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Speranza, Impegno, Critica: 1942-1943Se fossi religioso direi che è arrivata l'apocalisse.
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Il patto di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto 1939 fu per tutte le forze antifasciste un fatto negativo, un elemento di confusione, l'annullamento degli sforzi di lotta unitaria. Lo fu anche per i comunisti, italiani e francesi, i quali ufficialmente accettarono ben presto la tesi di Stalin, secondo cui il conflitto, scoppiato il 1° settembre con l'invasione tedesca della Polonia e con la dichiarazione di guerra alla Germania (3 settembre) da parte di Francia e Inghilterra, era una conflitto fra briganti imperialisti, tutti nemici allo stesso modo del proletariato, là dove dunque non aveva senso parlare di "stati aggressori". |
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I comunisti italiani, tuttavia, in un documento del comitato centrale del partito del 10 ottobre 1939 affermarono che se Mussolini si fosse deciso per la guerra, il popolo italiano avrebbe dovuto lottare per la disfatta del governo fascista e per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile (si veda su questa tematica Spriano [1]).
Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, disse che fino ad allora l'Unione Sovietica era stata all'avanguardia dell'umanità, coerente nel suo antifascismo in Spagna e a favore della Cocoslovacchia: sulla base di tale politica, "il proletariato mondiale s'attendeva a vedere l'Unione Sovietica entrare risolutamente nel conflitto provocato dall'aggressione di Hitler contro la Polonia. Invece esso si trova dinanzi alla collusione risultante dai patti hitlero-sovietici del 23 agosto" (Spriano [op. cit. 1970: pp. 312-313]).
Si può comprendere quale effetto ebbero l'attacco nazista all'Unione Sovietica, il 22 giugno 1941 (e poi nel dicembre dello stesso anno l'intervento degli Stati Uniti) e i vibranti discorsi di Stalin, il 3 luglio e il 6 novembre 1941.
Nel primo discorso Stalin disse che la guerra contro la Germania fascista non poteva essere considerata una guerra qualunque, giacché essa aveva come scopo non solo quello di eliminare il pericolo che minacciava l'Unione Sovietica, ma anche quello di aiutare i popoli dell'Europa che gemevano sotto il giogo del fascismo tedesco; e i russi avrebbero avuto come alleati i popoli dell'America e dell'Europa, compreso il popolo tedesco oppresso dal nazismo; e dunque la guerra per la libertà condotta dall'Unione Sovietica si sarebbe fusa con la lotta dei popoli per l'indipendenza e per le libertà democratiche: sarebbe stato un fronte unico dei popoli in lotta per la libertà (ivi: p. 120).
Nel secondo discorso Stalin affermò che gli hitleriani erano degli ultrareazionari, nemici giurati del socialismo, i quali ingiuriavano il regime interno angloamericano, definendolo regime plutocratico; ma in Inghilterra e negli Stati Uniti, proseguiva Stalin, esistevano delle elementari libertà democratiche, i partiti operai, il parlamento, mentre in Germania questi istituti erano stati distrutti (ivi: p. 68).
Stalin abbandonava del tutto la tesi che egli aveva sostenuto dopo il patto tedesco-sovietico, non metteva più sullo stesso piano, quali briganti imperialisti, nazisti e democrazie capitaliste, anzi il patto veniva ora giustificato da Stalin quale strumento per prendere tempo e prepararsi ad un'aggressione nazista, cosa piuttosto difficile da credere, se si considera la totale impreparazione russa il 22 giugno.
E tuttavia, l'effetto fu straordinario: mentre i conservatori italiani parlavano di "Russia atea", di "terrore rosso", di "connubio plutocratico-comunista" - e un giornalista cattolico, tale Raimondo Manzini, aveva la spudoratezza di scrivere tre giorni dopo l'inizio dell'invasione che l'Europa, la vera e profonda anima europea, era sempre stata di istinto antibolscevico a causa della sua irriducibile essenza antimaterialista, e dunque la guerra antibolscevica ravvivava i sensi riposti della passione occidentale (ivi: 44) -, l'unità delle forze antifasciste tornò a giocare il ruolo decisivo.
Nell'ottobre del 1941, a Tolosa, fu costituito un "Comitato d'azione per l'unione del popolo italiano", nel documento programmatico si legge: "La lotta decisiva tra le forze dell'umanità libera ed il fascismo è impegnata su tutto il fronte. La perfida manovra hitleriana di dividere le forze democratiche, col pretesto della sedicente 'crociata antibolscevica' per cercare di batterle separatamente e di mascherare le smisurate ambizioni naziste di dominio, è fallita. Il nostro popolo deve prendere il suo posto di combattimento con coloro che hanno spiegato il vessillo dell'indipendenza e della libertà. La vittoria dell'Inghilterra, dell'Unione Sovietica, degli Stati Uniti d'America e dei popoli loro alleati, sarà la vittoria della causa dell'indipendenza e della democrazia, sarà la vittoria dell'Italia e segnerà la sua liberazione." (ivi: p. 66)
Lo stato d'animo che ben traspare dalle parole citate, tocca il suo apice nel 1942. Il 1942 è l'anno di Stalingrado: l'epica resistenza e la vittoria dei popoli dell'Unione Sovietica hanno risonanza ed importanza sul piano dei rapporti fra le nazioni (anche l'antisocialista Churchill si convince che l'assetto mondiale dopo il conflitto dovrà fare i conti con l'Unione Sovietica), sul piano della lotta antifascista (per quanto riguarda l'unità dei gruppi antifascisti) e sul piano dell'impegno degli intellettuali, animati da una nuova speranza.
Ancora più marcato sarà il bisogno di impegno, la maturazione antifascista da parte degli intellettuali italiani quando anche l'Italia entrerà nel conflitto mondiale. E tra gli intellettuali italiani troviamo anche il 'disperato' Alberto Moravia (si veda La modellizzazione del totalitarismo), che scrive, proprio nel '42 contemporaneamente alla battaglia di Stalingrado, il lungo saggio La speranza ossia Cristianesimo e Comunismo (il saggio fu pubblicato nel 1944 per i tipi della casa editrice Documento; ora in: A. Moravia, Impegno controvoglia, Bompiani, Milano 1980, pp. 11-29, da cui citerò limitandomi all'indicazione della pagina).
E' "un certo sentimento tenace e lontano di speranza", dice Moravia (p. 11), che fa vivere gli uomini, che li spinge a costruire le civiltà, che li fa essere uomini. La speranza è in effetti l'operazione psicologica per cui l'uomo vince la propria morte, dimenticandola attraverso la vita altrui, a vantaggio dell'umanità intera. Il cristianesimo ha parlato per primo in modo esplicito della speranza "apportatrice di vita" (p. 15), della speranza nelle "cose immortali", ossia "in termini umani" nelle "cose impossibili; o per lo meno che tali sembrano alla mente umana" (p. 13).
Per quanto riguarda il mondo antico, prima della venuta di Cristo, ne sappiamo ben poco: "Conserviamo bensì i templi in cui si adoravano le divinità, conosciamo gli antri dove profetavano le sibille; ma non sono ormai che vuoti gusci, ridotti i primi a ruderi poetici, i secondi a echeggianti spelonche." (p. 15)
Sicuro è che quando decaddero le religioni antiche, l'umanità trovò una nuova speranza nel cristianesimo, nato in un angolo quasi sconosciuto dell'impero romano, e presentatosi prima di tutto come speranza degli schiavi (p. 16).
Oggi succede che da una parte "possiamo tutti dirci cristiani", perché "la predicazione cristiana è penetrata profondamente nel costume", dall'altra parte un'altra forma di servitù, un'altra forma di disperazione, contro le quali il cristianesimo nulla può, ha avvinto gli uomini: la servitù economica e la disperazione che ne deriva (pp. 20 e 21).
"La scienza di Marx e dei suoi seguaci", il comunismo, "rispecchia la particolare qualità della servitù odierna", e rispecchia anche - proprio perché il comunismo si presenta come scienza, come intreccio scientifico di teoria e pratica, là dove la teoria guida la pratica, e la pratica influenza la teoria - la odierna fede assoluta nella scienza (pp. 22 e 23).
Per il comunismo "la materia" è la stessa considerata dal cristianesimo, è l'uomo; e identici sono i fini: "la salvezza, liberazione e finale trionfo dell'uomo", ma la speranza del comunismo si basa sul riconoscimento del fattore economico e dei suoi rapporti con i valori umani, e per questo, secondo il comunismo, non si tratta di correggere l'attuale sistema economico, ma di distruggerlo, distruggendo la proprietà e dando in questo modo all'uomo "la speranza che lo fa vivo e lo fa uomo": la proprietà assume così lo stesso ruolo del peccato originale secondo i cristiani (p. 24).
Per liberare gli uomini dal peccato originale e salvarli dalla disperazione il cristianesimo proponeva la libertà attraverso il Cristo e il finale trionfo della città di Dio.
Per liberare gli uomini dalla proprietà e salvarli dalla disperazione, il comunismo propone la libertà attraverso la rivoluzione e il finale trionfo del regno della libertà.
Si noti che così nella città di Dio, sede della libertà cristiana, come nella città terrena, sede della libertà comunista, il tempo è sospeso, la storia non esiste più, l'uomo vive in stato di perfezione.
Si noti ancora che così per i cristiani come per i comunisti tutto quanto ha preceduto cristianesimo e comunismo, l'ha preparato e in esso confluisce e trova il suo sbocco.
Tutta l'apologetica cristiana si sforza di dimostrare che il paganesimo non è che una premessa altrettanto necessaria che significativa all'avvento del Cristo.
Dal canto suo Marx considera le varie economie arcaiche, patriarcali, feudali, borghesi come altrettante tappe inevitabili verso quella che tutte le risolve e le conclude, l'economia comunista. (pp. 24-25)
È evidente che i comunisti non potrebbero ottenere il consenso, l'abnegazione, il sacrificio che essi ottengono, se "non facessero risplendere in fondo ai tempi la speranza ideale e trascendente della città terrena, perfetta, in cui l'uomo è libero, in cui essendo cessata l'oppressione di una classe sopra un'altra, la storia non esiste più, in cui appunto il tempo è fermo e tutto gira attorno al sole immobile e beato della libertà finalmente raggiunta."
La città di Dio dal cielo è stata così portata in terra, ma ha mantenuto la sua perfezione, il suo abbacinante splendore, e costituisce la speranza ultima a cui hanno fissi gli occhi i comunisti di tutto il mondo (p. 26).
Ed è in vista di questa speranza, di questa città terrena, che [...] i comunisti di tutto il mondo lottano e combattono, soffrono e muoiono; è anche in vista di questa città terrena così libera, di questa speranza di eterna libertà, che sopportano e accettano la dittatura, la disciplina del partito, i dogmi, le scomuniche, la teologia, l'ortodossia, i concili e tutte, insomma, le infinite limitazioni alla personalità e alla contingente e immediata libertà che rendono agli effetti pratici il comunismo tanto simile al cristianesimo e il partito comunista alla chiesa. (ivi)
E tuttavia: come il cristianesimo assorbì alcuni valori culturali del paganesimo, così il comunismo dovrà assorbire alcuni valori positivi del liberalismo (Moravia osserva tra parentesi che cristianesimo e liberalismo sono oggi una sola cosa, ed anzi il secondo deriva - attraverso il protestantesimo - dal primo, tanto è vero che i regimi liberali sono forti nei paesi in cui è forte l'ideale cristiano, in Inghilterra e negli Stati Uniti, p. 28), in modo particolare il valore "della personalità umana e della sua dignità [...] che nel comunismo non sembra avere importanza adeguata o almeno non immediatamente", ma anche il valore di alcuni fattori indispensabili all'uomo, "fattori nazionali, sentimentali, estetici, culturali".
E allora forse verrà un giorno in cui comunismo e umanità saranno una sola cosa. "D'altra parte non è detto che la perfetta città terrena, speranza massima del comunismo, si realizzi.
Forse non si realizzerà affatto. Ma l'importante non è tanto che questa città avvenga, quanto che esista la speranza dell'avvento. Soltanto a questo patto l'uomo cesserà di disperare. Soltanto a questo patto ritroverà le vie maestre della civiltà." (pp. 28-29)
Conviene innanzi tutto precisare: Moravia non è stato un marxista ortodosso, non ha mai amato le filosofie sistematiche, "che pretendono di spiegare il mondo una volta per sempre, cioè di esaurirlo" (Camon [2], corsivo dell'autore), ha inteso il marxismo "in senso diagnostico e sociologico", conciliabile con altri metodi di conoscenza elaborati dalla cultura occidentale, come l'antropologia strutturale e la psicanalisi (ivi: 40).
Dunque non ha molto senso discutere la correttezza filologica e filosofica con cui lo scrittore si confronta con il marxismo ne La speranza.
Il saggio è importante, e perciò ho cercato di esporne con precisione i nodi di fondo, per altre ragioni: perché da una parte lascia intravedere lo stato d'animo di Moravia nel 1942, dinanzi alla lotta unitaria contro il fascismo, dinanzi agli immani sacrifici dei popoli dell'Unione Sovietica e alle sofferenze di tutti i popoli assoggettati dai nazifascisti, quando era inevitabile sperare che da tali sacrifici, sofferenze e lotte potesse nascere una civiltà diversa e più giusta; dall'altra parte, però, il saggio si collega con la modellizzazione operata dal racconto Mamamel e Vusitel (per i riferimenti a questo racconto si veda Il soffio dell'assurdo) e dal romanzo La mascherata (per i riferimenti a questo romanzo si veda La modellizzazione del totalitarismo), e al tempo stesso costituisce la base dell'ideologia dell'intellettuale Moravia negli anni seguenti: vale a dire, il significato de La speranza non è solo contingente, ma generale.
In sostanza, il saggio mette in luce il ruolo della utopia, "oggetto di un'ispirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica", "ideale etico-politico destinato a non realizzarsi dal punto di vista istituzionale, ma avente ugualmente funzione stimolatrice nei riguardi dell'azione politica, nel suo porsi come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti", così il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli.
L'utopia può avere due effetti: può spingere alla lotta, all'azione, può costituire una ragione assoluta per agire, cioè proprio ciò che non ha il Michele de Gli indifferenti (si veda Il narratore e il personaggio e Il bisogno di personaggi e la tragedia impossibile), ciò che ha invece Saverio ne La mascherata, può dunque essere un ideale che serve da antidoto alla disperazione e da mezzo per costruire una civiltà; ma può anche determinare un oscuramento della ragione, il rifiuto della conoscenza, può condurre al fanatismo (è il caso appunto di Saverio), può costituire uno strumento di potere che, in nome della "città futura", disprezza, offende, violenta quel valore fondamentale costituito dalla dignità umana.
Il racconto Mamamel e Vusitel si conclude con le seguenti parole: " 'Ma il passato non torna più e l'avvenire non viene mai,' [...]. In queste parole, meglio che in qualsiasi severo studio, è dipinta la sorte amara ma così umana degli abitanti di Mamamel e Vusitel".
Proprio in nome di questa sorte, amara ed umana, di coloro che soffrono, Moravia sottolinea l'importanza della speranza offerta dal comunismo, che fa accettare la dittatura, i dogmi, le scomuniche (evidenti allusioni allo stalinismo); egli però sottolinea anche la necessità che presto o tardi il valore della personalità umana e della sua dignità, il valore della cultura, il valore della libertà vengano fatti propri dal comunismo, altrimenti non rimarrà che una scelta: quella scettica e disperata di Sebastiano ne La mascherata.
Sebastiano incarnava il disgusto, la ripugnanza per le masse che affluivano nei fascismi e nello stalinismo. Nel saggio La speranza Moravia considera, in generale, l'uomo che ha bisogno di vincere la propria morte, appunto sperando.
E tuttavia, tra le righe, si intravede ciò che lo scrittore ha in seguito esplicitato: "Il tema [de La speranza] è il seguente: le masse vogliono credere, cioè sperare, in qualche sistema religioso, morale filosofico, ideologico ecc.; soltanto l'intellettuale è capace di vivere nella disperazione che, a fil di logica, dovrebbe essere la condizione normale dell'uomo." (3)
Come dicevo, si tratta di una spiegazione a posteriori: il testo cui faccio riferimento è "Sedici domande di Renzo Paris a Alberto Moravia", che costituisce l'introduzione al volume Impegno controvoglia del 1980. Ed infatti, due anni dopo (1982) Moravia pubblica il romanzo 1934 (ambientato nel periodo fascista, come indica il titolo), il cui tema è appunto il tentativo di un intellettuale di "stabilizzare la disperazione", con una chiara polemica nei confronti delle masse che sostengono i regimi totalitari. Ma la 'voce' dello scettico Sebastiano risuona nelle parole dell'intellettuale Moravia molto prima, già nel 1943, già l'anno successivo a La speranza.
Dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943, per i riferimenti storici si veda Appunti sul neorealismo, 2. La Resistenza e la crisi dell'unità antifascista), Moravia, "trasportato dalla logica degli avvenimenti che, in quei tempi, era sinonimo di impegno" (Sedici domande: op. cit., p. V), collaborò al giornale antifascista "Il Popolo di Roma", diretto nel periodo badogliano da Corrado Alvaro, pubblicando due articoli, Folla e demagoghi, il 25 agosto, e Irrazionalismo e politica, l'8 settembre (ora in A. Moravia, Impegno controvoglia, cit., pp. 3-6 e 7-10, da cui citerò).
In Vita: p. 138 (4) Moravia ha ricordato ciò che successe a Roma il 25 luglio del '43, alla notizia della caduta di Mussolini:
Ricordo che tutta la città era piena di gente che andava gridando: 'Hanno arrestato Mussolini', 'Abbiamo la libertà' e cose simili, e poi trascinavano per le strade della città delle teste di gesso di Mussolini e altri simboli del fascismo. Altri salivano sulle scale e scrostavano con martelli e distruggevano i fasci scolpiti un po' dappertutto.
Proprio queste manifestazioni di folla, il 25 luglio e i giorni successivi, costituiscono il punto di partenza di Folla e demagoghi, giacché anche nel ventennio fascista - nota Moravia - per i motivi più diversi la folla si è accalcata nelle piazze, ha applaudito, e si trattava di manifestazioni spontanee, nessuno era veramente costretto ad andarci, e infatti vi fu chi non ci andò. Così come spontanee sono le manifestazioni a partire dal 25 luglio.
Poiché è difficile credere che esistano due distinte moltitudini, la prima che applaudiva durante il ventennio, la seconda che applaude ora, bisogna pensare che si tratti sempre della stessa folla. Come si vede, un esordio assolutamente critico, controcorrente, nel quale Moravia riprende la polemica contro le masse che già era stata di Sebastiano. Basti leggere:
Ora, è giunto il momento di dirlo, a noi le manifestazioni di piazza non piacciono affatto. Negli anni passati, come vedevamo un assembramento, un'adunata, una sfilata, scantonavamo; e le grida e gli evviva ci facevano addirittura raggricciare la pelle. Ma non per questo davamo al fascismo la colpa di questa nostra ripugnanza. Infatti scantoniamo anche oggi che il fascismo non c'è più. Il fascismo semmai aveva il grave torto di favorire con ogni mezzo questo andazzo piazzaiolo. Ma la folla agli stadi, alle corse automobilistiche e, insomma, le folle senza più, ci hanno sempre fatto lo stesso effetto orripilante. (Impegno controvoglia, cit., p. 3)
Questo "effetto orripilante" si spiega - e qui l'intellettuale chiarisce ciò che l'artista raffigurava con il personaggio di Sebastiano - con la constatazione che le manifestazioni della folla, la quale non è una "moltitudine di individui pensanti", ma "una specie di poltiglia" indifferenziata, rappresentano un preciso modo di fare politica: quello della demagogia.
Il consenso, l'entusiasmo della folla... Sarà cosa disperata sperare nell'educazione politica della nazione finché ci saranno dei politici che ricercheranno per le piazze quel consenso e quell'entusiasmo. Questi politici sono e saranno sempre dei demagoghi. Ossia la peggiore genia che possa affliggere un paese. [...]
Demagoghi e folla, il cerchio è chiuso e la perversità dei primi si nutre della pazzia della seconda. È una specie di circuito magico da cui sono rigorosamente escluse la verità e la ragione. (ivi: 4)
Moravia individua l'aspetto più negativo del 'circuito' folla-demagoghi nella mancanza di conoscenza che ne deriva: "L'educazione politica si ottiene facendo sì che gli uomini riflettano, leggano, discutano, distinguano, in una parola, conoscano. Ma quanti di coloro che ieri applaudivano in piazza sapevano, veramente sapevano, che cos'era il fascismo? Quelli che lo sapevano, se ne stavano a casa." (ivi)
Evidentemente tale mancanza di conoscenza fa il gioco del potere, è funzionale agli interessi dei demagoghi, i quali provocano il fanatico consenso e lo sfruttano per imporre le loro decisioni.
Di qui il consiglio di Moravia alla folla: quello di sciogliersi una volta per tutte, di tornare ad essere degli individui e, da individui, leggere, riflettere e discutere. E il consiglio ai politici: di non fare politica nelle piazze, di recuperare i valori della competenza, della razionalità, della onestà.
Dopo il ventennio fascista, il fine che ci si deve proporre in Italia è l'educazione politica del maggior numero di individui, è il superamento dell'infantilismo politico che ha caratterizzato il periodo fascista: ma che questo superamento avvenga senza folle e senza demagoghi (ivi: 6).
Il secondo articolo, Irrazionalismo e politica, ruota intorno alla convinzione secondo cui all'origine dei grandi rivolgimenti politici e sociali non vi siano soltanto, o soprattutto, fattori irrazionali, come l'entusiasmo, il fanatismo, la volontà di agire, ma un principio razionale.
Le forze irrazionali non possono realizzare il rinnovamento morale e sociale, le rivoluzioni "sono opera di pensiero, di dottrina, di ragione", si tratta sempre di "principii profondamente meditati e vagliati", che possono avere anche una applicazione violenta, ma senza che prevalga l'irrazionalità. La quale irrazionalità caratterizza, invece, i movimenti conservatori, che mascherano [si pensi a La mascherata!] la difesa di precisi interessi e privilegi con i miti, con le idolatrie, oppure con vecchi principî razionali svuotati di ogni significato (ivi: pp. 8-9).
Si vede bene come questa convinzione completi la tesi esposta ne La speranza: la speranza è necessaria, ma può anche diventare - e in effetti spesso diventa - un atteggiamento irrazionale, e può essere strumentalizzata.
E tutto ciò completa a sua volta la tesi sostenuta in Folla e demagoghi: la demagogia è il contrario del pensiero, della dottrina e della ragione, essa sfrutta proprio gli istinti irrazionali delle masse.
In Italia, aggiunge Moravia, l'irrazionalismo fu introdotto nel costume e nella cultura più superficiale da Gabriele D'Annunzio, e trovò la sua catarsi nel nazionalismo e in quell'insieme di motivi, dalla difesa della tradizione al desiderio del nuovo, dalla paura alla volontà dell'ordine, che caratterizzarono le scelte di coloro che aderirono al fascismo.
Comincia con questo articolo di Moravia quella revisione critica del ventennio fascista, del ruolo della cultura, della letteratura, dei 'maestri di vita' nel ventennio, che si sviluppa negli anni successivi, e che, intrecciandosi con la problematica dell'impegno dell'intellettuale e dell'artista, caratterizza la stagione neorealista (cfr. per uno sguardo complessivo Manacorda [5]; si veda anche Appunti sul neorealismo).
Ma l'elemento più importante nell'intervento di Moravia è costituito dal consiglio di non ripetere l'errore basilare commesso dal fascismo, cioè l'uso dei "metodi della violenza, dell'entusiasmo fine a se stesso, e della fede vuota", ma piuttosto di mettere l'entusiasmo e la fede al servizio dell'intelligenza, del pensiero critico. Ancora una volta, dunque: un invito a conoscere. La speranza di Moravia sembra proprio essere speranza nella conoscenza.
Fra il 9 e l'11 luglio del 1943 Roma viene occupata dai tedeschi, e dunque torna il fascismo: cominciano gli arresti e le vendette. Moravia si trattiene ancora a Roma, ma viene a sapere da un giornalista ungherese, suo amico, di essere nella lista delle persone da arrestare, e decide di partire con la moglie per Napoli.
Non poterono proseguire oltre Fondi e furono costretti a rifugiarsi in un villaggio della Ciociaria, Sant'Agata. Vi rimasero dalla fine del settembre 1943 al maggio 1944. L'avanzata anglo-americana consentì loro di lasciare Sant'Agata e, dopo un breve soggiorno a Napoli e a Sorrento, di rientrare a Roma, liberata nel giugno del '44.
Benedetto Croce scrisse nel suo diario in data 29 maggio 1944: "E' venuto a Sorrento lo scrittore di romanzi Moravia, che per più mesi è dovuto rimanere celato insieme con la sua signora, sopra una montagna del territorio romano ed ora è stato liberato dall'avanzata degli Alleati. Mi ha versato l'animo suo disperato del presente e dell'avvenire, né ha saputo dirmi altro di più confortante." (Cfr. Ajello [6] e Vita: [7]).
Sembra che la disperazione di Sebastiano si sia ormai imposta. E tuttavia due anni dopo, nel 1946, Moravia scrive il saggio L'uomo come fine, pubblicato prima su "Nuovi Argomenti", nel 1954, poi nel volume L'uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, pp. 193-248.
Orbene: L'uomo come fine, scritto dopo l'esperienza in Ciociaria e dopo la Liberazione, costituisce la summa della riflessione di Moravia e segna anche la assoluta originalità di tale riflessione nel dibattito dell'epoca.
Asor Rosa [8] ha notato che al centro de L'uomo come fine "sta da una parte un recupero della nozione morale dell'uomo, dall'altra una critica implacabile ad ogni forma di potere che riduca l'uomo a mezzo."
Vi è un rapporto fra i due punti: il mondo moderno appare a Moravia come un incubo assurdo, perché esso è caratterizzato da un potere politico che usa l'uomo come mezzo per affermare e raggiungere i propri scopi economici, politici, ideologici. Moravia non fa più differenza fra stato totalitario e stato democratico: è lo stato in sé che gli appare totalitario, e per questo può tranquillamente ripubblicare il suo saggio nel 1964: perché l'epoca del benessere, del miracolo economico, è, a suo parere, estrema manifestazione dell'antiumanesimo, cioè dell'uomo usato come mezzo.
La speranza non è scomparsa, è sempre più critica, più disincantata, quasi “controvoglia”, come l’impegno controvoglia di Moravia nel dopoguerra, ma rimane. E gioca il suo ruolo nella scrittura di capolavori come La ciociara (1957) e La noia (1960).
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