MARX e l'accumulazione originaria 9

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


L'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

(K. Marx, L'accumulazione originaria, Ed. Riuniti, Roma 1991)

Economia e Religione

Marx ha intuito il nesso tra ideologia religiosa ed economia borghese (sia nel senso che il protestantesimo riflette le esigenze del capitalismo, sia nel senso che il capitalismo contiene, in forma laicizzata, alcune leggi di tipo religioso: si veda ad es. il feticismo delle merci), ma non ha poi sviluppato con coerenza questa intuizione portandola alle sue estreme conseguenze, le quali appunto sono che è l'uomo a fare l'economia, in ultima istanza: l'uomo con i suoi rapporti sociali, con i suoi pensieri, con il suo rapporto con l'ambiente... Quando il marxismo dice che l'essere sociale è superiore alla coscienza non può restringere il campo ontologico a quello economico.

Benché l'uomo nasca in una formazione sociale che lo precede, ad un certo punto deve decidere se accettare le fondamenta di tale formazione o se lottare per distruggerle. Questa possibilità è a disposizione di ogni essere umano della storia. I fatti, in tal senso, hanno dimostrato che l'uomo di religione protestante, situato nell'Europa occidentale, ha deciso che le fondamenta della società feudale andavano distrutte o comunque ha deciso che l'ideologia religiosa del cattolicesimo-romano andava profondamente modificata - il che portava ad accettare meglio l'opera di distruzione del feudalesimo.

A questo punto iniziano due storie separate: quella delle intenzioni e quella dei fatti. Nel distruggere il feudalesimo l'intenzione del protestante europeo probabilmente non era quella di creare il capitalismo (altrimenti esso sarebbe nato anzitutto nella Germania di Lutero), o comunque non era quella di creare un capitalismo con tutte le sue terribili contraddizioni antagonistiche, ma nei fatti (cioè indipendentemente dalla sua volontà) è avvenuto proprio così (anche la Germania, in questo senso, ha dovuto adeguarsi e l'averlo fatto per ultima le comporterà dei problemi eccezionali, per la soluzione dei quali sarà costretta a far scoppiare due guerre mondiali).

Se dunque esiste un momento in cui il soggetto non può essere considerato negativamente responsabile, durante il periodo dell'accumulazione originaria, questo momento non va individuato allorché il soggetto si staccò dal feudalesimo o dalla religione cattolica in crisi, ma quando, nel tentativo di costruire un'alternativa, tale soggetto non cercò delle soluzioni convincenti (valide per tutta la collettività) ma delle soluzioni parziali (valide solo per poche categorie di persone). Sia il capitalismo che il protestantesimo sono infatti il frutto di una scelta a favore del singolo individuo, contro gli interessi dell'intera società.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che se ci fu una qualche responsabilità, essa va ricollegata solo al momento genetico del capitalismo, poiché di fronte alle sue contraddizioni l'uomo deve sempre decidere se accettarle o contrastarle. E non è neppure il caso di dire che quanto più il capitalismo diventa maturo tanto meno è possibile combatterlo, poiché ad ogni azione o trasformazione del capitale corrisponde, in genere, una reazione positiva del mondo del lavoro.

Come noto, il marxismo cadde nell'errore opposto, quello secondo cui più il capitalismo è maturo e più è facile superarlo. La svista dipese sempre dal fatto che s'interpretava il concetto di transizione come un processo naturale e inevitabile. Anche in questo caso però non si fa alcun affidamento al concetto di responsabilità personale.

A tale proposito, però, è bene precisare che esistono nel capitolo, soprattutto nelle note, dei passaggi che lasciano intuire quanto Marx fosse consapevole della necessità di completare le sue analisi con altri strumenti di indagine, a testimonianza della scrupolosità con cui egli affrontava l'oggetto dei suoi studi. Prendiamo ad es. la nota 4, laddove egli dice, in riferimento ai testi europei di storia, viziati da pregiudizi borghesi antifeudali: "E' troppo comodo essere 'liberati' a spese del Medioevo". Peccato, in tal senso, che Marx abbia cominciato a rivedere i suoi pregiudizi antifeudali mutuati dalla borghesia solo negli ultimi anni della sua vita, a contatto con gli ambienti populistici russi.

Nella nota 10, p. es., egli ha chiarissima l'idea che non l'abolizione della servitù della gleba ma piuttosto quella della proprietà che il coltivatore aveva del suolo, lo farà diventare un proletario o un povero. Questo a riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, che di per sé l'abolizione del servaggio non poteva costituire elemento sufficiente per scatenare il capitalismo. Chi avrebbe potuto impedire una progressiva democratizzazione della società rurale senza le tragedie del capitale?

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Marx inizia a parlare della Riforma protestante a p. 13, descrivendola non come un fenomeno culturale, tale per cui sarebbe stato necessario addentrarsi nei nessi tra questa rivoluzione del pensiero e quella del capitale (per quanto egli non ne ignori l'esistenza), ma descrivendola negli aspetti puramente economici, conseguenti all'accettazione istituzionale della stessa da parte del potere costituito.

La conseguenza che più gli preme sottolineare è, in tal senso, l'espropriazione dei beni ecclesiastici e quindi l'inevitabile proletarizzazione dei contadini e dei fittavoli che campavano su quelle terre. Il governo di Elisabetta I (1558-1603) fu per la prima volta costretto a riconoscere il pauperismo e a emanare le prime leggi che ne contenessero la diffusione.

Qui ci si può chiedere il motivo per cui Marx non abbia voluto approfondire il motivo per cui un paese che riconosceva agli agricoltori così ampi diritti li abbia fatti drasticamente precipitare in un baratro così profondo. La cosa più singolare dell'Inghilterra è che la riforma protestante qui fu un affare di stato, una Parlamentary Transaction. La ragione della repentina transizione al capitalismo va forse cercata nel fatto che i governi inglesi, memori delle immani tragedie accadute sul continente, volevano evitare con la massima cura qualunque guerra civile per motivi religiosi? ovvero che permisero o vollero riconoscere una veloce introduzione dei metodi capitalistici proprio per evitare una guerra di religione?

Di nuovo riusciamo a trovare nelle note di questo capitolo un qualche barlume di risposta. Marx è consapevole della difficoltà e nella nota 10, anticipando in maniera geniale le analisi di Weber, Sombart ecc., delinea i nessi tra capitalismo e "spirito protestante". Quest'ultimo viene dipinto coi tratti della psicologia borghese: una sorta di adattamento di mentalità al nuovo trend economico. Non si vedono nessi reciproci di causa-effetto: Marx non li avrebbe mai ammessi.

Significativo comunque resta il fatto ch'egli abbia subito visto come la reintroduzione in Europa delle idee favorevoli allo schiavismo fosse intimamente legata alla nascita del capitalismo e che su questo la riforma protestante non trovò nulla da eccepire. Concependo l'uomo solo come "produttore" (capitalista o salariato), i riformatori non potevano ovviamente tollerare la presenza di disoccupati (altrove Marx dirà che proprio i disoccupati servono a contenere la crescita dei salari).

E' un fatto che il rifiuto di assistere i poveri è una caratteristica tipica della società borghese, come si può già notare in Italia dopo l'esplosione del fenomeno comunale: non a caso le eresie medievali vengono definite "pauperistiche". Si comincia a fare della "povertà" un motivo di contestazione socio-politica non tanto quando la mentalità dominante non la riconosce più come un male endemico, ma quando detta mentalità propone dei rimedi impraticabili alla stragrande maggioranza dei poveri. Per il borghese "essere povero" significa semplicemente "non voler lavorare", cioè non essere disposto a fare qualunque tipo di lavoro pur di campare. Si prescinde totalmente dai rapporti oggettivi di proprietà.

Queste stesse idee esistevano negli ambienti borghesi italiani ben 500 anni prima del capitalismo inglese, ed erano maturate in ambienti cattolici. Questo a dimostrazione che il protestantesimo non è stato altro che una radicalizzazione borghese di idee cattoliche appartenenti a ceti mercantili. Una radicalizzazione analoga a quella del calvinismo nei confronti del luteranesimo, analoga a quella del consumismo nei confronti dello stesso calvinismo.

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Quel che qui si vuol sostenere è che Marx non ha mai preso seriamente in considerazione, approfondendoli come avrebbe dovuto, i legami tra cristianesimo ed economia borghese. Più volte (anche in questo stesso capitolo) egli ha equiparato la dinamica di taluni fenomeni capitalistici con quanto avviene nella religione (cristiana), ma la constatazione di queste analogie o è rimasta ferma a livello d'intuizione, oppure è stata usata come mera esemplificazione, non senza una certa dose d'ironia, come appare p.es. là dove fa paragoni tra accumulazione originaria e "peccato originale" (pp. 3-4), o tra credito pubblico e "credo religioso", o tra "peccato contro lo spirito" e "sfiducia nel debito pubblico" (p. 49), o tra "infanzia della grande industria" e "strage erodiana degli innocenti" (p. 53) ecc.

In fondo può non significare nulla il fatto ch'egli sia voluto partire dalla fenomenologia del capitalismo (l'analisi economica della merce) e che poi ad un certo punto abbia voluto svolgere un'analisi di storia dell'economia (il cap. XXIV): in fondo il sottotitolo del Capitale è "Critica dell'economia politica"; quello che però è mancata è stata un'analisi ontologica del capitale (basata sul nesso culturale tra religione ed economia), e questa mancanza pare sia stata dettata dal lato "deterministico" del suo pensiero, che tende a privilegiare, della realtà sociale, l'aspetto economico.

Qui in un certo senso si compie il dramma del Capitale, attraverso il quale Marx ha saputo sviscerare le contraddizioni economiche più recondite del capitalismo, senza tuttavia afferrarne la loro origine culturale.

E' evidente che la soluzione di tale arcano avrebbe comportato la riscrittura di alcune parti del Capitale, specie quelle che trattano dei rapporti tra capitalismo e pre-capitalismo, nonché quelle che considerano il capitalismo come una "necessità storica" e quelle che vedono il macchinismo come un grande progresso di civiltà.

L'analisi storica del cap. XXIV, essendo stata trattata per ultima, non incide minimamente sull'impianto generale dell'opera. In realtà era proprio da essa che si sarebbe dovuti partire per comprendere la natura "culturale" della merce, cioè la sua origine "religiosa". In Marx vi sono dei limiti ermeneutici dovuti esclusivamente ai suoi pregiudizi in materia di religione.

Si badi, Marx poteva anche usare l'analisi fenomenologica come pretesto per avviare un discorso di tipo storico. Il fatto è purtroppo che nel Capitale l'analisi storica è soltanto un'appendice di quella economica: è la cornice che abbellisce il quadro.

La storia, in Marx, è in funzione dell'economia, non dell'uomo; e l'economia, a sua volta, è in funzione di un'ideologia politica che cerca nella prassi economica la conferma dei propri postulati.

Nel Capitale l'errore metodologico è stato proprio quello di aver fatto nascere la merce dal determinismo economico, il quale, a sua volta, non è che il frutto della “psicologia delle parti”, cioè del “ruolo teatrale” che ogni attore economico è costretto a svolgere sulla scena della storia (che è soprattutto “economica”). In sostanza la genesi del capitalismo è strettamente legata alla categoria hegeliana della “necessità storica”, cui nessun protagonista storico può sottrarsi.

Non può essere questo il modo di fondare la “scienza storica”, che dovrebbe essere la scienza del processo della libertà umana. Se si perde di vista l'aspetto culturale delle scelte socio-economiche, si finisce col sottovalutare i fattori cosiddetti “sovrastrutturali”, relativi alla coscienza, alla libertà, alle idee etico-religiose, filosofico-politiche che gli esseri umani normalmente hanno e che costituiscono un patrimonio non meno importante delle condizioni materiali dell'esistenza.

Questi aspetti possono essere capiti solo in maniera “storica”, cioè affrontando integralmente la vita dell'uomo. Una volta fatto questo, la stessa economia si troverà ad essere oggetto di una diversa interpretazione.

Certamente meglio degli economisti borghesi Marx ha capito il meccanismo di funzionamento del capitalismo, e ha senza dubbio saputo dargli una collocazione spazio-temporale molto precisa. Ma pur avendo capito questo dal punto di vista economico, egli non si è mai preoccupato -come invece p.es. ha fatto Groethuysen- di dare una spiegazione del motivo culturale per cui, ad un certo momento, è nata la civiltà borghese. Tutti i fenomeni culturali sono per Marx un epifenomeno dell'economia.

Ecco perché, in ultima istanza, il concetto di “accumulazione originaria” è servito soltanto per confermare un processo le cui dinamiche dovevano apparire scontate, assodate, e non per mettere sul tappeto le possibili varianti in cui il processo storico si sarebbe potuto sviluppare. Marx parte sempre da un dato di fatto: il capitalismo, e nell'analisi storica egli va soltanto a ricercare quelle condizioni necessarie che l'hanno reso inevitabile e che ne rendono non meno inevitabile il superamento.

Suo grande merito è stato quello di averci fatto capire che il capitalismo industriale ha delle origini storiche ben precise, che cioè non è un fenomeno “naturale”, e che, come tutti i fenomeni storici, è destinato ad essere superato, ma non ci ha fatto capire il motivo per cui, ad un certo punto, gli uomini hanno scelto questa formazione sociale e non un'altra.

E, non facendoci capire questo, non poteva poi spiegarci il motivo per cui gli uomini, pur in presenza delle condizioni oggettive di superamento del capitalismo, soggettivamente non lottano per una transizione al socialismo.

Né poteva offrire precise indicazioni circa il modo di condurre una lotta politica anticapitalistica, anche quando, oggettivamente, le condizioni del superamento del capitalismo non sono così evidenti come un economista rivoluzionario vorrebbe.

* * *

Il fatto che Marx non abbia mai afferrato bene il carattere sociale della produzione pre-capitalistica è dipeso, molto probabilmente, dai pregiudizi ch'egli ha sempre nutrito nei confronti della religione.

Se Marx avesse avuto come esempio pre-capitalistico una formazione sociale non individualistica ma collettivistica, come ad es. l'obscina russa, avrebbe ugualmente considerato come inevitabile la transizione dal feudalesimo al capitalismo? Gli ultimi suoi scritti dicono di no.

Ma anche supposta l'esistenza storica della proprietà privata libera e individuale, Marx era forse in diritto di considerarla come una “mediocrità” destinata ad essere superata dal capitalismo?

E' curioso vedere come in Marx l'origine del capitalismo venga fatta risalire, a volte, al momento della "circolazione" del capitale, altre volte al momento della "separazione" dell'individuo dalla comunità, contestualmente alla rivoluzione tecnico-scientifica (in realtà anche nel servaggio e infinitamente di più nello schiavismo c'è "separazione", ma non si può certo parlare di "rivoluzione" tecnologica, poiché anche questa presuppone una rielaborazione culturale anticristiana).

Dice Marx: "La trasformazione di una somma di denaro in mezzi di produzione e in forza lavorativa è il primo movimento effettuato dalla quantità di valore che deve fungere da capitale. Esso si verifica sul mercato, nella sfera della circolazione"(Il Capitale, Ed. Newton Compton, 1976, I, p. 742).

Cioè l'esigenza o la necessità o l'inevitabilità di tale trasformazione non viene spiegata ma accettata come un dato di fatto. Il capitalismo, in un certo senso, si pone come un evento del destino: il tempo e il luogo, poste quelle premesse relative alla circolazione dei capitali, possono essere considerati casuali o comunque molto relativi.

Di fronte a sé Marx ha l'immagine di un individuo singolo, dedito al commercio di qualche bene di scambio che, ad un certo punto, decide di investire il proprio denaro nell'acquisto della forza-lavoro da impiegare in un'attività produttiva finalizzata all'accumulo di capitali.

A differenza degli economisti borghesi Marx capì perfettamente che la nascita del plusvalore (il cuore dello sfruttamento capitalistico) è strettamente connessa all'impiego di manodopera salariata, ma non riuscì a spiegare le ragioni culturali (storiche, se riferite a una classe sociale; esistenziali, se riferite a un individuo) che ad un certo punto portarono il mercante a trasformarsi in capitalista.

Infatti, finché si parla di "mercante" bisogna dare per scontato il primato dell'agricoltura (il commercio è solo un addentellato di un sistema di vita rurale); quando invece si parla di "capitalista" bisogna pensare al primato dell'industria (manifattura ecc.). Qui però è bene subito precisare che non può essere l'industria che di per sé spiega la trasformazione del mercante in capitalista, poiché la presenza stessa di una manifattura implica già una rivoluzione culturale, il protagonista della quale non necessariamente è stato lo stesso mercante o la classe cui egli appartiene.

L'origine del capitalismo va cercata, come motivazione e quindi come elaborazione culturale, nei testi degli intellettuali (filosofi e soprattutto teologi) i quali, a loro volta, non potevano prevedere con chiarezza tutte le possibili conseguenze che avrebbero potuto determinare le loro teorie. Generalmente un intellettuale elabora delle idee allo scopo di migliorare la situazione sociale, culturale ecc. del periodo in cui vive, e ovviamente spera che le generazioni future vogliano continuare a utilizzare, con gli inevitabili correttivi, quelle stesse teorie. Ma nessun intellettuale è mai in grado di prevedere, sino in fondo, che determinate sue idee potranno essere soggette ad un uso opposto o non voluto rispetto a quello immaginato.

La nascita del capitalismo, tanto per fare un esempio, non può essere culturalmente fatta risalire, stricto sensu, alla riscoperta medievale dell'aristotelismo, eppure in quel periodo vennero poste le basi, senza volerlo e senza neppure saperlo, per il superamento del cattolicesimo romano (che avverrà 500 anni dopo con la riforma protestante) e anche per l'affermazione del Cogito cartesiano, che rappresenta la quintessenza della primordiale concezione di vita borghese.

Ponendosi sulla scia del progressivo distacco del mondo latino da quello greco-ortodosso, i teologi cattolici hanno contribuito, senza volerlo e senza neppure esserne consapevoli, al superamento della loro stessa ideologia. E' stato il progressivo imporsi dell'arbitrio del singolo sul collettivo (che per quanto riguarda la chiesa romana si estrinsecò nel primato che si volle concedere al papato rispetto alle esigenze conciliari) che ad un certo punto (per progressive determinazioni quantitative) si arrivò a trasferire questo processo dalla sfera politica (la gerarchia cattolica insieme alla nobiltà feudale) a quella sociale vera e propria, in cui la nuova figura del borghese imprenditore risulterà decisiva per la diffusione mondiale del capitalismo.

Marx ha criticato nel Capitale l'ipocrisia dell'economia politica borghese, che finge di non riconoscere la differenza tra le due opposte proprietà: quella basata sul proprio lavoro e quella basata sul lavoro altrui. E ha dimostrato come dalla dissoluzione della prima sorge inevitabilmente la seconda, per quanto il capitalismo sia nato in opposizione non solo alla suddetta libera proprietà, ma anche alla proprietà feudale basata sul servaggio.

Marx in sostanza non ha capito che in Europa occidentale l'economia politica borghese si preoccupava di affermare che il capitalismo era una proprietà basata sul lavoro personale non perché voleva porsi in antitesi alla libera proprietà pre-capitalistica (ch'era cosa quantitativamente irrilevante), ma piuttosto perché voleva illudere il servo della gleba (figura dominante nel Medioevo) che, lottando contro il servaggio e accettando il capitalismo, avrebbe potuto diventare finalmente libero, in quanto vero proprietario di qualcosa. Il capitalismo cioè venne accettato come un miraggio che prometteva condizioni di vita migliori.

Se nella transizione dal feudalesimo servile al capitalismo i contadini avessero potuto costatare solo gli aspetti negativi dell'industrializzazione, l'opposizione al capitalismo sarebbe stata certamente più forte.

Marx non ha compreso questo semplicemente perché non ha sufficientemente studiato l'ideologia con cui il capitalismo emergente cercava di superare il feudalesimo: questa ideologia ha le sue radici nel protestantesimo, anzi, ancor prima, nella riscoperta dell'aristotelismo avvenuta in ambito cattolico.

La nascita storica del protestantesimo non è avvenuta, ovviamente, con Lutero, ma intorno al Mille, cioè nel momento in cui si è verificato il passaggio dall'Alto Medioevo (ideologicamente caratterizzato, in Europa occidentale, dall'agostinismo) al Basso Medioevo (ideologicamente caratterizzato dal tomismo). Il tomismo rappresenta, grazie alla riscoperta dell'aristotelismo, il superamento ideologico dell'agostinismo in un ambito ancora dominato politicamente dal cattolicesimo. E' stato il tomismo che indirettamente ha portato al protestantesimo.

Il primo Paese di religione protestante è dunque stato l'Italia, che a partire dal Mille e fino alla scoperta dell'America, ha conosciuto una rivoluzione culturale (non politica), ineguagliata nel resto d'Europa. La Germania, in questo senso, non fece che portare a compimento, sul piano dell'ideologia religiosa, un processo iniziato nelle università e nei comuni italiani e fra i primi movimenti ereticali: un processo che aveva trovato in Francia, Inghilterra, Olanda, Cecoslovacchia... un felice seguito. Non dobbiamo dimenticare che la Germania, nell'Europa occidentale, ha sempre rappresentato il massimo dell'idealismo possibile.

Con Lutero si è avuta la migliore formulazione teologica del protestantesimo basso medievale, la sua definitiva sanzione giuridica. Nella Riforma, in effetti, sono confluite tutte quelle correnti borghesi, tutti quei movimenti ereticali che si erano succeduti per almeno mezzo millennio, prima della nascita di Lutero.

Tuttavia la rivoluzione politica borghese non avverrà anzitutto in Germania, ma in Inghilterra, poi in Olanda e in Francia. Cioè la Germania, pur riuscendo a fare sul terreno sociale e ideologico ciò che l'Italia non era riuscita a fare (se non in ambiti meramente intellettuali), non ebbe poi la forza di compiere il passo successivo, probabilmente perché riteneva sufficiente all'emancipazione del lavoratore un'acquisizione interiore della libertà, una liberazione della coscienza.

Come mai allora la Germania, che pur ai tempi di Lutero era prevalentemente protestante, benché territorialmente divisa, dovette aspettare alcuni secoli prima di diventare una grande potenza industriale e capitalistica?

Il motivo è che in Germania la riforma protestante fu una rivoluzione tradita dallo stesso fondatore, che invece di allearsi con la classe borghese si alleò con quella latifondista contro le masse contadine in rivolta. Lutero si accontentò di due cose: 1) aver spezzato l'egemonia politica del cattolicesimo-romano; 2) aver posto le basi culturali per un rinnovamento del pensiero teologico.

Il vero artefice della rivoluzione culturale borghese, colui che decisamente unì il protestantesimo all'attività economica borghese fu Calvino, che non a caso riuscì a trovare ampi consensi in Svizzera, Olanda, Francia, Inghilterra e soprattutto Stati Uniti. La Germania dovrà scatenare due guerre mondiali per recuperare il tempo perduto.

Che l'ideologia protestantizzante fosse profondamente penetrata nella società occidentale, ancor prima della Riforma, è documentato anche dal fatto che nelle colonie i lavoratori salariati, là immigrati per emanciparsi, non si lasciarono mai sfuggire l'occasione di diventare dei capitalisti (cioè degli sfruttatori del lavoro degli indigeni locali).

Nelle colonie l'espropriazione è potuta avvenire usando metodi più brutali, appunto perché non c'era necessità di giustificarla attraverso lo strumento dell'ideologia religiosa (o almeno questa necessità non era così sentita come in Occidente).

Il riferimento alla religione per comprende la transizione dal feudalesimo al capitalismo non va inteso, ovviamente, che in senso culturale, al fine d'individuare le mentalità, gli atteggiamenti psicologici, gli usi e i costumi etici che possono aver influenzato determinate scelte economiche o comportamenti sociali. La religione non ha solo cercato di adeguarsi a una prassi sociale in evoluzione, ma ha pure condizionato l'evolversi di questa stessa prassi.

* * *

Marx ha esaminato la forzata separazione del lavoratore dai suoi mezzi produttivi; oggi bisogna esaminare la volontaria separazione del borghese dalla comunità cristiana, perché questa separazione precede l'altra e sul piano culturale la spiega. E spiega anche il motivo per cui il capitalismo sia potuto nascere in Europa occidentale e perché proprio nel XVI sec., cioè contestualmente alla riforma protestante.

Qui non interessano le motivazioni personali, psicologiche, quelle descrizioni individuali alla Pirenne, col suo san Godric di Finchale, fatto passare per archetipo del mercante medievale, a meno che non vengano prese come mere esemplificazioni di un discorso più generale. Qui piuttosto interessano le linee teoriche fondamentali che possono aver indotto ad assumere determinati comportamenti.

Nell'esaminare la teoria (teologia, filosofia, diritto...) c'interessano non tanto le diatribe interne alle correnti teologiche, filosofiche ecc., poiché i termini dei problemi non sono più attuali o, se ancora lo sono, ad essi oggi diamo delle risposte che allora neanche supponevano, quanto piuttosto c'interessano i possibili nessi tra determinate posizioni culturali e gli sviluppi della formazione capitalistica, che può essere coeva a quelle posizioni, ma che è quasi sempre successiva, avendo gli uomini bisogno di metabolizzare le innovazioni del pensiero.

Qui non dobbiamo dimenticarci che abbiamo sempre a che fare con profonde e subdole mistificazioni, in quanto raramente gli intellettuali potevano esprimersi in libertà, raramente quindi dicevano tutto quello che pensavano. Marx riuscì a individuare le mistificazione nell'economia politica classica, ma oggi dobbiamo trovarle nella teologia cattolica, protestante e nella stessa filosofia borghese che diede inizio al capitalismo.

Si badi: qui non si tratta di dimostrare che lo spirito borghese è falso perché là dove predica l'umanesimo laico e la democrazia politica, di fatto impone l'ineguaglianza sociale, poiché questo dualismo o doppiezza di metodo è ben noto alla storiografia marxista. Qui si tratta di dimostrare che le origini dello spirito borghese vanno cercare nelle origini dello spirito individualistico, anticomunitario, che risalgono agli albori della separazione tra la chiesa romana e la chiesa ortodossa (e all'interno di quest'ultima tra il cristianesimo predicato dal Cristo e quello predicato dagli apostoli).

La chiesa romana impose l'individualismo sul piano politico-istituzionale, facendo del papa un soggetto superiore all'istanza comunitaria chiamata "concilio". La chiesa protestante non fece che estendere questo stesso principio sul terreno sociale, trasformando il mercante (che pur sempre è esistito) in un individuo borghese superiore e al pontefice e alla tradizionale comunità cristiana, pur lasciando egli sopravvivere la religione come strumento di consolazione e di soggezione delle classi oppresse.

Esiste quindi una linea di continuità che attraversa i cosiddetti "momenti di rottura". Sotto questo aspetto non ha più senso vedere il protestantesimo in antitesi al cattolicesimo-romano (se vogliamo riprendere i lavori di Grothuysen dobbiamo farlo con questa consapevolezza, altrimenti non si esce dall'empasse).

La stessa esperienza del "socialismo reale" va inserita in questa medesima linea, almeno a partire dallo stalinismo e dal maoismo. Il "socialismo reale" non è stato altro che una sorta di cattolicesimo-romano in veste ateistica, nel senso che il primato concesso alla politica rispetto all'economia è stato gestito con criteri di tipo assolutistico. Oggi il superamento del "socialismo reale" (se si esclude la parentesi democratica della perestrojka) continua a porsi sulla scia dell'individualismo, in quanto l'attuale primato concesso all'economia risente di forti condizionamenti borghesi.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015