Settima sequenza


Libro X dell'Odissea
La richiesta di andarsene

Le parole di Circe, alla vista del secondo pianto dei compagni di Ulisse, testimonia una grande saggezza e sobrietà: standogli vicino, chiede al suo amato che la si smetta di lasciarsi così tanto condizionare dagli affanni patiti e dalle offese subite, e si provveda a rifocillarsi, a rinfrancarsi con cibo e vino, per guardare avanti e tornare a vivere una nuova vita.
E' così persuasiva che Ulisse non può fare a meno di considerarla come una "dea risplendente"(455), molto "chiara" nel suo parlare. Virgilio provvederà a costruire sulla falsariga di questa donna il personaggio di Didone.
Circe mostra d'aver capito molto bene l'origine del dolore di quei guerrieri-marinai: "non avete mai l'animo in pace, perché molto avete sofferto", a causa dell'"aspro mare"(464-5) e degli "uomini ostili"(459).
Tuttavia, se tale interpretazione del dolore si addiceva bene alla psicologia di quei navigatori, sinceramente desiderosi di tornare a casa, risultava ancora insufficiente per un personaggio complesso, contraddittorio, psichicamente instabile come Ulisse.
Qui è evidente che Circe, pur essendo consapevole che la loro origine è nel Mediterraneo orientale, propone loro di restare per sempre con lei, ricostruendosi una nuova vita.
Ora spera che non si ricordino più del loro passato, non come prima, usando droghe soporifere, ma in virtù di una vita sicura, serena, lontana dai pericoli della cosiddetta "moderna civiltà". Circe propone loro di vivere un'esistenza più "naturale" e meno "artificiosa".
I marinai e soprattutto Ulisse si lasciano sulle prime convincere: gli uni perché stanchi di peregrinare a vuoto, l'altro perché vuole misurarsi anche in questa esperienza, verificando sino a che punto sarebbe in grado di resistere lontano dall'antagonismo, dai contrasti tipici delle società divise in classi, ceti, stirpi contrapposte.
E' singolare che in questo frangente, ad un certo punto, non sia Ulisse a chiedere ai compagni di riprendere il cammino, ma il contrario.
Si ha come l'impressione ch'egli si fosse trovato così bene con Circe che forse sarebbe stato anche disposto a dimenticare patria e famiglia. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.
Anzitutto perché quand'egli le chiede di lasciarli andare, fa riferimento a una promessa di lei (483), che non si evince dal contesto del libro, per cui si deve presumere sia stata fatta privatamente.
La stessa richiesta di partire dall'isola, per fare ritorno in patria, viene fatta privatamente dal solo Ulisse, mentre tutti i suoi compagni dormono profondamente (479).
Ulisse prese una decisione di comune accordo con tutti i compagni, ma per non ferire la sensibilità di Circe, la comunicò a quest'ultima come se fosse stata una sua iniziativa e come se lei dovesse fargli un ultimo piacere.
Evidentemente Ulisse si sentiva in colpa, ma voleva far capire a Circe che la decisione era stata presa solo da lui, forse al fine di evitare ogni possibile ritorsione a danno dei compagni. Egli sapeva bene di essere amato da Circe e che questa, per amore, non gli avrebbe negato nulla.
La comitiva era consapevole di avere un debito di riconoscenza nei confronti della maga, in quanto li aveva ospitati per più di un anno, e, per tale ragione, nessuno si sarebbe arrischiato di tradire le sue aspettative.
La chiusa di questo libro è evidentemente posticcia, in quanto serve per giustificare il comportamento strumentale di Ulisse, che si è servito dell'ospitalità di Circe per rimettersi in sesto e riprendere con maggior vigore il viaggio di ritorno.
Una leggenda posteriore allo stesso Omero vuole che Circe lasci andare Ulisse perché quest'ultimo ha un compito molto importante: quello di entrare nel regno dei morti per sapere, dall'indovino Tiresia e dalla madre Anticlea, il futuro che l'attende. Col che egli sembra qui anticipare, vagamente, i racconti non meno mitologici delle apparizioni del Gesù post-pasquale, nonché le sue discese agli inferi.
In realtà Ulisse non sa qui che pesci pigliare e visibilmente cerca di arrampicarsi sugli specchi, attribuendo ai suoi compagni un'esigenza che invece è tutta sua. Il fatto che ne voglia parlare a Circe privatim testimonia proprio della sua paura di non poter reggere apertamente il confronto con loro.
E Circe, che non è certo stupida, anche questa volta è costretta a rivolgersi a lui con l'epiteto che meglio lo qualifica: "astutissimo"(488), e lo rassicura di nuovo con "chiaro" linguaggio: "non restare più in casa mia contro voglia"(489).
Si rivolge a lui direttamente, senza usare il plurale maiestatis, perché sa bene che il "problema" è più del suo amato che non dei suoi compagni. E non è un problema relativo alla patria o alla famiglia, ma alla sua stessa instabile identità, che trova pace solo nel conflitto, soddisfazione solo nel pericolo.
A questo punto Omero ha buon gioco nell'attribuire alla stessa Circe l'idea della partenza, come se lei già si aspettasse una richiesta del genere, e sulla base di una motivazione molto impegnativa (il viaggio nell'Ade), toglie Ulisse dall'imbarazzo di dover giustificare il proprio egocentrismo. E' Circe che indica a Ulisse la meta da seguire, come nessun altro personaggio del poema sarà mai capace di fare.
Fondamentali sono i versetti 496-98: "a me si spezzò il caro cuore: piangevo seduto sul letto e il mio cuore non voleva più vivere e vedere la luce del sole".
Ulisse si trova in questa lacerazione interiore perché da un lato non ha motivazioni plausibili per lasciare Circe (e Telegono), dall'altro non può tergiversare col proprio egoismo da eroe insoddisfatto, insaziabile d'avventure, che gli impone appunto d'andarsene.
Qui la psicologia è fine, perché Ulisse non è affatto intimorito dalla prova che l'attende, ma semplicemente imbarazzato dalle pulsioni del proprio individualismo, che devono tener conto in qualche misura del bene ricevuto.
Tant'è che ad un certo punto pone una domanda che chiarisce bene il suo vero stato d'animo: "chi lo guiderà questo viaggio?... non arrivò mai nessuno da Ade"(501-2). Cioè Ulisse non si preoccupa più di tanto dei sentimenti di Circe, di ciò ch'essa provava per lui, ma piuttosto di sapere come organizzarsi per intraprendere una nuova avventura, in cui forse avrà il privilegio d'essere il primo in assoluto.
La sua sensibilità, la sua psicologia è quella di uno schiacciasassi: i movimenti sono lenti, studiati, calcolati nei particolari, ma inesorabili. Sotto il suo peso, tutti i sassi sono uguali.
E quanto sia astuto è ben visibile anche laddove, con fare molto diplomatico, racconta l'atteggiamento ch'ebbe nei confronti dei suoi compagni: "li incitai con dolci parole stando accanto a ciascuno: - Non cogliete più il dolce sonno, dormendo, ma andiamo: me l'ha consigliato Circe possente"(546-9).
Il che contraddice visibilmente quanto già affermato prima da Omero, secondo cui furono i suoi compagni a redarguirlo del fatto che presso Circe stava godendosi la vita dimenticando il dovere di tornare in patria (472-4).
Ora invece si ha l'impressione che Ulisse debba convincerli di nascosto, uno per uno, e che riesca ad ottenere il loro consenso dopo non poche difficoltà. Tant'è che mentre questi vengono presentati come disposti a tornare a casa, Ulisse invece brama una nuova avventura: incontrare Tiresia nell'Ade.
Sarebbe forse un'ipotesi inverosimile sostenere che intorno all'improvvisa morte di Elpenore, che, stando alla versione ufficiale, sarebbe caduto dal tetto perché ubriaco vi era andato a riposare, vi è la mano di Ulisse? Il dissidio tra lui e i compagni non poteva forse aver raggiunto livelli insostenibili, specie in considerazione del fatto che ogniqualvolta Ulisse voleva intraprendere una nuova missione, il rischio per i suoi compagni era sempre quello di morire?
Il testo dice, ad un certo punto, che i compagni cominciarono a "piangere" e a "strapparsi i capelli"(567-8), proprio come prima Ulisse, solo che Omero, essendo il suo eroe uno che vuol farsi rispettare, non può che affermare perentorio: "nessun vantaggio però gli veniva piangendo"(568). E' l'epilogo di una certa, grave doppiezza.
Mentre se ne vanno piangendo verso la nave dalla chiglia nera, Circe, di nascosto, vuol lasciar loro un ricordino: "un montone e una pecora nera"(572), perché non si dimentichino di lei.
La chiusa omerica è altamente poetica: "un dio che non voglia, chi potrebbe vederlo con gli occhi mentre va qui o là?"(573-4).
Quei due animali non erano che un simbolo della relazione tra i due protagonisti: l'uso religioso che lui avrebbe dovuto farne è un altro discorso (527).

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Ultimo aggiornamento: 01 maggio 2015