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L'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA(K. Marx, L'accumulazione originaria, Ed. Riuniti, Roma 1991) Industria e agricoltura: integrazione o primato? Marx non ha mai voluto sottoporre a critica l'industrializzazione in sé, il macchinismo in sé, prescindendo dalle esigenze del profitto capitalistico. Il Capitale vuole essere una critica dell'economia politica borghese che considera il capitalismo come una formazione sociale sovrastorica, non vuole essere una critica delle motivazioni sociali che hanno permesso lo sviluppo industriale. Marx ha sempre dichiarato di accettare le forme della società capitalistica, rifiutandone piuttosto l'aspetto pratico-oggettivo, cioè l'organizzazione spontaneistica e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi invece ci chiediamo se davvero l'industrializzazione debba prevalere in maniera così esorbitante sull'agricoltura e sull'artigianato, e se sia davvero giusto puntare sulla grande industrializzazione e non invece su quella media e piccola. Sappiamo che se non ci fosse la possibilità di realizzare un plusvalore non ci sarebbe neanche l'industria. Essa infatti è nata come tentativo di accumulare profitti da parte di un proprietario privato intenzionato a sfruttare lavoro altrui. Si dirà: questo veniva fatto anche dal feudatario attraverso il servaggio. Ebbene, la differenza sta proprio in questo, che il capitalista, prima di sfruttare il lavoro dell'operaio, sfrutta l'illusione di una libertà, quella dell'emancipazione dal servaggio. La rivoluzione industriale è nata sulla base di una falsa libertà giuridica. Quanto più ci si convince di essere liberi, tanto più si è sfruttati, poiché si è incapaci di vedere gli antagonismi da superare. Se in Occidente non ci si accorge di questo aumentato sfruttamento, è perché il capitalismo da un lato possiede i mezzi comunicativi per mascherarlo, dall'altro perché, materialmente, ne ha trasferito le forme peggiori nel Terzo mondo. Senza sfruttamento delle colonie il capitalismo non potrebbe sussistere se non facendo pagare dei prezzi altissimi ai lavoratori occidentali, rischiando così di aumentare di molto la resistenza anticapitalistica. Viceversa, nel servaggio feudale la dipendenza personale comportava sì lo sfruttamento del lavoro, ma entro i limiti imposti da un rapporto non meccanizzato con la natura: il che voleva dire che più di tanto il lavoratore non poteva essere sfruttato. L'industria invece rappresenta l'illusione di poter creare una libertà personale del lavoratore attraverso un rapporto meccanizzato con la natura: il che effettivamente comporta un notevole aumento delle forze produttive. La libertà del lavoratore è però fittizia in quanto in tale rapporto chi trae i maggiori profitti è il proprietario dei mezzi produttivi, cioè soprattutto il capitalista, il quale, sulla base dei propri profitti, tende a costruire un modello di società che invece di emancipare il lavoratore lo aliena sempre di più (non solo sul luogo del lavoro ma anche in ogni manifestazione della vita sociale). Marx credette di aver trovato la soluzione a questo problema nella socializzazione dei mezzi produttivi. Naturalmente egli non poteva allora rendersi conto che l'industrializzazione aliena di per sé l'uomo, in quanto lo allontana da un rapporto equilibrato con la natura, da un rapporto naturale con l'ambiente... Egli non poteva ancora sapere che l'aumento delle forze produttive causato dall'industrializzazione provoca delle contraddizioni dovute non soltanto al capitalismo, ma allo stesso macchinismo, che ha un impatto sulla natura quanto mai deleterio. Oggi noi dobbiamo ridiscutere il primato concesso all'industria rispetto all'agricoltura. L'industria dovrà, in futuro, essere considerata come “parte integrante” dell'agricoltura, e non come pilastro fondamentale cui anche l'agricoltura deve adeguarsi. Anche perché se il destino dell'industria è quello di diventare completamente automatizzata, tanto da escludere la presenza rilevante dell'operaio, l'esubero di manodopera risulterà catastrofico, poiché nessuno vorrà né potrà tornare all'agricoltura o all'artigianato, e non tutti potranno essere rioccupati nel terziario. L'industria libera potenti energie ma a scapito dello stesso lavoratore, che ogni giorno di più si vede sostituire dalle macchine. Il lavoro industriale crea ricchezza solo per il capitalista, non assicura un futuro ad alcun lavoratore (che non abbia una grande specializzazione), né garantisce una vera creatività nelle mansioni che si svolgono (se non a livelli intellettuali, tecnico-progettuali). E non si dica che l'automazione permetterà al lavoratore d'avere maggior tempo libero che potrà impiegare secondo la propria creatività, perché questo è in contrasto col noto principio che il lavoro deve diventare un principio vitale d'esistenza, non solo per la sopravvivenza o la riproduzione del lavoratore ma anche per la sua personale realizzazione. Le macchine non potranno mai sostituire completamente l'uomo. Nel “socialismo reale” la situazione, fino a ieri, non era migliore: i profitti andavano allo Stato, che poi dall'alto li redistribuiva secondo criteri estranei alla volontà dei lavoratori; il futuro era assicurato, ma solo perché in realtà le mansioni svolte erano poco qualificate, i prodotti di scarsa qualità, i deficit di bilancio coperti dallo Stato, ecc. Una nuova società industriale dovrà creare un'industria legata ai bisogni della comunità locale; dovrà quindi essere un'industria tendenzialmente esaustiva, con capacità globali, in grado di soddisfare molteplici esigenze. Non quindi un'industria specializzata in un settore, sempre più sofisticata perché preoccupata di non reggere la concorrenza straniera, ma un'industria multilaterale, competente in tutti quei settori richiesti dalla comunità locale (elettrodomestici, trasporti, trasformazione dei prodotti ecc.). 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 |