TEORICI
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Rousseau. l’origine della diseguaglianza I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII
L’Accademia di Digione bandisce per l’anno 1754 un concorso sul tema: “Qual è l’origine della diseguaglianza fra gli uomini e se essa è autorizzata dalla legge naturale”. Rousseau ne scrive nel libro ottavo delle Confessioni: “Colpito da quel grande quesito, fui stupito che l’Accademia avesse osato proporlo. Ma se essa aveva avuto tal coraggio, io potevo permettermi anche di trattarlo e lo affrontai. Per meditare a mio agio su quel grande soggetto, andai a Saint Germain per una gita di setto o otto giorni, con Thérèse, la nostra ostessa, che era una brava donna, e una delle sue amiche. Considero questa gita una delle più piacevoli della mia vita. Era un bellissimo tempo. Quelle brave donne s’incaricavano delle faccende e della dispensa. Thérèse si divertiva con entrambe; ed io, senza occuparmi di nulla, venivo a divertirmi all’ora dei pasti. Tutto il resto del giorno, immergendomi nella foresta, vi cercavo e vi scoprivo l’immagine dei primi tempi, di cui tracciavo fieramente la storia, facevo man bassa sulle piccole menzogne degli uomini, osavo denudarne la natura, seguire il progresso dei tempi e delle cose che l’hanno trasfigurata, e confrontando l’uomo fatto dall’uomo con l’uomo opera della natura, mostrargli nel suo preteso perfezionamento la vera causa delle sue miserie”. Non vince, ma scrive un testo di estremo interesse, in cui approfondisce la sua denuncia della corruzione umana da parte della società con argomenti che provocano forti reazioni polemiche dei conservatori e dei progressisti. Voltaire lo accusa di voler riportare gli uomini nelle foreste. Lo spirito che accompagna la nascita di questo testo emerge anche da quel che scrive sul suo nuovo rapporto con i medici e la vita in città. “La gita e l’applicazione giovarono al mio umore e alla mia salute. Erano già parecchi anni che, tormentato dalla mia ritenzione d’urina, mi ero interamente adagiato nelle braccia dei medici, i quali, senza alleviare il mio male avevano logorato le mie forze e distrutto la mia costituzione. Al ritorno da Saint Germain, mi ritrovai con più forze, e mi sentii molto meglio. Mi valsi di questa esperienza; e deciso a guarire o a morire senza medici e senza medicine, dissi loro addio per sempre e mi misi a vivere alla giornata, standomene quieto quando non potevo muovermi, e recandomi a passeggio appena ne trovavo la forza. Il sistema di vita parigino, fra persone piene di pretese, mi andava così poco a genio; gli intrighi dei letterati, le loro dispute vergognose, la loro scarsa buona fede nei libri, il loro agire tracotante in società mi erano così odiosi, così antipatici; incontravo così poca dolcezza, cuore aperto o franchezza negli stessi rapporti con gli amici, che, disgustato della vita tumultuosa, cominciavo a sospirare ardentemente a un soggiorno in campagna; e vedendo che il mio mestiere non mi permetteva di viverci, correvo almeno a trascorrervi le ore libere. Per vari mesi, subito dopo pranzo, mi recavo tutto solo a passeggio nel Bois de Buologne, meditando soggetti di opere; e non tornavo a casa che la notte”.1 Il testo, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, si apre con la distinzione di due tipi di diseguaglianza fra gli uomini. La prima è “stabilita dalla natura, e consiste nella differenza di età, di salute, di forze del corpo e di qualità spirituali o dell’anima”. L’altra, che Rousseau chiama “morale o politica”, è di natura sociale. Essa “consiste nei vari privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri, come d’esser più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsene obbedire”. Tra le due diseguaglianze c’è un salto: la prima è “appena sensibile” e “la sua influenza è quasi nulla”, mentre la seconda è profonda e, soprattutto, non ha le sue radici nella prima.2 Se così fosse, infatti, sarebbero legittimate, da questa loro origine naturale, tutte le diseguaglianze sociali. “Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo” scriverà Rousseau in apertura dell’Emilio. Com’era l’uomo prima che iniziasse a corrompersi? Rispondere a questa domanda è la cosa più importante. È la realizzazione più profonda del “Conosci te stesso” della religione e della filosofia greca. È, però, un’impresa molto ardua. E Rousseau ricorre all’immagine di Glauco, che Platone propone, nel libro X della Repubblica, per sostenere la necessità di “osservare attentamente l’anima con il raziocinio quale essa è allo stato di perfetta purezza”, non “lordata dal contatto con il corpo e da altri mali”. “Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le procelle avevano talmente sfigurato, che somigliava meno a un dio che a una bestia feroce, l’anima umana, alterata in seno alla società da mille cause senza posa rinascenti, dall’acquisto di una moltitudine di conoscenze e di errori, dai cangiamenti sopravvenuti nella costituzione dei corpi, e dall’urto continuo delle passioni, ha, per così dire, mutato d’aspetto, fino al punto d’esser quasi irriconoscibile; e non vi si ritrova più, in luogo d’un essere operante sempre secondo principi certi e invariabili, in luogo di quella celeste e maestosa semplicità che il suo autore vi aveva impressa, se non il deforme contrasto della passione che crede ragionare e dell’intelletto delirante”.3 Come per Platone solo la ragione può offrirci l’idea dell’anima liberata dall’involucro deformante corporeo, così per Rousseau ci vuole un rigoroso esperimento mentale per arrivare all’uomo naturale, non ancora corrotto. Un esperimento che neutralizzi il rischio di fallire, com’è successo ai molti filosofi che si son mossi alla ricerca dell’uomo naturale. “I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società hanno sentito tutti la necessità di rimontare fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è arrivato”. Infatti, “parlavano dell’uomo e dipingevano l’uomo civile”. Non sono, cioè, riusciti a liberare la natura umana dalle incrostazioni culturali, perché quella ricerca ha sempre utilizzato il sapere e le informazioni che l’umanità aveva acquisito, ma, così, s’è allontanata sempre più dall’obiettivo. Infatti, “siccome tutti i progressi della specie umana l’allontanano senza tregua dal suo stato primitivo, accade che più accumuliamo di conoscenze nuove e più ci togliamo i mezzi di conquistare la più importante di tutte; e in certo modo proprio a forza di studiar l’uomo ci siam messi fuori dalla condizione di conoscerlo”. La ricerca scientifica e filosofica è interna alla storia della corruzione umana: bisogna prendere una strada del tutto nuova e tentare un rigoroso esperimento mentale, sul modello platonico. Rousseau non s’illude, certo, di essere riuscito pienamente dove gli altri hanno fallito; ma pensa di aver impostato correttamente il problema. “Ho cominciato qualche ragionamento, ho arrischiato qualche congettura, non tanto con la speranza di risolvere il problema quanto nell’intenzione di chiarirlo e di ricondurlo alla sua vera posizione. Altri potranno agevolmente andar più innanzi sulla stessa via, senza che ad alcuno sia facile pervenire al termine, perché non è lieve impresa districare ciò che v’è d’originario e d’artificiale nella natura attuale dell’uomo, e conoscer bene uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, di cui non pertanto è necessario aver nozioni giuste, per giudicar bene del nostro stato presente”.4 L’uomo naturale cui pensa Rousseau è “un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma, nell’insieme, organizzato più vantaggiosamente di tutti”. Gli uomini naturali, scrive, disseminati fra gli animali, “osservano, imitano la loro industria e s’elevano così fino all’istinto delle bestie; con questo vantaggio, che ogni specie non ha che il proprio, e l’uomo, non avendone forse alcuno che gli appartenga, se li appropria tutti, si nutre ugualmente della maggior parte degli alimenti diversi che gli altri animali si dividono, e trova in conseguenza i suoi viveri più facilmente di quanto possa fare alcuno di quelli”.5 La condizione dell’uomo naturale è per Rousseau così vicina a quella degli animali che egli arriva a scrivere, con scandalo, “che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l’uomo che medita è un animale depravato”.6 Un primo distacco dalla condizione animale si ha con l’idea della morte, presente solo nell’uomo. Tuttavia non è il pensiero che differenzia l’uomo radicalmente dagli animali, bensì la libertà. Anche l’animale ha idee e pensa. La differenza diventa radicale solo quando si consideri che l’uomo non solo pensa, come e più degli animali, ma è anche un agente libero. “La natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere; e nella coscienza di questa libertà, soprattutto, si mostra la spiritualità della sua anima; poiché la fisica spiega in qualche modo il meccanismo dei sensi e la formazione delle idee; ma nella potenza di volere, o piuttosto di scegliere, e nel sentimento di questa potenza, non si trovano che atti puramente spirituali, di cui nulla si spiega per via delle leggi della meccanica. Ma, continua Rousseau, quand’anche le difficoltà che avvolgono tutte queste questioni lasciassero un po’ di posto per discutere di questa differenza fra l’uomo e l’animale, c’è un’altra qualità più che mai specifica che li distingue, sulla quale non vi può essere contestazione; ed è la facoltà di perfezionarsi, facoltà che, con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre, e risiede in noi tanto nella specie quanto nell’individuo; là dove un animale è già al termine di qualche mese ciò che sarà per tutta la vita, e la sua specie è ancora al termine di mille anni ciò che era nel primo anno di questi mille. Perché l’uomo solo è soggetto a diventare imbecille? Non forse perché ritorna così al suo stato primitivo, e, mentre la bestia, che non ha acquistato nulla e nulla ha neanche da perdere, resta sempre col suo istinto, l’uomo invece, tornando a perdere per vecchiaia o per altri accidenti ciò che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade così più in basso che la bestia stessa? Sarebbe triste per noi esser costretti a convenire che questa facoltà distintiva e quasi illimitata è la fonte di tutte le disgrazie dell’uomo; che essa lo trae fuori, a forza di tempo, da quella condizione originaria, nella quale trascorrerebbe giorni tranquilli e innocenti; che essa, facendo sbocciare coi secoli la sua facoltà intellettuale e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo andare il tiranno di se stesso e della natura”.7 Il carattere peculiare della natura umana è quindi la sua genericità e la sua modificabilità: l’uomo non ha una natura determinata; invece dell’istinto, “che forse gli manca”, ha “altre facoltà capaci di supplirvi all’inizio e di innalzarlo in seguito molto al di sopra” delle funzioni puramente animali. Si tratta però, nella condizione dell’uomo naturale, solo di potenzialità: che cosa ne ha determinato lo sviluppo? Come han potuto queste potenzialità umane svilupparsi fino alla creazione delle lingue e delle società complesse? Rousseau si domanda, a questo punto, se sia nato prima il linguaggio o la società, ma lascia aperto il problema.8 Convinto che “la perfettibilità, le virtù sociali e le altre facoltà, che l’uomo naturale aveva ricevuto in potenza, non potevano mai svilupparsi da sé; che avevano bisogno perciò del concorso fortuito di parecchie cause estranee, che potevano anche non nascere mai, e senza le quali egli sarebbe rimasto eternamente nella sua condizione primitiva, mi resta – scrive Rousseau – a considerare e raccostare i diversi casi, che han potuto perfezionar la ragione degli uomini peggiorandone la specie, rendere un essere cattivo col renderlo socievole, e da sì lontano termine condurre in fin l’uomo e il mondo al punto in cui lo vediamo”.9 E fa questo nella seconda parte del Discorso sull’origine della disuguaglianza, che si apre con la celebre identificazione dell’origine della società civile con l’origine della proprietà privata. “Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore: siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno!».10 Ma è molto verosimile che allora le cose fossero già arrivate a tal punto, da non poter più durare com’erano: poiché quest’idea di proprietà, dipendente da molte altre idee anteriori, che non sono potute nascere che una dopo l’altra, non si formò d’un tratto nello spirito umano: bisogna fare molti progressi, acquistare molta industria e molti lumi, trasmetterli e aumentarli di generazione in generazione, prima di arrivare a quest’ultimo termine dello stato di natura”. L’inizio della vita civile è il punto d’arrivo di un lungo percorso dell’uomo nella sua condizione anteriore. I problemi dell’umanità non si risolvono, quindi, tornando a quell’inizio, magari con l’abolizione della proprietà privata. Bisogna fare i conti con la corruzione umana giunta già allora a buon punto. C’è una lunga preistoria da scoprire. Ed è quel che si propone Rousseau. Col solo sentimento della propria esistenza, “l’uomo nascente”, mosso dall’istinto e dalle sensazioni, ha un rapporto puramente fruitivo con l’ambiente naturale in cui vive. “Errando nella foresta, senza industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senz’associazione, senza alcun bisogno dei suoi simili come senza desiderio di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che i sentimenti adatti a tale stato; non sentiva che i suoi veri bisogni, non considerava che ciò che aveva interesse a vedere, e la sua intelligenza non faceva più progressi che la sua vanità. Se per caso faceva qualche scoperta, poteva tanto meno comunicarla, in quanto non riconosceva nemmeno i suoi figli. L’arte moriva con l’inventore. Non v’era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano invano; e partendo ognuna sempre dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; e la specie era già vecchia e l’uomo restava sempre fanciullo”.11 Fin quando l’ambiente gli offre ciò di cui nella sua vita semplice ha bisogno non ci sono problemi. Basta però qualche spostamento fuori del solito ambiente o qualche cambiamento climatico per alterare la situazione e creare all’uomo le prime difficoltà, che lo spingono ad avvalersi della sua perfettibilità. Ecco allora che l’uomo in difficoltà comincia a imparare “a superare gli ostacoli della natura, a combattere all’occorrenza gli altri animali, a disputare la sua sussistenza agli stessi uomini, o a indennizzarsi di ciò che doveva cedere al più forte”. Quando la crescita delle difficoltà lo spinge ad avvalersi della sua perfettibilità in modo non più solo individualistico e isolato, avviene la svolta e si apre la strada della civiltà. Su questa strada il genere umano si estende, ma il successo biologico costa: “Le fatiche si moltiplicarono con gli uomini”. Queste fatiche, però, moltiplicando i tipi di rapporto con l’ambiente, promuovono “nuove capacità intellettuali” e “la sua superiorità sugli altri animali”, di cui prende coscienza. Da questa coscienza, non ancora individuale, nasce l’orgoglio. “Così il primo sguardo, che volse sopra se medesimo, produsse in lui il primo moto d’orgoglio; così, sapendo ancora appena distinguere i gradi, e considerandosi già al primo come specie, si preparava da lungi a pretendervi come individuo”. Questo è il primo sentimento che nasce dalla riflessione su di sé, prodotta dal miglioramento della propria situazione. Esso si aggiunge ai due primitivi, l’“amore di sé”, inteso come elementare e innocente principio di autoconservazione, e la “pietà”, intesa come sentimento di repulsione di fronte alla sofferenza di ogni essere vivente e sensibile e che spinge l’uomo naturale a non fargli inutilmente del male. Inizia a germinare la società e, con essa, le prime grossolane idee di un interesse comune e di un impegno reciproco. Nascono le prime forme di famiglia e i relativi sentimenti di affetto. “I primi sviluppi dei sentimenti furono effetto di una condizione nuova, che riuniva in un’abitazione comune mariti e mogli, padri e figli. L’abitudine di vivere insieme fece nascere i più dolci sentimenti conosciuti dagli uomini, l’amor coniugale e l’amore paterno. Ogni famiglia divenne una piccola comunità, tanto più unita, in quanto l’attaccamento reciproco e la libertà ne erano i soli vincoli”. La primitiva “pietà”, per effetto dello sviluppo dell’immaginazione e della riflessione, diventa, negli uomini che si uniscono in branchi, affezione sociale. La perfettibilità primitiva, stimolata anche da queste prime relazioni umane, si sviluppa. Gli uomini godono adesso di agi sconosciuti ai loro padri; ma non si rendono conto che “questo fu il primo giogo che s’imposero senza pensarci e la prima fonte dei mali che prepararono ai loro discendenti”. Nella nuova vita sociale, gli uomini si riuniscono per imprese comuni, ma anche per cantare e danzare. Nascono le comparazioni e le “idee di merito e di bellezza, che producono sentimenti di preferenza”. L’amore di sé diventa, per desiderio di distinguersi e di imporsi sugli altri, amor proprio, mentre il primitivo sentimento di pietà si raggrinza. Lo sguardo degli altri fa diventare sempre più importante l’apparenza esteriore. Nascono anche nuove passioni. “Ognuno cominciò a considerare gli altri e a voler essere considerato lui pure, e la stima pubblica ebbe un pregio. Chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più destro o il più eloquente divenne il più stimato; ed ecco il primo passo verso la disuguaglianza e verso il vizio insieme: da queste prime preferenze nacquero da un lato la vanità e il disprezzo, dall’altro la vergogna e l’invidia; e il ribollimento generato da questi nuovi fermenti, produsse in fine composti funesti alla felicità e all’innocenza. Appena gli uomini ebbero cominciato ad apprezzarsi a vicenda, e l’idea della stima fu formata nel loro spirito, ognuno pretese di avervi diritto, e non fu più possibile mancarne impunemente verso nessuno. Quindi nacquero i primi doveri della civiltà, anche fra i selvaggi; e quindi ogni torto volontario diventò un oltraggio, perché, col male risultante dall’ingiuria, l’offeso vedeva il disprezzo della sua persona, spesso più insopportabile del male stesso. Così, punendo ognuno le attestazioni di disprezzo in modo proporzionato alla stima che faceva di se stesso, le vendette divennero terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli. Ecco precisamente il grado cui erano giunti i più fra i popoli selvaggi a noi noti; e solo per non aver abbastanza distinte le idee, e rilevato come questi popoli fossero già lontani dal primo stato di natura, parecchi si sono affrettati a concludere che l’uomo sia di natura crudele ed abbia bisogno di civiltà per addolcirsi; mentre non v’è essere più dolce di lui nel suo stato primitivo, quando, posto da natura ad uguale distanza dalla stupidità dei bruti e dall’intelligenza funesta dell’uomo civile, e limitato ugualmente dall’istinto e dalla ragione a difendersi dal male che lo minacci, è trattenuto in virtù della pietà naturale, dal far lui stesso male ad alcuno, senz’esservi spinto da nulla, neanche dopo averne ricevuto”.12 Questo stato, “il migliore per l’uomo che ha dovuto uscirne solo per qualche funesto effetto”, è quello in cui son stati quasi sempre trovati i selvaggi, e dal quale nessuno di questi ha mai voluto allontanarsi. “È notevolissimo – scrive Rousseau in nota XVI – che, dopo tanti anni che gli Europei si tormentano per condurre i selvaggi dei diversi paesi del mondo alla loro maniera di vivere, non abbiano ancora potuto guadagnarne uno solo, neanche con l’aiuto del cristianesimo; perché i nostri missionari ne fanno talvolta dei cristiani, ma giammai degli uomini civili. Nulla può superare l’invincibile ripugnanza che essi hanno ad assumere i nostri costumi […]; mentre si legge in mille luoghi che Francesi e altri Europei si sono rifugiati volontariamente tra quelle genti, vi hanno passato la loro vita intera senza poter più abbandonare una così strana maniera di vivere”.13 “Il funesto caso” che spinge l’umanità a uscire da quelle felici condizioni di vita è l’avvio della divisione del lavoro. Rousseau la pensa ben diversamente da Adam Smith. “Fin che gli uomini non si volsero ad opere che uno solo poteva fare, e ad arti che non avevano bisogno del concorso di parecchie mani, vissero liberi, sani, buoni e felici, per quanto potevano essere tali di loro natura, e continuarono a goder fra loro delle dolcezze di relazioni indipendenti; ma dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, e s’avvide che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnar col sudore degli uomini, e in cui ben presto si vide la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi”. S’avvia il processo che porta alla metallurgia e all’agricoltura. La nascita dell’agricoltura e della metallurgia impone un salto al processo di corruzione dell’umanità. Si divide la terra e nasce l’idea di proprietà privata, fondata sul lavoro. S’impone come principio di giustizia la regola di dare a ciascuno il suo e comincia a prendere forma il diritto. “Dalla cultura delle terre derivò necessariamente la loro partizione; e dalla proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole della giustizia: giacché, per rendere a ciascuno il suo, bisogna che ciascuno possa aver qualcosa; di più, cominciando gli uomini a considerar l’avvenire, e trovandosi ognuno qualche bene soggetto a perdersi, non ve n’era uno, che non avesse a temere per sé la rappresaglia dei torti che potesse fare ad altri. Quest’origine è tanto più naturale, in quanto è impossibile concepir l’idea della proprietà nascente da altro che dal lavoro; giacché non si vede che, per appropriarsi le cose non fatte da lui, l’uomo possa mettervi più che il suo lavoro. Solo il lavoro, dando diritto al coltivatore sul prodotto della terra da lui arata, gliene dà per conseguenza sul terreno, almeno fino al raccolto, e così di anno in anno; il che, facendo un possesso continuo, si trasforma facilmente in proprietà”.14 Sul diritto di proprietà Rousseau la pensa come Locke. Col diritto di proprietà e con il divenire la ricchezza potere sociale, l’uomo comincia a essere considerato per quel che possiede più che per quel che è. “Essere e parere divennero due cose affatto differenti, e da questa distinzione uscirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne sono il corteo”.15 L’accumulazione della ricchezza e la sua trasmissione ereditaria scavano divisioni sempre più profonde tra gli uomini e alimentano un’aggressività sociale sempre più feroce e spietata. “L’ambizione divorante, l’ardore di elevare la propria fortuna, non tanto per vero bisogno, quanto per mettersi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una tendenza nera a nuocersi a vicenda, una gelosia segreta, tanto più pericolosa in quanto, per far il suo colpo più sicuramente, prende spesso la maschera della benevolenza. […] Ora, quando le eredità si furono accresciute di numero e di estensione, fino a coprire il suolo intero e a toccarsi tutte, gli uni non poterono più ingrandirsi che a spese altrui; e quelli in sopra numero, cui la debolezza o l’indolenza avevano impedito di acquistarne a loro volta, divenuti poveri senza aver nulla perduto, perché cambiando tutto intorno a loro, essi soli non avevano cambiato affatto, furono obbligati a ricevere o a carpire la loro sussistenza dalle mani dei ricchi; e di là cominciarono a nascere, secondo i vari caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la servitù, o la violenza e le rapine. I ricchi, dal canto loro, appena conobbero il piacere di dominare, sdegnarono subito tutti gli altri; e servendosi dei loro antichi schiavi per sottometterne di nuovi, non pensarono che a soggiogare e asservire il popolo: simili a quei lupi affamati che, una volta gustata la carne umana, rifiutano ogni altro cibo e non vogliono più che divorare uomini. Così, facendosi i più potenti o i più miserabili delle loro forze o dei loro bisogni una specie di diritto al bene altrui, equivalente, secondo loro, a quello di proprietà, l’uguaglianza infranta fu seguita dal più orribile disordine; così le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante un conflitto incessante, che non terminava che in combattimenti ed omicidi. La società nascente fece posto al più orribile stato di guerra”.16 Questo stato permanente di guerra, in cui nessuno è al sicuro, costringe gli uomini a riflettere sulla loro miserabile situazione. Il ricco è il primo a capire quanto sia per lui svantaggiosa questa condizione e a cercare di uscirne, per mettere al sicuro le sue ricchezze e il suo potere sociale. “Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per difendersi; in grado di schiacciare facilmente un individuo ma schiacciato a sua volta da un branco di banditi; solo contro tutti e non potendo, a cagione delle gelosie reciproche, unirsi coi suoi uguali contro nemici uniti dalla speranza comune del saccheggio; il ricco, premuto dalla necessità, concepì il disegno più meditato che sia mai entrato nello spirito umano: ossia d’usare a proprio favore le forze stesse che l’attaccavano, di fare dei suoi avversari i suoi difensori, d’ispirar loro altre massime, dare altre istituzioni, che gli fossero favorevoli, quanto il diritto naturale gli era contrario”. Nasce così l’idea di un patto d’unione sociale nell’interesse di tutti. “Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo d’assicurarsi la libertà: perché, avendo abbastanza ragione per sentire i vantaggi di una costituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli: i più capaci di presentirne gli abusi erano precisamente quelli che contavano di profittarne; e i saggi stessi videro che bisognava decidersi a sacrificare una parte della loro libertà alla conservazione dell’altra, come un ferito che si fa tagliare il braccio per salvare il resto del corpo. Tale fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della diseguaglianza, di un’accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria”.17 La diseguaglianza, legittimata dal patto sociale, prende nuova forza e prospera più di prima; ma, così, favorisce la degenerazione del potere politico verso il dispotismo. “È qui l’ultimo termine della diseguaglianza, e il punto estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura, differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest’ultimo è il prodotto di un eccesso di corruzione. C’è così poca differenza, d’altra parte, fra questi due stati, e il contratto di governo è talmente annullato dal dispotismo, che il despota non è padrone se non finché sia il più forte; e appena si possa cacciarlo, non può protestare affatto contro la violenza”. Come uscire da questa spirale? Dobbiamo “distruggere la società, annientare il tuo e il mio, tornare a vivere nelle foreste come gli orsi?” L’alterazione che la natura umana ha subito nel corso del suo incivilimento è ormai così profonda che il ritorno nelle foreste cambierebbe ben poco. “L’uomo selvaggio e l’uomo incivilito differiscono talmente nel fondo del cuore e delle inclinazioni, che ciò che forma la felicità suprema dell’uno, ridurrebbe l’altro alla disperazione. Il primo non respira che quiete e libertà; non vuol che vivere e restare ozioso […]. Al contrario, il cittadino, sempre attivo, suda, s’agita, si tormenta senza posa per cercare occupazioni ancor più laboriose; fatica fino alla morte, vi corre anzi per mettersi in grado di vivere, o rinuncia alla vita per acquistar l’immortalità; fa la corte ai grandi che odia e ai ricchi che disprezza; nulla risparmia per ottenere l’onore di servirli, si vanta con orgoglio della sua bassezza e della loro protezione; e, fiero della sua schiavitù, parla con sdegno di coloro che non hanno l’onore di dividerla. Che spettacolo, per un Caraibo, i lavori penosi e invidiati di un ministro europeo. Quante morti crudeli non preferirebbe questo selvaggio indolente all’orrore di simile vita, che spesso non è neppure addolcita dal piacere di far bene! […] Il selvaggio vive in se stesso; l’uomo socievole, sempre fuori di sé, non sa vivere che nella opinione altrui; e per così dire solo dal loro giudizio trae il sentimento dell’esistenza propria”.18 La soluzione non può che essere una rivoluzione radicale, non diversa da quella prospettata da Platone nella sua Repubblica, dell’educazione e della vita civile. Ed è quel che Rousseau prospetta con l’Emilio, con la Nuova Eloisa e con il Contratto sociale. NOTE 1 Rousseau, Le confessioni, libro VIII, ed. Einaudi 1955, pp. 426-28. 2 Rousseau, Discorso sull’origine della diseguaglianza, in Opere, ed. Sansoni 1972, p. 59. 3 Ib. p. 39. 4 Ib., Prefazione, p. 39 5 Ib. p. 44. 6 Ib. p. 46. 7 Ib. p. 48. 8 Ib. p. 53. 9 Ib. p. 59. 10 Questo passo ha molto irritato i difensori della proprietà privata. Voltaire, sulla sua copia del Discorso, annota: “Come, chi ha piantato, seminato e recintato, non ha diritto al frutto delle sue fatiche? Come, quest’uomo ingiusto, questo ladro, sarebbe stato il benefattore del genere umano! Ecco la filosofia di un miserabile che vorrebbe che i ricchi fossero derubati dai poveri”. Citato in nota 43 da Paolo Rossi in Rousseau, Opere, Sansoni ed., 1972. 11 Ib. p. 58. 12 Ib. p. 63. 13 Ib. p. 94. 14 Ib. p. 65. 15 Ib. p. 65. 16 Ib. p. 66. 17 Ib. p. 67. 18 Ib. pp. 75-6. Torino 27 Ottobre 2014 Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf) Testi di Rousseau
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