L'EPOPEA DI GILGAMESH
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Scoperta del poema La scoperta in epoca moderna della saga di Gilgamesh avvenne intorno al 1870 grazie al lavoro dell'assiriologo inglese George Smith che ne diede notizia nel corso di una concitata assemblea della Società londinese di Archeologica Biblica.
Vorrei qui ricordare alcuni punti fondamentali. Questo documento non solo rivelò al mondo l'esistenza di una letteratura precedente a quella greca e biblica, ma addirittura confermò narrazioni contenute nell'Antico Testamento (qualche esempio è fornito nella monografia sui regni di Giuda e Israele). La sua scoperta pertanto diede un fortissimo impulso agli studi biblici, alla nascente assiriologia, all'epigrafia ed ovviamente all'archeologia mediorientale. Il rapporto con la Bibbia e l'interesse che ne scaturì segnò la fase iniziale dello studio della cultura mesopotamica. Col tempo, tuttavia, si cominciò a considerare le creazioni letterarie degli antichi popoli della Mesopotamia per il loro valore intrinseco. La più alta opera poetica di queste culture scomparse fu, fin dal principio, considerata l'epopea di Gilgamesh, dove la materia mitologica si era piegata per esprimere le più segrete e perenni inquietudini dell'uomo... Il 3 dicembre 1872, a Londra, durante un’assemblea della Società Archeologica Biblica (1), fu comunicata una sensazionale notizia: fra le migliaia di tavolette d’argilla riportate alla luce dagli archeologi in Mesopotamia (2) era stata identificata una versione caldea del Diluvio universale (p. 22 McCall 95, p. 82 Pet 1992). L'annuncio provocò enorme stupore perché la scoperta mostrava che un testo pagano anticipava e confermava narrazioni contenute nell'Antico Testamento. Lo scopritore, George Smith (fotogr. p. 47, Bot 1994), era un ex-incisore della Zecca di Stato inglese: mentre ricercava e ordinava i testi assiri di contenuto mitologico, si rese conto di avere identificato un racconto molto simile a quello narrato nel testo sacro: «Trovai presto la metà di una curiosa tavoletta che doveva contenere in origine sei colonne di testo… Esaminando la terza colsi la descrizione di una nave approdata sopra i monti Nisir, seguita dal resoconto della vana missione della colomba in cerca di un posto dove posarsi e del suo ritorno. Capii immediatamente che avevo scoperto almeno una parte del racconto caldeo del Diluvio» (Smi 1876 p. 4, traduzione T. Porzano). Le due righe faticosamente lette da Smith fanno parte del racconto del Diluvio contenuto nella XI tavola dell’Epopea di Gilgamesh, che lo stesso Smith, proseguendo le ricerche, avrebbe presto identificato. L'antefattoQuando Smith si apprestava a comunicare al mondo il frutto dei suoi studi aveva 32 anni ed era animato da una passione incontenibile per tutto ciò che riguardava le scoperte in Medio Oriente. «Ognuno ha qualche inclinazione, che se è accompagnata da circostanze favorevoli, darà un senso al resto della sua vita. La mia personale predisposizione è stata sempre rivolta agli studi orientali e fin dalla giovinezza ho provato sempre un gran interesse per le esplorazioni e le scoperte del Medio Oriente, specialmente nel grande lavoro in cui furono impegnati Layard e Rawlinson» (George Smith, Assyrian Discoveries, London 1875, p. 9). I due inglesi citati sono strettamente legati alle sensazionali e controverse scoperte dei primi palazzi assiri, che tanto appassionarono l’opinione pubblica. Sir Henry Layard era noto soprattutto per aver riportato alla luce tra il 1845 e il 1851 due capitali assire, Calah (la moderna Nimrod) e la famosa Ninive, simbolo del potere invincibile di questo popolo, mentre Sir Henry Rawlinson venne alla ribalta per aver contribuito alla decifrazione dell'antica lingua persiana. Molto di ciò che era stato trovato da Layard in Medio Oriente venne portato, non senza difficoltà a Londra, e nell’ottobre del 1848 fu inaugurata al British Museum la prima collezione inglese di antichità assire. Nelle gallerie del British Museum, fra gli stupendi ortostati in cui erano incise scene di guerra e di massacri (fotogr. p. 36, Bot 1996), il "riposo sotto il pergolato del re assiro" (fotogr. p. 30, Bot 1996) e la famosa caccia al leone del re Assurbanipal (fotogr. p. 68, Bot 1994), accanto all’obelisco nero di Salmanassar III, agli stupendi e maestosi leoni androcefali alati (fotogr. p. 41, Bot 1994), George Smith soleva passare gran parte del suo tempo libero. Il suo interesse per gli Assiri era accresciuto dal profondo significato religioso che questo mondo, da poco riportato alla luce, cominciava a rivelare, coinvolgendo la veridicità storica dei racconti biblici. Fino al 1843, quando fu riportato alla luce il primo palazzo assiro per opera di un francese, Paul-Emile Botta, al di là delle parziali notizie forniteci dalla Bibbia e da alcuni storici greci, quasi nulla si conosceva degli Assiri, e la fortuna volle che i primi reperti archeologici appartenessero proprio ai re menzionati nel Testo Sacro: Salmanassar III e V, Tiglat-Pileser III (menzionato con l’appellativo Pulu), Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon. Le collezioni assire esposte nel British Museum sembravano così dar vita ai racconti biblici in cui si narrava la sottomissione dei regni di Giuda e Israele alla potenza di Assur, la presa di Samaria e la deportazione degli Israeliti a Calah, soprattutto nel II libro dei Re (XVII-sgg.) (3). Ma per comprendere i rapporti tra gli Assiri e gli antichi ebrei era necessario conoscere la lingua assira, così da leggere ciò che era scritto sui reperti archeologici. Smith si apprestò dunque sulla scia di Rawlinson a studiare l’accadico, la lingua assiro-babilonese. L’interesse di Smith per possibili paralleli tra la storia assira e quella biblica era condiviso da tutti gli orientalisti. Possiamo anzi affermare che il grande impulso che ebbero, fin dalla metà del secolo scorso, gli scavi archeologici di Ninive e di Muqayyar - quest’ultima esplorata a più riprese fin dal 1625, ma identificata solo in quegli anni come la famosa Ur dei Caldei, la città di Abramo secondo la Genesi (XI, 28) - fu dovuto essenzialmente al desiderio di dimostrare la veridicità storica della Bibbia. La prima scoperta di un parallelismo fra gli annali assiri e la storia biblica avviene quando Smith studia l’obelisco nero di Salmanassar III (4). Ma la scoperta che rese Smith immortale avvenne quando egli cominciò a studiare la collezione Kouyunjik proveniente dalla biblioteca di Assurbanipal: «Avevo raggruppato l'intera collezione di iscrizioni cuneiformi
del British Museum in sei sezioni per comodità di lavoro. Una di queste era
dedicata alle "tavolette mitologiche". Essa conteneva tutte le tavolette con
miti e leggende relative a divinità, oltre a preghiere e iscrizioni
religiose. La serie di "Izdubar"Fu così che Smith giunse al ritrovamento di un incredibile documento: «Cominciando un'attenta ricerca fra questi frammenti, trovai
presto la metà di un'interessante tavoletta che in origine doveva probabilmente
contenere sei colonne di testo. Due di queste (la terza e la quarta) erano
ancora quasi in perfetto stato; altre due (la seconda e la quinta) conservate
solo a metà; le rimanenti colonne (la prima e la sesta) erano andate
perdute. Mettendomi a studiare il documento compresi
che era nella forma di un discorso diretto, rivolto dall’eroe del Diluvio ad una
persona il cui nome sembrava essere Izdubar (5). Mi ricordai allora di un altro frammento, che avevo
in precedenza catalogato come K.231, relativo allo stesso eroe Izdubar. Mi
accorsi che i reperti appartenevano alla stessa serie e iniziai una ricerca di
tutti i frammenti mancanti. Come riuscì Smith a identificare l’esatto numero delle tavole? Egli in fondo aveva solo ricostruito parte dell’undicesima tavola e riconosciuto un frammento della sesta! Ebbene, gli scribi mesopotamici avevano escogitato un sistema interessante dai notevoli risvolti pratici: alla fine di ogni tavoletta essi scrivevano oltre al numero d’ordine - tavola I, tavola II, tavola III, ecc. - anche la riga iniziale della serie. A quel tempo non esisteva la pratica di assegnare un titolo ad un’opera limitandosi a indicarla con la sua prima riga di testo. Così alla fine della I tavola dell’Epopea lo scriba aveva inciso il seguente colofone: Tavola prima. "Di colui che vide ogni cosa". Serie di
Gilgamesh Inoltre la tavola seguente iniziava con l’ultima riga della tavola precedente. Smith era riuscito a ricostruire, della tavola XI, anche la sesta e ultima colonna dove era inciso il colofone, e non gli fu difficile intuite che ci dovevano essere almeno altre 10 tavole della stessa opera. Al lettore/lettrice suggerisco una digressione sulla prima geniale ricostruzione di Smith dell'epopea. Le reazioniLa relazione di Smith all’assemblea della Società Archeologica Biblica suscitò forte clamore: «Nella mia conferenza all'assemblea sulle tavolette del Diluvio, fornii un resoconto generale delle leggende di Izdubar ed espressi personale convinzione che le iscrizioni caldee contenessero molti altri racconti strettamente connessi col libro della Genesi, che avrebbero stimolato grande interesse» (Smi 1876 p. 6, traduzione T. Porzano). e persino importanti conseguenze: «Fu proprio in questa occasione che avvenne l'intervento dei proprietari del quotidiano "Daily Telegraph". Immediatamente dopo la mia conferenza, il signor Edwin Arnold, caporedattore del giornale, che già in passato mi aveva espresso il suo interesse per queste scoperte, mi presentò un’offerta dei proprietari del "Daily Telegraph": riprendere, a loro spese, gli scavi in Assiria per aggiungere nuovi elementi al soggetto di questi miti. Questa offerta venne sottoposta ai curatori del British Museum che mi concessero sei mesi durante i quali avrei dovuto recarmi in Assiria e condurre gli scavi» (Smi 1876 p. 6, traduzione T. Porzano; le vicende di questa spedizione sono argomento di un altro libro di Smith, Assyrian discoveries, 1875). L’iniziativa del Daily Telegraph corrispondeva ad una concezione dilettantesca, sportiva, della ricerca archeologica. Allora l’archeologia non era considerata una professione vera e propria, ma prevalentemente come un affascinante hobby. Basti pensare che Paul-Emile Botta, lo scopritore di Khorsabad, scavava quando la sua professione di console a Mossul glielo permetteva e Henry Layard iniziò la sua avventura nutrendo però la segreta speranza di intraprendere la carriera diplomatica. Ciononostante Botta e Layard, così come gli altri "archeologi" del tempo, sono stati veri e propri pionieri dell’archeologia. Smith comunque rispetto a loro era totalmente inesperto, e uomini come Layard e Hormuzd Rassam, che vent’anni prima avevano scavato a Ninive, sarebbero certo stati più adatti per questa nuova missione, ma ambedue erano già impegnati altrove: Layard in Spagna, Rassam a Aden per svolgere un delicato incarico politico per conto del Governo delle Indie. La scelta cadde così su Smith. Smith in MesopotamiaDopo tre mesi di viaggio per mare e per terra, Smith giunge a Mossul e, ottenuti i permessi necessari dalle autorità turche, il 7 maggio comincia lo scavo a Kouyunjik, nel sito dove era stata trovata la Biblioteca Reale di Assurbanipal. E il 14 maggio raggiunse il suo scopo: «Trovai un nuovo frammento della versione caldea del diluvio appartenente alla prima colonna della tavoletta [maggior parte delle prime diciassette righe], relative l'ordine di costruire e allestire l'arca. Questa scoperta colmò in pratica la più grave lacuna nel racconto» (Smi 1876 p. 6-7, traduzione T. Porzano). Sappiamo oggi che il frammento trovato da Smith non faceva veramente parte del racconto del Diluvio dell’Epopea ma di un’opera più antica, l’Atramkhasis, alla quale l'epopea in parte si ispirava. Nell’Atramkhasis l'episodio del Diluvio occupa solo la parte finale dell'opera. Successivi ritrovamenti rivelarono che l'Atramkhasis si occupava principalmente dell'origine del mondo e della creazione dell'uomo, rivelando straordinarie influenze sul racconto della Genesi. Le ricerche di Smith portarono alla scoperta di molti capolavori della letteratura mesopotamica, in redazione assira. Oltre alle leggende di Izdubar Smith scoprì varie versioni del mito della creazione (nota oggi col titolo Enuma Elish), la Discesa agli inferi e il mito di Etana. Ma Smith continuò a imbattersi nelle vicende di Izdubar scoprendo un frammento che descriveva la sconfitta del toro celeste di Ishtar da parte di Izdubar e Heabani (Gilgamesh e Enkidu) appartenente alla sesta tavoletta. E' possibile dare un'idea di quanto fosse faticoso e complicato il lavoro dei primi assiriologi osservando la figura a fianco. Rappresenta la ricostruzione di Smith di una delle tre copie dell'undicesima tavola partendo da ben 16 frammenti di terracotta. Dopo aver telegrafato la notizia al Daily Telegraph parve ai finanziatori che Smith avesse raggiunto lo scopo che quindi si rifiutarono di finanziare ulteriormente gli scavi. Smith, così, fu indotto, con suo grande disappunto dato che gli scavi erano appena iniziati, a tornare a Londra. Le scoperte di Smith non finiscono qui. Negli anni che gli restarono da vivere - morì infatti a soli 36 anni - si recò a Ninive altre tre volte e ogni volta la sua ricerca fu coronata da successo, riportando alla luce circa 2.300 tavolette e acquistandone a Bagdad altre 2000. L’ultimo viaggio gli fu fatale: morì nella città di Aleppo, in Siria, il 19 agosto del 1876. In vita Smith non ricevette alcun titolo accademico per le sue scoperte ma ugualmente si distinse per il grande rispetto verso i colleghi (Rawlinson soprattutto). L'introduzione al Chaldean account of Genesis (1876) è rivelatrice dell'ammirevole onestà intellettuale e senso critico verso il proprio lavoro di Smith: «L'attuale condizione dei miti e la loro recente scoperta mi impedisce di definire la mia opera qualcosa di più di un lavoro provvisorio [...]. Ho evitato alcuni importanti confronti e conclusioni nei confronti del libro della Genesi poiché il mio primo desiderio è stato di ottenere il riconoscimento dell'evidenza senza pregiudizi» (Smi 1876 p. VII, traduzione T. Porzano). Uno, cento, mille GilgameshSmith e Rawlinson pubblicarono nel 1875 le Cuneiform Inscriptions of Western Asia. Il quarto volume dell'antologia conteneva un'esauriente ricostruzione della VI e XI tavola dell'epopea. Ma questo fu solo l'inizio: dopo la morte di Smith, il lavoro di ricomposizione e traduzione del poema fu continuato da altri. Apparvero varie traduzioni dell'Epopea in inglese, in francese e in tedesco via via sempre più aggiornate grazie al rinvenimento continuo di nuove tavolette relative all'Epopea. Verso il 1930 erano state recuperati frammenti da tutte le dodici tavole dell'epopea ninivita. Nonostante i continui ritrovamenti (come quelli recenti di Tell Haddad, p. 22 Sap 2001) l'epopea rimane in buona misura lacunosa. A volte è quindi necessaria l'integrazione del testo canonico da fonti più antiche come il poema paleobabilonese o l'Atramkhasis. L'operazione è, pur con le dovute cautele, non audace dato che, a volte, i miti più antichi sono ripresi parola per parola nella versione ninivita. I poemetti sumericiGià nel 1889 gli scavi condotti a Nippur da John Punnet Peters per conto dell'università di Philadelphia avevano portato alla luce documenti su Gilgamesh risalenti addirittura al periodo sumerico (III millennio a.C.). Conosciamo almeno cinque poemetti sumerici. Essi presentano, indipendentemente uno dall'altro, temi o vicende che confluiranno (ma solo in parte) nel poema paleobabilonese e nell'epopea classica.
Questi poemetti non costituivano un corpus epico unitario (vedi gli incipit sparsi nei cataloghi). Infatti Gilgamesh, se vi compare, ha ruoli molto eterogenei (avventuriero, sovrano di Uruk, giudice dell'oltretomba, fratello di Ishtar dea dell'amore, ecc.). Un'aggiornata versione dei poemetti è disponibile in Geo 1999. Il poema paleobabiloneseNel 1902 il tedesco Bruno Meissner pubblicò il testo di un manufatto antecedente di oltre mille anni la versione ninivita. Il documento, di epoca paleobabilonese e proveniente da Sippar, conteneva - a differenza dei poemetti sumerici - un testo molto simile a quello contenuto nell'epopea (tav. X). Quindi il testo paleobabilonese era quasi sicuramente servito da modello per il canone. Alla tavoletta Meissner (nota come la tavoletta di Berlino, dal nome del museo dov'è attualmente conservata) se ne aggiunsero con gli anni altre, tutte appartenenti al cosiddetto poema paleobabilonese (1800 a.C.). Sono pochissimi documenti d'immenso valore storico-letterario e vale la pena citarli tutti:
Il poema è il primo vero tentativo di composizione epica unitaria sulle gesta del re di Uruk. Venne compilato nel periodo della prima dinastia di Babilonia con il suo re prestigioso Hammurabi noto per il "primo" codice delle leggi (i primi codici sono in realtà di epoca sumerica). Dalla tavoletta di Berlino e Londra sono tratti i seguenti versi, tra i migliori tramandataci dalla letteratura mesopotamica: "Gilgamesh, dove vai? La vita che cerchi, non la troverai. Quando gli dei crearono l'umanità le assegnarono la morte, e tennero per sé la vita! Riempi il tuo stomaco, Gilgamesh. Fai festa giorno e notte, i tuoi vestiti siano puliti! Lava il tuo capo, lavati con acqua! Gioisci del bambino che ti tiene per mano, possa tua moglie godere di te. Questo è il destino degli uomini!" (riportati in Sap 2001, pp. 161-162) Questi sono praticamente gli ultimi versi di quanto ci è rimasto del poema di Gilgamesh. Il protagonista, vagando alla ricerca del segreto per sfuggire alla morte, viene ammonito da Siduri, la taverniera di Shamash (dio della giustizia) per aver trascurato l'esercizio del potere cercando una chimera. Non sappiamo se il poema contenesse la narrazione del diluvio ma è certo che conteneva almeno l'incontro di Gilgamesh col lontano antenato che sopravvisse al Diluvio. E' interessante osservare che praticamente tutti questi frammenti appartenenti al poema paleobabilonese ci sono pervenuti in ottimo stato di conservazione. Infatti non furono rinvenuti scavando tra le rovine di antiche capitali bensì sulle bancarelle degli antiquari! La tavoletta Meissner fu acquistata nel 1902 da un rivenditore di Bagdad. Anche la tavoletta di Pennsylvania fu acquistata da un antiquario nel 1914 per conto dell'università di Philadelphia. L'università di Yale si rivolse allo stesso mercante d'arte per l'acquisto della continuazione della tavoletta della Pennsylvania (tavola III). Non è casuale che alcune tavolette siano una prosecuzione dell'altra. Infatti, l'interesse per gli occidentali stimolò iniziative illecite degli antiquari che, spesso spezzavano le tavole in più pezzi contando su un maggiore profitto derivante da più di un acquirente. L'esempio più scandaloso ci è dato dalla celeberrima tavoletta di Londra e Berlino. Essa è formata dalla tavoletta Meissner (conservata a Berlino) e da un frammento comprato nel 1902 presso lo stesso antiquario da G.F. Loftus per conto del British Museum. Questo secondo frammento venne riscoperto negli archivi del museo londinese da A.R. Millard soltanto nel 1964. Le saghe mediobabilonesiOltre all'epopea ninivita e al poema paleobabilonese si scoprirono redazioni di epoca intermedia al di fuori della Mesopotamia (Siria, Anatolia, Palestina) scritte in lingue diverse dall'accadico: ittita (lingua non semitica ma indoeuropea), elamico e hurrico. Era la dimostrazione che il successo riscosso dalle storie di Gilgamesh in antichità aveva valicato confini geografici e culturali. Queste versioni mediobabilonesi sono in genere più simili al poema paleobabilonese che all'epopea ninivita. Talvolta però contengono varianti autonome che stanno a significare che le avventure di Gilgamesh venivano riadattate ai gusti del pubblico. Le differenze tra queste versioni naturalmente moltiplicano l'interesse per il Gilgamesh. Se l'epopea canonica, per economia della narrazione, sacrifica meravigliosi dialoghi o dettagli, possiamo arricchirla - pur mantenendo le dovute distinzioni - dalla lettura delle versioni "apocrife". Per esempio la splendida tavola X (le peregrinazioni di Gilgamesh) è molto lacunosa. Poco male: la versione mediobabilonese ittita ci svela il mistero di "quelli-di-pietra", il poema paleobabilonese (tavoletta di Berlino) arricchisce il dialogo tra Siduri e Gilgamesh sul senso della vita, la versione mediobabilonese elamita contiene una variante che richiama il mito di Etana (la ricerca della pianta della fertilità). "Babel und Bibel"Il ritrovamento di Megiddo mostra che l'Epopea di Gilgamesh era conosciuta in Palestina prima del X secolo, cioè prima dell'arrivo degli Ebrei nella terra promessa. La stessa versione del diluvio contenuta nell'Atramkhasis (che non è nemmeno la più antica se rapportata al sumerico mito di Ziusudra) ed inglobata nell'Epopea, è molto più antica della versione biblica del diluvio che risale al più tardi all’ottavo secolo. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 gli studiosi si accorsero che il racconto biblico derivava, attraverso una sapiente rilettura in chiave monoteistica, più o meno direttamente da quello babilonese. A questo risultato si pervenne ufficialmente il 13 gennaio 1902 nel corso di un convegno della Società Orientale Tedesca (p. 24 McCall 95). In questo incontro l'assiriologo tedesco Friedrich Delitzsch, stupì il pubblico (e tra i presenti lo stesso Kaiser Guglielmo II) con la relazione intitolata Babel und Bibel. Delitzsch presentò traduzioni aggiornate che mostravano che la Bibbia non era, come si era fino ad allora creduto, il più antico libro del mondo, ma che era stata preceduta da una letteratura di epoca anteriore. Ne nacque un acceso dibattito scientifico-teologico a livello internazionale che coinvolse anche autorità politiche. Infatti le grandi similitudini tra i due mondi antichi minavano la fondamentale autorità della Bibbia. Era dai tempi di Darwin, che per spiegare la teoria della selezione naturale aveva bollato come «palesemente falsa» la storia della Genesi, che non si assisteva a un simile scandalo! Tuttavia, una volta sedimentate, le scoperte degli assiriologi furono accettate da un pubblico sempre più vasto al punto da innescare una rivoluzione negli studi teologici e delle religioni all'inizio del '900. Di questi anni è infatti la celebre ipotesi documentaria formulata da Julius Wellhausen. L'ipotesi documentaria si basa su un'analisi comparata del Pentateuco in rapporto con documenti coevi o preesistenti di area prevalentemente mesopotamica. Essa rivela almeno quattro fonti o "tradizioni" del Pentateuco escludendo così la tesi sostenuta dalla tradizione sinagogale di un unico leggendario autore (Mosè). Mi limito ad elencarvi le fonti rimandando alla sezione dedicata per utili approfondimenti: tradizione jahvista (sec. X a.C. e VIII-VII a.C.); tradizione elohista (VIII-VII a.C.); tradizione deuteronomista (VII a.C.); tradizione sacerdotale (VI-V a.C.). Pietre miliari per gli studi comparati Bibbia-cultura mesopotamica furono Altorientalische Texte und Bilde zum alten Testament di H. Gressmann (1909), Cuneiform Parallels in the Old Testament di R.W. Rogers (1912), Archaeology and the Bible di G. A. Burton (1916) fino all'immensa antologia Ancient Near Eastern Texts (Ane 1955) della Princeton University. Tutto ciò illustra come l'interesse verso la cultura mesopotamica fosse a lungo vincolato al suo rapporto con la Bibbia. Emblematico rimane il chilometrico titolo della prima edizione a stampa del Gilgamesh (Smi 1876): La versione caldea della Genesi contenente la descrizione della creazione, il diluvio, la torre di Babele, la distruzione di Sodoma, i tempi dei patriarchi... Ancora più esplicativo l'approccio dello Delitzsch: «Perché tutte queste fatiche in una terra lontana, inospitale e pericolosa? Perché questo costoso rovistare tra i detriti di migliaia di anni fino alla falda freatica, dove non c'è ne oro ne argento? Perchè questa lotta tra le nazioni per assicurarsi con sempre maggiore vigore gli scavi su queste desolate colline? E donde proviene questo gratuito interesse, sempre crescente, che di qua e di là dell'Oceano viene dedicato agli scavi nell'Assiria-Babilonia? A queste domande c'è una risposta, che benché non esauriente tuttavia spiega per buona parte il motivo e lo scopo: la Bibbia» (Friedrich Delitzsch, citato in Dag 1997 p. 42). Fortunatamente, dalla seconda metà del '900, grazie all'immensa quantità di documenti ritrovati e dell'apertura di nuovi campi di indagine ignoti alla Bibbia (= cultura sumerica) si cominciò a considerare autonomamente il valore letterario delle numerose tradizioni culturali mesopotamiche. La più alta opera poetica di queste culture scomparse è, manco a dirlo, l'epopea di Gilgamesh... >>> continua
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