TEORICI
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Rousseau: Giulia o la Nuova Eloisa I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII
Il conflitto tra la passione e la morale, tra i sentimenti e le regole sociali, è il cuore di un romanzo filosofico di grande successo, Giulia o la Nuova Eloisa. Della sua genesi Rousseau parla a lungo nelle Confessioni. Nell’aprile 1756, Rousseau, già celebre per il successo dei suoi primi due Discorsi, lascia Parigi e si trasferisce con Thérèse e sua madre all’Ermitage, in una casa messagli a disposizione da Madame d’Epinay, in campagna, dove aveva sempre desiderato vivere. Dovrebbe essere felice, ma le cose non vanno come sperava: “La distanza da Parigi non m’impediva che mi capitasse ogni giorno una folla di sfaccendati, i quali, non sapendo che farsi del loro tempo, sciupavano senza scrupolo il mio. Quando meno vi pensavo, ero assalito senza pietà; e raramente ho fatto un grazioso progetto per la mia giornata senza vedermelo mandare in aria da qualche importuno”.1 Non solo è disturbato da visite inattese e indesiderate: avverte un senso di solitudine e di vuoto, che la relazione affettiva con Thérèse non riesce a colmare. L’amenità della nuova residenza gli ricorda un passato che idealizza e di cui ha viva nostalgia. Fa il bilancio della sua esistenza. “Prossimo ai quarantacinque anni” ripensa a passati tempi felici, alle persone che gli “avevano causato qualche emozione” e sogna. “L’ebbrezza dalla quale fui preso, benché tanto improvvisa e folle, fu così durevole e forte che, per guarirne ci volle la crisi impreveduta e terribile delle disgrazie in cui mi precipitò. Tale ebbrezza qualunque fosse il suo grado non giunse però a farmi dimenticare la mia età e il mio stato, sino a lusingarmi di poter ispirare amore a qualcuna, sino a tentare di comunicare quel fuoco divorante ma sterile, dal quale, sin dall’infanzia, sentivo invano consumarmi il cuore. Non lo speravo, non lo desideravo neppure. Sapevo che la stagione dell’amore era terminata, sentivo troppo il ridicolo dei galanti stagionati per potervi cascare; e non ero uomo da divenire presuntuoso e fiducioso al mio tramonto, dopo esserlo stato così poco nei miei begli anni. D’altra parte, amico della pace, avrei temuto gli uragani domestici, e amavo troppo sinceramente la mia Thérèse per esporla alla sciagura di vedermi trasportare verso altri sentimenti, più vivi di quelli da lei ispiratimi. Che feci in quell’occasione? Già il mio lettore l’ha indovinato, per poco che mi abbia seguito fin qui. L’impossibilità di raggiungere gli esseri reali mi lanciò nel paese delle chimere, e, nulla vedendo d’esistente degno del mio delirio, lo nutrii con un mondo ideale, che la mia immaginazione creatrice popolò in breve di esseri fatti a immagine del mio cuore. Mai espediente capitò più a proposito, e si palesò più fecondo. Nelle mie estasi continue, m’inebriavo ai torrenti dei più deliziosi sentimenti che mai siano entrati nel cuore di un uomo. Dimenticando interamente la razza umana, non scelsi per mie compagnie che creature perfette, divine per le virtù come per le bellezze; amici sicuri, teneri, fedeli come mai ne trovai quaggiù. Presi un tal gusto a spaziare così nell’empireo, fra gli oggetti incantevoli dai quali ero circondato, che passavo ore e giorni senza contarli, e, perdendo il ricordo di ogni altra cosa, appena mangiato frettolosamente un boccone, smaniavo di ritrovare i miei boschetti. Quando, pronto a partire per il mondo incantato, vedevo sopraggiungere i disgraziati mortali che venivano a trattenermi sulla terra, non potevo moderare né celare il mio dispetto; e, non essendo più padrone di me, facevo loro un’accoglienza così brusca da meritare persino il nome di brutale. Ciò non fece che aumentare la mia reputazione di misantropo, proprio per circostanze che me ne avrebbero procurata l’opposta, se meglio mi si fosse letto in cuore”.2 L’incantesimo è rotto da attacco violento del suo solito male alla vescica, da dissapori con la madre di Thérèse e con la “cricca holbachiana”, e dall’impegno di scrivere una lettera di critica a Voltaire sul suo poema sul terremoto di Lisbona. Tutto ciò, però, non lo guarisce dai suoi “fantastici amori”, né gli impedisce di ritornare presto in quel mondo ideale. “Mi figurai l’amore e l’amicizia, i due idoli del mio cuore, sotto più seducenti sembianze. Mi compiacqui a ornarli con tutte le attrattive del sesso che avevo sempre adorato. Immaginai due amiche, piuttosto che due amici, perché se il caso è più raro, è anche più attraente. Le dotai di due caratteri analoghi, ma differenti, di due volti non perfetti, ma di mio gusto, animati dalla benevolenza e dalla sensibilità. Ne finsi una bruna e l’altra bionda, una vivace e l’altra dolce, una avveduta e l’altra debole, ma di una così commovente debolezza che la virtù pareva guadagnarne. Detti a una delle due un amante di cui l’altra era tenera amica, e anche qualcosa di più. Ma non ammisi né rivalità, né litigi, né gelosia, perché ogni sentimento penoso mi costa da immaginare, e non volevo offuscare quel quadro ridente con nulla che ne degradasse la natura. Innamorato dei miei due graziosi modelli, m’identificai con l’amante e l’amico più che mi fu possibile; ma lo feci giovane e attraente, dandogli per di più le virtù e i difetti che sentivo miei. […] Quelle finzioni, a furia di ripetersi, assunsero maggior consistenza, e si fissarono nel mio cervello in una forma precisa. La fantasia mi spinse allora a esprimere sulla carta alcune fra le situazioni che esse mi offrivano, e, ricordando tutto ciò che avevo provato nella giovinezza, diedi ali, in certo modo, al desiderio di amare che non avevo potuto soddisfare e dal quale mi sentivo divorato. […] Nel più bello delle mie dolci fantasticherie ebbi una visita della signora d’Houdetot”.3 Questa visita è fatale per Rousseau: egli prova per questa signora, Sofia, una forte passione, “l’amore vero”, quale non aveva provato neppure per Madame de Warens; una passione destinata a una fine dolorosa senza aver mai avuto un inizio reale. La reale Sofia e l’immaginaria Giulia si sovrappongono e s’identificano. “Venne; la vidi, ero ebbro di amore senza oggetto, quell’ebbrezza mi affascinò gli occhi, quell’oggetto si fissò in lei. Vidi nella signora d’Houdetot la mia Giulia; e, in breve, non vidi più che la signora d’Houdetot, ma rivestita di tutte le perfezioni di cui avevo ornato l’idolo del mio cuore. Per completare l’opera, ella mi parlò di Saint-Lambert da amante appassionata. Forza contagiosa dell’amore! Ascoltandola, sentendomi vicino a lei, ero scosso da un fremito delizioso mai provato accanto a nessuna donna. Parlava, e mi sentivo commuovere; mi pareva di non interessarmi che ai suoi sentimenti, mentre me ne ispirava di simili. Bevevo a lunghi sorsi alla coppa avvelenata, della quale non avvertivo che la dolcezza. Infine, senza che me ne rendessi conto e senza che ella se ne accorgesse, ella m’ispirò per sé tutto quel che esprimeva per il suo amante. Ahimè, fu troppo tardivo, fu troppo crudele ardere di una passione altrettanto viva che infelice per una donna il cui cuore era pieno di un altro amore. Nonostante i sentimenti straordinari provati vicino a lei, non mi accorsi da principio di quanto mi era accaduto. Solo dopo la sua partenza, volendo pensare a Giulia, fui colpito di non poter più pensare che alla signora d’Houdetot. Allora mi si aprirono gli occhi. Sentii la mia sventura, ne gemetti, ma non previdi le conseguenze”.4 Il romanzo, messo in vendita nel gennaio 1761, ha una struttura epistolare, come la celeberrima storia d’amore medievale di Eloisa e Abelardo, e come andava molto di moda nel Settecento. Una struttura che consente ai suoi protagonisti la piena espressione del loro punto di vista su temi di forte attualità, in particolare sul rapporto tra l’amore e il matrimonio. Giulia, come Eloisa, cede alla passione e si concede all’amante Saint-Preux, suo precettore, come Abelardo lo fu di Eloisa. Vorrebbe sposarlo, ma, Saint-Preux non è di nobile famiglia e il padre ha già scelto per lei un suo amico e compagno d’armi. Giulia subisce, infine, la decisione del padre e trasforma il primitivo rapporto passionale in purissima amicizia, perfettamente compatibile con la sua nuova condizione coniugale. La nobiltà dei personaggi è, infatti, tale che Rousseau arriva addirittura a creare, per un breve tempo, un mondo familiare allargato, non solo alla fedelissima amica Claire e ai servi, ma anche all’ex amante, in un sistema di regole e di rispetto reciproco. In questo mondo armonioso, guidato dal saggio capofamiglia Wolmar, si realizza, nell’educazione dei figli, un equilibrato rapporto tra sviluppo naturale e artificio pedagogico per il loro sereno inserimento nelle istituzioni sociali: il tipo di rapporto destinato a diventare il cuore del romanzo pedagogico Emilio. Dopo la tempesta passionale arriva la serenità etica e istituzionale. In una lettera all’ex amante, Giulia scrive del suo profondo cambiamento. Gli racconta dei disegni matrimoniali del padre nei suoi confronti; della sua resistenza ostinata; della morte della madre; del doloroso pentimento per aver ceduto alla passione; della sua breve speranza di potere presto forzare il padre ad accettare il matrimonio riparatore con l’amante. “Ahimè, anche questa cara speranza mi deluse! Il cielo respinse dei disegni formati nel delitto; non meritavo l’onore di essere madre; la mia attesa rimase vana, non potei espiare la mia colpa a spese della mia reputazione!”5 L’amore passionale è anche sterile! Addolorata e pentita, resiste ancora ai progetti del padre, fin tanto che egli cerca di forzare la sua volontà con la forza dell’autorità, ma quando ricorre alle lacrime e si mette in ginocchio, implorando la sua obbedienza e di evitargli il disonore di venir meno alla parola data ad un uomo per bene, del suo stesso rango sociale, e, adesso, in difficoltà economiche, Giulia viene travolta dall’emozione e cede: sposerà il signor Wolmar, “un uomo di sicura nobiltà”, cui il padre deve la vita. Nel rapporto tra “qualche effimera fiamma giovanile”, da una parte, e “il dovere d’una figlia e l’onore compromesso di un padre”, dall’altra, la povera Giulia non ha scelta. Prova ancora a dire al padre che anche lei si è compromessa con l’amante, ma, quest’ostacolo è presto travolto dal padre: scriva all’ex amante per chiedergli il consenso di obbedire al padre. Saint-Preux è di animo nobile, sensibile ai doveri filiali di Giulia, e acconsente: a Giulia “non rimase più alcuna scusa”. La parola data del padre è un dovere, la sua, invece, è una “scusa”. La sofferenza estenua Giulia. “Il giorno che doveva per sempre togliermi a voi e a me – scrive all’ormai ex amante – mi parve l’estremo della mia vita. Con minor spavento avrei assistito ai preparativi della mia sepoltura che a quelli del mio matrimonio. Più mi avvicinavo al momento fatale, meno riuscivo a sradicarmi dal cuore gli antichi affetti, cercando di spegnerli non facevo che irritarli. Finalmente mi sentii spossata di combattere invano. Nello stesso istante in cui ero pronta a giurare fedeltà a un altro, il mio cuore giurava eterno amore a voi; e mi condussero al tempio come una vittima impura, che contamina l’altare sul quale sta per essere immolata”.6 In chiesa, però, avviene quella che Giulia chiama “un’improvvisa rivoluzione”. “Una potenza ignota parve correggere a un tratto il disordine dei miei affetti e ristabilirli secondo la legge del dovere e della natura”. Tornata a casa, Giulia prova a riesaminare l’avvenuto cambiamento interiore. “Sentivo che vi amavo come prima o forse più ancora; ma lo sentii senza arrossire. Mi avvidi che non avevo bisogno, per pensare a voi, di dimenticare che ero d’un altro. Dicendomi quanto m’eravate caro, il mio cuore era commosso, ma la mia coscienza e i miei sensi erano tranquilli, e da quel momento conobbi che veramente ero cambiata. Che torrente di pura gioia mi inondò l’anima! Che sentimento di pace, da tanto tempo spento, venne a rianimare questo cuore avvizzito dall’ignominia! Credetti di sentirmi rinascere; di ricominciare una nuova vita”. La morale, consacrata dal rito religioso, ha trasformato la primitiva passione in sincera, purissima amicizia, perfettamente compatibile con la legge etica. Giulia è riuscita a realizzare la sua quadratura del cerchio. Desidera ardentemente che Saint-Preux faccia altrettanto. Saint-Preux le risponde, presentandosi all’altezza della nuova situazione: “Dunque non sareste più la mia Giulia? Ah! Non ditelo, degna e rispettabile donna. Lo siete più che mai. Voi siete colei che adorai cominciando a essere sensibile alla vera bellezza; voi siete colei che non smetterò di adorare, nemmeno dopo morto, se mi rimanga ancora nell’anima qualche memoria del fascino veramente celeste che la incantò durante la vita. Codesto sforzo di coraggio che vi riconduce all’intera vostra virtù non fa che rendervi più simile a voi stessa. No, no, per grande che sia il supplizio che provo sentendolo e dicendolo, non siete mai stata tanto la mia Giulia quanto nel momento in cui rinunciate a me. Ahimè! Perdendovi vi ho ritrovata”. Giulia, nella nuova lettera di risposta, insiste: “L’amore va continuamente unito a un’inquietudine, di gelosia o di privazione, che non s’accorda col matrimonio: il quale è uno stato di pacifico godimento. Non ci si sposa per pensare esclusivamente l’uno all’altro, ma per adempiere insieme i doveri della vita civile, governare con prudenza la casa e educare bene i figli. Gli amanti non vedono altro che se stessi, non si occupano d’altro che di sé, l’unica cosa che sappiano fare è amarsi. Non basta per degli sposi, che hanno tante altre cose cui pensare. Non c’è passione fertile di illusioni quanto l’amore: si crede di vedere nella sua violenza un segno della sua durata; il cuore oppresso da così dolce sentimento lo estende per così dire sul futuro, e fin che dura si crede che l’amore non finirà mai. Ma, invece, è proprio il suo stesso ardore che lo consuma; si logora con la giovinezza, si scancella con la bellezza, si spegne sotto il ghiaccio dell’età; e da quando il mondo è mondo non si son mai visti due amanti coi capelli bianchi sospirare l’un per l’altro. Quindi bisogna pensare che presto o tardi si cesserà di adorarsi; e allora distrutto l’idolo, ci si vede come effettivamente si è. Si cerca stupiti l’oggetto già amato; e non trovandolo più ci si sdegna contro colui che rimane, e spesso l’immaginazione lo deforma non meno di quanto lo aveva abbellito. […] Quanto al signor Wolmar, nessuna illusione ci fa parziali: ci vediamo come siamo; il sentimento che ci unisce non è il cieco trasporto dei cuori appassionati, ma l’invariabile e costante affetto di due persone oneste e ragionevoli le quali, destinate a trascorrere insieme il resto dei loro giorni, sono contente della loro sorte e cercano di addolcirsela a vicenda. Si direbbe che nemmeno se ci avessero formati apposta per unirci le cose potrebbero andare meglio”.7 Siamo allo stoico amor fati? Tutto bene, dunque? Non del tutto: c’è un’inquietudine di fondo e pesa la “nausea del benessere”. “Ecco ciò che in parte provo da quando son sposata e da quando siete tornato. Per ogni dove non vedo che argomenti di contentezza, e non sono contenta. Un segreto languore mi s’insinua in fondo al cuore, lo sento vuoto e gonfio, come una volta dicevate del vostro; l’affetto che provo per tutto quanto mi è caro non basta per occuparlo, gli rimane una forza inutile di cui non sa che fare. È una ben strana pena, lo ammetto; ma non perciò è meno reale. Amico mio, son troppo felice; la felicità mi annoia. Conoscete qualche rimedio a questa nausea del benessere? Quanto a me vi confesso che un sentimento così poco ragionevole e così poco volontario mi ha tolto molto del valore che attribuivo alla vita, e non so immaginare che incanto ci si può trovare, che a me manchi o che mi possa bastare. Forse che un’altra sarà più sensibile di me? Potrà amare di più suo padre, suo marito, i suoi figli, i suoi amici, i suoi congiunti? Ne sarà più riamata? Menerà un’esistenza più di suo gusto? Sarà più libera di scegliersene un’altra? Godrà di una salute migliore? Avrà maggiori risorse contro la noia, maggiori legami che la stringono alla gente? Tuttavia vivo inquieta; il mio cuore non sa cosa gli manca; desidera senza che sappia che cosa. Poiché non trova nulla quaggiù che le basti, l’anima mia cerca avidamente altrove qualcosa che la riempia; innalzandosi alla sorgente del sentimento e dell’esistenza, perde la sua aridità e il suo languore; si sente rinascere, si rianima, vi trova nuove energie, vi attinge una nuova vita; assume un’esistenza diversa che non partecipa delle passioni fisiche, o meglio non è più in me, sta tutta nell’Essere immenso che essa contempla; e sciolta per un momento dai suoi ceppi, si consola di doverci tornare grazie a questo saggio d’una condizione più sublime che spera di far sua un giorno”.8 Anche “nel paese delle chimere”, dei sogni, della perfezione ideale, s’insinua l’inquietudine. Rousseau si porta dietro l’infelicità reale anche nel mondo illusorio che si è costruito per esserne al riparo. Prova allora il rimedio della religione e della fede nella felicità dell’aldilà: fa morire eroicamente e con serenità Giulia, che chiude la sua esistenza terrena con una professione di fede perfettamente simile a quella del Vicario Savoiardo. Tuttavia, nell’ultima lettera all’ex amante, nella quale gli affida l’educazione dei figli, gli confessa che il suo cuore non è mai guarito come la sua ragione avrebbe voluto: con la morte Giulia salva l’amore e la virtù, illusoriamente conciliati per anni, ma sempre in conflitto, anche ora che la passione non può più nuocere alla virtù. “Mi sono illusa a lungo. Quell’illusione mi fu salutare; dilegua nel momento in cui non ne ho più bisogno. Mi avete creduta guarita, anch’io ho creduto di esserlo. Ringraziamo colui che fece durare quest’errore fin che è stato utile […]. Sì, ho avuto un bel voler soffocare il primo sentimento che mi ha fatto vivere: è concentrato nel mio cuore. Ecco che si risveglia nel momento in cui non è più pericoloso; mi sostiene ora che le forze mi abbandonano; mi rianima mentre muoio. Amico mio, lo confesso senza vergogna; questo sentimento rimasto in me mio malgrado non ha toccato la mia innocenza; tutto ciò che dipende dalla mia volontà fu consacrato al mio dovere. Se il cuore, che non ne dipende, fu consacrato a voi, quello fu il mio tormento, non la mia colpa. Ho fatto ciò che dovevo; la mia virtù rimane intatta, l’amore m’è rimasto senza rimorso. […] Addio, addio dolce mio amico… Ahimè! Termino la vita come l’ho cominciata. Forse dico troppo, in questo momento in cui il cuore non dissimula più nulla… Ah, perché dovrei temere di esprimere ciò che provo? Non sono più io che ti parlo; sono già tra le braccia della morte. Quando vedrai questa lettera, i vermi roderanno il volto della tua amante, e il suo cuore dove tu non sarai più. Ma la mia anima esisterebbe forse senza di te? Senza di te che felicità potrei gustare? No, non ti lascio, vado ad aspettarti. La virtù che ci ha separati sulla terra ci unirà nell’eterno soggiorno. Muoio in questa dolce speranza. Troppo contenta di acquistare a prezzo della mia vita il diritto di sempre amarti senza colpa, e dirtelo una volta ancora”.9 Torino 17 novembre 2014 Giuseppe Bailone NOTE 1 Rousseau, Confessioni, Einaudi 1955, p. 467. 2 Ib. pp. 468-9. 3 Ib. pp. 472-3. 4 Ib. p. 483. 5 Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, BUR 1999, parte terza, lettera XVIII, p. 364. 6 Ib. p. 373. 7 Ib. parte terza, lettera XX, p. 392 8 Ib. parte VI, lettera VIII, pp. 719-20. 9 Ib., lettera XII, pp. 767-70. Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf) Testi di Rousseau
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