IL TEATRO GRECO: DECLINO DELLA TRAGEDIA
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Dal IV secolo a.C. la tragedia subisce una forte decadenza, che si prolunga anche durante l'era ellenistica, perdendo l'originale carattere religioso e sociale:
infatti l'organizzazione degli spettacoli passava di carica in carica, dapprima
all'interno della compagnia, poi addirittura ad impiegati statali. Così la
tragedia si ridusse, povera di cariche emotive, alla letteratura o, per un
processo di progressiva profanizzazione, si trasformò nella commedia nuova,
il cui poeta più rappresentativo fu Menandro. Le interpretazioni teatrali diventano solo un semplice divertimento
riservato alle corti ellenistiche.
Nel corso del III secolo a.C. la tragedia greca fu importata a Roma. L'età
arcaica vide un enorme successo di questo genere teatrale, molto lodato da
Cicerone e da
Quintiliano.
I romani portarono sulla scena sia i personaggi dei miti greci (fabulae
coturnatae), soprattutto relativi al ciclo troiano e modellati spesso su
Euripide, sia gli avvenimenti e i personaggi propri del mondo romano (fabulae
praetiextae).
I primi autori tragici romani furono Andronico, Nevio ed Ennio, che si
ispirarono a modelli ed esemplari greci. Con Pacuvio e Accio, invece, la
produzione accrebbe di originalità, sia per i vari accorgimenti scenici utilizzati, sia per la rigorosa rappresentazione delle passioni e dei
motivi patetici.
La tragedia però non divenne mai
così popolare come in Grecia e fu tralasciata durante l'ultimo secolo repubblicano e durante l'era
imperiale. Il teatro lasciò sempre più posto alle rappresentazioni del
mimo. Subì inoltre la concorrenza degli spettacoli del circo e dei giochi dei
gladiatori.
A noi restano solo due versi della Medea di Ovidio, tutto lo
sconcertante teatro di Seneca, probabilmente destinato alla lettura invece che
alla rappresentazione teatrale, ed infine l'Ottavia, presumibile opera di un
suo imitatore.
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