IL DIRITTO ALLA CULTURA: FAIR USE NO COPYRIGHT

IL DIRITTO ALLA CULTURA
FAIR USE NO COPYRIGHT


IPOTESI DA DISCUTERE 1-2-3-4-5-6-7-8-9

CHE COSA RENDE COMMERCIALE UN SITO?

Che cosa qualifica un sito come “commerciale”? Se riusciamo a stabilire questo, indirettamente potremo dire quali siti sono senza fini di lucro, cioè didattici o culturali o amatoriali non commerciali.

Secondo me un sito è commerciale:

  1. quando chiede una registrazione a pagamento per accedere ai suoi contenuti;
  2. quando chiede, pur in presenza di una registrazione gratuita, il pagamento per l’utilizzo di un contenuto specifico;
  3. quando esiste un business to consumer, e quindi quando è ben visibile lo strumento del carrello, in cui i pagamenti possono essere fatti con carta di credito (bancaria, postale ecc.), bonifico bancario, vaglia postale, c/assegno ecc.;
  4. quando esiste un business to business, e quindi quando è ben visibile la presenza di un’area riservata, cui si può accedere solo tramite login e password;
  5. quando il sito si avvale di inserzionisti a pagamento, cioè in maniera evidentemente commerciale.

In generale si dovrebbe dire che il “lucro” c’è quando per la fruizione del sito si vende qualcosa: o di materiale o di immateriale, o di beni o di servizi, oppure quando si diventa collettori di pubblicità altrui.

La posizione della Siae, sotto questo aspetto, ha dell’incredibile, in quanto essa considera un’attività didattica svolta in area riservata, protetta da password, del tutto legale anche quando fatta con materiale sotto copyright. Per essa vi è più differenza tra area privata e area pubblica, che non tra sito commerciale e non commerciale.

Quindi la Siae non può sapere se un docente in un’area privata mette a pagamento materiali protetti da copyright. Di fatto è preferibile per la Siae che un docente metta a disposizione, anche a pagamento, materiali protetti in un’area riservata, piuttosto che offrire gli stessi materiali gratuitamente in pubblico.

Questo perché evidentemente per la Siae l’accesso a un’area riservata è generalmente consentito a poche persone o comunque riguarda un’infima minoranza rispetto all'utenza che può accedere a un'area pubblica, per cui il danno patrimoniale, nel primo caso, può essere quanto meno tollerato.

Inoltre chi accede ad un'area riservata non può editare pubblicamente i materiali scaricati o acquistati o comunque utilizzati.

Qui naturalmente è noto che la Siae parte dall’assunto, del tutto sbagliato, che un lavoro culturale su un’opera protetta, di cui non è stata chiesta l’autorizzazione per l’uso, costituisca di per sé un danno materiale, a prescindere dal fatto che proprio con quel lavoro culturale si sia invece incrementato economicamente il valore di un’opera, seppure in forma indiretta.

Sotto questo aspetto comunque, se esistesse una legge adeguata, chiunque gestisca un’area riservata dovrebbe esplicitarne ufficialmente l’uso (se gratuito o a pagamento) e i materiali contenuti (se gratuiti o a pagamento e se protetti o meno da copyright).

Vediamo adesso come può essere definito il concetto di “inserzionista”. Do delle risposte personali, non legali.

L’inserzionista è colui che paga un’inserzione commerciale che vincola l’utente a compiere una determinata azione prima di permettergli di accedere ai contenuti di un sito.

Chi paga per un’azione del genere stabilisce un rapporto commerciale e contrattuale col titolare del sito.

Queste azioni possono essere di vario tipo:

  1. il banner o logo o marchio o altro elemento si trova direttamente dentro il testo, il brano musicale, l’applicativo ecc., in una parola dentro l’oggetto telematico che si vuole utilizzare, per cui l’utente non può prescindere dal vederlo, dal leggerlo, dal sentirlo, né può rimuoverlo;
  2. il banner o logo o marchio o altro elemento si pone all’attenzione dell’utente in via preliminare, obbligandolo, per poter leggere, visionare, scaricare il contenuto di un sito, o a guardare il banner per un certo periodo di tempo o addirittura a cliccarci sopra;
  3. l’utente non può uscire da un sito se prima non visiona un determinato spot pubblicitario;
  4. per poter accedere ai contenuti di un sito l’utente è costretto a usare un dialer a pagamento;
  5. l’inserzionista può essere anche colui che paga semplicemente la propria visibilità in un determinato sito, a prescindere da qualunque azione possa fare l’utente; in tal caso però l’inserzionista deve avere un contratto commerciale col proprietario del sito.

Domanda: gli ad-sense di Google rendono “commerciale” un sito? Secondo me no, per due ragioni:

  1. Google non paga la presenza delle proprie inserzioni nei siti ospitanti; infatti occorre che l’utente ci clicchi sopra;
  2. gli ad-sense di Google non vincolano in alcun modo la fruizione dei contenuti di un sito.

Altra domanda: un circuito banner rende commerciale un sito? No, perché i banner possono essere ospitati a titolo gratuito, come scambio alla pari per la reciproca visibilità.

L'obiezione che spesso si fa a tali ragionamenti è la seguente: un'attività commerciale, per essere tale, non è obbligatorio che sia in attivo. Conta l'attività svolta, indipendentemente dal fatto che questa riesca a far fruttare quattrini. D'altronde è perfettamente normale che un'attività possa essere in passivo, o che faccia guadagnare poco.

A questa obiezione si può però rispondere che mentre un'attività didattica può anche essere svolta in forma del tutto gratuita ad libitum, è impossibile che possa esserlo anche un'attività commerciale, proprio perché chi la esercita deve necessariamente pagare delle spese, deve fatturare un certo reddito per potersi permettere la gestione di una partita iva.

Chi fa attività commerciale senza essere iscritto al registro delle imprese è sempre fuorilegge, anche se non guadagna nulla. La legge parla chiaro: chi vuol fare commercio in rete deve essere iscritto al registro delle imprese e deve dare comunicazione al Comune nel quale risiede.

Il D. Lgs. n. 114/98 (Decreto Bersani) non si applica: a chi non vende al consumatore finale (ossia chi effettua forme di vendita all'ingrosso in rete); a chi venda o esponga per la vendita le proprie opere d’arte, nonché quelle dell’ingegno a carattere creativo; agli industriali; agli enti pubblici per la vendita di pubblicazioni o altro materiale informativo sulla loro attività.

Il Commercio Elettronico consiste nello svolgimento di attività commerciali e di
transazioni per via elettronica e comprende attività diverse quali: la
commercializzazione di beni e servizi e la distribuzione di contenuti digitali on-line,
l’effettuazione via internet di operazioni finanziarie e di borsa, e in genere ogni
iniziativa a supporto dell’attività commerciale di un’azienda che venga svolta sulla rete.

Si può fare commercio elettronico per conto terzi (p.es. Google) senza essere iscritti al registro delle imprese? Cioè ha senso sostenere che chi fa un contratto con Google per avere i suoi ad-sense si espone al rischio di diventare un sito commerciale?


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Diritto
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Aggiornamento: 22/04/2015