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Libro X dell'Odissea
L'approdo sull'isola e l'incontro dei compagni di Ulisse con Circe

Dopo essere riusciti a evitare il primitivismo dei sardi Lestrigoni, Ulisse
e i suoi 46 compagni approdano all'isola Eea, presso il capo Circeo o in un
promontorio del Lazio, un tempo lagunoso. (1)
L'isola era abitata da Circe, figlia, secondo
alcuni, del Giorno e della Notte; secondo altri, del Sole e della Luna (Ecate) o
della ninfa Perse, "sorella germana di Aiete pericoloso"(137), "dea tremenda con
voce umana"(136). Aiete o Eeta fu padre di Medea e traditore degli
Argonauti.
Secondo una leggenda Circe sarebbe stata innamorata di Glauco, senza esserne
corrisposta, perché egli amava Scilla, che Circe, per gelosia, cambiò in un
mostro marino, dopo avere avvelenato la fonte presso la quale i due amanti erano
abituati a ritrovarsi insieme.
Gran carattere, questa Circe "dai bei riccioli"(136, 220), che Omero e tutte
le leggende qualificano come "maga", perché così appariva, ad una società non più
"naturalistica", come appunto quella omerica, chiunque avesse grandi conoscenze
delle proprietà terapiche o venefiche di erbe e radici, di cui l'isola peraltro
era ricca.
Circe viveva in luoghi remoti, non civilizzati, "tra la fitta macchia e la
selva"(150), in un'economia basata sull'autoconsumo di prodotti della terra, del
mare, della cacciagione (156-186), anche se i suoi "bei riccioli" fanno pensare
a una donna dell'alta società, ma che in realtà nel contesto indicano soltanto una
simbologia standardizzata di "bellezza femminile".
Quando i compagni di Ulisse la
incontrano scoprono che sapeva anche "tessere" perfettamente (222), come
Penelope, Calipso..., e che aveva una "voce bella" quando cantava (221). Altrove
si dirà che aveva conoscenze anche nel campo della marineria, in quanto insegnò
un nodo a Ulisse (VIII, 447-8).
Ulisse e i suoi compagni approdano casualmente nell'isola, essendosi perduti
in mezzo al Tirreno, e quando la comitiva di 23 uomini, andata in perlustrazione,
s'accorge delle abitazioni costruite "con pietre squadrate"(211) e "porte
lucenti"(230) in cui viveva Circe (2),
subito rimane colpita da un fatto molto strano: i lupi e i leoni che vi fanno la
guardia sono del tutto mansueti.
Euriloco, che comandava la spedizione, s'insospettisce di questo ma anche
del fatto che, abituato a distinguere il sacro dal profano, abituato a
considerare la religione come qualcosa di specifico, di oggettivamente
determinabile e di sicuramente contestualizzabile in uno spazio urbano, le
"porte lucenti", tali perché rivestite di bronzo, gli sembrano essere l'ingresso
non di un palazzo residenziale ma di un tempio sacro, cioè di un contenitore il
cui contenuto non gli è familiare.
Avendo perso la memoria di una religione i cui misteri altro non erano che
conoscenze naturalistiche, e non riuscendo a spiegarsi il contrasto tra ferocia innata e
mansuetudine acquisita da parte degli animali di guardia, decide di rifiutare
l'invito ad entrare fatto loro da Circe. Successivamente verremo a sapere dallo
stesso Euriloco che non erano animali feroci fatti diventare mansueti dalla
maga, ma uomini trasformati in docili bestie (433). Dalla paura del confronto al
pregiudizio: il passo, come si vede, è breve.
Lupi e leoni erano stati messi lì per scoraggiare i pavidi, per tenere alla
larga i curiosi. Sono mansueti a causa dei "filtri maligni" di Circe (213)
- scrive il misogino Omero -, ma a
lei servono semplicemente come forma di allarme: il fatto che si comportino
esplicitamente come animali domestici è indicativo della presenza di un carattere non ingenuo
da parte dei marinai, che avrebbero dovuto andarsene, vinti dalla paura, ma che
invece, abituati alle mille difficoltà di una vita travagliata, non si lasciano
intimorire più di tanto.
Il superamento di questa prova, unitamente al vociare roboante e corale con
cui chiamano Circe, è motivo sufficiente per farla agire nel modo come
vedremo.
"Diamole una voce"(228) non vuol dire semplicemente "chiamiamola", ma
"facciamoci sentire", ed è frase detta da Polite, che qui stranamente Ulisse
definisce "il più caro e fidato tra i compagni"(225), pur avendo egli affidato
la missione a Euriloco, il quale non rimase fuori per paura ma perché sospettoso
di trame e inganni, proprio come Ulisse.
Polite invece qui rappresenta, in quanto "capo di forti"(224), il tipo
spaccone, lo smargiasso, che non si lascia impressionare né dalle belve che in
teoria avrebbero dovuto essere feroci, né dalla lucentezza di un portone che
avrebbe dovuto indicare la riservatezza di un luogo sacro (forse dedicato ad
Atena).
E' Circe che, vedendo questo, ha già capito con chi ha a che fare, memore di
amare esperienze passate: se quegli uomini vogliono entrare solo perché vedendo
una donna sola in un palazzo del genere pensano di poterla circuire come
vogliono, fare di lei oggetto del loro arbitrio, avranno - secondo una felice legge
del contrappasso, visibile anche laddove viene usato lo strumento della "verga"
- ciò che meritano.
Poiché sa cosa piace agli uomini: avere potere e godere, Circe offre loro di
sedersi su "troni e seggi"(233) e di cibarsi a sazietà con "formaggio, farina
d'orzo, pallido miele, vino di pramno"(234-5), cioè in sostanza una dolce torta
accompagnata con vino rosso e asprigno, facendo loro credere che il "bello" deve
ancora venire.
Circe sa di non potersi difendere in altro modo che con l'inganno: è troppo
grande la sproporzione tra la sua cultura, le sue forze, la civiltà ch'essa
rappresenta e il mondo del nemico che la circonda; l'uso stesso della verga
appare come un tentativo un po' puerile di dimostrare che dietro gli effetti
dell'infuso di bromuro si celava una sorta di magia.
Curioso che come conseguenza della trasformazione in porci, Omero ponga la
dimenticanza della "patria" (qui del tutto fuori contesto) e non la perdita
della virilità maschile, il che poi lo fa cadere in palese contraddizione quando da un
lato dice che dovevano "obliare del tutto la patria"(235-6) e dall'altro che
avevano "la mente ben salda"(240).
La condanna in realtà era proprio questa, ch'essi dovevano sentirsi uomini
solo nella mente, mentre nel corpo erano diventati come eunuchi, anche se
simbolicamente trasformati in maiali. (3)
Euriloco, rimasto fuori, non può aver visto la metamorfosi ferina dei
suoi compagni; al massimo si era impensierito del fatto che non erano più
tornati indietro, e per questo s'era convinto che fossero tutti misteriosamente
morti. Qui ci sono due versetti che cozzano tra loro: il 244, ove si dice che
"in fretta tornò alla nave", col che il lettore può anche pensare ch'egli avesse
visto la suddetta trasformazione, e il 260, in cui al contrario è scritto che
"rimase a lungo a spiare" (con le porte serrate "spiare" qui vuol dire
semplicemente "attendere").
Sia come sia, è qui interessante il fatto che l'intrepido Euriloco, "simile
a un dio"(205), una volta ritornato alla nave, appaia come un codardo: Circe
l'aveva talmente terrorizzato, senza peraltro fargli nulla, ch'egli non ha
neppure la forza di riferire i fatti, e quando Ulisse gli chiede di
accompagnarlo sul posto, egli declina immediatamente l'invito temendo di fare la
stessa fine.
Non si tratta solo di un escamotage dell'autore di far risaltare l'eroismo
di Ulisse, nel confronto coi suoi compagni (sotto questo aspetto la cosa, pur
avendo un contenuto drammatico, appare quasi divertente), ma si tratta anche del
fatto che qui Euriloco rappresenta la coscienza moderna che teme il
passato o un presente non facilmente decifrabile e lo fugge senza soluzione di continuità.
Egli ha paura che il passato prenda il sopravvento sul suo presente e supplica
Ulisse di lasciarlo sulla nave, cioè di non riportarlo in un luogo e in un tempo
le cui coordinate semantiche gli sfuggono completamente. Ulisse insomma se la
deve veder da solo con Circe.
[1] Relativamente alla posizione e alle caratteristiche geografiche
dell'isola Eea viene detto nel sito
www.circei.it/leggenda/maga/maga.htm:

Già all'inizio del VII secolo a.C., in seguito alla navigazione dei
Calcidici, l'Isola Eea viene identificata col Circeo. Le affermazioni di Omero
sono state avvalorate da altri storici, poeti e scrittori di scienze naturali,
come Esiodo nella sua Teogonia, Eschilo, Teofrasto, Presudo-Scylax, Apollonio
Rodio nelle Argonautiche. Infine Strabone in età augustea, il quale asserisce
che al Circeo i sacerdoti mostravano sia il sepolcro di Elpenore che la coppa di
Ulisse e i rostri della nave. Nel libro V° della "Geografia" egli scrive che "a
290 stadi da Antium c'è il monte Circeo, che sorge come un'isola sul mare e
sulle paludi. Dicono che sia anche ricco di erbe... Vi è un piccolo
insediamento, un santuario di Circe e un altare di Atena; viene anche mostrata
una tazza che, a quanto dicono, sarebbe appartenuta ad Odisseo...".
Diversa era la conformazione delle dune che oggi dividono il mare dal lago
di acqua salmastra denominato "Lago di Paola". (mappa
grotte)
Le dune, nel 3200 a.C., si distribuivano su due grandi linee parallele alla
costa di Sabaudia, come, in egual modo, erano le altrettante posizionate dal lato
della costa che separa San Felice Circeo da Terracina (quest'ultime sono ormai
scomparse e non esiste più alcun lago salmastro, ma ricchi documenti fotografici
ne avvalorano la passata esistenza).
Le file di dune più arretrate costituivano piccole catene di colline (nella
località Molella e Ceraselle si possono ancora oggi vedere dei piccoli colli che
si ramificano man mano che si estendono lungo la direttrice che porta verso
Sermoneta).
Queste colline erano ricoperte di lecci e sughere, come ancor oggi se ne vedono
in località "La Bagnara".
Le dune si univano sotto il monte Circeo collegandolo alla terra ferma con una
bassa lingua di sabbia. Era un fragile e sottile istmo, l'attuale località "La
Cona": il mare lambiva questa terra e la modificava ad ogni suo cambiare di
correnti. Per brevi periodi venivano asportate dai flutti le sabbie rendendo
periodicamente il promontorio un'isola.
Avvenne poi la definitiva saldatura con la creazione di due grandi insenature,
una di levante e l'altra di ponente, tanto che le stesse rendevano al
promontorio l'aspetto illusorio di un'isola.
Avvicinarsi troppo alla costa era un problema. Infatti la particolare
tecnica di navigazione e la tipologia delle vele delle fragili imbarcazioni di
allora, in caso di tempo cattivo, non permettevano di doppiare il Monte Circeo,
tanto che molti si schiantavano sulle sue coste. Fu proprio per risolvere questo
problema che i Romani costruirono un canale interno che evitava il periplo del
promontorio.
Il porto di Paola doveva servire come approdo di emergenza da
utilizzare per lo stretto necessario. Dopo il cattivo tempo, rimanere a lungo
in questo porto poteva essere rischioso per il pericolo dell'occlusione
dell'accesso al golfo a causa del depositarsi di sabbie.
Esistono inoltre delle strutture, denominate "Ciclopiche", individuate in
lunghi muraglioni (in parte ormai scomparsi di cui ne rimane traccia di
fondamenta), con spessore di vari metri. Queste strutture discendono dai
versanti del promontorio del Circeo per collegarlo al versante marino di Levante
e alla pianura Pontina (scavalcando la collina di Monticchio), nonché per unire
gli estremi apicali opposti del Promontorio.
Ulisse, partendo dalle sponde del lago di Paola, seguirà i larghi
muraglioni, attraversando le colline di lecci e sughere per giungere, dopo aver
superato il fiume di Mezzo Monte, sul Promontorio del Circeo.
Potenzialmente l'antica città dei Circei doveva essere abitata ancora dai
suoi costruttori che periodicamente diminuivano di numero, in quanto dovevano
badare alle greggi che stagionalmente facevano transumare nei vicini monti al di
là della pianura Pontina.
Rimaneva a guardia della rocca un gruppo di uomini, forse comandati da una
regina o sacerdotessa. Questo nucleo suppliva alla sua ridotta entità numerica
con l'astuzia e l'approntamento di trappole, l'uso delle quali, da parte di un
popolo comandato da una regina-sacerdotessa, rimase impresso tra i navigatori di
allora, quali Fenici e Greci.
[2] Il palazzo ha fatto pensare alle strutture delle regge
micenee, ma anche ad antichi monumenti di tipo religioso (dolmen?). (torna
su)
[3] Il farmaco narcotizzante o paralizzante di Circe (225-6)
è simile a quello usato da Elena (IV, 219-30) e lo si pensa proveniente
dall'Egitto. (torna su)
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