Rousseau: un teatro a Ginevra?

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Rousseau: un teatro a Ginevra?

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Giuseppe Bailone

Il 20 ottobre 1758, nel momento in cui gli enciclopedisti sono più in difficoltà per i duri colpi della censura governativa, Rousseau pubblica una lunga Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, una risposta polemica alle critiche che d’Alembert, in accordo con Voltaire, aveva espresso su Ginevra alla voce ad essa relativa dell’Enciclopedia. In particolare, Rousseau boccia la proposta di d’Alembert di aprire un teatro a Ginevra.1

La proposta, scrive Rousseau, solleva problemi che finora sono stati affrontati solo da “gente di chiesa” e da “gente di mondo” con tutti i loro pregiudizi: è ora che persone come d’Alembert li affrontino con tutta la loro competenza. Rousseau non pretende di sostituirsi a lui, dice di limitarsi a cercare i chiarimenti che quella proposta ha reso necessari.

“A un primo rapido sguardo gettato su queste istituzioni, vedo subito che lo spettacolo è un divertimento; e se è vero che i divertimenti sono necessari per l’uomo, converrete che devono, almeno, essere permessi nella misura in cui sono necessari, e che ogni divertimento inutile è un male per un essere la cui vita è così breve e il cui tempo è così prezioso. La condizione d’uomo ha i suoi piaceri, che derivano dalla sua natura, che nascono dalle sue fatiche, dai suoi rapporti, dai suoi bisogni; questi piaceri, tanto più dolci per chi li gusta con animo sano, rendono chiunque ne sappia godere, poco sensibile a tutti gli altri piaceri. Un padre, un figlio, un marito, un cittadino hanno dei doveri così piacevoli da adempiere, da non aver tempo per annoiarsi. Un buon impiego del tempo lo rende ancora più prezioso, e meglio lo si mette a profitto, meno se ne trova da perdere. Perciò si vede costantemente che l’abitudine al lavoro rende insopportabile l’inazione e che una coscienza tranquilla toglie il gusto dei piacerei frivoli; è invece la scontentezza del proprio operato, il peso della noia, l’allontanamento dai gusti semplici e naturali, che rendono il divertimento inconsueto. Non mi piace che ci sia continuamente bisogno di far dipendere i propri sentimenti dal palcoscenico, come se ci si trovasse male nel proprio intimo. […] Noi crediamo che il teatro sia un punto di riunione, in realtà è il posto in cui ciascuno si isola; vi si va per dimenticare i propri amici, i propri conviventi, i propri parenti; per interessarsi a delle favole, per piangere le sventure dei morti o per ridere a spese dei vivi”.2

Il teatro offre un divertimento di cui la gente di una piccola città come Ginevra, onesta, in pace con se stessa e con i propri doveri, non ha alcun bisogno e dal quale avrà effetti morali solo negativi. Infatti, lo stesso spettacolo non produce gli stessi effetti su pubblici diversi.

“La specie umana è unica lo ammetto; ma l’uomo, modificato dalle religioni, dai governi, dalle leggi, dai costumi, dai pregiudizi, dai climi, diventa così diverso da se stesso che non bisogna più cercare tra di noi ciò che è buono per l’uomo in generale, ma ciò che è buono per tutti gli uomini in tempi e luoghi diversi. Così le commedie di Menandro, adatte per il teatro di Atene non lo erano per quello di Roma; così i combattimenti dei gladiatori che ai tempi della repubblica animavano il coraggio e il valore dei Romani, al tempo degli imperatori non ispiravano altro che amore per il sangue e crudeltà alla plebaglia romana; lo stesso oggetto, offerto in tempi diversi allo stesso popolo, gli insegnò prima a disprezzare la propria vita, in seguito a giocare con la vita altrui”.3

È il pubblico a determinare con i suoi gusti il genere degli spettacoli.

“Il palcoscenico è generalmente un ritratto delle passioni umane, il cui originale è nell’animo di tutti: ma se il pittore non lusingasse queste passioni, gli spettatori sarebbero presto scontenti e non vorrebbero più vedersi sotto un aspetto che li rendesse spregevoli a se stessi. Se egli dà colori odiosi a qualcuna di queste passioni, lo fa soltanto con quelle non comuni e naturalmente odiose. Così l’autore non fa che seguire il sentimento del pubblico, e queste passioni ributtanti vengono sempre usate per sottolinearne altre, se non più legittime, almeno più gradite al pubblico. Solo la ragione è inutile sul palcoscenico. Un uomo senza passioni, o sempre capace di dominarle, non interesserebbe nessuno. […] Non si attribuisca dunque al teatro la capacità di cambiare sentimenti e costumi che esso può soltanto seguire e abbellire. Un autore che volesse contrastare i gusti generali, sarebbe presto ridotto a scrivere solo per se stesso. […] L’effetto generale del teatro è di rafforzare il carattere nazionale, di favorire le inclinazioni naturali, di dare una nuova forza a tutte le passioni. In tal senso, dato che questo effetto sembrerebbe limitarsi a rafforzare i costumi tradizionali senza cambiarli, il teatro risulterebbe come cosa positiva per i buoni, negativa per i cattivi”.4

Perché, allora, non introdurre il teatro nella virtuosa Ginevra, unendo così, come proponeva d’Alembert, “la saggezza di Sparta e la cultura di Atene”?

Perché resta da vedere “se le passioni troppo favorite non degenerino in vizi”.

E il teatro pretende di “purificare le passioni favorendole”, mentre “il solo strumento che serva a modificarle è la ragione”, fuori luogo in teatro. Dovendo, quindi, puntare sulle passioni, l’autore di teatro “è costretto a scegliere” quelle che piacciono al suo pubblico, perché la “prima legge della sua arte” è “quella del successo, che è di fondamento di tutte le altre”.

Evidentemente Rousseau non crede nell’aristotelica funzione catartica della tragedia. Per lui, “il teatro purifica tutte le passioni cui non siamo soggetti e fomenta quelle che già abbiamo”.

Solo le leggi, l’autorità delle opinioni e l’attrazione del piacere possono agire sui costumi di un popolo, dice Rousseau.

“Ora, le leggi non hanno alcuna influenza sul teatro, la cui minima costrizione sarebbe causa di fastidio più che di divertimento. L’opinione non dipende affatto da esse, dato che il teatro, più che dettare le leggi al pubblico, ne riceve da esso; quanto al piacere che se ne può ricavare, esso consiste, tutt’al più, nel farci tornare a teatro più spesso”.5

Il teatro non rende alcun servizio alla virtù.

L’uomo nasce buono. L’amore per il bene e l’odio per il male “è in noi, non nelle commedie. […] L’autore non lo inventa, lo trova; e da questo sentimento puro, che egli sa sfruttare, nascono le lacrime che ci fa versare”.6

Quando sulla scena si loda il bene, non s’insegna nulla di nuovo: “L’animo umano è sempre retto in tutto ciò che non lo riguarda personalmente; nelle dispute nelle quali siamo solo degli spettatori, prendiamo subito le parti di chi è nel giusto e non c’è nessun atto di cattiveria che non c’indigni profondamente finché non sia un atto utile per noi. Ma non appena il nostro interesse sia chiamato in causa, i nostri sentimenti vengono corrotti, ed è allora soltanto che preferiamo il male che ci è utile al bene che la natura ci spinge ad amare. […] Quando un uomo ha ammirato le buone azioni delle commedie, quando si è commosso per sofferenze immaginarie, che altro gli si può chiedere? Lui stesso non è forse contento di sé? Non applaude la propria purezza d’animo? Forse che non si sdebita di tutto ciò che deve alla virtù rendendole quest’omaggio? Che cosa dovrebbe fare di più? Forse praticarla lui stesso? Ma lui non è certo un attore, non ha nessuna parte da sostenere. Più ci rifletto, più mi convinco che ciò che viene rappresentato al teatro, viene allontanato da noi, non avvicinato”. E il risultato è che “ci sentiremmo altrettanto ridicoli nell’adottare la virtù degli eroi teatrali quanto nel parlare in versi o nell’indossare abiti di Roma antica. Ecco dunque, più o meno, a cosa servono tutti questi nobili sentimenti e tutte le brillanti massime che vengono enunciate con enfasi; servono a essere relegate per sempre sul palcoscenico, servono per mostrarci la virtù come se fosse una finzione teatrale, adatta a divertire il pubblico, ma che sarebbe follia voler trasferire nella vita sociale”.7

Il teatro allontana dalla realtà, altera i rapporti delle cose: “Nel comico, li sminuisce e li mette a un livello subumano; nel tragico li esalta per renderli eroici e per metterli al di sopra dell’umanità. In tal modo questi rapporti non possono mai essere alla loro altezza, e noi a teatro vediamo sempre personaggi diversi dai nostri simili”.

Le tragedie “abituano gli occhi del popolo a degli orrori di cui dovrebbe nemmeno essere a conoscenza, a dei crimini che non dovrebbe nemmeno ritenere possibili. […] Fortunatamente la tragedia, così com’è attualmente, è tanto lontana da noi, ci presenta esseri così giganteschi, così goffamente esagerati, così chimerici, che l’esempio dei loro vizi non è più contagioso di quanto sia utile quello della loro virtù. […] Ma così non è della commedia i cui costumi hanno un rapporto più immediato con i nostri e i cui personaggi somigliano di più agli uomini. Tutto nella commedia è pericoloso e pernicioso, tutto comporta conseguenze per gli spettatori; il piacere stesso della comicità essendo fondato su una anomalia dell’animo umano, ne consegue che più una commedia è piacevole e perfetta, più il suo effetto è funesto alla morale”.8 Le opere di Molière, “il più perfetto” degli autori comici, sono “una scuola di vizi e di cattivi costumi”.

Gli effetti del teatro, negativi a Parigi, diventano devastanti in una piccola comunità, mondo umano idealizzato, ma ancora per poco, da Rousseau.

“Mi ricordo – scrive Rousseau – di aver visto, quando ero giovane, presso Neuchâtel, uno spettacolo molto piacevole e forse unico al mondo: una montagna intera coperta di case delle quali ciascuna sta al centro dei campi che ne dipendono; in modo che queste case, separate da distanze proporzionali alle ricchezze dei proprietari, offrono contemporaneamente ai numerosi abitanti di questa montagna il raccoglimento tipico di un eremo e i piaceri della società. Questi felici contadini, tutti agiati e liberi da tasse, imposte, balzelli, corvè, coltivano con tutta la cura possibile dei campi il cui prodotto tocca a loro, e usano il tempo libero che questa coltivazione lascia loro per costruire con le loro stesse mani mille cose utili e per mettere a profitto la genialità inventiva fornita loro dalla natura. Soprattutto d’inverno, tempo in cui il livello delle nevi impedisce una facile comunicazione, ognuno di essi, chiuso al calduccio con la sua famiglia nella sua bella casetta di legno così pulita, che ha costruito da sé solo, si occupa di mille piacevoli lavori che allontanano la noia del suo asilo e aumentano il suo benessere. Mai nessun ebanista, magnano, vetraio, tornitore professionista è entrato in questo paese; tutti fanno questi lavori per se stessi, nessuno per gli altri […]. Non è tutto: possiedono anche libri utili e sono abbastanza istruiti […]. Tutti conoscono un po’ di disegno, di pittura, di aritmetica; la maggior parte suona il flauto, molti conoscono un po’ la musica e cantano armoniosamente. Queste arti non vengono loro insegnate da maestri, ma le derivano, per così dire, per tradizione […]. Dopo questa breve descrizione, supponiamo che sulla montagna di cui ho parlato, in mezzo alle case, venga costruito un teatro fisso e poco costoso, col pretesto di offrire un onesto divertimento a persone continuamente occupate e in grado di sostenere una piccola spesa; ammettiamo che questa gente si appassioni a tale spettacolo e vediamo che cosa può derivare da una tale istituzione.

Mi accorgo come prima cosa che, da quando il loro lavoro non sarà più il loro divertimento avendone acquistato uno nuovo, quest’ultimo li allontanerà dal primo; lo zelo non produrrà più tanto tempo libero e non sarà più origine delle stesse invenzioni. Del resto, ci sarà ogni giorno una reale perdita di tempo per quelli che assisteranno agli spettacoli; non si ricomincia a lavorare quando la propria immaginazione è piena di quello cui si è appena assistito: se ne discute o vi si pensa. Conseguentemente il primo danno sarebbe un rallentamento del lavoro.

Anche se si paga poco all’ingresso, è sempre una spesa che prima non veniva fatta. Si deve pagare per se stessi, per la moglie, e quando li si porta, anche per i figli; e spesso bisogna portarceli. Oltre a ciò, un operaio non si mostra in pubblico col vestito da lavoro: deve mettersi perciò più spesso l’abito da festa, cambiarsi più spesso la biancheria, incipriarsi, radersi; tutto questo costa tempo e denaro. Dunque come secondo danno l’aumento delle spese”. Per compensare il quale i montanari alzeranno il prezzo dei loro prodotti, col risultato che molti mercanti tenderanno ad andare a fare altrove i loro acquisti. Ecco così “come terzo danno” la diminuzione delle vendite.

“Quando il tempo è cattivo, le strade non sono praticabili; dato che bisognerà sempre che la compagnia teatrale possa mantenersi anche in questi periodi, essa non interromperà le rappresentazioni. Non sarà dunque possibile evitare di andare a teatro con qualsiasi tempo faccia. Durante l’inverno sarà necessario spalare la neve dai sentieri, forse pavimentarli; Dio non voglia che non si debba anche fornirli di lampioni. Ecco le spese pubbliche e di conseguenza i contributi privati. Organizzazione del fisco: quarto danno”.

Le signore sentiranno il bisogno di rivaleggiare in eleganza e provocheranno, come quinto danno, l’introduzione del lusso.

Fermandosi a considerare solo gli effetti economici, Rousseau è convinto di aver dimostrato come “un popolo ricco, ma che deve solo alla propria industriosità questa ricchezza, scambiando la realtà con le apparenze, si rovini nel momento stesso in cui vuole brillare”.

Rousseau non è, però, semplicisticamente contro gli spettacoli, come male assoluto. Per lui l’uomo naturale e buono non esiste più. Con l’avvio della costruzione delle istituzioni sociali è cominciato un processo degenerativo, che a Rousseau sembra impossibile invertire, ma solo rallentare. Nel secolo in cui si afferma l’ideologia del progresso, lui non si fa illusioni e si limita a contenere la corsa degenerativa degli uomini. Per questo, egli pensa che gli spettacoli possano essere in certe realtà sociali, già molto compromesse, un freno efficace mentre in altre, ancora relativamente sane, sarebbero un acceleratore del processo di corruzione dei costumi.

“In certi posti saranno utili per attirare i turisti, per aumentare la circolazione delle valute, per stimolare gli artisti, per cambiare le mode, per dare da fare alla gente troppo ricca o che aspira a diventarlo, per renderla meno nociva, per distrarre il popolo dalle sue miserie, per fargli dimenticare i propri capi mostrandogli dei pagliacci, per conservare e perfezionare il gusto quando ormai l’onestà è stata perduta, per coprire con la vernice delle buone maniere la bruttezza del vizio, per impedire, in una parola, che i cattivi costumi degenerino in banditismo. In altri luoghi, gli spettacoli servirebbero solo a distruggere l’amore per il lavoro, a scoraggiare l’industria, a rovinare i privati e a ispirar loro l’amore per l’ozio, a far loro cercare i mezzi per vivere senza lavorare, a rendere un popolo ozioso e vile, a impedirgli di vedere quali siano i problemi pubblici e privati di cui debba occuparsi, a sostituire con la comicità la vera saggezza, a sostituire il gergo del teatro alla pratica della virtù, a far diventare la morale una concezione metafisica, a travestire i cittadini in begli spiriti, le madri di famiglia in donne facili e le figlie in innamorate da teatro. L’effetto generale sarà lo stesso su tutti gli uomini, ma gli uomini così cambiati converranno di più o di meno al loro paese: diventando uguali, i malvagi ci guadagneranno, gli onesti ci perderanno ancora di più; tutti acquisteranno un carattere di mollezza, un’inclinazione all’ozio, che agli uni toglierà la pratica delle grandi virtù, e impedirà agli altri di organizzare grandi crimini”.9

Il teatro, introducendo la finzione spettacolare nella vita quotidiana, snerva il rapporto che le persone hanno con la realtà e mina il loro impegno, nel bene e nel male. La società reale tende a diventare la società dello spettacolo.

Il tema della finzione come causa di corruzione morale è al centro anche della lunga argomentazione sui cattivi costumi degli attori e sulla loro natura pericolosamente contagiosa.

“In che cosa consiste il talento dell’attore? Nell’arte di travestirsi, di assumere un carattere diverso dal proprio, di apparire differenti da come si è, di appassionarsi a sangue freddo, di dire cose diverse da quelle che si pensano con la stessa naturalezza che si avrebbe se le si pensasse realmente, di dimenticare infine la propria condizione a forza di assumere quella degli altri. Che cos’è il mestiere dell’attore? Un mestiere a causa del quale ci si offre pubblicamente per denaro, ci si sottomette all’ignominia e agli affronti di chi peraltro ha acquistato il diritto di farli, si mette in vendita la propria persona. Scongiuro qualunque uomo onesto di dire se non sente nell’intimo del suo cuore che in questo commercio di se stessi vi è qualcosa di servile e di basso. Voi filosofi, che pretendete di essere tanto al di sopra dei pregiudizi, non morireste forse tutti dalla vergogna se doveste andare a recitare, vilmente travestiti da sovrani, un ruolo diverso dal vostro di fronte al pubblico, e se doveste esporre le vostre maestà ai fischi della plebaglia? Quale dunque, in fondo, l’idea che l’attore si fa della propria condizione? Un insieme di bassezza, di falsità, di ridicolo orgoglio e di indegno avvilimento, tale da renderlo adatto a tutti i personaggi tranne che al più nobile di tutti: il personaggio di uomo che egli ha abbandonato”.10

Rousseau scrive pesanti pagine antifemministe nella lunga trattazione dell’immoralità degli attori e soprattutto delle attrici.

“Chiedo come una condizione il cui unico scopo è quello di mostrarsi al pubblico, e, cosa assai peggiore, di mostrarsi per denaro, possa essere conveniente a donne oneste ed essere compatibile con la modestia e i buoni costumi. È forse necessario discutere sulle differenze morali fra i sessi, per accorgersi di quanto sia difficile che colei che si mostra a un certo prezzo non offra presto il proprio corpo e non si lasci mai tentare di soddisfare quei desideri che suscita tanto abilmente? Ma come! Malgrado mille timide precauzioni, una donna onesta e saggia, esposta al minimo pericolo, conserva difficilmente un animo saldo; e queste fanciulle audaci, prive di qualsiasi educazione se non quella fornita dalla civetteria e da una serie di parti amorose, assai poco vestite, continuamente circondate da una gioventù ardente e temeraria, in mezzo alle dolci voci dell’amore e del piacere, resisteranno alla loro età, al loro cuore, agli oggetti che le circondano, ai discorsi di cui sono le interlocutrici, alle sempre diverse occasioni, all’oro cui sono praticamente già vendute? Bisognerebbe crederci di una stupidità infantile per volerci ingannare a tal punto. Il vizio può anche nascondersi nell’oscurità, la sua impronta resterà impressa sulle fronti dei colpevoli; nella donna, l’audacia è sicuro indice di vergogna; essa non arrossisce più perché è già arrossita troppe volte; se qualche volta il pudore sopravvive alla castità, cosa dobbiamo pensare della castità quando anche il pudore è spento?”.11

La dissolutezza delle attrici trascina spesso con sé quella degli attori, anche perché il mestiere li porta a vivere in grande familiarità.

E contenere l’immoralità degli attori è impresa impossibile.

“Proibire all’attore di essere un vizioso, equivale al proibire a un uomo di essere ammalato”.

Rousseau non condanna tutti gli attori: “I grandi attori si giustificano da se stessi; sono quelli scadenti che devono essere disprezzati”.12 Evidentemente Rousseau teme che a Ginevra arrivino soprattutto questi ultimi.

Ginevra è ricca, senza le enormi sproporzioni di fortuna delle altre città. Ricava la ricchezza dal lavoro, soprattutto artigianale, che impegna tutto il tempo dei suoi abitanti. Ha ventiquattromila abitanti.

Lione, cinque o sei volte più ricca e più popolosa, ha un solo teatro. Con i suoi più di seicentomila abitanti, “Parigi, capitale della Francia e baratro delle ricchezze di questo grande regno, ne mantiene soltanto tre in modo abbastanza mediocre e un quarto solo in certi periodi dell’anno”. Fatte le proporzioni, Ginevra non può, in termini economici, permettersi un teatro stabile. Se, per miracolo, Ginevra riuscisse a superare le enormi difficoltà economiche e a dotarsi di un teatro stabile, come propone d’Alembert, gli effetti sarebbero devastanti.

Ginevra ha già tante belle feste popolari.

“Sarò felicissimo se verranno ancora aumentate. Ma non adottiamo questi spettacoli esclusivi, che rinchiudono tristemente un ristretto numero di persone in un luogo oscuro, che le obbligano a restare immobili nel silenzio e nell’inazione; che offrono agli occhi solo quinte, punte di ferro, soldati e orribili immagini della servitù e dell’ineguaglianza. No, popoli felici, queste non sono le vostre feste. Voi dovete riunirvi all’aria aperta, per abbandonarvi al piacevole sentimento della felicità. Che i vostri divertimenti non siano effimeri né mercenari, che essi non vengano avvelenati da ciò che sa di obbligo e d’interesse, che siano liberi e generosi come voi, che il sole presieda ai vostri innocenti spettacoli; voi stessi sarete il più degno spettacolo che mai possa apparire alla luce di esso”.13

Questa contrapposizione finale delle sane feste paesane agli spettacoli teatrali delle grandi città segna un notevole passo avanti di Rousseau sulla strada aperta dalla grande intuizione dell’autunno del 1749, provocata dalla notizia del concorso bandito dall’Accademia di Digione. Infatti, all’accento moralistico di allora viene ad aggiungersi, adesso, una forte tensione eudemonistica, l’impegno, cioè, a rendere gli uomini il più possibile felici. Quella che poteva sembrare una contrapposizione della natura buona alla cultura corrotta, si presenta adesso come contrapposizione di cultura a cultura. Germina così il progetto di ricostruire dalle fondamenta un’idea di cultura che risponda alle genuine esigenze umane. La cultura non è soltanto, come i farmaci, cura dei mali da essa stessa causati: può promuovere la felicità umana, se radicalmente ripensata. Un’idea che porta Rousseau a progettare, in campo educativo, familiare e politico, istituzioni radicalmente rivoluzionarie.

Torino 10 novembre 2014

Giuseppe Bailone

NOTE

1 Dal libro decimo delle Confessioni: “Nell’ultima visita che Diderot mi aveva fatto all’Ermitage, mi aveva parlato della «voce» Ginevra inserita da d’Alembert nell’Enciclopedia. Mi aveva detto che quell’articolo, concertato con alcuni Ginevrini di alta condizione, aveva per scopo l’introduzione del teatro a Ginevra; che le disposizioni in vista erano già state prese e che tale istituzione non sarebbe tardata gran che”. Rousseau, in fase di rottura dei suoi rapporti con i suoi amici parigini, quelli della “cricca holbachiana”, vive male quella notizia: “Siccome Diderot pareva che considerasse tutto ciò con favore e non avesse dubbi sul successo, e siccome avevo con lui troppi altri argomenti di discussione per disputare anche su questo, non dissi verbo. Ma, indignato per tutto quel maneggio di seduzione nella mia patria, aspettavo con impazienza il volume dell’Enciclopedia dov’era quella voce, per vedere se ci fosse modo di farvi qualche risposta tale da parare quel disgraziato colpo. Ricevetti il volume poco dopo che mi fui stabilito a Mont-Louis; e l’articolo mi parve scritto con molta scaltrezza e arte, e degno della penna da cui era uscito. Ciò non mi distolse però dalla volontà di rispondergli; e, nonostante lo sconforto in cui ero, nonostante le mie disgrazie e i miei mali, il rigore della stagione e la scomodità della mia nuova dimora, dove non avevo ancora avuto modo di aggiustarmi, mi misi al lavoro con uno zelo che sormontò tutto” (ed. Einaudi, p. 541).

2 Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, in Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni editore 1972, pp.207-8.

3 Ib. p. 208.

4 Ib. pp. 209-10.

5 Ib. p. 211.

6 Ib. p. 212.

7 Ib. pp. 212-3.

8 Ib. p 217.

9 Ib. pp. 232-5.

10 Ib. p. 243.

11 Ib. p. 249.

12 Ib. p. 250.

13 Ib. p. 269.


Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Testi di Rousseau


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Aggiornamento: 15-06-2015