovani della sua età ed agli interessi della vita cittadina;
che riprese il pianoforte.
Incominciò a collaborare con un’organizzazione di “giovani” democratici e
latini, che era stata lanciata da Julien Luchaire, allora professore di
francese; là scrisse il suo primo articolo, Giovinezza, di politica
internazionale, sulla Russia. Se da un parente a lui molto affezionato ebbe un
approccio vivo a questioni di finanza e d’economia, l’ambiente dei Ferrero gli
facilitò forse certi approcci alle questioni internazionali; ed Alessandro Levi,
socialista e parente, per via di matrimoni, di Claudio Treves, parlò certo con
lui di “questioni sociali”.
In ogni modo, la rinascita fisica produsse in lui un mutamento profondo
quanto alla sua capacità di studio e d’assimilazione.
Ora non solo finì le tecniche ma, durante un anno, d’estate studiò in modo
sufficiente per prendere la licenza liceale.
L’anno dopo, il 27 marzo 1916, il fratello maggiore, Aldo, cadde combattendo
sui monti della Carnia; questa mancanza aveva creato, in Carlo, un grave
turbamento nel suo animo ed aveva desiderato di partire volontario; solo le
ragioni della madre lo avevano trattenuto a casa.
Fu, per tutta la famiglia, un dramma sentito in modo diverso; Amelia, la
madre, si chiuse disperata in un dolore senza sfoghi; Carlo e Nello videro nel
fratello scomparso l’eroe di cui seguire l’esempio.
Entrambi i ragazzi sentivano l’ansia ed il dovere di contribuirein qualche
modo alla vittoria italiana. Nacque così nel gennaio del ’17, un giornaletto di
studenti “Noi Giovani” su cui i due fratelli pubblicarono i primi articoli
politici e letterari. Per capire donde venissero le idee occorre accennare alle
amicizie ed alle influenze che maggiormente si facevano sentire in quegli anni
in casa Rosselli. E anzitutto a Gabriele Pincherle, fratello di Amelia Rosselli,
consigliere di stato e senatore che, pur vivendo a Roma, seguiva da vicino quel
che avveniva nella famiglia della sorella e, in assenza del padre, aveva finito
per apparire a Carlo e Nello come il <<nume tutelare>> della casa.
Sulla forte influenza dello zio Gabriele negli anni decisivi della
formazione di Carlo Rosselli non ci sono dubbi. N’è testimone lo stesso Carlo in
due lettere scritte di cui la seconda, molto più indicativa, datata 3 novembre
1928, spedita dal confino di Lipari alla madre, dopo aver appreso la morte di
Gabriele Pincherle: <<Ora mi avvedo quanto gli volevo bene. Dire per me e per
Nello lo zio Gabriele è dire la quintessenza d’ogni virtù schietta e
disinteressata, dell’onestà sino all’eccesso, della bontà vera profonda attiva.
La sua bella figura ci accompagna e ci aiuta a discernere nelle tenebre il vero
dal falso e dolcemente ci ammonisce di non tradire quella religione del dovere
che lo ebbe milite silenzioso ma perfetto, in ogni ora della sua vita>>. La
personalità di Gabriele Pincherle costituì per Carlo Rosselli soprattutto un
esempio d’integrità e di moralità da seguire.
Preparato, quindi, a sentire con passione gli avvenimenti politici, Carlo
scrive su “Noi Giovani” due articoli indicativi sia per i temi scelti sia per le
idee sostenute: il primo, dell’aprile 1917, sulla rivoluzione russa di febbraio,
il secondo sull’intervento degli Stati Uniti in guerra.
Nell’ingenuo editoriale “Il nostro programma” che apre il primo numero del
giornale, si spiegavano gli obiettivi che il periodico voleva raggiungere: <<Una
grande e nobile missione ci aspetta: non è facile, ma è bella e giusta. Bisogna
che, quando noi lasceremo il mondo ai nostri figli, esso sia migliore di quando
i nostri padri ce l’anno affidato. Nessuno può ritirarsi egoisticamente dalla
società senza preoccuparsi degli altri. Il mondo e la società, in fondo, non
siamo che noi, noi stessi, tutti noi. Perciò l’evoluzione del mondo non è che la
nostra evoluzione. Tutto il progresso, quasi, può dipendere da noi. Oggi si è
capito che nemmeno noi giovani abbiamo il diritto di divertirci. Come potremmo
essere allegri ed indifferenti quando tante energie, tante giovani vite si
sacrificano ai più alti ideali? Noi giovani sentiamo la responsabilità che ci
pesa sopra: sentiamo la missione che ci attende. È necessario che noi abbiamo
una volontà forte e sicura, ed una vera concezione del Bene e del Male. Basterà
proporsi un ideale, alto e nobile, puro e generoso: ed a quello dirigere i
nostri sforzi. Sia un ideale di giustizia per tutti gli uomini>>.
È qui possibile cogliere con chiarezza l’accento mazziniano, il riferimento
a quella <<religione del dovere>>; ma c’è anche quell’ansia di agire, di
realizzare, così diffusa in quegli anni nella cultura italiana. In Carlo,
l’esempio della madre, delle sue qualità morali, del suo profondo senso
d’umanità è fin d’ora presente e lo si può vedere nei sei numeri del giornale in
cui, accanto alla politica, si trovano articoli sulla vita e sui problemi della
<<gente oscura>>, con un’adesione umana, prima e più che politica, ad un mondo
diverso da quello della borghesia agiata cui i Rosselli appartenevano. Il tema
dominante è quello della guerra vista come conflitto tra la democrazia e la
reazione, la civiltà e la barbarie; come ultima guerra d’indipendenza per il
compimento del Risorgimento nazionale.
Nell’editoriale “Libera Russia” datata 24 marzo 1917 Carlo Rosselli saluta
con entusiasmo ed autentica commozione il risveglio del gran paese, distingue
tra rivoluzione morale e la rivoluzione materiale che ora andava compiendosi, e
descrive le sue impressioni: <<abbiamo finalmente cominciato a sentire
l’influsso di un popolo che parlava un linguaggio di sangue che noi, liberi e
indipendenti, non potevamo capire. Così come il ricco non sa bene, non conosce
intimamente la vita ed il pensiero del popolo, così noi non vedevamo in fondo a
questo popolo e guardavamo la superficie dalla quale si ergevano solamente i
colossi, i geni russi. Invece era tutta una massa che saliva lentamente,
inesorabilmente. La marcia si poteva ritardare, ma non impedire. Noi ci siamo
come svegliati da un sogno>>.
Subito dopo, Rosselli rimprovera ai rivoluzionari <<l’eccesso che si trova
in tutte le rivoluzioni>>: <<Si, queste riforme sono belle, nobili. Ma datele
piano, a poco a poco. Dalla teocrazia assoluta, opprimente, si è passato
improvvisamente alla libertà più pura>>.
Il secondo articolo, pubblicato nel maggio 1917 su “Noi Giovani”, è
intitolato “Wilson” e commenta il discorso con il quale gli Stati Uniti sono
intervenuti a fianco dell’Intesa. Per il giovane interventista, Wilson è
<<l’uomo che ha saputo vincere l’istinto materialistico del suo popolo>>. Anzi:
<<Wilson è più che uomo. È il lato vero, il lato immenso della guerra. Egli ha
chiesto ai popoli di riunirsi tutti tra loro per un ideale comune. E per quest’ideale
irraggiungibile con i mezzi pacifici, egli ha giocato la sua popolarità. Per
fortuna nostra e sua, gli uomini grandi riescono quasi sempre. Ed egli ha
vinto>>.
Il 13 giugno 1917 Carlo è chiamato alle armi e dopo quattro mesi, il 15
ottobre, raggiunge Caserta per il corso allievi ufficiali che dura fino al 15
marzo 1918. Qui ha Luigi Russo come insegnante di “morale militare”.
L’incontro non è senza tracce nella formazione di Carlo Rosselli. Proprio
nel 1917, esauritasi la prima edizione, Luigi Russo ristampò le lezioni tenute
agli aspiranti ufficiali con il titolo “Vita e morale militare”. In esse Russo
discuteva una serie di concetti sulla lotta, sulla vita, sulla guerra secondo le
linee dell’idealismo gentiliano. Due punti c’interessano particolarmente. Il
primo riguarda il senso morale, la coscienza del dovere: <<La cultura è sempre
morale, e cultura vera dell’intelligenza è quella che è anche educazione della
nostra coscienza>>. Il secondo punto da sottolineare è l’insistenza sul peso
della volontà nelle vicende umane: <<Per quanto incerto possa essere il successo
di un nostro fare, noi non si deve non avere la serenità del fare: il saggio ben
sa che nella volontà è tutto il bene e tutto il male; in altri termini, tutto il
bene ed il male è dentro di noi>>.
Del resto, insegnante ed allievo erano uniti in quei mesi da un sentimento
comune: sia l’uno che l’altro <<alla guerra erano andati non soltanto con
consapevolezza ma con entusiasmo, a compiere l’opera del Risorgimento, a
combattere per la libertà di italiani ancora oppressi, e la guerra era intesa
come una grande prova collettiva, di un popolo impegnato nella sua unità entro
il processo della storia>>.
Dopo Caserta, venne la vita del reggimento. Fu mandato in montagna dove
passò l’inverno dal “17 al “18. Dopo l’inverno ed i combattimenti della
primavera e dell’estate, fatta la pace, fu mandato di guarnigione a Trafoi,
nell’Alto Adige. Fu perciò come se egli continuasse l’esperienza di guerra: la
vita con i soldati, venuti dalle file dei contadini, dalla parte più semplice e
più umile, ed insieme più solida, del paese; la comprensione dei loro bisogni,
la loro confidenza.
La fine del conflitto trova il giovane ancora sotto le armi, diviso tra la
passione politica che la tragedia della guerra ha reso più viva ma anche più
umana, e le prime preoccupazioni per la carriera da intraprendere una volta
terminato il servizio militare.
Nel carteggio fra Amelia Rosselli ed il fratello Gabriele sono descritti
l’appassionata partecipazione con cui la famiglia intera segue le vicende
internazionali e lo stato d’animo di Carlo che, afferma la madre in una lettera
del gennaio 1919, scrive “volumi” sulla conferenza di Parigi ma che è “pieno di
scetticismo come se avesse cento anni”. In più l’angustia il fatto di non aver
frequentato il liceo e di non poter quindi accedere a tutte le facoltà
universitarie. Né ha idee chiare sugli studi da intraprendere.
Sentimentalmente Carlo Rosselli era già orientato verso il socialismo al suo
ritorno dalla guerra. La signora Amelia Rosselli ricorda molto precisamente un
episodio, che si svolse alla fine del ’19 nella grande casa di Via San Niccolò
95, Oltrarno, periodo in cui si stavano svolgendo i “tumulti del pane”. Da
questa casa essa progettava di muovere di lì a poco tempo in una nuova e grande,
che sarebbe stata la casa “vera” per i ragazzi da tanto tempo privi di un
focolare domestico. Ma Carlo, pur godendo intensamente delle possibilità che
quella vita gli offriva, era dominato essenzialmente dalle nuove idee, dalle
esperienze della sua vita di soldato. Scrisse allora alcune novelle sulla
guerra, scritti sentimentali; non erano solo fantasie questi scritti di
Rosselli, noti solo a pochi intimi. Erano sentimento rovente e impetuoso, capace
di sacrificio supremo, cui solo mancava, per espandersi in atti, di incontrare
un qualche moto più vasto, che a quel sentimento fosse capace di far posto.
A vent’anni Carlo è disorientato. E’ incerto sulla posizione politica da
assumere: andato in guerra come tanti interventisti democratici con l’illusione
dell’ultima guerra da combattere per il trionfo della democrazia e della
libertà, alla fine del conflitto incomincia a riflettere con occhio critico
sulla realtà italiana ed internazionale. Si fanno strada i primi, seri dubbi sul
significato di quanto sta accadendo nel mondo. In Rosselli, <<l’aspirazione alla
fratellanza internazionale era alimentata da una corrente d’affetti civili che
discendeva dalla migliore tradizione democratica piccolo borghese del
Risorgimento italiano. Quell’aspirazione andava congiunta con il vagheggiamento
di una generale riforma del costume politico italiano, con la speranza che dalla
guerra la nazione risorgesse non solo più unita e forte ma anche più matura e
libera>>.
Alle esitazioni di questo genere si aggiunge l’irrequietezza provocata dalla
conclusione di un’esperienza eccezionale. Con l’avvicinarsi del ritorno a casa,
capisce di esser chiamato a scelte decisive per il futuro. Sente che le scuole
tecniche non soddisfano le sue esigenze culturali, ma nello stesso tempo non sa
ancora a quali studi dedicarsi.
Nonostante le esortazioni della madre si orienta abbastanza presto per <<la
legge verso la quale si sente attratto per varie ragioni>> e <<in specie per la
parte economica>>, ma non è ancora sicuro dei suoi mezzi. Solo nell’autunno
apprendiamo che Carlo s’iscriverà a Scienze Sociali, prendendo
contemporaneamente quest’anno la licenza liceale. Il desiderio di studiare e di
farsi avanti, superando l’handicap di una mediocre carriera scolastica, spinge
il giovane ad affrontare a vent’anni, con gioia, la preparazione per un esame
impegnativo come la licenza liceale.
In una lettera da Asiago informa lo zio delle sue letture e dei suoi
interessi: <<Ho letto in questi ultimi tempi libri francesi del Lenotre, Augier,
Daudet, Claretie. Ho letto una storia politica d’Italia in tre volumi dell’Oriani>>.
Ora Lenotre, Augier e Daudet hanno alcuni tratti in comune, probabilmente
quelli che attraevano Rosselli. Sono tutti e tre autori d’opere teatrali in cui
domina un vago sentimentalismo sociale, idee innovatrici per la società di un
tempo, ma anche per quella in cui viveva Rosselli.
Nelle sue lettere del 1919-20 si trovano citati anche scrittori come
Dostoevskij o Carljle. Si tratta, nel complesso, di letture comuni alla
generazione dei giovani nati intorno al nuovo secolo.
Quanto alle idee politiche, è possibile cogliere proprio dal ’19 al ’20 un
lento accostamento al socialismo: non mancano le esitazioni, i dubbi, i ritorni
momentanei a tesi accolte dalla madre ma l’evoluzione del giovane si delinea
chiara, costante.
Mosso da questi sentimenti, Carlo insieme al fratello, in quel torno di
tempo, trassero un giorno da parte e dissero alla madre pregandola di non
sorridere: <<Che cosa ne penseresti se lasciassimo la nostra casa e la nostra
posizione? Se ti domandassimo di venire a vivere con noi, una vita povera fatta
di quello che guadagneremmo?>>. La madre rispose: <<O non è più utile che voi
adoperiate questi mezzi che sono a vostra disposizione per aiutare quell’emancipazione
che è nei vostri propositi? Che li consacriate ad un’opera di giustizia?>>. E
tuttavia, dice la madre che quel giorno essa li sentì lontani, staccati da lei
in un mondo dove altre idee germinavano e maturavano.
Da allora Carlo si avvicinò di più a quelli che rappresentavano in Italia
“il socialismo”. Attraverso Alessandro Levi, intermediario di relazioni
intellettuali e politiche, il quale in quel momento appunto dava il massimo
della sua attività al socialismo, conobbe Filippo Turati; Claudio Treves che
veniva spesso a trovare il cognato.
E’ del maggio 1919 un suo articolo sulla rivista quindicinale “Vita” che un
gruppo di giovani, sotto l’influsso de “L’Unità” di Salvemini pubblicavano da
alcuni anni a Firenze. Nel ’19 il giornale sosteneva gli ideali
dell’interventismo democratico e dell’unione tra i popoli dell’Intesa.
L’articolo intitolato “Compito Nuovo”, pur nella sua ingenuità, è assai
eloquente sullo stato d’animo di Rosselli. Coesistono nel breve scritto motivi
ed accenti diversi. Il giudizio sulla guerra è ancora positivo ma quel che
interessa è la motivazione di tale giudizio: <<Oggi l’esser giovani è una forza,
una spinta. Luce, luce, aria nuova. Di quest’improvvisa trasformazione bisogna
ringraziare la guerra; la guerra distruttrice e creatrice, freno e spinta ad
ogni passione>>. Rosselli ritiene che durante il conflitto si sia compiuta
un’importante esperienza d’avvicinamento tra le classi sociali, tra “borghesia e
popolo” e che <<sull’unione sacra dell’ufficiale col soldato, debba poggiare la
vita politica nel dopoguerra>>. <<Gli studenti soldati – egli scrive – andavano
verso il popolo un po’ come verso l’ignoto e trovarono in quell’ignoto tanta
forza, tanta bellezza, mille eroi silenziosi che agivano e morivano
nell’ombra>>.
Ora, a conflitto finito, <<bisogna che tutti coloro che parteciparono alla
guerra si riuniscano in un fascio formidabile, pur non rinunciando ai loro
diversi ideali sociali. Riunirsi in un fascio, non significa rinnegare il
proprio partito. Ma al di sopra di tutto e di tutti: l’Italia>>.
In conclusione, Rosselli esorta i giovani della borghesia ad “andare al
popolo” più che mai ora che la pace è arrivata, <<per conoscere ed essere
conosciuti>>: <<Poter dire a questi giovani del popolo: tu sei socialista,
benissimo: rispetto la tua opinione come la mia. E se quest’uno ti dice: io sono
contro la borghesia. Ecco, allora discutiamo>>.
Appaiono significativi per caratterizzare la crisi che attraversa Rosselli
sia le idee sia il linguaggio dell’articolo suddetto. Colpiscono l’accenno al
“vecchio mondo tumefatto” e l’esaltazione “al di sopra di tutto e di tutti”
della patria : sono slogans ed espressioni che si leggono sui giornali
nazionalisti di fronte all’amara delusione della conferenza di Parigi e che
trovano eco in tutto il fronte interventista, anche presso i mazziniani ed i
democratici.
In realtà, l’insistenza per “l’opera d’educazione” e l’avversione per i
partiti tradizionali, che traspare dall’articolo, rivelano in particolare
l’influenza de “L’Unità” di Salvemini ben presente ai giovani fiorentini ed allo
stesso Rosselli.
Se si pensa dunque alla situazione confusa che c’era allora
nell’Associazione combattenti, non stupisce che Rosselli vedesse nell’unione dei
reduci dal fronte l’unico punto di raffronto per una politica a largo respiro,
suscettibile di successo nel paese. E in ciò il suo articolo riecheggiava assai
da vicino la posizione assunta alla vigilia delle elezioni da Gaetano Salvemini
su “L’Unità”.
Pur nella loro frammentarietà, questi documenti consentono di delineare con
una certa sicurezza l’orientamento di Rosselli: ostile ai giolittiani ed al
socialismo massimalista, ancora fiducioso nella “lezione della guerra” e nelle
possibilità di un movimento di combattenti. E’ con questo stato d’animo, con il
desiderio di riprendere gli studi e “farsi avanti nella vita” che nel febbraio
1920 Carlo torna definitivamente a Firenze dopo quasi tre anni di servizio
militare.
Tra il ’19 e il ’22 Rosselli fu, soprattutto, uno studente. Non che non
avesse i suoi sogni e le sue idee; ma la realtà la vedeva soprattutto come essa
si traduce nell’ambiente accademico.
Prima del congedo e del ritorno definitivo a Firenze, Carlo Rosselli vi
aveva trascorso alcuni mesi ancora da ufficiale presso la divisione di fanteria
di stanza nella città toscana: era un privilegio accordato agli studenti che
avevano bisogno di frequentare l’Università e di sostenere gli esami. Così dal
marzo al luglio 1919, il giovane aveva ripreso contatto con i libri, misurato
gli effetti più evidenti della delusione seguita alla vittoria del novembre
1918. Dalle lettere scambiate con la madre, dal “Memoriale” di Amelia Rosselli,
appare con chiarezza un mutamento sostanziale nello stato d’animo di Carlo, che
non investe soltanto la fede interventista ma anche la maniera di concepire la
vita ed i rapporti con le altre persone.
Quando torna nella sua città, la madre nota immediatamente un atteggiamento
diverso: dopo l’euforia dei primi giorni, Carlo sì estranea dalle riunioni
mondane. All’arte ed alla letteratura sembra voler sostituire in quel momento la
politica e gli studi per l’Università. <<In fondo – scriverà alla madre – mi
sento molto, ma molto diverso da tutti gli altri giovani della mia età>>.
In realtà, una crisi profonda metteva in discussione i valori che lo avevano
guidato nell’esperienza della guerra e lo induceva a riflettere sulla sua
condizione e sulla strada da prendere. Alla base del mutato stato d’animo c’era,
innanzi tutto la “distruzione delle speranze” che avevano sostenuto durante il
conflitto tanti della sua generazione. A loro, come a Carlo, la guerra appariva
sempre più come una forza arcana, “un destino cieco”.
L’immensità della tragedia provocata dal conflitto che troncò l’esistenza
dei “giovani migliori”, l’amarezza succeduta alla conferenza della pace ed
infine il ritorno in Italia ad un regime politico che non voleva mantenere le
promesse fatte: tutti questi motivi concorrevano al disorientamento ideale di
Carlo Rosselli oscillante ancora negli ultimi mesi del ’19 tra il riconoscimento
di tutta la dolorosa realtà e la difesa dell’interventismo di fronte alla
riscossa dei “neutralisti e pescicani fiorentini”.
Ad aprirgli gli occhi in maniera determinante contribuirono però gli
avvenimenti politici degli ultimi mesi in Italia, e particolarmente nella sua
Toscana. Nel 1919 e, soprattutto, nel 1920 le campagne toscane divengono uno dei
maggiori focolai degli scioperi agricoli, promossi dalle leghe rosse e bianche.
Le ragioni di questo scoppio improvviso e dilagante del movimento contadino
organizzato vanno ricercate nella particolare psicologia conseguente a quattro
anni di guerra, che sembrava contenere le premesse per una trasformazione dei
rapporti sociali nelle campagne assai profonda e duratura.
Carlo Rosselli ebbe modo così di rendersi conto della frattura irrimediabile
avvenuta nel fronte interventista e del prevalere sulle ragioni
dell’interventismo democratico del fanatismo nazionalista ed antipopolare.
Di un simile stato d’animo, sospeso tra la vecchia ispirazione
democratico-mazziniana ed il crescente desiderio di uscire dal proprio
“isolamento di classe”, di “andare al popolo”, è prova indiretta una lettera del
2 febbraio 1920 spedita da Piero Javier a Carlo Rosselli. Tenendo presenti le
sue posizioni del ’19 ed il probabile consenso alla parte negativa del programma
salveminiano non è azzardato supporre che Rosselli si chiedesse con quali forze
politiche Salvemini intendesse attuare le sue idee. La cosa merita di essere
notata giacché sin dal suo primo incontro Rosselli, pur subendo l’ascendente di
Salvemini, conserva una notevole indipendenza di giudizio.
L’incontro con lo storico pugliese, nella primavera del ’20, ha comunque
grande importanza per l’evoluzione politica di Rosselli. Lo aiuta a veder più
chiaro nei problemi internazionali dell’Italia ed a respingere l’attrazione che
sul reduce della guerra deluso dai risultati della pace avrebbe potuto
esercitare lo slogan della “vittoria mutilata”, a giudicare la reazione armata
dei proprietari terrieri contro le leghe contadine nell’estate del 1920, a
valutare l’importanza della questione meridionale.
Nello stesso tempo proprio l’insoddisfazione di Rosselli verso l’azione
della Lega salveminiana spinge il giovane a dare ascolto sempre più attento ai
discorsi di Alessandro Levi, suo parente, cognato di Claudio Treves ed assai
vicino a Turati,critico severo del massimalismo. La verità è che nel ’20 si fa
strada un profondo ripensamento in Rosselli che, attraverso la lettura degli
scrittori pacifisti francesi, da Romain Rolland a Henry Barbusse, giunge alla
condanna di quella guerra cui pure ha partecipato con entusiasmo. N’è testimone
una lettera scritta da Rosselli alla madre il 6 dicembre del 1920 il quale è
tutta un’esaltazione del pacifismo ed una condanna dell’immenso massacro.
Claudio Treves sottolinea che in quel periodo <<si tiravano le fila di un
Effort – unione internazionale dei giovani – in Francia, in Belgio ed in Italia.
L’Effort anzi nasce in Italia a Firenze.
E’ un giovane di Firenze, Nello Rosselli che scrive il testo definitivo del
patto>>.
Secondo Treves, l’Effort fu <<un’unione internazionale dei giovani per le
questioni sociali>> che si batteva per <<un’evoluzione comune degli spiriti
verso un idealismo superiore>> fondato sulla massima utilizzazione delle
capacità individuali e sulla “cooperazione fraterna” di tutti. L’iniziativa ebbe
vita breve: soltanto un anno ma segnò probabilmente per Carlo, il passaggio
dagli ideali “patriottici” dell’anteguerra all’internazionalismo degli anni
successivi.
Nello stesso periodo, Carlo Rosselli è tra i promotori di quel gruppo
d’intellettuali da cui nascerà nel 1923 il Circolo di cultura. Le origini
dell’iniziativa vanno ricercate nell’esigenza di un dibattito politico e
culturale aperto e costruttivo, al di fuori dei partiti, in un momento in cui i
valori dell’anteguerra erano stati spazzati via e tanti uomini di cultura,
soprattutto i giovani, passavano dalle residue speranze che un periodo nuovo
stesse per aprirsi all’amaro pessimismo provocato dai drammatici avvenimenti del
biennio 1919-20.
Il gruppo fiorentino, di cui facevano parte Salvemini, Ernesto Rossi ed
altri, teneva riunioni settimanali nello studio dell’avvocato Alfredo Niccoli,
e, dibatteva “senza intenti di proselitismo” temi d’attualità politica e
sociale. Temi in gran parte propri di Salvemini e de “L’Unità” ma anche problemi
e ideologie che attraevano in maniera particolare la nuova generazione di fine
secolo. Si trattò in ogni caso di un’esperienza preziosa per il giovane ex
ufficiale che poté confrontare i propri stati d’animo e le proprie idee con
quelle d’uomini più esperti e più maturi di lui.
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