TEORICI
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Kant, l’inquisitore Bellarmino e Vattimo I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX - XX - XXI - XXII - XXIII - XXIV - XXV - XXVI - XXVII Roberto Bellarmino, il gesuita che la Chiesa ha fatto santo nel 1930 e proclamato dottore della Chiesa nel 1931, il più illustre inquisitore di Giordano Bruno, nel 1615 consiglia a Galileo di muoversi con le cautele che Osiander aveva premesso all’opera di Copernico.1 Gli consiglia, cioè, di presentare la rivoluzionaria teoria astronomica come semplice ipotesi. Da buon esponente della Compagnia di Gesù, nata a sostegno culturale del potere della Chiesa e del papa compromesso dal movimento protestante, Bellarmino avvia il suo rapporto con Galileo con un atteggiamento di parziale apertura, al fine di neutralizzarne, senza il clamore della recente vicenda bruniana, il tentativo di sottrarre la nuova scienza al controllo clericale. Galileo riconosce alla Chiesa la pienezza dei poteri in fatto di fede. Lui è credente, ma è convinto che scienza e fede vadano tenute ben distinte. Gli sembra di proporre cose ovvie, ma più insiste e più la resistenza clericale cresce: la distinzione tra scienza e fede e la conseguente autonomia della scienza, che a lui sembrano tanto naturali, sono inaccettabili per la Chiesa. Nei primi mesi del 1616, l’atteggiamento di Bellarmino si fa ruvido: intima a Galileo di non insegnare né difendere la teoria copernicana. Nello stesso anno il libro di Copernico finisce all’Indice. Galileo, fidando sulla forza dei fatti osservati e delle prove sperimentali, non cede. S’illude di riuscire a vincere le resistenze del potere clericale con la forza della verità. Il conflitto esplode aperto e violento nell’autunno del 1632. Nel 1633, Galileo si piega all’umiliante abiura e la nascente autonomia della scienza subisce un duro colpo, ma non muore. Un secolo e mezzo dopo, Kant fonda la validità universale e necessaria della scienza galileiana e newtoniana e impone alla metafisica una radicale riduzione del suo potere: le riconosce ancora la funzione regale di orientamento della conoscenza, ma riduce le sue verità a semplici ipotesi, la paragona all’avventurosa navigazione oceanica e riconosce valore di conoscenza reale solo alla nuova scienza, che si muove nell’isola dell’esperienza. Rovescia la posizione di Bellarmino. Per Kant non è male che la metafisica non sia scienza come lo sono la matematica e la fisica. È convinto che la natura irrimediabilmente problematica della metafisica, che ne fa un campo di battaglie senza fine, sia garanzia dell’autonomia e della dignità umana. Se, infatti, la metafisica fosse scienza, anzi Scienza con la maiuscola, l’autonomia della scienza ne soffrirebbe: come regina delle scienze, la metafisica imporrebbe alle scienze il quadro definitivo in cui muoversi e qualsiasi rivoluzione scientifica, del tipo di quella copernicana, diventerebbe impensabile. Se, poi, la metafisica, il cui potere si esercita nel mondo del pensiero, fosse asservita al potere repressivo di un’istituzione come l’Inquisizione di Bellarmino, si riavrebbero le condizioni del caso Galileo. Se la metafisica, in particolare nella sua parte teologica, avesse il potere conoscitivo della scienza, se le sue verità avessero la forza delle verità geometriche, l’avventura umana si ridurrebbe a movimento meccanico senza vita, quello proprio dei burattini di cui, appunto, scrive Kant. E l’illuminismo come uscita dell’umanità dalla minorità sarebbe impensabile. L’autonomia dovrebbe cedere il passo in ogni campo all’eteronomia. Non è senza significato che il saggio sull’illuminismo e la pagina sui burattini siano stati scritti a distanza di pochi anni, nel momento di piena maturità del pensiero kantiano: Kant ha ormai chiaro che l’umanità diventa maggiorenne contemporaneamente al venir meno delle pretese della metafisica; che il farsi “debole” del pensiero metafisico, per dirla con Vattimo, si accompagna al farsi forte dell’autonomia scientifica, culturale e morale degli uomini. Certo, Kant affida alla filosofia la fondazione della scienza, non, però, per vincolarla, bensì per assicurarne l’autonomia. Certo, nel suo pensiero morale è centrale l’assoluto, l’imperativo categorico, che nel vecchio Kant diventa così rigido da imporre la veridicità sempre e a qualsiasi costo. Anche qui, però, si tratta di un’operazione filosofica tesa a garantire l’autonomia umana individuale, del tutto liberata da poteri esterni e tradizionali. Non a caso Kant rovescia il tradizionale rapporto di fondazione tra la religione e la morale. È vero che la filosofia kantiana si presenta, anche per la sua natura fortemente sistematica, come tipico esempio di pensiero forte, difficile da avvicinare al “pensiero debole” di Gianni Vattimo. E, forse, Kant storcerebbe il naso davanti ad un libro dal titolo “Addio alla verità” e con il capitolo finale intitolato “La fine della filosofia”, che Vattimo ha pubblicato nel 2009. Se, però, lo aprisse, non potrebbe non riconoscervi anche il frutto della sua lezione illuministica sul dovere dell’umanità di diventare maggiorenne. L’accostamento, quindi, non è fuori luogo: mette a fuoco l’impegno, centrale nei due filosofi, nel promuovere la liberazione degli uomini dai ceppi e dai poteri autoritari. Torino 4 maggio 2015 Note 1 Andrea Osiander è il teologo, convertito al luteranesimo, che cerca invano di convincere Copernico a presentare la sua teoria come un semplice strumento di calcolo, privo di ogni valore di verità sull’ordine reale delle cose. Copernico, convinto della verità della sua teoria, pur sapendo di esporsi ad ampia e profonda ostilità, non è disposto, come risulta dalla dedica al papa Paolo III, a ridurla a semplice ipotesi utile per i calcoli astronomici. Quando, però, nel 1543 l’opera sta per essere stampata, Copernico è gravemente malato e sta per morire e Osiander inserisce, sul verso del frontespizio, l’avvertenza anonima che segue: “Al lettore sulle ipotesi di quest’opera”, per precisare che “non è necessario che quelle ipotesi siano vere, anzi neppure che siano verosimili, ma basta solo che mostrino il calcolo in armonia con i fenomeni osservati […] Né alcuno si aspetti dall’astronomia nulla di certo riguardo le ipotesi, non potendolo essa mostrare, affinché per vere cose escogitate per un fine diverso, non si allontani da questo studio più ignorante di quando vi si accostò”. È un falso, inutile a difendere dagli attacchi violenti previsti. Giordano Bruno, nel 1584 in La cena delle ceneri, ne scrive come di “certa Epistola superliminare attaccata non so da chi asino ignorante e presuntuoso”. ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf) Fonti
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