LENIN E LA GUERRA IMPERIALISTICA
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Dalle guerre nazionali alla guerra imperialistica
Lenin denuncia il fatto che i socialisti europei non si rendevano conto che la I guerra mondiale non era una guerra nazionale come quelle avvenute tra la fine del XVIII sec. e tutto il XIX, aventi lo scopo di creare gli Stati nazionali, ma era una guerra imperialistica vera e propria, per dominare il mondo.
Le guerre nazionali andarono, sostanzialmente, dalla rivoluzione francese fino alle ultime unificazioni nazionali dell'Italia e della Germania. Erano guerre condotte in nome del capitalismo contro il feudalesimo. In Germania e in Italia svolse un ruolo fondamentale la stessa monarchia; in Francia e in Inghilterra no.
Precisa inoltre che in tutte le guerre del XIX sec. “non c'erano né l'imperialismo attuale, né le condizioni obiettive già mature del socialismo, né partiti socialisti di massa in tutti i paesi belligeranti...” (p. 145). Quindi era impossibile che, durante quelle guerre, si potessero rovesciare i governi borghesi.
È strano che dica una cosa del genere, poiché i fatti hanno dimostrato che quando tutte quelle condizioni si sono finalmente verificate, nessun paese europeo ha mai vissuto una rivoluzione socialista, almeno non in maniera significativa. L'unica vera eccezione è stata appunto la Russia, che ne fece tre dal 1905 al 1917, che però era la nazione più debole di tutti i paesi capitalisti del mondo.
Lenin sperava in una rivoluzione socialista europea, ma si dovette accontentare di vederne una in un solo paese, il suo. In altre parole, invece di addebitare ai fondatori del socialismo europeo l'incapacità a organizzare un partito rivoluzionario nel momento in cui il capitalismo era ancora materialmente debole, preferisce sostenere che tale rivoluzione non poteva essere fatta perché ne mancavano i presupposti fondamentali. Stava in pratica ripetendo le stesse motivazioni che Marx aveva dato quando decise di trasferirsi definitivamente a Londra.
Vien da chiedersi, in tal senso, come egli potesse ritenere possibile, obiettivamente, dopo aver visto che il socialismo europeo, dal 1871 al 1914, aveva condotto una politica meramente riformistica (parlamentare, sindacale, cooperativistica...), un atteggiamento diverso di fronte alla guerra mondiale. Dopo 40 anni di passività come sarebbe stato possibile diventare eversivi? Per quale motivo avrebbe dovuto essere sufficiente, per diventarlo, vedere gli Stati imperialisti dichiararsi guerra vicendevolmente?
Se in tutto quel periodo non c'era mai stato un partito socialista in grado di opporsi alla politica imperialistica di alcun governo borghese, come sarebbe stato possibile un atteggiamento diverso di fronte a una guerra mondiale scoppiata proprio a causa della spartizione delle colonie (che Germania e Austria volevano rimettere in discussione)? Cosa aveva in mente Lenin quando accusava di tradimento tutti i partiti della II Internazionale? quando giudicò finita l'esperienza di tale Internazionale (1889-1914)?
Indubbiamente egli aveva in mente di costruire una nuova Internazionale su basi completamente diverse. Ma come avrebbe potuto farlo senza un motivo eclatante? O meglio: il fatto che in quel momento il socialsciovinismo di quei partiti che a parole parlavano di socialismo e che nei fatti appoggiavano il nazionalismo imperialistico delle loro rispettive nazioni, come poteva diventare una ragione sufficiente per realizzare una nuova Internazionale?
Secondo lui si era passati dalle guerre nazionali a quelle internazionali proprio perché il capitalismo aveva saturato i mercati nazionali, e le colonie già conquistate non bastavano più: “sono diventati angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione il capitalismo non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo” (p. 137). Il capitalismo non riesce più a esportare merci come vorrebbe, ma solo capitali. Gli ultimi arrivati (soprattutto la Germania) sono, sul piano industriale, potenti come i primi, poiché sono partiti dalle ultime acquisizioni della tecnologia, ma praticamente sono privi di un vero impianto colonialistico.
Lenin però non attribuisce le maggiori responsabilità della guerra alla Germania, ma a tutte le maggiori potenze capitalistiche europee, poiché le mette tutte sullo stesso piano, anche se giudica la concorrenza tra Germania da una parte e Inghilterra e Francia dall'altra come quella decisiva. Le guerre nazionali – dice ancora – possono essere compiute dalla Serbia, dall'India o dalla Cina, che sono paesi colonizzati e che devono costituirsi come moderni e autonomi Stati nazionali.
Ecco perché, secondo Lenin, tutti i paesi più avanzati da tempo stavano preparando la guerra, proprio per spartirsi gli ultimi territori rimasti liberi dal colonialismo, come p. es. l'impero ottomano, i Balcani, il Medioriente, l'Asia... Considerava anche la Russia e l'impero austro-ungarico dei territori capitalistici come gli altri, benché vi dominassero ampiamente i grandi proprietari terrieri, i quali non avevano fatto altro che adattarsi a una trasformazione capitalistica dell'economia nazionale.
Non credeva assolutamente alla teoria dell'ultraimperialismo di Kautsky, secondo cui la lotta fra i capitali finanziari nazionali sarebbe stata sostituita dallo sfruttamento in comune del mondo da parte del capitale finanziario internazionale. Kautsky sosteneva questa tesi per far capire che una rivoluzione proletaria su scala nazionale non sarebbe servita a niente, proprio perché nell'ambito dell'imperialismo non vi è più interesse, per i capitalisti, a difendere una nazione piuttosto che un'altra. È il capitale in sé che va difeso, ovunque esso si trovi. A ciò però aggiungeva ch'era ancora impossibile stabilire se questa nuova fase dell'imperialismo avrebbe potuto realizzarsi in tempi brevi o lunghi. Quindi – diceva Lenin – in nome di una cosa ancora inesistente, Kautsky rinunciava all'idea di abbattere un capitalismo nazionale perfettamente esistente.
In rapporto a tale guerra mondiale le tre risoluzioni più importanti erano state, secondo lui, quella del Congresso di Stoccarda (pur redatta con cautela, tenendo conto di tutte le leggi penali possibili), poi confermata e completata dai Congressi di Copenaghen e di Basilea. In quelle risoluzioni risultava evidente ciò che già Marx aveva scritto nel Manifesto: “il proletariato non ha patria”, sicché ha diritto a trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, contro i propri rispettivi governi borghesi. In particolare la risoluzione di Basilea affermava che la guerra avrebbe creato una crisi economica e politica senza precedenti, per cui si chiedeva di “affrettare l'eliminazione del dominio di classe imperialistico”, di lavorare nello spirito della Comune di Parigi e in quello della rivoluzione russa del 1905, nonché in quello etico-politico di chi considera un “delitto” il massacro degli operai di un paese da parte degli operai di un altro paese: i lavoratori dovranno ritenere criminoso “sparare gli uni agli altri per il profitto dei capitalisti, per l'orgoglio delle dinastie e per la stipulazione dei trattati segreti”. L'esempio da seguire doveva essere quello della Comune di Parigi o della rivoluzione russa del 1905. I governi borghesi devono sapere che non possono scatenare una guerra “senza pericolo per loro stessi”, senza aver paura di una rivoluzione proletaria.
D'altra parte non si può passare dal capitalismo al socialismo senza spezzare i limiti nazionali, né si può farlo per via pacifica, proprio perché tutti gli Stati nazionali capitalistici sono particolarmente aggressivi, in particolare quelli imperialistici veri e propri, seppur a vario titolo, come la Germania, l'Austria-Ungheria, l'Inghilterra, la Francia e la Russia (le prime due e le ultime tre alleate tra loro). L'intenzione che hanno non è solo quella di saccheggiare i paesi concorrenti e di conquistare le loro colonie o gli ultimi territori liberi del pianeta, ma anche di indebolire il movimento proletario, scagliando gli operai e i contadini di un paese contro quelli di un altro. La guerra civile è l'unico rimedio per opporsi a questo massacro di inaudita ampiezza e intensità.
Ecco perché i socialisti, secondo lui, dovevano negare qualunque appoggio alle borghesie dei loro paesi, qualsiasi voto alla richiesta di crediti militari, qualsiasi partecipazione governativa o ministeriale; dovevano chiamare gli operai alla lotta di classe, creando dei comitati internazionali di agitazione e di propaganda antimilitaristica, in modo tale che i proletari di tutte le nazioni insorgessero contro i loro governi. In sostanza non dovevano limitarsi a condannare la guerra con frasi retoriche, come quelle dei pacifisti, dei cristiani e dei piccolo-borghesi. Semmai era doveroso appoggiare tutti i tentativi di fraternizzazione e ravvicinamento nell'esercito e nelle trincee tra i socialisti dei paesi belligeranti.1 Era giusto anche chiamare le donne socialiste a intensificare l'agitazione e la propaganda socialista.2
Sulla base di tutte queste idee – spiegava Lenin – non c'è la “garanzia” che la rivoluzione avverrà; nondimeno esse mettono l'accento su fatti e tendenze reali o molto probabili, che possono essere utilizzati in senso rivoluzionario. Le guerre civili vanno preparate, non piovono dal cielo: “quando comincia l'effervescenza rivoluzionaria nessuno sa mai se riuscirà, né quando riuscirà a diventare una rivoluzione 'vera', 'autentica'” (p. 191). “La rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione”. Ci vogliono aspetti oggettivi e soggettivi. È vero che nel 1901 in Russia gli studenti avevano iniziato a protestare contro il regime, ma “nel 1901 nessuno in Russia sapeva né poteva sapere che la prima 'battaglia decisiva' sarebbe stata sferrata quattro anni più tardi... e sarebbe rimasta 'insoluta'” (ib.).
Generalmente i sintomi di una situazione rivoluzionaria – spiega Lenin – sono tre:
l'impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificarne la forma. La borghesia può passare da una dittatura formale, indiretta, implicita del capitale a una sostanziale, diretta, esplicita, con cui affidarsi alle forze militari e poliziesche. Cioè, per lo scoppio della rivoluzione “non basta ordinariamente che 'gli strati inferiori non vogliano', ma occorre anche che 'gli strati superiori non possano' vivere come per il passato” (p. 116). 3
“Un aggravamento, maggiore del solito, delle sofferenze e della miseria delle classi oppresse” (ib.).
“Un rilevante aumento dell'attività delle masse, le quali, in un periodo 'pacifico' si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte sia da tutto l'insieme della crisi, che dagli stessi 'strati superiori', a un'azione storica indipendente” (ib.).
In pratica stava dicendo che in Europa occidentale non mancavano le condizioni oggettive ma solo quelle soggettive per compiere la rivoluzione (tra queste ultime mancava anche una “teoria rivoluzionaria”, che non ripetesse meccanicamente le classiche tesi del marxismo). “Oggi in Europa sarebbe assurdo invitare a un assalto 'immediato'. Ma sarebbe vergognoso per chi si dice socialdemocratico non consigliare agli operai di rompere con gli opportunisti...” (p. 191).
A ciò si sarebbe potuto aggiungere che in un sistema basato sull'antagonismo sociale vi sono sempre i motivi per compiere una rivoluzione. Sta piuttosto nella volontà soggettiva farli emergere con chiarezza e determinazione. Sta nell'intelligenza delle cose spingere gli oppressi a ribellarsi, a rendersi conto che il loro relativo benessere dipende dall'assoluto malessere che si vive in altre parti del pianeta (per es. nelle colonie). Non ha senso aspettare che le contraddizioni maturino da sé. Prima che maturino sul piano industriale, sono già scoppiate nel mondo dell'agricoltura e in quello coloniale, provocando effetti catastrofici.
Diciamo che il socialismo europeo non ha mai prestato alcuna attenzione né alle sorti dei contadini (espulsi dalla terra), né a quelle dei territori colonizzati in Africa, Oceania, Asia e America Latina. Il colonialismo moderno ha già mezzo millennio di storia, al quale bisogna aggiungere un altro mezzo millennio di crociate medievali che l'Europa cattolica ha condotto contro islamici, ortodossi e pagani, cioè contro l'area orientale del continente europeo, al fine di occupare quanti più territori possibili. Gli “strati superiori” del mondo cattolico hanno inoltre sterminato gli “strati inferiori” dello stesso mondo che contestava l'oppressione feudale, la corruzione del clero, le pratiche della borghesia: ci riferiamo ai movimenti pauperistici ereticali, le cui idee furono ereditate dalla riforma protestante, ma in chiave borghese, quindi facendo perdere loro la radicalità democratica ed egualitaria (proto-socialista) che avevano.
Scrive Lenin: “Senza questi cambiamenti obiettivi, indipendenti dalla volontà, non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile” (p. 116). Questa affermazione è piuttosto strana, poiché nei “cambiamenti obiettivi”, citati sopra, aveva messo proprio l'attività soggettiva delle masse. Se i cambiamenti non possono dipendere neppure dalla volontà di intere classi sociali, quando diventano “obiettivi”? Chi può giudicare se o quando sono o non sono obiettivi? Stava forse pensando che se le rivoluzioni dipendessero soltanto dalla volontà soggettiva, avrebbero dovuto essercene molte di più in meno tempo, in quanto le contraddizioni del sistema borghese risultano nettamente inconciliabili, essendo causate dalla stessa presenza della proprietà privata? In realtà non c'è affatto bisogno di aspettare che le contraddizioni economiche del capitale si acutizzino: non è forse evidente la loro irrisolvibilità coi mezzi borghesi?
Secondo noi la tesi di Lenin va letta nella maniera seguente: nel caso in cui la volontà soggettiva delle classi oppresse o dei partiti sedicenti rivoluzionari sia pigra, indolente, ci pensano le situazioni obiettive del capitale, le sue crisi strutturali e periodiche, a risvegliarla. Sono gli antagonismi irriducibili del sistema, assolutamente inevitabili, a scuotere le coscienze. Senonché, quando ciò avviene, non è affatto detto che lo svolgimento delle azioni proceda nella direzione giusta. Anzi, in genere, se di fronte agli antagonismi sociali ci si abitua a conservare un atteggiamento passivo, quando essi si acutizzano fino a scoppiare, la reazione che si assume è sempre scomposta, inadeguata, velleitaria.
Si potrebbe cioè dire che le situazioni rivoluzionarie non creano mai delle rivoluzioni vittoriose se l'intelligenza delle cose non ha favorito il crearsi di quelle stesse situazioni rivoluzionarie. L'iniziativa soggettiva costante ai fini della maturazione di condizioni obiettivamente rivoluzionarie è una garanzia sufficientemente realistica che quelle condizioni verranno svolte nella direzione giusta. Là dove non esiste l'intelligenza delle cose o la volontà soggettiva (organizzata collettivamente), è facile che, di fronte a situazioni obiettivamente rivoluzionarie, si prendano strade sbagliate, che possono apparire rivoluzionarie solo in apparenza (come p. es. furono le esperienze dei movimenti nazi-fascisti). Paradossalmente l'elemento soggettivo ha un'importanza maggiore di quella indicata da Lenin, che pur aveva detto che il riformismo del socialismo europeo si era nettamente imborghesito nella seconda metà dell'Ottocento.
L'uomo che vive all'interno di un sistema antagonistico deve essere messo nelle condizioni di sapere, in qualunque momento, che dipende esclusivamente dalla sua volontà la decisione di superare tale sistema. Cioè non ha bisogno di aspettare situazioni particolari più di quanto non sia lui stesso, con la propria azione rivoluzionaria, a crearle. Quando le contraddizioni sono strutturali al sistema, diventa pretestuoso indurre gli uomini a credere ch'esse non sono ancora sufficientemente mature per compiere un ribaltamento del sistema. Questo è stato un limite del marxismo nel corso di tutta la seconda metà dell'Ottocento, dopo le rivoluzioni proletarie fallite nel 1848-49 e dopo la sconfitta della Comune di Parigi.4
È importante dire queste cose, poiché il marxismo, sbagliando, ha sempre sostenuto che le rivoluzioni socialiste non sono potute accadere nel periodo anteriore allo sviluppo capitalistico proprio perché ne mancavano le condizioni obiettive. È ora di superare questo feticismo nei confronti dell'industrializzazione della società, anche perché la storia stessa si è incaricata di dimostrare che le rivoluzioni socialiste accadono più facilmente là dove l'industria è assente o poco sviluppata.
Lo sviluppo industriale, infatti, fa aumentare il benessere economico, non fa capire che tale benessere viene pagato da popolazioni che vivono in luoghi remoti del pianeta, in condizioni di sfruttamento coloniale o semicoloniale, né fa capire che vi sono ricadute profondamente negative sull'integrità della natura. In una situazione del genere la consapevolezza rivoluzionaria fa molta fatica a emergere. Anzi, non emerge per nulla se non accadono situazioni catastrofiche. Questo perché l'industrializzazione, lungi dall'infondere maggiore sicurezza nei rapporti tra uomo e natura, crea una situazione del tutto artificiale, fa perdere il senso di “dipendenza” dalla natura, che è quello che permette ai rapporti umani di definirsi “naturali”.
Il socialismo scientifico ha sempre attribuito all'industrializzazione basata sul macchinismo la capacità di “disincantare” gli uomini, cioè di renderli assolutamente padroni delle loro forze, indipendenti dalle forze della natura. Li ha fatti diventare finalmente atei, non più timorosi di forze esterne, naturali o religiose che fossero. Il marxismo anzi ha sempre ritenuto che le forze religiose create dall'uomo non fossero altro che una trasposizione fantastica nella loro mente delle forze della natura. Tuttavia si è fatto questo trasformando la scienza in una nuova religione, com'era d'altronde inevitabile in civiltà basate sull'antagonismo sociale. Oggi ci siamo accorti dei grandi limiti della scienza e della tecnologia borghese, ma ormai sembra essere troppo tardi per tornare indietro: di sicuro un'inversione è impossibile restando nell'ambito dell'attuale “globalismo”.
Si faccia ora attenzione a questo pensiero di Lenin, che riflette, se vogliamo, l'influenza di un limite culturale o ideologico. “Una tale situazione [rivoluzionaria] si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche rivoluzionarie in Occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-61, 1879-80 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni obiettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non 'cadrà' mai se non lo 'si farà cadere'” (p. 116-7).
Lenin, pur senza dirlo, a chi attribuisce la riuscita delle rivoluzioni politiche? Alla borghesia. E a chi sta attribuendo il loro fallimento? Ai contadini, in quanto gli operai, in quei periodi rivoluzionari, erano ancora un'infima minoranza. E come egli giustifica, pur senza dirlo, questa differente valutazione nelle capacità rivoluzionarie delle classi? Il motivo della riuscita delle rivoluzioni borghesi sta nel fatto che questa classe sociale era strettamente legata all'industria. È questa industria meccanizzata, coi mercati che crea, grazie all'aiuto della rivoluzione tecnico-scientifica, che spezza il dominio della proprietà agraria, quel dominio che i contadini sfruttati, privi di industria, non sono mai riusciti a superare, nonostante i loro molteplici tentativi eversivi.
Questo spiega il motivo per cui Lenin decise di diventare l'intellettuale rivoluzionario non dei contadini, bensì degli operai, i quali, pur essendo ex-contadini, vivevano in città, non nutrivano idee religiose, non avevano rapporti coi partiti “populistici” (cioè filo-contadini) e che erano convinti di svolgere un ruolo strategico per lo sviluppo della società, pur essendo proprietari della sola forza-lavoro.
La netta superiorità di Lenin su tutti gli altri leader socialisti europei è ben visibile in questa semplice affermazione: “La crisi politica è evidente: non c'è un governo sicuro del proprio domani, non un governo che sia libero dal pericolo d'un fallimento finanziario, di una perdita di territorio, di esser cacciato dal proprio paese (così come è stato cacciato il governo belga). Tutti i governi vivono sopra un vulcano e fanno appello essi stessi all'iniziativa e all'eroismo delle masse” (p. 117).
Poi, più avanti, prendendosela con Kautsky, che vedeva le cose in maniera opposta, attribuendo tutta la “forza” ai governi borghesi e tutta la “debolezza” ai partiti socialisti, scrive: “Mai il governo ha tanto bisogno del consenso di tutti i partiti delle classi dominanti e della 'pacifica' sottomissione delle classi oppresse a questo dominio, quanto in tempo di guerra” (p. 118). Queste sono parole eloquenti, di un leader che vede le cose obiettivamente, senza essere spaventato dal comportamento degli organi di potere e senza neppure avere tendenze organizzative di tipo estremistico. Sta parlando di “classi sociali”, non di possibili azioni individuali.
Poi ancora prosegue: “Se all'inizio della guerra, specialmente nei paesi in cui si attende una rapida vittoria, il governo sembra onnipotente, nessuno, mai, in nessun luogo, ha legato l'attesa della situazione rivoluzionari esclusivamente al momento in cui la guerra comincia e, ancor meno, identifica ciò 'che sembra' con ciò che è in realtà” (ib.). Parole potenti, queste, che indicano la capacità di guardare le cose sotto ogni punto di vista, da qualunque angolatura. Se i governi appaiono forti nel momento in cui dichiarano guerra, non è detto che lo siano davvero, meno che mai nel corso della guerra stessa. L'Italia subì una improvvisa e disastrosa sconfitta a Caporetto, dopo che il governo bolscevico si era ritirato dal conflitto, permettendo all'Austria di convogliare tutte le sue forze contro di noi. Il fascismo di Mussolini, dopo essere entrato in guerra, fu debolissimo in tutti i conflitti bellici in cui si volle cimentare, pur dopo un ventennio di successi in politica interna; e se non fosse stato aiutato dai nazisti, molto probabilmente sarebbe caduto prima (o almeno il governo sarebbe stato sfiduciato prima da una buona parte delle gerarchie fasciste, così come avvenne dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia).
In sintesi: uno come Lenin, probabilmente, poteva venir fuori solo dal paese capitalistico più arretrato d'Europa, dove gli elementi vetero-feudali erano ancora presenti. Tutti i principali leader socialisti dell'Europa occidentale furono riformisti, se non addirittura revisionisti, e persino sciovinisti durante la guerra. L'unica che mostrò un certo carattere rivoluzionario fu Rosa Luxemburg, proveniente da un altro paese profondamente arretrato, la Polonia, le cui tradizioni contadine furono per lei motivo sufficiente per andarsene.
Eppure, prima della guerra e nel corso di essa, sarebbe stato sufficiente mettere in pratica queste precise indicazioni di metodo per capire il senso di una rivoluzione socialista. Così le elenca Lenin:
rifiuto assoluto di votare i crediti militari;
rottura della pace sociale tra operai e imprenditori, e anche tra contadini e agrari capitalisti;
creazione di organizzazioni illegali, senza le quali è “assolutamente impossibile dire alle masse popolari la verità” (p. 193)5;
sostegno alle manifestazioni di solidarietà nelle trincee;
appoggio a tutta l'azione rivoluzionaria di massa (p. 191).
Ma forse il vero problema era un altro, e Lenin lo subì con un certo stupore e molta amarezza. I leader socialisti della II Internazionale non solo non furono capaci di compiere alcuna rivoluzione, ma, pur di non essere giudicati in questa loro pusillanimità, presero a criticare duramente l'unica rivoluzione realizzata con successo, quella bolscevica, senza rendersi conto che i cosiddetti “popoli senza storia” – come Hegel chiamava gli slavi – avevano iniziato a risvegliarsi dal loro torpore proprio grazie alle idee sul socialismo maturate in Europa occidentale.
1La fraternizzazione si era verificata tra le trincee tedesche e francesi, ma vi erano stati casi anche tra inglesi e tedeschi. Gli stati maggiori dell'esercito la consideravano una forma di alto tradimento.
2A proposito delle donne, la Conferenza socialista femminile internazionale di Berna (marzo 1915), condivideva le risoluzioni dei Congressi di Stoccarda e di Basilea, ma chiedeva di amnistiare chi aveva assunto posizioni opportunistiche e socialsciovinistiche: questo perché appariva esagerato parlare di “tradimento” della II Internazionale, come appunto faceva Lenin.
3Basterebbe questo criterio per leggere tutta la storia delle civiltà basate sull'antagonismo sociale.
4Sotto questo aspetto le rivoluzioni sarebbero state possibili anche al tempo dello schiavismo, proprio per difendere l'esistenza del comunismo primitivo.
5Anche al Congresso Internazionale delle donne, tenuto a Berna nel marzo 1915, fu chiesto, da parte delle rappresentanti bolsceviche, di creare delle organizzazioni illegali. La proposta venne respinta.
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