STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


STORIA DELLE ERESIE CRISTIANE MEDIEVALI

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Rivendicazioni operaie al cospetto di un chierico

I Patarini furono i primi eretici urbani, esponenti di quelle classi sociali di minor peso, che per farsi strada tra i colossi della feudalità, iniziarono a contestare due pratiche da tempo ben note: la vendita delle cariche ecclesiastiche (simonia) e il matrimonio dei preti o le loro unioni di fatto, che in occidente il papato voleva a tutti i costi impedire (contro ogni buon senso e regolamento canonico ufficiale) per poter esercitare uno stretto controllo sul proprio clero.

I Patarini in sostanza sfruttavano un divieto assurdo, non applicato alla lettera (in quanto con le unioni di fatto si cercava di ovviare alla rinuncia della legalizzazione del rapporto matrimoniale), per dimostrare che il clero era corrotto.

Al tempo della guerra tra Milano e l'imperatore Corrado il Salico, essi non si misero, come gli altri milanesi, dalla parte del vescovo-conte Ariberto d'Intimiano, proprio perché lo giudicavano moralmente indegno (peraltro era contrarissimo alla Constitutio de feudis, che permetteva anche ai piccoli feudatari di poter lasciare in eredità i loro beni).

Alla morte del vescovo (1045) i due leader patarinici, Arialdo di Carimate e Landolfo Cotta, chiesero al sovrano Enrico III di non nominare un altro vescovo corrotto, ma quegli, temendo l'accentuarsi dell'autonomia comunale, fece proprio il contrario. E fu così che Arialdo e Landolfo cominciarono a sobillare i milanesi contro la simonia (benché quella volta tutte le cariche prestigiose fossero "simoniache") e il concubinato del clero (detto anche "nicolaismo"), sostenendo l'inefficacia dei loro sacramenti.

Guido da Velate, il vescovo nominato da Enrico III, li scomunicò entrambi e fece uccidere Landolfo mentre si recava a Roma per protestare davanti a papa Niccolò II, il quale ad un certo punto si decise a inviare Pier Damiani, famoso monaco camaldolese, per dirimere la controversia, e questi dovette convenire che i Patarini avevano ragione.

Tuttavia il fine di Pier Damiani non coincideva esattamente con quello dei Patarini: infatti il divieto della simonia doveva servire soltanto per ricondurre le nomine del clero sotto l'esclusiva giurisdizione di Roma, mentre il divieto del nicolaismo doveva servire solo per impedire che il patrimonio della chiesa finisse disperso tra lasciti, donazioni e legittime eredità da parte dei sacerdoti titolari.

Il papato infatti era in procinto di scatenare la lotta per le investiture contro l'imperatore, tant'è che nel 1059 lo stesso Niccolò II stabilì per la prima volta che l'elezione del pontefice doveva essere segretamente riservata al collegio cardinalizio (un istituto ecclesiastico senza precedenti storici).

Con grande abilità, detto collegio, alla morte di Niccolò II, elesse Anselmo da Baggio, uno degli animatori dei Patarini, che prese il nome di Alessandro II. Il motivo era quello di trovare consensi popolari contro l'inevitabile ritorsione imperiale alla nuova modalità di elezione al soglio pontificio. E infatti i consensi furono sufficienti per impedire che l'imperatore si servisse di un proprio anti-papa.

A Milano tuttavia il vescovo corrotto, Guido da Velate, continuava a spadroneggiare, anche eliminando alcuni capi patarini. Il papa, molto adirato, decise di scomunicarlo.

Senonché il movimento patarinico aveva preso piede anche in altre città (Cremona, Brescia, Alba, Piacenza), sempre contro vescovi e abati corrotti. Di fronte a una situazione che rischiava di sfuggire di mano, il nuovo pontefice Gregorio VII si decise a intervenire con mano pesante a carico dei simoniaci e dei nicolaiti. Approfittò di questa finta battaglia morale per imporre una propria leadership politica, in cui persino l'autorità imperiale doveva essere ridotta a un nulla.

Le sue pretese teocratiche trovarono immediata opposizione da parte dei grandi feudatari romani e italiani, appoggiati dal nuovo imperatore Enrico IV. Per tutta risposta Gregorio VII scomunicò il mondo intero, incluso l'imperatore, che si trovò a dover fronteggiare l'intenzione dei grandi feudatari sassoni di eleggere un nuovo imperatore. Enrico IV ebbe però momentaneamente la meglio: ottenuta a Canossa la revoca della scomunica, obbligò prima i feudatari a riconoscerlo e subito dopo Gregorio a cercare protezione presso i Normanni.

Alla morte del papa la lotta per le investiture ecclesiastiche riprese con vigore, e questa volta il successore Urbano II cominciò ad avvertire con fastidio le continue proteste contro il clero corrotto. Il papato voleva decidere in proprio i termini sia della lotta politico-istituzionale che di quella etico-sociale. Sicché, pur ribadendo la necessità di moralizzare il clero, fu decisa per decreto la validità oggettiva dei sacramenti, a prescindere dal livello morale dei suoi amministratori.

I Patarini diventavano, ipso facto, degli eretici, solo che erano già così tanti che il papato, invece di sterminarli con una crociata interna dalle imprevedibili conseguenze, pensò di convogliarli in quella che venne definita "la crociata dei pezzenti" (1096), cioè la prima che avrebbe dovuto liberare i luoghi mediorientali occupati dal mondo islamico. La crociata risultò del tutto disastrosa per i partecipanti e i Patarini sopravvissuti confluiranno nell'eresia catara.

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Intorno al 1105 vasta risonanza ebbe in Provenza la predicazione del monaco Pietro di Bruys, contrario all'uso dei sacramenti non solo perché amministrati da chierici indegni ma anche qua talis, oggettivamente, non essendo essi descritti in alcun vangelo (l'unico testo del N.T. ch'egli ammetteva). In sostanza il monaco era favorevole a una mera concezione simbolica dell'eucaristia e anche riguardo agli edifici di culto diceva che bastava una fede spiritualizzata. Finì sul rogo. Anche lui anticipava di vari secoli le tesi della Riforma.

Gli attacchi alla chiesa erano sempre più frequenti, da parte di eretici di origine sia contadina che borghese. Molti monaci andavano in giro a predicare contro la trasmissione ereditaria del peccato originale, contro la necessità di battezzare i bambini, contro le preghiere per i defunti, contro l'interpretazione letterale della transustanziazione eucaristica, contro le prove ontologiche (anselmiane) dell'esistenza di dio...

Agli albori del basso Medioevo la chiesa appariva soltanto come un grande feudatario indifferente alle sorti dei contadini, disposta a concedere spazi di manovra alla nascente classe mercantile, particolarmente avversa alle pretese egemoniche degli imperatori e soprattutto incredibilmente corrotta.

Già nel 1092 il teologo francese Roscellino, fondatore del nominalismo, s'era permesso di dire che la filosofia era "altro" (persino nel suo oggetto d'indagine) rispetto alla teologia e che, per questo, doveva trovare in se stessa le proprie ragioni. Dello stesso avviso era Pietro Abelardo, anche lui immediatamente condannato per eresia.

Lo sviluppo delle realtà urbane e commerciali offriva agli individui più fiducia nelle loro capacità di riscatto sociale e quindi di discernimento etico. I primi borghesi, in mezzo a mille difficoltà, stavano cominciando a usare autonomamente la loro facoltà raziocinante.

Chi cercò di mettere in pratica queste nuove riflessioni filosofiche fu Arnaldo da Brescia, che nel 1144 aderì alla formazione del Comune repubblicano di Roma, intenzionato a separare il potere temporale da quello spirituale. Sarà papa Adriano IV a chiedere la sua testa all'imperatore Federico Barbarossa.

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Come noto, le eresie cristiane dell'Europa occidentale andavano diffondendosi in maniera proporzionale all'aumentare della corruzione del clero, e tuttavia, nonostante esse predicassero sempre un ritorno al pauperismo evangelico, nessuna riuscì a recuperare l'autentica spiritualità della confessione ortodossa, né tanto meno il suo rigore teologico; anzi, al contrario, la tendenza era quella verso una progressiva laicizzazione dei contenuti della fede cattolica.

Il che non voleva affatto dire che i componenti delle comunità ereticali fossero eticamente corrotti come l'alto clero cattolico, ma semplicemente che una qualunque contestazione in ambito cattolico-romano, sui contenuti di questa confessione o sul modo di viverli, indipendentemente dalla serietà con cui veniva formulata o dalla coerenza di teoria e prassi che pretendeva di esibire, stava progressivamente perdendo i suoi connotati tradizionalmente "religiosi".

Ciò era dovuto al fatto che lo stesso processo di "laicizzazione" era andato sviluppandosi in maniera inarrestabile negli stessi ambienti di potere della chiesa romana: l'ampia corruzione del clero aveva largamente compromesso la conformità della vita personale e sociale agli ideali evangelici.

In tal senso la differenza tra alto clero e comunità di fedeli con tendenze ereticali non stava tanto in questo processo irreversibile verso lo svuotamento mistico della fede, quanto piuttosto nel fatto che i vertici ecclesiastici, tenacemente legati a posizioni di potere faticosamente acquisite, non volevano essere contestati in alcuna maniera dalla base.

Generalmente quando gli eretici dicevano di essere i "veri credenti" non si rendevano conto che, se anche potevano esserlo sul piano della condotta morale, tale condotta, nei suoi contenuti religiosi, era molto più laica di quella dei cristiani della primissima generazione, quelli degli Acta apostolorum.

Il papato e l'alto clero erano contrarissimi a due cose: 1) che si procedesse a un'ulteriore laicizzazione dei contenuti della fede senza un loro esplicito consenso; 2) che si usasse un modo diverso di vivere la fede per sostenere che quello ufficiale dei vertici ecclesiastici era corrotto.

La curia pontificia voleva gestire in proprio, senza alcuna mediazione sociale, senza confrontarsi con istanze conciliari, tutti i processi di vivibilità della fede o comunque della sua progressiva laicizzazione. La cosa cui il papato teneva maggiormente era il potere politico-economico e, sotto questo aspetto, non amava tollerare alcun tipo di contestazione, né che questa servisse per aumentare l'esperienza della fede né che servisse per diminuirla.

Ecco perché le armi della scomunica (contro la persona) e dell'interdetto (contro un territorio), della pena di morte, dell'inquisizione (in cui la tortura era d'obbligo) e delle crociate (interne ed esterne), aventi uno scopo principalmente distruttivo, espropriativo e colonialistico, furono costantemente usate. E probabilmente lo sarebbero ancora oggi se il potere politico della chiesa non fosse stato debitamente ridimensionato.

Proprio a causa di questa progressiva laicizzazione dei contenuti religiosi, le eresie di derivazione cattolica a volte erano in grado di esprimere delle esigenze di "democrazia" e persino di "socialismo" in anticipo di quasi un millennio rispetto alle realizzazioni moderne che conosciamo. E' per questo che il loro studio, ancora in gran parte lacunoso, resta di notevole interesse per lo storico, anche perché, grazie alla sua straordinaria versatilità, la chiesa romana riuscì alla fine del Medioevo a trovare un felice compromesso con le forze borghesi, che sarebbe durato chissà quanto tempo se non fosse scoppiata la Riforma protestante.

In sostanza il papato accettava l'idea di laicizzare progressivamente i contenuti della fede, sino a ridurli all'osso, a condizione però che la borghesia non ne mettesse in discussione i dogmi (definitivamente ufficializzati dalla teologia tomista) e non si sognasse neppure di compiere iniziative politiche che potessero minacciare il potere dello Stato della chiesa.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015