LE AVVENTURE DELL'AUTOBIOGRAFIA
quando la vita è un romanzo


INTRODUZIONE ALL'AUTOBIOGRAFIA

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Il pensiero e l'autobiografia

L’intreccio avvincente e contraddittorio della Vita celliniana rimane fino al secondo Settecento un’eccezione nel panorama europeo, dove si afferma piuttosto uno stile autobiografico propenso a ricavare, dall’eterogeneità delle vicende umane, materia di riflessione morale da tradursi nella densa scrittura di aforismi, cioè di riflessioni che uniscono, al pregio della concisione, la novità del paradosso, il sale dell’arguzia.

Blaise Pascal

E’ questa la tendenza di scrittura che si snoda in Francia nella riflessione degli Essais del filosofo Montaigne e più tardi nei Pensées di Pascal, fautore, quest’ultimo, di una meditazione religiosa capace di calarsi all’interno degli interrogativi esistenziali della condizione umana e per questo offerta al lettore con la naturalezza d'un colloquio personale.

Negli stessi anni, in Italia, il modello dell’autobiografia sembra trovare una sua definizione più precisa ad opera del poeta Gabriello Chiabrera. Se fino a quel momento il racconto della propria vita confluiva in rivoli marginali del discorso letterario, come poesie occasionali e lettere private, con Chiabrera la descrizione esistenziale si spoglia del quotidiano e ritorna rarefatta quando non idealizzata.

La vita diventa la carriera intellettuale, cioè la consacrazione del ruolo pubblico del letterato confermato dal favore e dalle testimonianze abbondantemente registrate nel resoconto autobiografico, che diviene sempre più simile ad un autoelogio.

Con la Vita del Chiabrera si perde dunque quella ricchezza di accenti dissacranti, alla lettera derisori e parodici, che avevano ispirato la Descrizione della vita di Giulio Cesare Croce, il celebre autore della maschera carnevalesca di Re Bertoldo, che proclamava a tutta voce d'essere nato in "dì di carnevale quando più d’esser pazzo ognun si vanta".

In questo senso, l’autobiografia di letterati e filosofi viene ad assumere una funzione elogiativa della loro attività intellettuale, sicché accade spesso che l’ultimo volume delle loro opere contenga quello della vita, scandito dalle tappe del curriculum e dalle opportune precisazioni sui momenti controversi della propria attività.

Il modello di autobiografia scientifica

Ignazio di Loyola, ritratto da Jacopino del Conte nel 1556.

Mentre il modello della Vita dei santi si perfeziona grazie all’intervento del fondatore dell’ordine dei gesuiti Ignazio di Loyola, in una sorta di esame di coscienza svolto attraverso la messa in scena del conflitto fra il bene e il male, come affiora nella sua celeberrima Vita Ignatii , ancora nel Seicento, Renato Cartesio, il filosofo conosciuto per il celebre moto cogito ergo sum (penso dunque sono), ritiene che la verità dell’uomo sia in senso moderno la dichiarazione di quanto egli sa. Da questo punto di vista, l’uomo di scienza decide di esporre nella sua autobiografia intellettuale il punto più avanzato della propria ricerca mettendo fra parentesi, se non omettendo del tutto, i riferimenti alla vita privata.
L’esempio autobiografico del cartesiano Discours sur le méthôde viene presto ripreso da filosofi e uomini di lettere di tutta Europa che ne colgono l’opportunità per accompagnare le pubblicazione delle loro opere.

Dusmenil, La regina Cristina di Svezia assiste a una dimostrazione geometrica di Cartesio.

In Italia bisogna attendere i primi decenni del Settecento perché il modello di autobiografia scientifica, cioè quello inerente agli studi del suo autore protagonista, venga lanciato da Giovanni Artico Porcìa, un nobile friulano con il talento e la sensibilità del giornalista erudito, nel Progetto ai letterati d’Italia per scrivere le loro vite.

In questo testo si fa appello agli intellettuali italiani affinché facciano convergere in un senso eminentemente pubblico l’analisi della loro vita, dando conto al lettore del proprio lavoro mediante una sorta di rassegna ragionata dei loro scritti, per registrare da una parte le testimonianze ad essi favorevoli (recensioni), dall’altra un giudizio a posteriori del proprio lavoro non privo di elementi di autocritica.

G.B. Vico

E’ questo il modello che si imporrà fino alla seconda metà del Settecento. All’interno di questa produzione di testi sollecitata dal Porcìa si inserisce anche la Vita del filosofo napoletano Giovan Battista Vico, fautore nella Scienza nuova dello studio della storia come chiave di lettura della cultura e dei suoi linguaggi simbolici. Si può dire che Vico accetta i principi dell’autobiografia scientifica, cioè il suo interesse per l’attività intellettuale, ma non il tono distaccato, quasi impersonale, che per la sua redazione era raccomandato.

Reduce prima di riuscire ad affermare il prestigio del suo magistero da sonanti delusioni accademiche, Vico investe il suo discorso della solennità di una celebrazione che sostituisce la conversione religiosa della vita dei santi ad una sorta di canonizzazione laica del letterato, passato attraverso le forche caudine delle avversità e dell’invidia per giungere, secondo una strategia provvidenziale, al meritato riconoscimento della cattedra universitaria.

L'autobiografia degli avventurieri: i modelli

Cartesio

Sebbene la data di nascita dell’autobiografia moderna debba ritenersi il 1782, anno di pubblicazione delle Confessions di J. Jacques Rousseau, il filosofo ginevrino autore del Contratto sociale e fautore del ritorno alla natura, già le Confessioni di Agostino, la Vita del Cellini, gli Essais di Montaigne, il Discours sur le méthôde di Cartesio e la Vita di Vico, avevano fornito - come si è detto in precedenza - un utile esempio di memorialistica personale, sapientemente fusa con l’insegnamento religioso, filosofico e artistico.

Dall’analisi dell’uomo esemplare messa in atto con la descrizione di una serie di luoghi comuni, cioè delle situazioni ricorrenti che illustrano la condizione dell’intellettuale, quali la lotta contro le avversità, la sopportazione della malattia e dell’invidia degli emuli, la sottolineatura dell’originalità del proprio lavoro e della condizione di isolamento nella quale è stato prodotto, si passa, con il nuovo genere autobiografico, alla descrizione di un’esistenza lasciata al volere del caso e quindi descritta senza alcun piano preordinato.

Lo stesso piacere di raccontare sembra passare, senza interruzione, dal racconto di viaggio a quello delle fatiche letterarie, dalla descrizione della vita sessuale a quella dei paesaggi naturali. Con un occhio continuamente rivolto al lettore, per assicurarsi la sua complicità di osservatore non imparziale, l’io narrante procede a rapidi cambiamenti di scena mutando davanti al suo sguardo i luoghi, gli eventi e le emozioni dei ricordi.

Quanto di esemplare e quindi condivisibile su un piano di imitazione vi era nella memorialistica classica diviene nelle settecentesche Confessions assolutamente individuale, perché permette l’emergere sulla pagina di annotazioni di carattere privato del tutto avulse da ogni regola di decoro, da ogni limite posto al racconto di sé.

Ai percorsi dell’esame di coscienza degli scritti di pietà religiosa saldamente inseriti nei testi autobiografici di S. Agostino, di S. Teresa d’Avila e di S. Ignazio di Loyola, si sostituiscono le linee tortuose, ovvero l’accento irriverente di una confessione che predilige l’azione scandalosa, il dato realistico e il ritratto talvolta osceno di azioni per nulla eroiche.

Stabilendo un rapporto, talvolta complice e sempre esaltante con il lettore, Rousseau espone i fatti della propria vita aprendosi ad una confessione nella quale la professione di sincerità non costituisce la premessa ad un esito edificante, non apre il cuore all’esercizio delle virtù, ma viene a costituire piuttosto l’inizio di un viaggio labirintico nelle debolezze, nelle puerilità anche sconce, di chi si propone con il suo narrare il sovvertimento del modo consueto di rappresentare la vita dell’uomo, perché alla retorica della solennità è stata sostituita quella della sincerità scandalosa.

La pretesa di un racconto che non nasconda nulla, l’obbligo autobiografico di dire proprio tutto di sé chiama il narratore a ritornare alle radici della pianta-uomo, regredendo ai momenti dell’infanzia e della prima giovinezza, per dar voce a quanto di più taciuto giace nel fondo della sua coscienza.

Qualche decennio prima di Leopardi e molti anni prima della psicanalisi freudiana, portata quest’ultima a dare tanto spazio al momento dell’infanzia, le autobiografie del secondo Settecento, a partire proprio da Rousseau, portano alla luce il momento dell’adolescenza, nel quale si decide la parte più importante del carattere umano, alla lettera la radice della sua personalità.


Ideazione e testi di Bruno Capaci

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 22/04/2012