STORIA ROMANA


DIOCLEZIANO

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Diocleziano (Villa Doria-Pamphili, Roma)

LA REPRESSIONE DEI MOVIMENTI POPOLARI

Gaio Valerio Diocleziano o Diocles (284-305) fu il più grande dei cosiddetti “imperatori illirici” e uno dei più grandi di tutto l’impero romano.

Nato intorno al 240 da famiglia dalmata di modeste condizioni (suo padre era un liberto), aveva fatto carriera nell’esercito, come molti dei suoi predecessori, finché l’imperatore Numeriano non decise di nominarlo comandante dei cadetti destinati alla protezione personale dell’imperatore.

Quando lo stesso Numeriano fu ucciso a tradimento e, prima di lui, l’imperatore Caro (che gli era stato anche padre), i soldati scelsero, nel 284, a Nicomedia (nell’attuale Turchia), proprio Diocleziano come il più idoneo a vendicarne la morte, cosa ch’egli fece in un duello eliminando il prefetto del pretorio Flavio Apro, su cui cadevano i maggiori sospetti.

Acclamato egli stesso imperatore, Diocleziano si trasferì nella parte occidentale dell’impero, per andare a sconfiggere, nel 285, il fratello maggiore di Numeriano, Carino, che non aveva accettato la sua nomina e si era autoproclamato imperatore in occidente.

Tutte le guerre civili accadute in Italia non avevano fatto altro che indebolire la funzione del Senato e aumentare quella delle Legioni, che da tempo decidevano chi doveva reggere le sorti dell’impero. Diocleziano aveva ereditato una situazione in cui l’aspetto politico era completamente sottoposto a quello militare e l’aspetto socioeconomico delle città era stato particolarmente sconvolto, al punto che si stava tornando a un’economia naturale, basata sull’autoconsumo, dove il ruolo dominante veniva svolto dai grandi proprietari terrieri provenienti dal mondo militare. Gli stessi imperatori della fine del III sec. erano grandi latifondisti.

Diventato dunque imperatore senza rivali, Diocleziano, dopo aver conferito al proprio camerata Massimiano, di origine contadina, il titolo di Cesare (l’anno dopo anche quello di Augusto), represse brutalmente, col suo aiuto, la consistente rivolta dei Bagaudi in Gallia, che non avevano intenzione né di combattere le tribù che volevano penetrare nell’impero né di pagare a Roma le tasse, nonché le insurrezioni africane nelle montagne dell’Atlante, attirandosi le simpatie dell’aristocrazia provinciale, sempre bisognosa di sentirsi difesa da un potere forte.

Rendendosi conto che l’impero stava pericolosamente vacillando, preferì assegnare a Massimiano il governo dell’area occidentale, mentre lui si sarebbe riservato quella orientale, più esposta alla penetrazione dei cosiddetti “barbari”: infatti nel 286 lo si vede combattere in Mesia e in Pannonia, nel 289 (e poi di nuovo nel 292) contro i Sarmati e nel 290 contro i Saraceni, una tribù araba che aveva invaso la Siria.

Diocleziano represse anche la rivolta di Domizio Domiziano e di Achilleo in Egitto (296). Nel 303 visitò per la prima volta Roma, per celebrare il ventesimo anniversario di governo, e nel 305 abdicò al trono (una iniziativa senza precedenti), obbligando il recalcitrante Massimiano a fare altrettanto; e si ritirò a Salonae in Dalmazia.

Ritornò sulla scena politica nel 308 per aiutare Galerio a riportare l’ordine fra i vari contendenti imperiali alla conferenza di Carnuntum (sia Massimiano che un cesare, Costanzo Cloro, erano rimasti scontenti delle nuove nomine, poiché i loro figli, Massenzio e Costantino, ne erano rimasti esclusi), ma intendendo ch’essi erano refrattari alle regole della tetrarchia e che pensavano più ai loro interessi che non a quelli dell’impero, se ne tornò amareggiato nella propria residenza, ove morì nel 316.

LE RIFORME POLITICHE

Diocleziano non riconosceva al Senato alcuna funzione politica, in quanto tutto il vero potere lo aveva assegnato a un consiglio di alti funzionari statali, presieduto da lui stesso.

Per rendere più agevole la gestione dell’impero e la successione imperiale, decise di regolarizzare la sua divisione in quattro parti, sottoposte a quattro reggenti (tetrarchia): due augusti (Diocleziano stesso, che aveva scelto per sé le province asiatiche, l’Egitto, la Cirenaica, la Tracia e la Mesia inferiore), e Massimiano (che aveva ottenuto l’Italia, l’Africa, la Rezia e il Norico), e due cesari (Galerio, che amministrava le restanti province balcaniche e danubiane, e Costanzo Cloro, che reggeva la Britannia, la Gallia, la Spagna e la Mauritania).

Diocleziano scelse i suoi collaboratori fra i soldati, particolarmente benemeriti, di origine danubiana. All’inizio, in verità, voleva limitarsi a un governo diarchico, ma preferì la tetrarchia quando vide che il capo di una flotta romana, Carausio, che difendeva la costa gallica, si era ribellato a Massimiano e, dopo essersi alleato coi Galli e i Sassoni, s’era impadronito della Britannia, proclamandosi imperatore (la Britannia verrà però ripresa dai tetrarchi nel 296).

Infatti i due cesari, sebbene fossero nominati come aiutanti dei due augusti, di fatto gestivano ampie porzioni del territorio imperiale. Essi dovevano obbedire ad entrambi gli augusti e sarebbero loro subentrati in automatico dopo vent’anni, alle loro dimissioni. Ogni sovrano aveva una propria capitale, scelta tra quelle più convenienti per una difesa strategica dei confini dell’impero e che fossero anche lontane dalle tradizioni senatorie e repubblicane di Roma (Diocleziano scelse la stessa Nicomedia, per sorvegliare il Ponto e gli stretti del Bosforo, dove poi si svilupperà la futura Costantinopoli, mentre Massimiano scelse Milano, mentre gli altri due cesari scelsero Sirmio in Pannonia e Treviri in Gallia). Le leggi venivano emanate in nome di tutti e quattro.

Diocleziano obbligò a seguire un’etichetta di corte simile a quella persiana, sicché ogni persona ammessaa parlare con lui (che pretendeva d’essere considerato un dominus, cioè “signore”, un titolo ben oltre quello di princeps), era tenuta a prosternarsi. Il dominatus diventava una sorta di teocrazia statale, inversamente proporzionale al crollo di credibilità delle istituzioni repubblicane e cittadine.

Questa ostentata autodivinizzazione non era una questione di vanità personale, ma l’espressione di un’esigenza di centralizzazione dei poteri, conseguente al fatto che si temeva che una divisione quadripartita dell’impero potesse favorire tendenze centrifughe. Essa serviva anche a proteggere l’imperatore dagli attentati alla sua persona, molto frequenti allora. In ogni caso nella concezione burocratico-militare di Diocleziano, l’impero avrebbe potuto continuare a sussistere solo usando la massima forza possibile; nel contempo però si permetteva a quanti erano autorizzati a farlo (funzionari statali e militari) di provenire da qualunque categoria sociale, semplicemente dimostrando il proprio valore in campo. Anche la successione al trono doveva sottostare alla medesima regola.

LE RIFORME AMMINISTRATIVE E MILITARI

Le vecchie province furono divise in parti più piccole, cosicché il loro numero salì a 101 (inclusa Roma). L’Italia veniva parificata alle altre regioni dell’impero, divisa anch’essa in province. I raggruppamenti di varie province si chiamavano diocesi (in tutto erano 12), i cui governatori generali, che prima detenevano tutti i poteri civili e militari, ora erano subordinati ai quattro prefetti del pretorio (uno per ciascun tetrarca), i quali, a loro volta, diventavano i principali luogotenenti degli augusti e dei cesari nell’amministrazione militare, civile, finanziaria e giudiziaria dell’impero. Diocleziano distribuì con grande prodigalità il rango senatorio a elementi di origine non aristocratica, affidando loro ruoli e mansioni di grande responsabilità. Il potere militare doveva comunque restare nettamente separato da quello civile (nessun militare poteva aspirare a cariche civili e viceversa), anche se di fatto i prefetti pretorii li mantennero concentrati nelle loro mani sino alla riforma di Costantino, che tolse loro i poteri militari. Inutile dire che queste riforme privarono le città-stato di qualunque forma di autogoverno. Con la tetrarchia s’impone su tutto e su tutti una forte, corrotta e arrogante burocrazia imperiale.

Questa nuova divisione doveva comunque favorire la difesa e il controllo delle province, e doveva inoltre indebolire i governatori provinciali, tendenti allusurpazione.

Fu attuata anche una riforma militare: il numero totale di soldati di tutte le categorie sociali (ma prevalentemente liberi agricoltori, coloni e liberti) e con molti elementi non romani, fu portato sino a circa 600.000 (il doppio rispetto al secolo precedente e, all’incirca, il 10% della popolazione imperiale).

L’esercito era diviso in reparti di confine, stanziali, composti anche di molti barbari e di coloni militarizzati (i soldati in congedo, provenienti da queste unità confinarie, pagate meno rispetto alle forze mobili di combattimento, ottennero la possibilità di trasmettere in eredità ai loro figli le terre ottenute per la pensione). Il reclutamento di questi militari era spesso forzato, ma i grandi proprietari terrieri, pur di non cedere i loro contadini, erano disposti a pagare un equivalente in denaro: il che però obbligava i comandanti militari a reclutare fanti e cavalieri tra gli stessi barbari.

Poi vi erano i reparti aventi la caratteristica della mobilità, professionisti ben pagati, preposti a sedare le rivolte interne in qualunque punto dell’impero.

L’importanza dell’esercito era enorme, non solo per la difesa dei confini e per garantire l’ordine pubblico, ma anche come forma di riscatto sociale per i ceti meno abbienti. In tal senso una differenza sostanziale tra questo esercito e quello del I sec. a.C. stava nel fatto che mentre alla fine della Repubblica si arruolavano prevalentemente i più poveri cittadini romani d’Italia, ora invece, con la cittadinanza romana estesa a tutto l’impero, l’accesso era aperto a tutti i diseredati, persino ai barbari.

Tutte le guerre civili dell’impero non furono tanto lo scontro tra questo e quel pretendente al trono o tra gli imperatori e il senato, quanto piuttosto lo scontro sociale tra i contadini, divenuti soldati per disperazione, essendo stati rovinati dalle guerre precedenti, e i ceti più benestanti (agrari e mercantili), le cui ricchezze dipendevano proprio dalle guerre di conquista e dagli investimenti fatti per aumentare i loro patrimoni.

L’impero fu sì dominato dagli eserciti (soprattutto dopo la fase dell’anarchia militare), ma questi erano prevalentemente composti di elementi che la società gestita dai latifondisti e affaristi d’ogni risma, aveva già mandato in rovina. Gli stessi imperatori, e i loro funzionari amministrativi, spesso provenivano dai ceti rurali e avevano acquisito il potere dopo una lunga gavetta.

Tuttavia, quanto più s’allargavano le fila degli eserciti e della burocrazia, tanto più l’insieme della società s’impoveriva. Proprio mentre i contadini cercavano un riscatto dalla loro miseria, diventando militari o funzionari, inevitabilmente contribuivano a impoverire quelli che erano rimasti nei campi e a spogliare le città di tutti i loro beni.

Fu anche per questa ragione che Diocleziano (per non parlare di Costantino) fece entrare nell’esercito grandi contingenti di Germani e di Sarmati. I soldati degli eserciti provinciali venivano reclutati tra coloro che, un tempo nemici, avevano ricevuto delle terre presso le frontiere, che ora dovevano difendere contro altri barbari. Costoro ovviamente combattevano non tanto per l’impero quanto soprattutto per loro stessi. Erano diventati, per l’impero, una sorta di mercenari.

LE MISURE ECONOMICHE E SOCIALI. L’EDITTO SUI PREZZI

L’esercito sempre più numeroso, il complesso dei funzionari e dei cortigiani, le costruzioni nelle nuove residenze imperiali esigevano continuamente ingenti spese. Sino a Diocleziano la riscossione delle tasse, da parte dello Stato, aveva avuto un carattere molto particolare. Vi erano varie regioni dell’impero (inclusa l’Italia) che non pagavano l’imposta fondiaria e la capitazione (un'imposta fissa pro capite pagata in denaro da individui di sesso maschile non aventi la cittadinanza romana). Lo Stato si serviva molto delle tasse indirette e delle rendite derivanti da proprietà statali e imperiali. Non esisteva un bilancio vero e proprio.

Si era proceduto così perché lo Stato si basava soprattutto sulle tasse estemporanee, straordinarie, che venivano chieste, anche in forma esosa, per sostenere le spese delle guerre di conquista. Tuttavia, quando queste guerre diventarono anche “civili”, le tasse straordinarie (che si traducevano anche in requisizioni, confische, lavoro coatto…) si trasformarono nella principale entrata dell’erario. Fu proprio Diocleziano, per la prima volta, a provvedere a regolare l’esazione fiscale facendo in modo che diventasse un’entrata ordinaria.

Poiché tuttavia il tentativo di effettuare una riforma monetaria al fine di aumentare il valore del denaro non diede l’effetto sperato, anche se l’introduzione del solidus (nuova moneta aurea) rimase a lungo in vigore, una riscossione monetaria delle tasse si rivelò subito alquanto problematica. Il problema era che non si riuscivano più a trovare l’oro e l’argento in quantità adeguata a fissare in modo relativamente costante il valore dei metalli in relazione al valore nominale delle monete (dai tempi di Augusto il valore della moneta era continuamente in calo). Sicché, ad un certo punto, il governo di Diocleziano si vide costretto a passare all’esazione in natura delle tasse principali. Solo gli artigiani e i mercanti pagavano le imposte in danaro o in manufatti.

Per quanto riguardava la popolazione rurale, la tassa in natura, detta “annona”, era basata su una unità combinata di uomo/terra (capitatio/jugatio, ovvero un caput o uomo per ogni jugum o giogo di buoi), che consisteva in un rapporto tra la forza lavoro di un adulto, libero o schiavo, e un appezzamento di terreno delle dimensioni da cinque a sessanta jugeri, a seconda della fertilità della terra e della coltura che vi veniva praticata (non venivano prese in considerazione altre condizioni). Di questo particolare pagamento delle tasse, che era senza precedenti, rispondevano i decurioni delle città e i proprietari dei latifondi sottratti alle città. Ogni anno i quattro prefetti del pretorio pubblicavano l’elenco, riveduto e corretto, delle esigenze finanziarie del governo centrale. Ovviamente alcune categorie sociali erano esenti da tributi: funzionari, veterani, proletari, schiavi… e generalmente le donne pagavano la metà degli uomini.

Tutto ciò rafforzò notevolmente il potere dei grandi proprietari sugli uomini dipendenti.

Durante il censimento, che avveniva ogni cinque anni, per calcolare il numero degli uomini e la misura delle terre e per determinare il totale delle tasse, si verificavano angherie scandalose, in quanto i grandi proprietari terrieri costringevano i contadini a lavorare nel luogo ove risiedevano o dove erano stati registrati, e tale costrizione valeva anche per i loro discendenti.

Questo totalitarismo sociale non riguardava solo i ceti rurali, ma anche quelli commerciali, artigianali, impiegatizi… Questo perché tutti dovevano contribuire con regolarità a finanziare un esercito e una burocrazia imponenti.

Gli stessi curiali (eletti alle cariche municipali e alle magistrature) rispondevano di persona del pagamento delle imposte da parte dei loro cittadini, per cui o diventavano particolarmente esosi e corrotti, oppure tendevano a rifuggire da quella carica, che peraltro era ereditaria.

Questa riforma economica, imposta con la forza dello Stato, ebbe effetti disastrosi, soprattutto nelle campagne, molte delle quali si spopolarono.

Insieme ai metodi di repressione violenta dei movimenti popolari provinciali, vi erano nella politica di Diocleziano elementi di demagogia sociale, già largamente praticati dai suoi predecessori. P.es. egli prendeva sotto la propria difesa gli humiliores, proibì di risolvere preventivamente i casi giudiziari a favore degli aristocratici e di opprimere la popolazione rurale con qualsiasi altro ulteriore tributo; vietò categoricamente la vendita come schiavi di uomini liberi e dei figli di uomini liberi in pagamento dei debiti dei padri; ordinò di “bollare d’infamia” le persone che richiedevano “percentuali vergognose” sui prestiti.

Emanò anche nel 301 un editto sui prezzi massimi delle merci, allo scopo di combattere la speculazione (tipica durante i cattivi raccolti) e di prevenire sommosse di affamati (cosa già tentata in precedenza, ma solo per i prezzi della farina e a volte della carne). L’editto di Diocleziano stabiliva, in maniera molto dettagliata, i prezzi di tutti i prodotti artigianali, dei trasporti e persino dei salari: una cosa del genere, applicata a ogni bene economico, non s’era mai vista a Roma. Le tariffe previste per i vari lavoratori (che dovevano anche essere nutriti da chi li assumeva) erano abbastanza alte se paragonate al costo dei generi alimentari, ma erano scarse rispetto ai prezzi degli articoli artigianali. Per l’aumento non autorizzato dei prezzi stabiliti o l’occultamento dei prodotti era prevista la pena di morte. L’editto non fece altro che favorire il mercato nero e l’inflazione, in quanto lo Stato non era assolutamente in grado di controllare tutta l’attività produttiva, anche perché i centri rurali stavano diventano sempre più autonomi e insofferenti all’idea di dover subire diktat dall’alto, senza poter far valere le loro ragioni.

E comunque la riforma sarebbe fallita anche se lo Stato fosse riuscito a controllare l’intera attività economica, proprio perché la percezione che la popolazione aveva dello Stato era quella di un corpo estraneo, preposto a mantenere centinaia di migliaia di persone che non lavoravano in maniera produttiva e che anzi si comportavano con ogni sorta di angheria sui lavoratori. I grandi proprietari terrieri ne avevano bisogno per tenere sottomessi i contadini e per sedare le rivolte delle popolazioni colonizzate (di provincia), ma essi erano un’infima minoranza rispetto all’insieme della popolazione lavoratrice.

LE PERSECUZIONI AI MANICHEI E AI CRISTIANI.

Dopo la sconfitta dei Bagaudi e degli altri insorti, le forze della resistenza popolare si indebolirono. Una parte della popolazione cercò quindi rifugio nelle religioni che protestavano contro il culto ufficiale. Grande diffusione ebbe nelle province orientali e in Africa il manicheismo, penetrato nell’impero dall’Iran.

Diocleziano, il quale aveva dichiarato che i manichei erano uno strumento della nemica Persia, ordinò di giustiziare i loro predicatori e di bruciare i loro libri.

Ma un’importanza molto maggiore ebbe il cristianesimo, diffuso ormai non solo nelle province orientali, ma anche in quelle occidentali in tutti gli strati della società. Persino la moglie di Diocleziano era cristiana.

Lo strato superiore dei cristiani era pronto a scendere a patti con lo Stato, ma le grandi masse dei cristiani erano ostili all’impero. Non di rado avveniva che i cristiani rifiutassero di entrare nell’esercito o di sottomettersi alla disciplina militare o, ancora più, di riconoscere la natura divina dell’imperatore e di fargli sacrificio.

Gli scrittori cristiani deridevano e smascheravano i “falsi dèi”, basandosi, fra l’altro, anche su citazioni tratte da filosofi pagani, e andavano dimostrando l’ineluttabilità della fine del potere di Roma, che doveva crollare come erano crollati i regni degli Assiri, dei Persiani e dei Macedoni. Gli imperatori romani divinizzati erano per i cristiani dei briganti. Tutto ciò contraddiceva, evidentemente, l’idea della monarchia assolutista. Molti seguaci della vecchia religione, fra cui Galerio, affermavano che i cristiani stavano diventando un problema serio per la stabilità e la credibilità dello Stato, sicché Diocleziano si vide costretto a iniziare nuove persecuzioni contro di loro, dopo un quarantennio di relativa tolleranza. Quando scoppiarono le sommosse e in Nicomedia fu bruciato un palazzo (azione della quale Galerio dichiarò responsabili i cristiani), cominciarono ovunque arresti, torture, uccisioni. Le chiese cristiane venivano distrutte, i loro patrimoni confiscati, i loro libri bruciati. Grandi epurazioni furono fatte negli eserciti e nella burocrazia. Negli anni 303-4 la tetrarchia ebbe la seria intenzione di estirpare definitivamente il cristianesimo. Meno intense furono le persecuzioni nelle province occidentali, specie in Gallia e in Britannia, dove il cristianesimo era ancora poco diffuso.

Come nelle persecuzioni precedenti, molti cristiani rimasero fedeli ai loro principi religiosi e si rifiutarono di sacrificare vittime o di considerare Diocleziano un dio. In definitiva anche queste persecuzioni contro i cristiani non raggiunsero il loro scopo e con Costantino vi si rinunciò definitivamente, anzi si iniziò a considerare il cristianesimo non un problema ma una risorsa per la stabilità dell’impero.


Introduzione
1. I cinquant'anni di anarchia militare (236-284)
3. Costantino e la 'conversione' dell'Impero (305-337)
4. La fine dell'unità imperiale
5. Il crollo dell'impero romano
6. Il V sec. in Oriente
cfr La nascita del Cristianesimo e Storia del cristianesimo primitivo

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014