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cap. 4 - IL QUARTO STATO
La nascita della rivista
A una rivista politica che facesse un serio tentativo di rinnovamento
ideologico e politico nell’ambito del socialismo italiano, Carlo Rosselli aveva
pensato più volte dopo il delitto Matteotti. Ed una ragione di fondo gli aveva
impedito fino a quel momento di attuare il progetto: la perdurante incertezza
sulla scelta che egli stesso avrebbe dovuto compiere tra l’insegnamento e gli
studi di economia e l’opposizione aperta al regime.
Quell’incertezza andava chiarendosi a mano che i mesi passavano e la
dittatura mussoliniana si consolidava. In primo luogo l’idea che oltre 30 anni
di azione socialista rischiavano di andar perduti se le nuove generazioni non
avessero compiuto uno sforzo autonomo per ricostruire su basi teoriche e
pratiche adeguate ai tempi nuovi il movimento operaio. Quanto al proprio
destino personale, Rosselli aveva scoperto proprio nella crisi seguita
all’assassinio di Matteotti la genuina vocazione della sua vita: quella di
subordinare ogni aspirazione di carriera e di ricerca all’esigenza etica di
abbattere il fascismo.
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In questo senso, ripercorrendo la formazione politica e culturale di
Rosselli, si può forse dire che il fascismo ebbe su di lui l’effetto di
potenziare al massimo le sue notevoli qualità di politico e di coraggioso
cospiratore.
A questa duplice premessa – rinnovamento del socialismo, azione antifascista
– si lega la nascita, nel marzo 1926, di “Il Quarto Stato” definita da Rosselli
e Nenni che ne furono i fondatori <<Rivista socialista di cultura politica>>.
C’è, tuttavia, da chiedersi quale fosse la base più specificamente politica e
giornalistica del nuovo periodico in un momento così difficile per la libertà di
stampa.
Agli inizi del ’26, Carlo Rosselli aveva indirizzato una lettera a Pietro
Nenni per spingerlo ad assumere la condirezione del settimanale. L’esempio a cui
Carlo si rifà è di nuovo quello di Matteotti: <<Tu mi parlasti – ricordava a
Nenni – una volta di Matteotti; e mi dicesti che ti sarebbe piaciuto dar la vita
per l’idea, così come lui la dette. Anch’io spesso ho sognato di poter finire
così utilmente la mia vita per una così grande causa. Matteotti volle e cercò i
posti di responsabilità nelle ore più dure. Io ammiro in lui la fede di tutte le
ore, la costanza, l’ottimismo contagioso, il volontarismo sfrenato>>.
Matteotti è insomma l’eroe positivo a cui Carlo vuole assomigliare. Ed è
pronto per attuare quello che ritiene il suo dovere, a far la rivista anche da
solo. <<Tengo sopra ogni cosa a dare in quest’opera prova di energia, di
carattere, di iniziativa>>.
Rosselli ritiene che la rivista possa assolvere ad un compito politico non
trascurabile: <<salvare qui in paese finché è possibile, gli elementi per la
ripresa di domani. Col lavoro di cultura, di propaganda, di azione minuta. Se
appena appena, noi due, ci manteniamo all’altezza del compito dimostrando fede e
volontà disperata di fare, credi pure Nenni, che riusciamo ad arrivare assai più
in là>>.
Il giornale è visto come una delle espressioni dell’attività politica
antifascista, uno strumento per attirare nuovi elementi nella lotta, un gruppo
preparato a lavorare per il dopo, quando il fascismo cadrà.
Sul piano ideologico, l’intento – come scriverà lo stesso Rosselli a Tommaso
Fiore l’11 marzo 1926 – è di iniziare <<un’opera di revisione del programma e
dell’ideologia socialista, per ora mantenendosi in un campo fondamentalmente
culturale>>. Si tratta, secondo Rosselli, di <<ricondurre il socialismo in
genere e l’italiano in particolare a contatto con la realtà, così economica che
culturale. Vi è un enorme iato da riempire. Da troppi anni il movimento versa in
uno stato di paralisi intellettuale>>.
Ora, per quanto riguarda i due condirettori della rivista, Rosselli e Nenni,
vi era una piena convergenza fra i due. Comune a entrambi era la critica severa
dell’Aventino, la decisione di proseguire la lotta anche sul terreno illegale,
il posto centrale assegnato in quel momento al problema istituzionale,
l’adesione all’Internazionale di Amsterdam. E, soprattutto ,la strategia da
seguire contro il fascismo promuovendo la formazione di un blocco antifascista
che andasse dal proletariato alle minoranze borghesi più avanzate. Quanto alle
differenze, esse erano soprattutto di esperienza politica e culturale, e di
temperamento.
Sabato 27 marzo 1926 appariva il primo dei trenta numeri di “Il Quarto
Stato”, la gerenza affidata ad un giovane unitario, Roberto Tremelloni.
Il giornale era l’espressione di un gruppo di giovani dei due partiti
socialisti. Così, coerentemente del resto agli obiettivi di Nenni e Rosselli,
troviamo esponenti di tendenze differenti: i massimalisti Lelio ed Antonio
Basso; i riformisti Giuseppe Saragat, Piero e Paolo Treves per citare i nomi più
noti. E poi gobettiani, liberali e salveminiani come Mario Vinciguerra, Tommaso
Fiore.
Comune a tutto il gruppo è una generica volontà di rinnovamento del
socialismo, la lotta per la creazione di una coalizione di sinistra,
l’intransigenza antifascista. Tra i vecchi e non più giovani chiamati da
Rosselli a scrivere per il “Il Quarto Stato”, le divergenze nell’impostazione
politica del discorso erano in apparenza minori ma, dal punto di vista
ideologico, le differenze c’erano e vennero fuori appena si affrontò la
questione dei rapporti tra socialismo e filosofia.
Adelchi Baratono, il filosofo marxista neo-kantiano, tenne una rubrica di
riflessioni politiche e filosofiche sulla necessità di una revisione in senso
etico e liberale del marxismo positivistico italiano intriso – a suo avviso – di
deteriore economicismo.
E, a ben guardare, Rosselli trovava negli scritti di Baratono temi ed
affermazioni che poteva condividere: da una nuova definizione del classismo,
ispirata a Proudhon e a Mazzini, all’analisi del rapporto tra socialismo e
liberalismo.
Ma caratterizzò ,assai più ,la rivista la firma di Arturo Labriola. Il
contributo di Labriola, al settimanale milanese ,fu importante sia nell’analisi
della sconfitta socialista e dell’avvento fascista, sia nel disegnare la
strategia propugnata dal giornale per preparare il rovesciamento del regime.
Labriola è convinto che il fascismo rappresenti la logica conclusione di un
regime che non fu mai democratico bensì ristretto ad un’oligarchia; ai
socialisti lo scrittore rimprovera l’insistenza sulle richieste economiche e
corporative, l’aver trascurato le riforme politiche.
Quanto alla prospettiva politica attuale, Labriola parte da un’aperta
critica dell’Aventino, comune a Nenni ed a Rosselli, per lanciare la formula
della concentrazione tra i repubblicani ed i socialisti di ogni tendenza. Lo
scrittore sindacalista insiste inoltre su un tema: gli artefici della riscossa
antifascista, egli scrive, <<son sempre da cercare in elementi che sappiano
essere repubblicani, socialisti e fermamente nazionali, soprattutto nazionali>>.
Nel complesso la rivista accoglie quattro diverse tendenze politiche
momentaneamente coalizzate nella lotta alla dittatura: socialisti riformisti;
massimalisti; repubblicani; liberali e democratici di sinistra.
Quanto alla posizione dei due condirettori di fronte all’affermato comunismo
e sostenuto da buona parte della sinistra italiana, l’atteggiamento di Rosselli
si differenziava radicalmente da quello di Nenni: <<La sua avversione al
comunismo – ha osservato Aldo Garosci – proveniva parte da istinto di avversione
alla violenza massimalistica, parte dall’amore istintivo ma radicato nel suo
intimo, per la libertà, per le istituzioni democratiche, per la varietà delle
opinioni>>.
Insieme a questi due fondamentali motivi, come sottolineerà più tardi Nicola
Tranfaglia, agiva nel fiorentino una conoscenza ancora molto superficiale del
movimento comunista italiano, e più ancora il rifiuto della visione classista
della società.
In un articolo firmato “L’uomo dalla finestra”, apparso sulla prima pagina
de “Il Quarto Stato” si legge: <<Dove le istituzioni politiche sono liberali e
democratiche io sto per il metodo della propaganda liberale e delle
trasformazioni pacifiche. Ove mancano le istituzioni liberali e democratiche, io
sono costretto ad adottare il metodo rivoluzionario, sono costretto a
riconoscere che è necessario uno sforzo violento, dittatorio per passare ad un
regime di liberalismo e di democrazia politica>>.
Qual era, dunque, la prospettiva politica a breve e media scadenza per cui
si batteva il giornale, quale la nuova strategia da adottare?
La Concentrazione repubblicano – socialista è per Rosselli l’obiettivo del
momento. Ma il rinnovamento del socialismo italiano e la riunificazione di
riformisti e massimalisti costituiscono le premesse inderogabili perché una
simile coalizione possa sorgere. E “Il Quarto Stato” intende adempiere appunto a
questo compito: favorire con un libero dibattito a più voci la formulazione di
una diagnosi, comune alle varie tendenze, di quanto è avvenuto, preparare la
base politica del partito socialista unificato. Altro, avverte lo stesso
Rosselli, non si può chiedere ad una rivista di cultura.
I numerosi articoli di Rosselli (alcuni firmati, ed altri siglati con la
firma “Noi”) compongono, nel complesso, un discorso organico proprio alla luce
del compito principale che il giornale si prefigge e che i due direttori
perseguono in maniera e con strumenti differenti.
Vero è, per altro, che si tratta di una divisione di compiti perseguita di
comune accordo tra i due direttori e che gli editoriali firmati “Noi”, a
cominciare da quello intitolato “Perché”, dovuto a Nenni, rivelano una stretta
collaborazione tra i due giovani ed una costante influenza dell’uno sull’altro.
Il 27 marzo 1926 esce a Milano il primo numero di “Il Quarto Stato” ed in
suddetto articolo introduttivo “Perché”, firmato “Noi”, si dichiara: <<La
rielaborazione critica dell’ideologia e del programma socialista che ci
proponiamo compiere in questa rivista risponde alle esigenze dei giovani della
nuova generazione socialista. Dobbiamo rielaborare con senso politico, i nostri
programmi di azione, tenendo presente che non abbiamo più ormai compiti solo
negativi. Lo stesso problema della libertà non è risolvibile che sul terreno
repubblicano socialista.
Il socialismo non si compendia solo nella profonda trasformazione della
struttura economica della società capitalistica. Il fine è il perfezionamento
della personalità umana, è la creazione di un ordine nuovo che assicuri al
massimo numero di esseri umani la possibilità concreta pratica, effettiva, di
elevarsi al più alto livello di vita materiale e spirituale>>.
Perché possa aver luogo un rinnovamento socialista, deve esserci però una
sincera “autocritica”: ed è proprio con l’autocritica che inizia il discorso di
Rosselli su “Il Quarto Stato”.
Il fiorentino si pone sulla rivista l’interrogativo di fondo cui era di
fronte il movimento socialista in quel periodo: “Perché fummo battuti”. E, per
rispondervi, chiama in causa non solo le ultime vicende politiche ma la storia
d’Italia dall’unità: il Risorgimento, le radici del fascismo, l’atteggiamento
della borghesia verso la democrazia.
<<Le ragioni della disfatta – scrive Rosselli nel numero del 3 aprile,
intitolato “Autocritica” – non vanno cercate negli avvenimenti esteriori. Siamo
noi gli autori e del nostro bene e del nostro male. Coloro che si rifugiano nel
determinismo pseudomarxista per giustificare il loro stato di passivismo, coloro
che attendono la salute dal fatale svolgersi delle cose mostrano di non aver
inteso lo spirito profondo di Marx, che è uno spirito di combattimento>>.
Sempre nella “Autocritica”, Rosselli insiste sull’estrema difficoltà di
innestare il marxismo sulla tradizione del socialismo italiano e ribadisce il
rapporto indiretto tra la diffusione del pensiero di Marx e la sconfitta del
movimento operaio: <<L’Italia – egli scrive – è un paese capitalisticamente
arretrato, povero, politicamente ineducato, affetto da provincialismo congenito.
Fragile nelle sue basi perché un movimento socialista degno di questo nome ed
improntato alla pura ideologia marxista è possibile solo là dove la vita
economica così industriale che agricola è grandemente sviluppata, là dove la
rivoluzione borghese ha posto su solide basi nello Stato nazionale il regime
rappresentativo ed ha definitivamente affermate le libertà politiche.
Ora in Italia difettavano in gran parte tali condizioni. L’Italia è ancor
oggi un paese prevalentemente agricolo che male si presta, specie nel centro e
nel meridione, all’affermarsi di un movimento socialista ispirato all’ideologia
marxista; la quale si volle dovunque affermare senza alcuna elasticità>>.
Rosselli mostra, in realtà, con le contraddizioni del suo discorso, ancora
di oscillare tra il recupero dell’interpretazione mondolfiana di Marx ed il
rifiuto integrale del marxismo. Il richiamo a Marx che si trova nella sua
autocritica deve essere dunque considerato come l’espressione di un temporaneo
avvicinamento, formale, al marxismo.
Il giovane elabora sulla sconfitta socialista e sull’avvento del fascismo
una diagnosi che risente piuttosto delle tesi salveminiane e di quelle di
Fortunato ma che contiene anche elementi autonomi.
Le cause della sconfitta socialista, afferma Carlo, devono cercarsi nel
costume nazionale e nella storia italiana: le arretrate condizioni economiche
del paese, l’assenza di lotte religiose, il carattere elitistico del
Risorgimento, appaiono le premesse della recente involuzione totalitaria.
L’assenza del proletariato dalla lotta nazionale per la libertà e l’economicismo
del Partito Socialista, impedirono che le classi lavoratrici acquistassero
un’autentica coscienza del valore supremo della libertà; e questo spiega
l’inerzia dei socialisti di fronte al fascismo.
Accettando in pieno la tesi di Salvemini, Rosselli scrive che compito
precipuo del partito di Turati <<doveva essere appunto quello di adeguare la sua
teoria e la sua azione al clima storico del nostro paese, di porre prima salde
basi morali e politiche per un fruttuoso lavoro socialista. Invece il partito
socialista non valutò al suo giusto valore il problema politico, si illuse che
fosse ormai definitivamente acquisito ciò che altrove era stato il frutto di
lotte lunghissime e rivoluzioni sanguinose; e non seppe condurre dopo il ‘900 la
grande battaglia per la libertà e le fondamentali conquiste politiche in nome
dell’intero proletariato. Si perse da un lato nel rivoluzionarismo verboso e
dall’altro degenerò troppo spesso nel corporativismo>>.
L’articolo, insomma, che si era aperto con il nome di Marx, si conclude con
l’indicazione di una formula politica e di lotta che rinvia chiaramente a
Mazzini: ed è questo insieme il limite ed il senso della posizione di Rosselli
il quale ,a ragione, intuisce l’esigenza di sottolineare il valore etico
dell’antifascismo, anche di quello socialista, ma non ritiene di poter
recuperare quel che di valido c’è nella tradizione marxista del socialismo
italiano e, pensa di potervi sostituire un’ideologia idonea ad unire al
proletariato i borghesi avanzati.
L’autocritica di Rosselli diede inizio ad un dibattito, su “Il Quarto
Stato”, avendo soprattutto la funzione di chiarire i termini di dissenso tra la
vecchia e la nuova generazione socialista. Il dibattito, per altro, fu limitato
essenzialmente ai riformisti vicini al PSLI.
Da un punto di vista politico ed ideologico, del resto il settimanale si
andava qualificando sempre più chiaramente in contrapposizione con la linea del
gruppo dirigente massimalista.
Quanto ai riformisti, essi erano assai più disponibili per il tentativo
unitario ed anche, se in “Il Quarto Stato” trovavano espressa una critica
radicale della politica turatiana, pure sentivano di dover continuare il dialogo
con quel gruppo.
Si faceva interprete di un simile stato d’animo lo stesso Claudio Treves che
sulla “Critica Sociale” replicò immediatamente all’attacco di Rosselli.
Treves è d’accordo con il giovane critico su un punto importante della
diagnosi sul dopoguerra: la paralisi del movimento socialista, diviso tra
rivoluzionarismo astratto e gretto riformismo.
Ma l’accordo si ferma qui. Il leader socialista rifiuta la revisione della
storia d’Italia proposta da Rosselli e soprattutto le critiche salveminiane alla
politica socialista. In realtà, secondo Treves, che segue uno schema rigidamente
deterministico d’interpretazione, il movimento operaio fu sconfitto per lo
svolgersi di un processo che il movimento operaio non era in grado, e non aveva
interesse a controllare.
La replica di Treves è soprattutto espressione di un modo di sentire e di
pensare che doveva essere comune a gran parte del gruppo dirigente socialista,
che non si rendeva conto dei termini nuovi della lotta; che, infine, non sentiva
l’urgenza e la necessità di una revisione profonda dei metodi e della linea
socialista.
La risposta, di Carlo Rosselli, si trova nel numero quattro del 17 aprile
1926, indirizzando “Due parole agli amici”: <<Essi hanno subito compreso il
valore di un’opera di educazione politica socialista fatta con spirito di unità,
e che si rivolge essenzialmente ai giovani, i quali del socialismo conoscono
soltanto le calunnie e le deformazioni dei nostri avversari>>.
Rosselli, nella sua risposta, chiarisce bene la differenza, rispetto al
passato, della crisi che sta vivendo ora il movimento operaio.
<<Siete forse voi – chiede il fiorentino – ancora un credente in quella
facile formula che fa della democrazia e del capitalismo due sinonimi, due
aspetti necessariamente legati nel mondo a civiltà occidentale? O non piuttosto
cominciate seriamente a pensare voi pure che la democrazia mentre fu, sì, il
regime politico proprio di una prima fase dell’espansione capitalistica, della
fase liberalistica inglese dopo la prima ascesa della borghesia mercantile al
potere, non è più detto debba necessariamente accompagnarsi alla seconda e
presente fase, protezionistica, dell’ultimo evoluto stadio della trasformazione
industriale?>>.
Rosselli inclina decisamente per la seconda ipotesi. Nello stesso articolo,
egli insiste sulla differenza tra la crisi di fine secolo e l’attuale <<se non
altro perché oggi ci troviamo di fronte ad una borghesia nuova ed audace che nel
fascismo assume una chiara visione dei suoi interessi di classe e manifesta
apertamente la sua sfiducia nelle ormai quasi inesistenti elitès borghesi>>.
C’è, senza dubbio, in questo e negli altri scritti di Rosselli dello stesso
periodo, un continuo oscillare a proposito dei rapporti tra borghesia
capitalistica e democrazia. Incerti sono i limiti ideologici della rivista
quando si toccano i “Problemi filosofici del socialismo”. Nella stessa pagina
Rodolfo Mondolfo, a proposito di “né materialismo, né idealismo “, intende
fornire una conciliazione unificatrice, ed insiste sul rapporto del realismo con
l’azione.
Rosselli non interviene nella discussione dottrinale, ma segue con
attenzione le vicende parlamentari inglesi. Nel numero quattro del 17 aprile
1926, a commento dell’articolo di H. N. Brailsford, dal titolo “La democrazia è
possibile sotto il capitalismo? “, in una nota anonima sul congresso
dell’Independent Labour Party, dal titolo “La politica del salario vitale”,
Rosselli scrive: <<Il partito laburista indipendente che è, nella Gran Bretagna,
il cervello del partito laburista, come le Trade Unions ne costituiscono la
riserva di uomini e denaro, ha tenuto, per Pasqua, la sua riunione annuale a
Witley Bay col proposito di rivedere, alla stregua della situazione economica e
politica del proletariato i programmi ed i modi di azione del movimento
laburista, ed ha deciso di dare ad essi un impulso più energico che per il
passato, facendo leva sulla richiesta di un salario vitale sufficiente per la
vita.
Il fulcro del movimento socialista e laburista inglese si sposterebbe quindi
dal diritto al lavoro che è riconosciuto generalmente col sussidio ai
disoccupati, ma che lascia questi e quelli che lavorano in condizioni di vita
troppo grama per essere degna di uomini civili, al diritto alla vita, ad una
vita che comporti lo sviluppo delle facoltà normali dell’uomo nella loro
pienezza>>.
In un commento sullo sciopero generale inglese del maggio 1926, il giovane
scrive che la <<battaglia ci dirà in sostanza se la democrazia borghese permette
il graduale e possente avanzarsi delle forze del lavoro>>.
Carlo è amareggiato per il dissenso ideologico espresso da parte di Treves
su “Critica Sociale” ed in “Risposta a Rabano Mauro” replica con il lungo
articolo, già menzionato, dal titolo “Autocritica, non demolizione”, che esce
nel numero sei del 1 maggio 1926 di “Quarto Stato”.
A Carlo non piace l’atteggiamento da parte degli anziani del movimento
socialista di essere trattato come uno di quei giovani che non avendo vissuto
tutta la storia del movimento è portato a rinnegare quanto è stato operato
precedentemente. Ed aggiunge: <<La verità è che a molti urta maledettamente il
parlare franco, aperto, magari brutale che noi invochiamo intorno alle cause
della sconfitta; essi evidentemente non hanno ancora compreso che il grave sta
nel non sapersi o peggio, nel non volersi rendere chiare ragioni delle sue
cause, perpetuando in tal modo le condizioni che la provocarono ed acuendone le
conseguenze>>.
Nello stesso numero di “Quarto Stato”, nella “Risposta a Carneade”, cioè
Alessandro Levi, firmato “Noi” ossia la Direzione, chiarisce che intende
<<addivenire ai problemi concreti, elaborare le soluzioni di problemi che ci
assillano, contribuire alla formazione di un programma di azione e di
battaglia>>.
Questa prova, Carlo l’aveva già fornita con l’articolo “Il problema
monetario”, pubblicato in “Quarto Stato”, nel numero del 24 aprile 1924: <<Per
molti anni i socialisti non ebbero un programma monetario. In Germania, come
altrove, le organizzazioni operaie secondarono passivamente la politica
inflazionistica, salvo poi gettare un allarme angoscioso nel 1923 quando il
baratro si spalancò pauroso>>.
Nel numero dodici del 12 giugno finalmente, in prima pagina, appare una
colonna, in corsivo, dal titolo “Volontarismo”, firmata Carlo Rosselli. La
polemica, conclude Rosselli, <<non è stata oziosa; segno che il problema
esisteva, che il problema era sentito>>. Ed aggiunge: <<Lungi da me l’idea di
voler portare la questione in sede filosofica. Qui si tratta, per fortuna, né di
positivismo, né di idealismo. Mi riferisco all’azione, e dico che nell’azione
non si può essere che volontaristi. Sconfitti non abbiamo lo stato d’animo dei
vinti; la vita è diventata il pegno di una lotta storica che vale la pena di
essere vissuta, per la quale è bello sacrificarsi>>.
Parole di coraggiosa fermezza,e Rosselli non esita a riprendere il discorso
in un corsivo “Contro il pessimismo”, uscito nel numero quattordici del 26
giugno 1926: riorganizzare il movimento dei socialisti repubblicani, <<far loro
prendere contatto con la realtà della vita italiana, dar loro una disciplina, un
programma, un metodo, ecco il compito più urgente, che ciò avvenga per una via o
per l’altra non ha importanza. L’importanza è di scuotersi, è di muoversi, è di
operare>>. Viene così ribadito l’invito ad impegnarsi nell’azione antifascista.
Carlo Rosselli, per dare prova di realismo critico-pratico, firmandosi C.,
si pone l’interrogativo “Mazzini o Cattaneo?”.<<Chi scrive non è secondo ad
alcuno nel professare la più schietta ammirazione per la santa figura del
Mazzini e per l’adamantina purezza della sua etica. E credo che
dell’insegnamento morale, che scaturisce dal pensiero e dall’azione del Genovese
possa, debba profittare ogni individuo, ed ogni movimento sociale e politico.
Ma come dal punto di vista storico è indubbio che l’unitarismo, anche se
fieramente repubblicano, del Mazzini, finì per giovare alla monarchia; così dal
punto di vista strettamente politico è da notare che una forma più conseguente,
più efficiente di propaganda repubblicana deve risalire al Cattaneo. Il Cattaneo
voleva salire, di grado in grado, dal Comune, alla Regione, alla Nazione, agli
Stati Uniti d’Europa. Concezione politica che, se attuata, sarebbe garanzia
sicura di libertà e di pace>>.
Nei successivi articoli, dedicati all’analisi del fenomeno fascista,
Rosselli rileva la componente di classe del movimento mussoliniano, ma tende di
nuovo a privilegiare l’interpretazione che si collega alle insufficienze della
storia italiana. Così nell’editoriale “Chiarificazione”, firmato “Noi”, sul
numero diciotto del luglio 1926, si respinge la formula comunista del fascismo
come <<ultima fase della società capitalistica e se ne parla come di fatto
caratteristico di un paese di recente costituzione unitaria, di scarsissima
educazione politica, dove non fu mai vera democrazia>>.
La riflessione sul fascismo induce, tuttavia, Rosselli a insistere su un
concetto di democrazia che rifletta, non solo sul piano formale, le aspirazioni
del proletariato all’autogoverno.
<<Democrazia reale – si legge nell’editoriale suddetto – significa non solo
autonomia politica, ma anche e soprattutto autonomia e libertà economica. Una
vera democrazia non esiste laddove esistono profonde disparità economiche. Il
criterio della maggioranza, che è in sé sacrosanto, acquista un valore puramente
morale, quando una minoranza detiene nelle sue mani gli strumenti effettivi del
potere, i mezzi di produzione e di scambio>>.
Il problema politico obbliga, tuttavia, di stare “Attenti alla nomenclatura”
(n. 19, 31 luglio 1926), per non confondere i due concetti diversi, di
democrazia e liberalismo: l’articolo è firmato “L’uomo dalla finestra”, ma Carlo
inserisce nel testo il caratteristico “Io sottoscritto”, e prende come paese di
riferimento l’Inghilterra: <<Voi potete in Inghilterra essere liberale e non
essere democratico. Il regime politico inglese della prima metà del secolo XIX
era un regime oligarchico, ma era un regime abbastanza liberale perché in esso
vigevano molti privilegi politici, ma anche il più miserabile dei minatori aveva
i suoi diritti di libertà per quanto ancora rudimentali.
E durante il secolo XIX l’Inghilterra è diventata un paese sempre più
compiutamente liberale, ma anche democratico. Ed oggi che tutte le possibili
istituzioni del liberalismo e della democrazia politica vi sono state
realizzate, quelle istituzioni politiche liberali e democratiche servono di
strumento per la realizzazione della democrazia economica>>. E continua: <<Io
sottoscritto ho fede nell’ideale liberale ed ho fede nello stesso tempo negli
ideali della democrazia, non solo politica, ma anche economica. Perciò sono
contro ogni forma di imposizione violenta e di dittatura>>.
Però continua: <<Ove mancano le istituzioni liberali e democratiche, io sono
costretto ad adottare il metodo rivoluzionario. Ma subisco questa necessità,
convinto che è una triste necessità. E desidero di ritornare al più presto dalla
dittatura alla libertà ed alla democrazia. Non glorifico la dittatura come la
forma politica ideale. E dove ci sono istituzioni liberali e democratica le
difendo con tutte le mie forze perché mi servono di strumento per conquistare
ulteriori condizioni politiche in cui si realizzi sempre meglio il mio ideale di
libertà e di democrazia>>.
L'esigenza politica immediata era quella di riunire le forze democratiche
socialiste contro il governo fascista, e Rosselli indirizza una lettera aperta
al direttore del “Avanti”, pubblicata nella prima pagina di “Il Quarto Stato”
del 21 agosto 1926: <<Non le spiaccia se io pure intervengo nella polemica
sull’unità socialista. D’altronde il problema dell’unità socialista è troppo
serio e di interesse troppo preminente perché tutti coloro che hanno o ritengono
di aver qualcosa da dire, non abbiano ad esprimere francamente la loro
opinione>>. Si può giustificare, si chiede Rosselli, l’esistenza di due distinti
partiti? <<E’ un assurdo che potrebbe prolungandosi diventare criminoso>>.
Ciò che importa è la necessità della lotta al fascismo, insiste Rosselli
nella medesima lettera: <<un partito socialista in regime borghese segue
normalmente una tattica intransigente, ispirata al principio della lotta di
classe; in momenti eccezionali può rendersi conveniente l’abbandono di questa
tattica per conseguire fini politicamente ed economicamente essenziali alla vita
ed allo sviluppo dell’azione socialista; sull’opportunità di questi eccezionali
mutamenti di tattica, giudice sovrano il partito; ciò che è essenziale, è che,
una volta risolti all’interno con metodo democratico gli eventuali dissensi, una
sia la volontà nell’azione. Fuori di questa formula non rimangono che l’anarchia
o la setta>>.
Gli interrogativi di Rosselli sono molti e drammatici: <<Qual è infatti la
posizione del PSI, che sarebbe l’unica depositaria del verbo e della tradizione
socialista?Esso si vede costretto da cinque anni a questa parte a dedicare le
sue migliori energie alle lotte contro le tendenze perennemente risorgenti. Ma è
concepibile che si possa a lungo continuare per questa via? Possono i
massimalisti convincere il proletariato italiano ed il mondo intero che uomini
come Matteotti, Turati furono o sono segnacolo di purissima fede socialista, ma
esponenti di correnti che di socialista non hanno che il nome?>>. La conclusione
di Rosselli è triste: <<Tutti questi interrogativi sono ben penosi per chi li
pone e per chi li accoglie. Ma al punto in cui siamo sono inevitabili, doverosi,
necessari>>.
Occorreva convincere anche i dirigenti del Partito Socialista dei Lavoratori
Italiani di avviare un’azione di unificazione ma, secondo il gruppo di Rosselli,
senza dimenticare i punti programmatici per combattere la dittatura fascista:
<<La reintegrazione di tutti i diritti dei cittadini e di tutte le autonomie che
il fascismo ha radicalmente abolito, la libertà di pensiero, di associazione, la
garanzia della libertà elettorale>>. Erano le stesse libertà civili care al
laburismo inglese.
E’ bene soffermarsi per quanto riguarda questo periodo, sull’ultimo aspetto
economico-sociale, trattato dalla rivista: il problema meridionale. Rosselli
nelle poche righe del 18 settembre, si mostra piuttosto scettico sul ruolo
decisivo che la questione meridionale ha esercitato nei confronti della storia
italiana. Scrive dunque, commentando “La rivoluzione meridionale” di Guido
Dorso: <<Dal considerare il problema meridionale come uno dei massimi problemi
italiani, al ritenere che tutto il problema italiano consista unicamente e solo
nel rivoluzionamento sostanziale delle basi etiche, politiche, economiche della
vita meridionale, ci corre. I meridionalisti perdono spesso il senso delle
proporzioni. Talvolta partono addirittura da presupposti, anche di carattere
statistico, inesatti>>.
Rosselli ha un moto di sdegno nei confronti della presunta centralità della
questione meridionale e, molto probabilmente per eccesso di polemica finisce con
l’esagerarne in negativo la grande portata storica.
Come ha rilevato Nicola Tranfaglia, <<ciò che particolarmente in Rosselli
appare eredità negativa del salveminismo è la differenza sul ruolo delle masse
nella lotta politica, la concezione politica per cui si agisce meglio attraverso
elitès di intellettuali a cui viene affidata di diritto l’elaborazione
dell’ideologia e della strategia da seguire. Ma la debolezza maggiore della
posizione rosselliana deve collegarsi a quell’incertezza tra riforma della
società capitalistica e alternativa rivoluzionaria>>.
Anche nel “Quarto Stato” si segnala la presenza, da parte di Rosselli, di
una riflessione economica, esclusivamente dedicata al tema del liberismo. Gli
articoli che trattano questo argomento sono due: il primo apparso il 2 ottobre
1926 ed il secondo il 16 ottobre. Giretti ne è l’interlocutore.
Il “Liberismo di Giretti”, il primo articolo in questione, si propone come
un’introduzione alle considerazione generali in materia di liberismo.
Scrive Rosselli che siamo nel regno dell’utopia dal momento che
l’industriale piemontese sembra risolvere i problemi della felicità e del
benessere dell’umanità soltanto mediante l’applicazione del libero scambio e
nonostante il massimo impegno <<il protezionismo impera a favore delle minoranze
plutocratiche>>.
La critica a Giretti, ed al suo liberismo integrale, continua con toni
sferzanti. I liberisti puri, sostiene Rosselli, continuano imperterriti a far
sfoggio del dogma della consapevolezza individuale e non possono bastare i
riconoscimenti della buona fede dei protezionisti i quali, a detta di Giretti,
dovrebbero avere come sommo interesse l’attuazione del liberismo.
Tuttavia la vera questione, lo scrive Rosselli, è sostanzialmente un’altra
ed è politica. Il problema, - scrive Rosselli – diventa quindi un altro di
attualità politica, un’attualità che i liberisti non solo ignorano, ma
<<condannano nel fatto tutta l’attività delle leghe operaie; essi disprezzano
l’ideale emancipatore che si fa strada nella classe operaia; essi esaltano
l’ingiustizia capitalistica sostenendo la superiore bontà e la necessità del
regime economico attuale. Essi invitano insomma i proletari italiani alle nozze
coi fichi secchi>>.
Rosselli parteggia completamente per la causa dei proletari ed esprime con
la dovuta chiarezza il rischio del gioco protezionistico con tutte le
ingiustizie ed i privilegi che ciò comporta. E indica la strada del nuovo
liberismo capace di scuotere larghe correnti di interessi materiali ed ideali
che dovrà sorgere dalle classi sfruttate.
Nella seconda risposta a Giretti intitolata “E il nostro”, e che reca la
sigla C.R., Rosselli riconferma quanto già enunciato, per poi, rivolgendosi
direttamente all’interlocutore, porre una domanda risolutiva: <<E’ disposto a
darci la dimostrazione che i principi dell’economia classica sui quali ella
poggia ciecamente il suo credo antiprotezionistico, sono tuttora perfettamente
sostenibili?>>.
La verità sta nel fatto, insiste Rosselli, che i liberisti non solo si
trovano in un vicolo cieco, ma non hanno possibilità alcuna di rientrare in un
gioco dal quale si sono autoesclusi. Sintetizzando; da una parte stanno i
proclami dei liberisti puri e dall’altra gli ideali delle masse lavoratrici.
Entrambe le parti auspicano a un rinnovamento, ma è pur vero, scrive Rosselli,
<<che la borghesia in questa lotta non ci può dare che poche e isolate pattuglie
di intellettuali e di produttori indipendenti. Ne consegue che il nerbo della
falange antifascista non può che venire dal movimento operaio ispirato
all’ideale socialista>>.
Nel numero del 2 ottobre 1926, già accennato, in un corsivo Carlo si chiede:
<<Possibile che non si voglia o non si possa ottenere mai una discussione chiara
a fondo, con la preventiva rinunzia a tutto il bagaglio della frasi fatte e
delle strampalatissime citazioni di Marx?>>.
Rosselli continua a sperare in un mutamento di indirizzo politico da parte
dei socialisti, e si augura che un segnale possa venire dal Congresso del
Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, perciò prepara un editoriale dal
titolo “Un congresso ed i suoi problemi” che esce nel numero del 9 ottobre: <<La
questione dell’unità socialista sta per avere il suo epilogo che possiamo
prevedere negativo. Dai massimalisti ancora una volta verrà un gesto di
disperata negazione, di attaccamento ad una loro formula cento volte sconfitta.
Possiamo tutti deplorare un tale stato di cose e conservare, nonostante questo,
intatta la nostra fiducia che l’unità sindacalista si farà. Malgrado tutte le
critiche che gli si rivolgono lo PSLI resta pur sempre l’unico partito di massa
che disponga di uno stato maggiore politico e sindacale degno di questo nome>>.
E tristemente nota: <<In campo restano dunque col PSLI solo i partiti
repubblicano e massimalista, oltre scarse pattuglie democratiche. Sono queste le
forze sulle quali, bene o male, possiamo fare assegnamento>>.
E conclude: <<Contrapporre alla doppia concezione dittatoriale una soluzione
media che abbia come pernio il movimento socialista, come minimo comune
denominatore, la fede nel metodo democratico, come base essenziale le forze del
lavoro in lotta per la loro emancipazione, ecco ciò che occorre in quest’ora>>.
Il 7 ottobre 1926 Carlo scrive alla madre: <<Siamo alla vigilia di decisioni
di molta importanza. Date le molte riluttanze dei vecchi, data la loro innata
tendenza ai compromessi ed alle trasformazioni che allontanano le migliori
energie, data la possibilità che il nostro sforzo innovatore abbia a risolversi
in un fiasco, è necessario mantenerci saldi nella nostra base autonoma>>.
Il 22 ottobre sembra ancora pieno di speranze: <<il 21 abbiamo anche tenuto
clandestinamente il convegno costituzionale del PSLI. E’ stato molto
movimentato. Mi sono scontrato con Turati. Il Convegno nella sua grande
maggioranza era a favore della tesi del “Quarto Stato”. Sono stato chiamato a
far parte della direzione e dell’esecutivo del partito>>.
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