TEORICI
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KANT E LA CRITICA DEL GIUDIZIO
I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX - XX - XXI - XXII - XXIII - XXIV - XXV - XXVI - XVII Nella terza Critica Kant prende in esame il sentimento nel suo rapporto con la natura. Fa questo perché mentre la natura nella prima Critica era determinata da una razionalità oggettiva e necessaria, che esclude la libertà, che al massimo poteva trovare una qualche soddisfazione nella metafisica (le cui ragioni restavano pur sempre scientificamente indimostrabili); la seconda Critica invece era determinata da un'etica finalistica, che includeva pienamente la metafisica, e quindi la libertà umana e l'esistenza divina. Dunque come conciliare necessità naturale e libertà umana? Il sentimento umano tende di più verso l'ateismo o la religione? E' possibile che la natura sia solo un puro meccanismo di causa ed effetto, o non ha invece una finalità superiore, per la quale si possa giustificare i principi dell'etica elaborati nella seconda Critica? Non si tratta di fondere due piani diversi (natura e libertà), in quanto di entrambi va conservata l'autonomia, ma di trovare un punto di vista trascendentale, che renda possibile il passaggio tra i due diversi modi di pensare e di vivere. Nella prima Critica i fenomeni naturali venivano interpretati dalle categorie a priori (giudizi determinanti). Con la Critica del giudizio invece il soggetto deve limitarsi a capire se in quegli stessi fenomeni esiste una finalità (e non solo una razionalità) che giustifichi il suo "essere credente" (o interiormente trascendente). E questo è il campo dei giudizi riflettenti. Kant infatti parte dal presupposto che l'armonia delle parti dà una soddisfazione analoga a quella che si prova quando si compie il proprio dovere, cioè quando si pensa d'essere in armonia con la volontà divina (una soddisfazione che non poteva avere quando era costretto a misconoscere, nella prima Critica, un rapporto logico della natura con la divinità). Nella terza Critica si entra nell'ambito della contemplazione non razionale ma estatica della natura. Questo perché il sentimento tende a figurarsi il mondo fisico in termini di finalità e di libertà, senza valore di tipo conoscitivo: di qui l'accordo puramente soggettivo tra fenomeno e noumeno. Se la natura è ordinata secondo un fine, il problema è risolto. Se invece è soggetta solo a leggi causali e in fondo casuali (in quanto non determinate da una Mente superiore), allora il problema rimane irrisolto, poiché, in tal caso, si deve di nuovo escludere la necessità di un dio ordinatore, ammesso nella seconda Critica. In sostanza il problema è quello di come dimostrare che la finalità (che è una sorta di "armonia delle parti") è la forma a priori del sentimento. Per interpretare il mondo come natura ci serviamo di due tipi di giudizio: determinante e riflettente. Quello determinante è già stato visto nella I Critica: è il giudizio scientifico, che ci permette di conoscere, attraverso le categorie, come funzionano i fenomeni. Il giudizio riflettente è invece quello che si chiede come una cosa possa piacere (far provare un'emozione): è quello che si chiede quale sia il significato ultimo della natura, ovvero se è possibile sperare che la natura abbia un significato che vada oltre quello che si può dimostrare scientificamente e che appaghi l'istanza trascendente della morale. Se la natura è organizzata secondo una direzione unitaria di tutte le sue parti, come possiamo giudicarla? Questo il motivo per cui la III Critica viene detta del "giudizio". I giudizi riflettenti vengono divisi da Kant in due grandi categorie: estetici (finalità soggettiva) e teleologici (finalità oggettiva). Il giudizio estetico è quello basato sul rapporto immediato tra soggetto e oggetto. La finalità della natura viene percepita spontaneamente come un a priori non consapevole. L'armonia delle parti, presente in natura, può essere percepita nella sua purezza sulla base di quattro condizioni:
In tal modo si gusta l'armonica disposizione delle parti nel tutto senza conoscere l'origine di questo processo, in una maniera per così dire inconscia, indiretta. Dire semplicemente "è bello ciò che piace" non è esatto, poiché il piacevole è troppo soggettivo per determinare una necessità: al senso del gusto del bello bisogna educarsi, essendo sempre molto forti i condizionamenti. È bello ciò che piace nel giudizio di gusto. Poiché il gusto è la facoltà di giudicare intorno al bello, il bello non appartiene alle cose, ma è posto nel giudizio che valuta fra una rappresentazione e il sentimento che si prova. Dire "mi piace" è esprimere un giudizio soggettivo basato sulla sensazione. Dire "è bello" è esprimere un giudizio universalmente valido, che però non può essere dimostrato. Non vi sono princìpi razionali del gusto, né ideali rigidi di bellezza: l'ideale di bellezza sta soltanto nella ripetuta contemplazione delle cose belle. È come se in ogni uomo vi fosse una predisposizione naturale, inconscia, ad apprezzare quanto in natura può essere considerato "bello". I condizionamenti possono essere di quattro tipi:
Gli esempi possono essere infiniti e non c'è bisogno di riportare quelli di Kant. Si pensi p.es. alla madre che considera i suoi figli i più belli proprio perché sono suoi o al gallerista che giudica bello ciò che deve vendere, o al politico che giudica bello il dipinto che rappresenta i lavoratori, o a quel critico d'arte che giudica belli tutti i dipinti di un artista che conosce meglio. Il giudizio teleologico è quello che permette di cogliere il bello nella consapevolezza che l'armonia delle parti rispecchia una oggettiva finalità superiore, di tipo trascendentale, non dimostrabile scientificamente. Qui non basta l'estetica, ci vuole la metafisica. P.es. se un albero A, coi suoi semi, produce un albero B, noi diciamo che A è causa di B. In realtà, se accettiamo l'idea che nella natura esiste un finalismo, l'albero B è anche causa dell'albero A. È B che indica ad A la sua destinazione finale. La finalità può anche non essere nelle cose in sé, ma di sicuro è nel nostro modo di giudicare. Il giudizio teleologico:
In tal senso non basta neppure dire "è bello ciò che è bello": bisogna spiegarne la ragione e la cosa non è affatto semplice, tant'è che Kant si vede costretto a fare un'ulteriore distinzione, quella tra bello e sublime.
Le pagine dedicate all'analisi del sublime sono le più intense e anche quelle che hanno determinato in questa Critica il passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo. Infatti per Kant il sublime esprime il contrasto tra la ragione (capace di superare ogni grandezza e dominare ogni potenza della natura grazie all'idea di infinito soprasensibile) e l'immaginazione (o rappresentazione), che in realtà non riesce ad abbracciare l'illimitata grandezza e potenza della natura nella sua totalità. L'uomo si sente virtualmente superiore alla natura, ma anche praticamente molto limitato, perché non è capace di realizzare umanamente i propri desideri. L'antinomia non sembra potersi risolvere né con la ragione, né con la volontà, né col sentimento. L'uomo cioè sembra essere il fine della natura, ma la natura non sembra volerlo felice. La ragione è sì il bene supremo dell'uomo, ma l'uomo va educato a farne l'uso migliore. Fonti
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