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L'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA(K. Marx, L'accumulazione originaria, Ed. Riuniti, Roma 1991) Valorizzare il pre-capitalismo (Spunti di riflessione per studi futuri) Marx ha sempre ritenuto che le forme comunitarie del modo di produzione asiatico siano state le più tenaci nell'opporsi allo sviluppo del capitalismo, e non in virtù di aspetti positivi, ma proprio a causa del fatto che l'individuo veniva praticamente sacrificato sull'altare dell'interesse collettivo, che a sua volta era imposto o tenuto entro certi limiti dal potere autocratico. Queste forme hanno potuto opporsi al capitalismo quando questo era allo stato embrionale; in seguito però, non avendo mutato fisionomia, sono state destinate a soccombere. In effetti, laddove è avvenuto il mutamento, questo è dipeso dall'acquisizione di alcuni elementi dell'ideologia occidentale (liberale o marxista), adattati successivamente alle esigenze di quelle comunità. Il maoismo e il gandhismo hanno potuto superare il colonialismo europeo (e anche nipponico, nel caso cinese) appunto perché avevano saputo trasformare l'ideologia borghese secondo gli interessi della lotta di liberazione nazionale (in Cina anche secondo gli interessi dell'edificazione del socialismo). (Caratteristica della Cina, tuttavia, è, a tutt'oggi, l'eclettismo ideologico da un lato e il socialismo autoritario dall'altro. Il primo aspetto ha permesso, prima di ogni altro paese socialista, l'introduzione di elementi dell'economia capitalistica). Dunque, il mancato processo d'individualizzazione dell'uomo non è dipeso da una superiorità del modo di produzione asiatico, ma piuttosto da una sua inferiorità, la cui causa Marx non ha mai pensato di attribuire alla cultura religiosa dell'indo-buddismo. Se l'avesse fatto avrebbe capito perché sotto l'influsso del cristianesimo ortodosso quello stesso modo è stato trasformato in Russia nella comune agricola, che ha resistito sino agli inizi di questo secolo. L'Europa occidentale ha spezzato le forme comunitarie di vita con l'introduzione dell'ideologia schiavista. Nell'Alto Medioevo cercò di recuperarle in nome del cristianesimo, ma poi, proprio in nome di un modo sbagliato di vivere questa ideologia religiosa, essa ha riaffermato l'individualismo in tutti quei Paesi di religione cattolica e soprattutto protestante. Marx inoltre ha dato per scontato il fatto che le forme della comunità originaria, primitiva, si siano conservate, sostanzialmente, nelle forme asiatiche, ove gli individui sono elementi puramente naturali della comunità. In realtà, non è affatto dimostrato che le forme asiatiche siano l'unico rispecchiamento delle forme comunitarie primitive. Se così fosse non si spiegherebbe la ragione per cui in Asia quelle forme non si sono evolute, mentre in Europa sì. Peraltro, il concetto stesso di potere autocratico, che ha sempre caratterizzato le forme asiatiche, esclude di per sé ch'esse abbiano conservato tracce significative della comunità primitiva. Per “cultura” non si devono intendere tanto le cognizioni tecnico-scientifiche, quanto la capacità di usarle per distruggere una tradizione comunitaria che si ritiene superata. A tale scopo occorre che l'individuo abbia piena fiducia nelle proprie risorse e si consideri assolutamente in opposizione agli interessi della collettività. Si prenda come es. il fatto che la civiltà cinese raggiunse il suo massimo splendore nei secoli XII-XIII, eppure lo sviluppo del suo potenziale tecnico-scientifico non riuscì a spezzare l'involucro della struttura sociale burocratico-agraria, e i rapporti di tipo “asiatico” sopravvissero ancora per secoli, finché vennero a contatto con il colonialismo occidentale. * * * Marx ha affermato che nelle comunità asiatiche primitive, nelle forme greco-romane e germaniche, non ci poteva essere uno sviluppo libero e completo dell'individuo o della società, poiché la “compiutezza”, la “soddisfazione” era concepita nell'ambito di uno sviluppo limitato, mentre caratteristica fondamentale del mondo moderno è l'illimitatezza. Qui Marx non ha fatto che applicare al passato un pregiudizio formulato nel suo presente. Egli cioè ha rifiutato di considerare libero uno sviluppo “limitato”, cioè posto entro rigorosi limiti. Marx, in sostanza, non ha voluto accettare l'idea di considerare il passaggio dalla proprietà collettiva primitiva a quella privata antagonistica, come il frutto di una scelta soggettiva dettata da un modo arbitrario d'interpretare il senso della proprietà collettiva. Secondo Marx il passaggio era determinato da una necessità oggettiva, dettata da contraddizioni naturali, interne a quelle stesse forme primitive d'esistenza. Nel senso cioè che l'uomo avrebbe dovuto superare il collettivismo primitivo appunto per sentirsi “uomo” e non mero prodotto della “natura”. Questo modo di vedere le cose è tipicamente occidentale. Il senso di “umanità” viene considerato un attributo specifico del senso di “individualità”. Là dove il soggetto non emerge, col suo bisogno di distinguersi dalla massa, lì -si dice- esistono non rapporti “sociali” ma “naturali”. I veri rapporti sociali sono quelli che l'individuo libero si dà da sé, non quelli che riceve dalle generazioni precedenti. La libertà quindi per Marx non sta nell'accettare la tradizione modificandola negli aspetti che richiedono innovazione, ma sta nel superare ogni tradizione per poter essere veramente innovativi. L'individuo libero è un titano che con decisione combatte contro una massa informe e senza personalità. Da qui al disprezzo della vita contadina il passo è breve. In altre parole, all'associazione, libera da dominio ma sottoposta alle leggi di natura, Marx preferiva un'associazione libera e in grado di dominare la natura: ecco perché egli ha considerato necessario, inevitabile, la disgregazione della comunità primitiva. Oggi il marxismo deve rimettere in discussione il principio che vede affermata la libertà dell'uomo nel dominio sulla natura. Ciò che è inevitabile, in realtà, è proprio una sorta di dipendenza nei confronti della natura. La libertà umana è possibile solo entro i limiti imposti dalla natura. Non a caso l'individualismo ha cercato in un rapporto di dominio con la natura quella compensazione al vuoto che gli aveva procurato la rottura dei rapporti sociali comunitari. Il dominio dell'uomo sulla natura, attraverso il macchinismo, riflette l'alienazione dell'individualismo. Il sociale dunque non può essere contrapposto al naturale. Lo “sviluppo” della forze produttive non può essere considerato legittimo se avviene solo a condizione di distruggere la comunità naturale. Non c'è sviluppo ma involuzione se l'uomo perde il rapporto sociale che dà senso alla sua esistenza. Anche perché l'iniziativa indipendente dell'uomo singolo che si stacca dalla comunità, può essere considerata “libera” solo nel senso negativo che si è “liberata” da una dipendenza collettiva. Ma in un senso positivo questa libertà è falsa poiché, per sussistere, essa ha immediatamente bisogno della schiavitù altrui. Questo aspetto il marxismo non l'ha mai sottolineato a sufficienza, poiché, nel tentativo di dimostrare la superiorità della formazione capitalistica su tutte le altre formazioni e quindi la superiorità del proletariato industriale su qualunque altra classe oppressa, esso ha sempre cercato di far vedere che il capitalismo è nato grazie allo sforzo e all'iniziativa di individui privati indipendenti. E' sul concetto di “indipendenza” che bisogna discutere. La vera libertà esiste solo in un collettivo democratico; se da questo collettivo ci si emancipa, la propria personale indipendenza viene subito pagata dalla schiavitù o servitù altrui. (Nel racconto biblico del peccato d'origine la prima schiavitù che s'è imposta, dopo la rottura dei rapporti comunitari, è stata quella della donna nei confronti dell'uomo). L'emancipazione del singolo può trovare una qualche giustificazione se il collettivo non è libero e democratico, ma anche in questo caso bisogna ribadire il valore dei rapporti collettivi: il singolo resta un'astrazione sociale, se si pone al di fuori di ogni contesto. Se l'individuo, traendo pretesto dalla crisi del collettivo, si afferma soltanto come singolo, la sua emancipazione non farà che aggravare la crisi del collettivo e non sarà, in ultima istanza, una garanzia di sopravvivenza neppure della nuova individualità affermata. Il singolo, senza comunità, è in grado di sussistere solo a condizione di poter sfruttare il lavoro altrui. VALORE D'USO E DI SCAMBIO Tra i limiti fondamentali delle comunità primitive e pre-capitalistiche, Marx annovera quello d'essere impostate unicamente sul valore d'uso, al punto che dal momento in cui vengono a contatto col valore di scambio, inizia la loro lenta disgregazione. Naturalmente a condizione che lo scambio penetri nella comunità e non resti solo un'attività tra diverse comunità. Dallo scambio infatti si svilupperà la divisione del lavoro, la proprietà privata e l'antagonismo delle classi. Questo modo di vedere le cose è di tipo deterministico o positivistico. Marx cioè esclude la possibilità che valore d'uso e valore di scambio possano coesistere: la presenza dell'uno esclude necessariamente quella dell'altro. In realtà, lo scambio di per sé non uccide alcuna comunità, neppure quando è penetrato all'interno della stessa comunità. Certo è che il primato va concesso al valore d'uso, poiché è solo il significato dell'uso che può dare il giusto valore allo scambio. Se chi pratica lo scambio si arricchisce a spese della comunità, le ragioni per cui lo fa sono due: o il valore d'uso della comunità è già entrato in crisi e un suo ripristino per via autoritaria è ovviamente impossibile, poiché qui solo la comunità, nella sua interezza, può decidere come regolarsi; oppure l'individuo ha compiuto un atto arbitrario, che la comunità, consapevole dell'importanza del valore d'uso, ha il diritto-dovere di contrastare. In questo caso o l'individuo si riadegua liberamente alle leggi comunitarie, oppure deve abbandonare la comunità. Sia come sia la comunità deve saper cogliere questo fatto come un'occasione per riflettere su se stessa, poiché se l'individuo ha cominciato a usare lo scambio per sottomettere il valore d'uso, significa che all'interno della comunità ci sono delle contraddizioni che spingono in questa direzione e che se non vengono risolte in tempo, possono svilupparsi e fossilizzarsi, al punto che la dissoluzione della comunità apparirà non come una disgrazia ma come una liberazione. Il valore d'uso può essere determinato solo dalla comunità nella sua interezza. Se la comunità agisce all'unisono, il valore di scambio non agirà mai in maniera distruttiva. Allorché accade questo, le ragioni vanno cercate non tanto nell'arbitrio del singolo, quanto piuttosto nella crisi dei rapporti sociali. Se il significato originario di questi rapporti viene recuperato dall'intera comunità (locale) e rafforzato dalla consapevolezza della loro importanza e dal timore di poterli perdere, allora il desiderio di concedere il primato al valore di scambio rientrerà in modo naturale. I frutti del commercio continueranno ad appartenere all'intera comunità, la quale ovviamente premierà ogni rischio individuale. Il segno che il valore di scambio tende a prevalere sul valore d'uso è la comparsa del denaro. E' il denaro che permette un arricchimento individuale illimitato, per quanto uno possa arricchirsi anche in una società ove esso non esista affatto, servendosi semplicemente del proprio potere politico. Ma anche una società del genere non potrebbe certo dirsi comunitaria. Quando la comunità arriva a considerare il denaro o il potere politico come fonti di arricchimento illimitato, ciò significa che la comunità, da tempo, non esiste più. In sostanza, la crisi del valore d'uso dipende dalla crisi del valore in generale. E' dunque una questione culturale e sociale, prima ancora che economica o politica. LA TRANSIZIONE DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO Marx ha affermato che le scoperte geografiche dei secoli XVI e XVII hanno accelerato il modo di produzione capitalistico (fase della manifattura) solo là dove le condizioni necessarie per l'applicazione di tale modo produttivo si erano venute creando nel Medioevo. Ed egli precisa che il monopolio privato della proprietà fondiaria costituisce la base storica del capitalismo, in quanto già nel possesso fondiario feudale si realizza un potere estraneo che aliena e opprime il lavoratore. Marx però non ha mai esaminato l'ideologia (religiosa) che ha permesso una tale evoluzione della proprietà fondiaria. Solo nella tarda maturità comprese che nell'Europa orientale la proprietà fondiaria non aveva subìto la stessa evoluzione di quella occidentale. Egli capì che rispetto alla proprietà dell'antichità classica (greco-romana), lo sviluppo del feudalesimo (nell'Alto Medioevo) rappresentò un arretramento del processo di parcellizzazione o autonomizzazione della terra, ma non ha capito che tale arretramento trovava la sua ragion d'essere nell'ideologia egualitaria del cristianesimo (che nell'Europa occidentale s'è lasciata condizionare dalle tradizioni individualistiche, mentre nell'Europa orientale ha cercato di perfezionare le tradizioni egualitaristiche). Anzi, per Marx la dipendenza personale nel Medioevo rappresenta un limite rispetto alla proprietà libera e individuale del periodo classico. Mentre in realtà essa voleva costituire una trasformazione in positivo del rapporto schiavistico in agricoltura. Colonato e servaggio rappresentano un'alternativa, seppure parziale, allo schiavismo. E tale alternativa fu resa possibile dall'ideologia del cristianesimo, non solo da fattori di ordine socioeconomico. Il marxismo inoltre dovrebbe chiedersi se la libera proprietà privata del mondo classico non traeva la sua legittimazione proprio dalla presenza della grande proprietà schiavistica. Nel senso cioè che la piccola proprietà fu lasciata sopravvivere dai grandi latifondisti finché questi ebbero l'opportunità di rifornirsi con relativa facilità di un numero ingente di schiavi. La libera proprietà basata sul lavoro individuale, già rovinata dall'esoso apparato fiscale dell'impero, scomparve definitivamente quando, per difendersi dai barbari, i piccoli proprietari chiesero ai grandi proprietari di entrare nella loro orbita. Essi così rinunciarono alla libertà personale e si trasformarono in coloni o servi della gleba. Il marxismo dovrebbe inoltre chiedersi il motivo per cui mentre in Europa occidentale la borghesia s'è sviluppata all'interno del feudalesimo, in Europa orientale ciò invece non è avvenuto. Se la differenza sta nel tipo di feudalesimo, allora la ragione di questo va ricercata nelle diverse ideologie religiose. Non a caso è stata la Russia ad aver sperimentato alla fine del secolo scorso (sino all'Ottobre) un certo sviluppo capitalistico: infatti, quale nazione più della Russia, nell'Europa orientale, aveva cercato d'abbracciare la cultura occidentale? Già al tempo di Pietro il Grande la Russia voleva occidentalizzarsi... CAPITALISMO E VIA NON-CAPITALISTICA Non si è sottolineato abbastanza il fatto che Marx precisò che l'analisi del Capitale intendeva riferirsi esclusivamente all'Europa occidentale, solo dopo che i populisti russi avanzarono la critica che il Capitale imponeva un atteggiamento negativo verso quei tentativi di cercare in Russia un'alternativa non solo al feudalesimo ma anche allo stesso capitalismo. In realtà Marx non imponeva alcun atteggiamento “negativo” verso la ricerca della via non-capitalistica (o post-feudale): semplicemente questi tentativi non li conosceva e, di conseguenza, dava per scontato che il capitalismo si sarebbe affermato ovunque, prima o poi, in un modo o nell'altro, quindi anche nella feudale Europa orientale. E' fuor di dubbio, tuttavia, che Marx simpatizzò con l'idea di una soluzione non-capitalistica solo dopo essere venuto a contatto col populismo russo, ed è assai significativo, in tal senso, che fino a quando si tenne in contatto con tale movimento, egli non ebbe mai la netta convinzione ch'esso avrebbe potuto evitare, sic et simpliciter, lo sviluppo capitalistico della Russia. Marx arrivò a ipotizzare un diverso sviluppo capitalistico della Russia, legato a una rigenerazione della comune agricola (obscina). Ma su questo non aveva delle opinioni precise. Si limitò semplicemente ad affermare che l'obscina non avrebbe potuto bloccare il capitalismo se prima non si fossero eliminate “le influenze deleterie” che l'assalivano da tutte le parti. Il che però non voleva necessariamente dire che Marx stesse pensando a una rivoluzione politica che servendosi da un lato dell'industrializzazione capitalistica e dell'altro della comune agricola, avrebbe potuto creare una società socialista. La mancanza di chiarezza su una questione così complessa dipendeva, in Marx, dal fatto ch'egli -come d'altra parte Engels- non ha mai creduto, dopo il fallimento dell'esperienza rivoluzionaria del '48, nella possibilità di superare il capitalismo prima che questi avesse esaurito tutte le proprie potenzialità. Non era quindi solo questione di non conoscere delle alternative non-capitalistiche (in atto o in potenza), ma era anche questione di non considerare possibili tali alternative prima della fine del capitalismo. Marx sembrava accettare l'eventualità proposta dai populisti solo perché in Russia il capitalismo era appena nato e quindi vi erano maggiori possibilità di contrastarlo o di incanalarlo in una strada meno dolorosa per i lavoratori, rispetto a quanto già era accaduto in Occidente. Sulla “inevitabilità” del capitalismo a livello mondiale, offre eloquenti delucidazioni la stessa Prefazione di Marx alla Ia edizione del Capitale. Egli infatti da un lato considera l'Inghilterra la “sede classica” del modo di produzione capitalistico, dall'altro però esclude a priori l'idea che in Germania si possa realizzare una via non-capitalistica. Questo perché “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire”. Cioè a dire, per Marx era proprio lo sviluppo industriale del capitalismo inglese che avrebbe obbligato gli altri Paesi a diventare capitalistici. Ogni ritardo su questa via avrebbe avuto delle ripercussioni negative sugli stessi lavoratori, i quali avrebbero avuto a che fare con un capitalismo “selvaggio”, preoccupato solo di recuperare il tempo perduto e di fronteggiare la concorrenza straniera. Questo mentre in Inghilterra -dice Marx- gli operai già si difendevano dallo sfruttamento del capitale con la legislazione sulle fabbriche. Così, invece di lamentarsi d'essere oppresso “non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma pure dalla mancanza di tale sviluppo” (mancanza dovuta al fatto che in Germania continuavano a “vegetare metodi di produzione vecchi e sorpassati”), i tedeschi -dice Marx- avrebbero dovuto accettare “le leggi naturali della produzione capitalistica”, cercando di “abbreviare e attutire le doglie del parto” (ciò che poi avrebbero dovuto fare -secondo Marx- i populisti russi). Da un lato insomma Marx non vedeva altra soluzione alla crisi del feudalesimo che quella “naturale” del capitalismo; dall'altro non riteneva possibile opporsi politicamente alla via capitalistica prima ch'essa non avesse mostrato tutte le sue intrinseche contraddizioni. La politica doveva restare subordinata al momento in cui si verificavano le crisi cicliche del capitale. Il “punto di vista” di Marx considerava “lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale”, alla maniera deterministica del positivismo allora imperante. In questo senso era giusta la sua affermazione di non poter “fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene”. Ed altrettanto giusto era il prosieguo di tale affermazione: “pure se soggettivamente egli possa innalzarsi al di sopra di essi”. Tuttavia era proprio questo il punto. Se si ammette la possibilità dell'”innalzamento” del singolo sui rapporti sociali che lo precedono, cioè se si esclude il rigido determinismo del positivismo, allora per quale ragione non si deve accettare l'ipotesi di una via non-capitalistica post-feudale (o comunque di una via non-capitalistica alla disgregazione dei rapporti pre-capitalistici)? Per quale ragione la Russia non avrebbe potuto fare quel che avrebbe dovuto fare la Germania? La “naturalezza” economica delle leggi capitalistiche non poteva forse trasformarsi in “innaturalezza” per la coscienza politico-rivoluzionaria? L'”innalzamento” di cui parla Marx riguarda la sola coscienza individuale (che ovviamente di fronte alle leggi capitalistiche nulla potrebbe fare) o può far parte della mentalità collettiva? E' forse un caso che nel Poscritto alla IIa edizione del Capitale, Marx abbia riportato una lunga citazione del russo M. Block, il quale, specificatamente, ribadiva il ruolo subordinato della coscienza rispetto ai fenomeni, ovvero l'inevitabilità del capitalismo? Qui però occorre precisare, cercando di essere il più obiettivi possibile, che quando Marx affermava l'inevitabilità del capitalismo “in tutti gli stati del continente europeo” e anche negli Stati Uniti, aveva di mira le classi dominanti europee, che s'illudevano, con i loro legami assolutistici al feudalesimo, di poter fermare l'avanzata del capitalismo. Marx non ha mai avuto torto quando sosteneva che il feudalesimo, per come era strutturato nell'Europa occidentale, non sarebbe mai stato in grado di fermare il capitalismo. Ciò che gli difettava era la convinzione che non potesse esistere, in nome di valori alternativi a quelli borghesi, un modo non capitalistico di realizzare la rivoluzione industriale. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 |