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Il narratore e il personaggio
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Il dialogo/interrogatorio tra narratore e personaggio segna l'approdo di una
lunga elaborazione, cominciata proprio con il capolavoro giovanile di Moravia,
il 'romanzo teatrale' Gli indifferenti.
Spessissimo Moravia ha sottolineato che il progetto che presiedette alla nascita de Gli indifferenti non fu di tipo contenutistico né, tanto meno, fu un progetto di critica antiborghese o antifascista: si trattò essenzialmente di un progetto formale. Nel Ricordo de "Gli indifferenti", del 1945, egli scrive: |
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[...] mi ero messo in mente di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di un'opera narrativa e quelle di un dramma. Un romanzo con pochi personaggi, con pochissimi luoghi, con un'azione svolta in poco tempo. Un romanzo in cui non ci fossero che il dialogo e gli sfondi e nel quale tutti i commenti, le analisi e gli interventi dell'autore fossero accuratamente aboliti in una perfetta oggettività". (34)
Tale progetto di romanzo fortemente mimetico si fondava su un profondo intreccio di motivi biografici e letterari. La lunga malattia che colpì Moravia, quand'egli aveva solo nove anni, il periodo di forzata immobilità che essa impose, la degenza in sanatorio e poi la convalescenza (35) determinarono non solo una serie notevolissima di letture (tra le quali spiccavano, insieme con Dostoevskij e Rimbaud, opere teatrali) (36), ma anche un particolare stato d'animo per cui, come osserva Moravia, "in quel tempo scrivere per me fu un surrogato delle esperienze che non avevo fatto e non riuscivo a fare" (37). Di qui la forte preferenza per la tragedia che non era "il frutto di una riflessione fredda e critica, bensì quello di un'inclinazione sentimentale molto profonda" (38). |
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A tutto ciò si collega strettamente la questione del personaggio:
D'altra parte mi ero convinto che non mettesse conto di scrivere se lo scrittore non rivaleggiava col Creatore nell'invenzione di personaggi indipendenti, dotati di vita autonoma; l'idea che l'arte potesse essere altra cosa che la creazione di personaggi non mi sfiorava neppure la mente. [...] Soprattutto la maggiore difficoltà la incontravo nello stabilire dei rapporti tra me e i miei personaggi. Sentivo che mi sarebbe stato relativamente facile fare dei personaggi semplici portavoci dei miei sentimenti e delle mie idee; ma non era questo il fine che mi proponevo. A questa volontà di marcare la distanza tra me e i miei personaggi si deve certamente quel molto o poco di moralismo e di mancanza di libertà poetica che i critici hanno notato nel libro. Io non ero mai sicuro di aver caratterizzato e resi ben distinti i personaggi. Anche molto del verismo del libro viene da questa insicurezza e non da una mia inclinazione al verismo. In realtà io sono lo scrittore meno verista che si possa immaginare. (39)
Una scelta, questa della centralità e dell'autonomia del personaggio, che Moravia dichiara fin dal suo esordio. Nel 1927, infatti, mentre già da circa un paio d'anni sta lavorando a Gli indifferenti, e l'anno stesso in cui pubblica la sua prima novella, Cortigiana stanca (40), appare su "La fiera letteraria" il suo primo intervento saggistico sul problema del romanzo: l'articolo C'è una crisi del romanzo?, l'unico testo firmato dallo scrittore con il nome di Alberto Pincherle (41).
E' merito di Pasquale Voza (42) aver riscoperto l'articolo C'è una crisi del romanzo?, un intervento acerbo, non privo di ingenuità, che tuttavia illumina idee, progetti, aspirazioni del precocissimo scrittore, illumina la poetica che si incarna nelle sue prime opere e che, anche se in modi differenti, ne caratterizza tutto l'itinerario artistico. (Si veda Il bisogno di personaggi e la tragedia impossibile)
Conviene forse ricordare brevemente che nel periodo che va dal dopoguerra alla fine degli anni Venti emerge in modo confuso e contraddittorio dal dibattito letterario italiano la questione del romanzo (Si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 3. Riviste, frammento, romanzo).
Prende cioè progressivamente forma e rilievo la reazione al frammentismo e al primato della prosa d'arte che "La Ronda" e, prima, "La Voce" avevano proclamato. Se il romanzo Rubè (1921) di Borgese costituisce, come è stato detto, "un tentativo isolato di superamento del frammentismo" (43), Tempo di edificare (1923) dello stesso Borgese, Omaggio a I. Svevo (1925) di Montale, la scoperta dunque di Svevo e, d'altra parte, il progressivo interesse per l'opera di Tozzi, sono i tasselli intorno a cui si sviluppa un dibattito sempre più intenso.
Un fenomeno comune tanto al frammentismo quanto a una buona parte della letteratura d'avanguardia europea è la nullificazione dell'unità e dell'azione del personaggio, l'emergere in modo predominante della dimensione della coscienza (44), la scomparsa, o per lo meno, la riduzione dell'intreccio.
Ne segue un fenomeno generale comune a moltissime esperienze narrative: il passaggio dal concreto all'astratto, dalla concreta, realistica descrizione di fatti all'analisi sfumata di sensazioni e stati d'animo sfuggenti e impalpabili, la rottura della linearità del tempo narrativo, la nascita di antistorie, storie che non raccontano più nulla, 'opere aperte' (45). La questione di fondo è quella della messa in discussione dell'unità dell'io, e della possibilità di narrare un unico ed univoco rapporto fra individuo e realtà.
L'articolo che il ventenne Alberto Pincherle pubblica nel 1927 si colloca - polemicamente - appunto in questo quadro. Il discorso di Moravia è lineare: il romanzo è malato, e la sua malattia è la "cerebralità", è la "gran fiera psicologica", la "zavorra psicoanalitica"; in sostanza è lo squilibrio fra pensiero (cioè commento psicologico del narratore) e reale azione dei personaggi.
Moravia non mette in discussione la grandezza di Pirandello, Joyce, Proust ("stelle di prima grandezza", li definisce), né d'altra parte propone che si ritorni "alla narrazione pura e semplice dei fatti, senza alcun commento psicologico": il problema è che "questo commento psicologico da qualche tempo ha superato di gran lunga, per la sua mole, il testo, cioè l'azione; dopo Raskolnikoff è venuto Leopold Bloom: dopo l'allucinante analisi del delitto quella non altrettanto interessante della defecazione (46) o di altre simili... atrocità; oppure il pensiero sostituisce addirittura l'azione ed abbiamo i monologhi più o meno ampi".
La terapia, secondo Moravia, non può essere che quella di riequilibrare il rapporto fra pensiero (commento psicologico) e azione, restaurando la funzione del personaggio. Vale a dire: contro la nullificazione dell'azione del personaggio, contro il suo ridursi a pura coscienza, il giovane Moravia, immobilizzato a lungo dalla tubercolosi ossea e innamorato del teatro, anche se per natura portato alla narrativa, cerca la funzione, il rilievo, la testimonianza del personaggio.
Il richiamo a Dostoevskij mi sembra il dato qualificante dell'intervento di Moravia. E' significativo che a Joyce venga contrapposto il creatore di un tipo di romanzo che Michail Bachtin (47) ha definito "polifonico", "dialogico", in cui cioè la 'voce' del narratore non predomina, ma si confronta, e su un piano di pari dignità, con quella autonoma dei personaggi (48), un romanzo con intreccio problematico, che esprime la crisi del rapporto con la realtà attraverso l'azione dei personaggi e attraverso l'incrociarsi dei punti di vista dei vari personaggi e del narratore.
Moravia dunque non oppone a Joyce uno scrittore della tradizione classica ottocentesca, uno scrittore - direbbe Bachtin - "monologico" (49), ecco perché ha ragione Voza quando commenta che secondo il nostro autore non si tratta di opporre "alla patologia della cultura e della letteratura decadente, contrassegnata da una paralisi progressiva dell'azione [...], una radicale alternativa regressiva", ma "di riequilibrare dall'interno di quello sviluppo patologico una nuova misura narrativa", così che la crisi che la letteratura decadente esprime in modo, per Moravia, troppo soggettivo, venga oggettivata grazie all'azione e alla rinnovata funzione del personaggio (50).
Il modello di Dostoevskij funzionava appunto in questa direzione: rifiuto di un romanzo in cui sensazioni e stati d'animo finissero con il prevalere nei confronti dell'azione, ma rifiuto anche di una restaurazione del romanzo realistico classico o di impianto naturalistico.
La centralità e l'autonomia del personaggio furono realizzate da Moravia in un primo tempo in due modi: per mezzo di una situazione narrativa in terza persona con narratore discretamente onnisciente, si tratta appunto del romanzo 'teatrale' Gli indifferenti (51); e poi con una narrazione in terza persona con narratore completamente e dichiaratamente onnisciente, si tratta del romanzo Le ambizioni sbagliate (1935), dei racconti lunghi de L'imbroglio (1937) e del romanzo breve La mascherata (1941).
Marcando l'onniscienza del narratore Moravia voleva, evidentemente, conferire maggiore spessore all'autonomia dei personaggi, approfondendo la distanza fra questi e l'autore/narratore; lo scrittore deve però aver avvertito il rischio insito in tale strategia: il rischio di ripristinare la situazione narrativa del realismo classico, quella con narratore onnisciente che fa rientrare la funzione dei personaggi all'interno della sua visione, imponendo in qualche modo il proprio punto di vista: con Bachtin ancora una volta si può dire il rischio del romanzo "monologico".
E' così che si spiega la svolta segnata dal romanzo breve Agostino (1944) (52). Qui infatti la narrazione rimane in terza persona, ma si restringe la prospettiva: abbiamo la "personale Erzählsituation" (53).
La svolta di Agostino apre la strada a quella che è destinata a diventare la situazione narrativa dominante nell'opera di Moravia, la "Ich-Erzählsituation", e, con questa, al romanzo-saggio (54). L'autonomia del personaggio dal narratore, sottolineata nella narrazione onnisciente dalla stessa marcata presenza e dal giudizio critico del narratore, si realizza ora attraverso l'eliminazione del punto di vista egemone dell'istanza narrativa (55).
E' su questo sfondo, da me solo schizzato per sommi capi, che bisogna porre l'esperimento de La vita interiore. La centralità del personaggio, caratteristica dominante da Gli indifferenti della narrativa moraviana, trova ne La vita interiore la massima espressione.
Il modo in cui Moravia mostra l'artificiosità e la "finzionalità" dell'operazione narrativa non indica il tentativo da parte dello scrittore di adeguarsi alla neoavanguardia, l'aspirazione a mostrarsi aggiornato e presente nel dibattito; rappresenta piuttosto il confronto fra le suggestioni della neoavanguardia e la riflessione condotta fin dall'inizio da Moravia sulla narrativa.
Un confronto peraltro polemico, almeno per quanto riguarda il ruolo egemone del personaggio (56). Mantenere la narrazione in prima persona, ma incorniciarla in un piano extranarrativo che svuota l'onniscienza dell'autore/narratore, ma non il suo punto di vista, ed esalta ad un tempo la funzione autonoma del personaggio e il confronto, quasi 'teatrale' del punto di vista del personaggio con il punto di vista del narratore: è questo intreccio che segna l'originalità e l'individualità dell'esperimento.
La vita interiore è in realtà una summa delle precedenti esperienze narrative del nostro autore (57): creando una sorta di metaromanzo del personaggio, Moravia fa il punto su tutta la sua attività di scrittore.
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