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LA FRANCIA DI LUIGI XIV
Premessa Luigi XIV, nato nel 1638, aveva solo 23 anni quando subentrò al cardinale Mazzarino (1643-61), nel governo della Francia. Un decennio dopo dovette prendere atto della fine ingloriosa che aveva fatto il re Carlo I Stuart nel bel mezzo della rivoluzione inglese, cioè non poteva non sapere a quali rischi andava inevitabilmente incontro una monarchia di diritto divino intenzionata a far valere il proprio assolutismo. Perché quindi per tutta la sua vita non se ne preoccupò affatto? Per la semplice ragione che la Francia non era l'Inghilterra. Quest'ultima infatti non solo aveva perso la guerra dei Cent'anni (1337-1453), non solo si era dissanguata con la guerra delle Due Rose (1455-85), e non aveva ottenuto assolutamente nulla dalla guerra dei Trent'anni (1618-48), ma si era anche lasciata coinvolgere in una lunga guerra civile (1603-88) che alla fine si era risolta in una specie di compromesso tra monarchia e Parlamento, tra borghesia e nobiltà e tra anglicani e calvinisti. Nel medesimo periodo invece la Francia s'era comportata ben diversamente: anzitutto la suddetta guerra dei Cent'anni contro gli inglesi l'aveva vinta, in secondo luogo, pur essendo stata sconfitta da Carlo V per l'egemonia in Italia (1494-1559), e pur avendo anch'essa dovuto affrontare una dolorosa guerra civile tra cattolici e ugonotti (1562-98), alla fine si era ripresa, diventando la prima potenza europea continentale. Essa, infatti, dopo aver ridimensionato le pretese calviniste nel proprio territorio, determinò una sconfitta decisiva al suo principale nemico storico: gli Asburgo d'Austria e di Spagna, con la pace di Westfalia (1648) e dei Pirenei (1659). La Francia s'era presa una bella rivincita, allargando in maniera significativa i propri territori, e ora, con Luigi XIV, si sentiva pronta a chiedere il resto del conto. Peraltro va notato che tra il 1550 e il 1750 la popolazione francese si mantenne stabilmente sui 20 milioni di abitanti (di cui il 90% dedito all'agricoltura): il che la rendeva, dopo la Russia, la più popolosa d'Europa. Al suo confronto, la Spagna aveva solo 6-8 milioni di abitanti, l'impero asburgico circa 8 e l'Inghilterra non più di 6 milioni. E, per potersi imporre, la monarchia evitò di usare il pugno di ferro contro le tendenze autonomistiche della propria nobiltà: ritenne sufficiente indurla a vivere, almeno sei mesi l'anno, nell'ozio e nel lusso di quella gabbia dorata chiamata "reggia di Versailles". Il re sapeva bene che l'aristocrazia, di fronte a una prospettiva del genere, non avrebbe avuto nulla da ridire, anche perché sul piano economico non le sarebbe costato nulla. D'altra parte lo Stato francese del XVII secolo, fondato sul principio del potere assoluto del re, era per sua natura una dittatura della nobiltà, che doveva impedire l'alleanza tra borghesia, masse contadine e plebe cittadina. Ogni governo infatti cercava da un lato di tutelare la nobiltà e, dall'altro, di favorire la borghesia permettendole di acquisire titoli nobiliari, ruoli di comando nell'amministrazione, nella politica, nell'esercito, mentre soffocava senza pietà qualsiasi movimento delle masse contadine e plebee. L'assolutismo era solo un intermediario "apparente" tra nobiltà e borghesia: esso aveva bisogno della borghesia anche perché necessitava di denaro, sia per distribuirlo ai nobili che per accrescere la propria potenza politica, che si basava sempre più su eserciti regolari di massa. Naturalmente l’accrescimento del potere reale limitava i privilegi e l’autonomia dei singoli aristocratici. Tuttavia gli interessi comuni di classe portavano questi signori, nonostante i conflitti particolari e le manifestazioni di malcontento, a serrarsi attorno al potere reale: singoli nobili che avevano subìto qualche ingiustizia capeggiavano talora movimenti politici di opposizione, diretti contro il governo, ma costoro perseguivano scopi puramente personali (conferimento di pensioni, cariche di governatore, una dignità ecclesiastica ecc.): in nessun caso riuscivano a mettere in pericolo il regime assolutistico, né ponendo limitazioni al potere del re né minacciando l’integrità territoriale della Francia. La graduale formazione della nazione francese avvenne sotto la spinta dello sviluppo del capitalismo. Questo processo era iniziato nei secoli XV-XVI, ma nel sec. XVII non poteva dirsi ancora concluso, specie per quanto riguardava la comunanza della lingua e della cultura: cosa che però si sviluppò molto rapidamente proprio nel corso del XVII secolo, quando fu compiuta l’unificazione e la regolamentazione dell’ortografia e delle norme della lingua letteraria, e quando assunse proporzioni rilevanti la funzione di Parigi come centro culturale di tutta la Francia. In particolare continuava a mancare la comunanza della vita economica: la Francia del XVII secolo era ancora divisa da numerose barriere doganali interne; le singole province erano, dal punto di vista economico e amministrativo, isolate le une dalle altre. Il mercato interno era poco sviluppato e di conseguenza la borghesia non poteva avere la forza di cementare la nazione in via di formazione. La politica interna Che Luigi XIV (1661-1715), il cui motto assolutistico passò alla storia ("L'État c'est moi"), avesse scelto consapevolmente una politica centralistica, è lui stesso a dirlo nelle sue Memorie (1) rivolte al suo successore. Scelse soltanto quattro segretari di Stato, i governatori delle province, i sovrintendenti alle finanze e i capi delle municipalità: tutti con incarichi temporanei, e nessuno poteva firmare qualcosa senza prima aver interpellato il proprio superiore. Non nominò mai neppure il primo ministro, anzi ogni ministro, competente in un unico specifico settore, veniva sottoposto a controlli del tutto inaspettati. I ministri non solo erano revocabili in qualunque momento, ma non venivano mai scelti tra gli aristocratici, proprio perché il re li voleva privi di un potere personale. L'Alto Consiglio di Stato di cui si serviva per le decisioni più importanti era diviso in sole tre sezioni: affari segreti, interni e finanze. Qualunque richiesta di grazia doveva essere indirizzata direttamente a lui, che controllava personalmente persino il corpo di polizia. È bene inoltre precisare che gli Stati generali, cioè l'assemblea consultiva della regno, formata da clero, nobiltà e borghesia, non furono mai convocati dal 1614 al 1789. Un accentramento di poteri così maniacale era un segno di forza o di debolezza? Oggi diremmo di debolezza. Si pensi solo al fatto che, siccome gli affari delle singole province venivano sbrigati dai membri del Supremo Consiglio Reale (ministri e segretari di stato), la burocrazia diventava immancabilmente qualcosa d'asfissiante. Il compito principale nella risoluzione degli affari era espletato dai segretari di stato, i quali presentavano regolarmente rapporti personali al re, ultima istanza di tutto il sistema burocratico centralizzato. Questo principio dell’amministrazione "personale" del re portava in pratica a inevitabili ritardi nelle decisioni delle varie questioni, a una esasperante minuziosità e all’impossibilità di un controllo effettivo, in quanto tutto diventava troppo lento e macchinoso. Quella volta però nessuno ebbe il coraggio di mettere in discussione questi meccanismi, tant'è che il re poteva incarcerare chicchessia nelle prigioni della Bastiglia sulla base di un semplice ordine. Ovviamente, a partire da questo momento, sarebbe stato impossibile giustificare le congiure di corte e le ribellioni aristocratiche col fatto ch'esse erano dirette non contro il re, ma contro il primo ministro. Luigi XIV era sì chiamato "grande" e "divino", ma nello stesso tempo, avendo eliminato la figura del premier, egli fu il primo re francese a essere criticato e stigmatizzato nella stampa illegale per tutti i vizi del regime. La centralizzazione dei poteri non si espresse ovviamente solo in termini politici, ma anche amministrativi. Jean-Baptiste Colbert (1619-83), ministro delle finanze, reintrodusse la figura degli intendenti, preposti a controllare, con funzioni ispettive, le ramificazioni locali dell'amministrazione (sotto Napoleone saranno trasformati in prefetti). Tali funzionari di origine borghese, stipendiati dallo Stato, erano stati rimossi dall'incarico quando, al tempo del cardinale Mazzarino (1602-61) erano stati oggetto di aspre critiche da parte del popolo, della nobiltà togata e aristocratica a motivo del loro fiscalismo (si veda la Fronda parlamentare del 1648-49 e quella dei principi del 1650-53, che avevano costretto Mazzarino e la sua corte a fuggire da Parigi, le cui rivendicazioni erano state straordinarie somiglianti a quelle del programma del Lungo Parlamento inglese). Ora invece, col Re Sole, gli intendenti, appartenenti alla nobiltà di toga (2), si trovavano ad essere investiti, oltre alle loro precedenti funzioni, anche di quella giudiziaria, sicché i parlamenti locali e persino quello di Parigi tendevano a perdere la facoltà di opporsi alle decisioni del re. Va detto tuttavia che, siccome l'assolutismo regio temeva il rafforzamento della borghesia, peraltro inevitabile dopo la rivoluzione inglese, molte cariche statali, che appartenevano a elementi di origine borghese, furono abolite. Il re eliminò anche i rappresentanti della borghesia da alcune posizioni da loro occupate all’interno della classe feudale (p.es. fu annullata l’elevazione di molti funzionari alla dignità di nobili e inoltre fu effettuata un'indagine sulla legalità di tutti i titoli e diritti feudali, poiché non di rado i funzionari se li attribuivano in modo arbitrario). In relazione con la politica di pressione sui gruppi dominanti del Terzo stato, fu anche l’attacco ai "finanzieri": nel 1661 il re ordinò di arrestare il sovrintendente alle finanze Fouquet. L’inchiesta rivelò gigantesche malversazioni del denaro dello Stato. Assieme a Fouquet comparve, sul banco degli imputati, anche un numeroso gruppo di piccoli e grossi "finanzieri". Ciò servì non solo per coprire il debito statale, ma anche per rinsanguare i forzieri reali. Inoltre il re annullò arbitrariamente alcuni debiti statali e ridusse gli interessi dei prestiti pubblici. Tutte le forze militari nel territorio di ogni singola provincia erano al comando del governatore, che fruiva di una carica triennale e che rappresentava prima di tutto il potere militare in loco, costituendo un importante anello della macchina militare centralizzata. La centralizzazione rappresentava la principale superiorità strategica del potere, poiché i movimenti popolari, persino nei momenti di maggiore slancio, avevano sempre un carattere locale e spontaneo. Le città, sotto Luigi XIV, persero definitivamente la loro autonomia e i municipi, da organi elettivi, si trasformarono in organi amministrativi nominati dal centro. Gli stessi governatori erano tenuti sotto controllo dagli intendenti, autorizzati a svolgere mansioni fiscali, giudiziarie, poliziesche, amministrative e militari. A tale esautoramento di funzioni e poteri il re pensò di rimediare inducendo la nobiltà di spada e di sangue, cioè quella appartenente alle famiglie degli antichi feudatari, a risiedere con lui presso la corte di Versailles, ch'era in grado d'accogliere oltre 10.000 persone. Così peraltro la corte poteva stare lontana da Parigi, considerata un "covo di ribelli", a motivo delle due recenti Fronde al tempo del Mazzarino. Per l'intrattenimento sfarzoso e costosissimo di questi altolocati ospiti, ridotti al ruolo di cortigiani, il re pensò d'invitare i migliori artisti, scrittori e scienziati d'Europa e di fondare numerose Accademie (belle lettere, pittura, scienze, architettura, musica...). Ciò tuttavia non impedì al re di esercitare un'attenta sorveglianza sulle tipografie, che nulla potevano stampare senza il suo permesso, e che nel giro di pochi anni videro dimezzata la loro attività. I lavori della reggia iniziarono nel 1661 e durarono vent'anni (solo per portare a termine un acquedotto con 1600 arcate ci vollero 36.000 operai). (3) La politica religiosa La fortissima centralizzazione dei poteri, voluta dal re francese Luigi XIV, le cui spoglie, da quanto era odiato, furono disperse durante la rivoluzione del 1789, aveva trovato la sua espressione anche sul piano religioso, in quanto il motto della Corona era: "Un solo re, un solo Dio, una sola religione". Il Re-Sole, che amava identificarsi completamente e in via esclusiva con lo Stato (L'Etat c'est moi), non si era accontentato della sottomissione degli ugonotti (calvinisti), ma aveva voluto anche quella dei giansenisti cattolici e della stessa chiesa cattolica nazionale. La persecuzione contro gli ugonotti, iniziata nel 1661, fu sistematica e si concluse con l'editto di Fontainebleau del 1685, che annullò gli effetti del precedente editto di Nantes (1598), inducendo 200-300 mila calvinisti a emigrare in Inghilterra, Olanda, Svizzera, Germania..., nonostante vigesse il divieto di espatrio. Si trattò di un esodo oneroso per l'economia del paese, in quanto generalmente si trattava di famiglie borghesi dedite ad attività finanziarie, commerciali e artigianali. Il resto dei calvinisti preferì convertirsi. D'altra parte l'intangibilità dell'autorità della fede cattolica non poteva tollerare d'essere incrinata dalla presenza del protestantesimo degli ugonotti: l'esistenza nel paese di due fedi religiose ammesse dalla legge apriva le porte allo scetticismo e indeboliva il cattolicesimo. Naturalmente questa politica d'intolleranza religiosa non giovò affatto al rafforzamento del potere del cattolicesimo sugli animi dei francesi, anche perché gli scrittori ugonotti diffondevano dall'estero i loro libelli e le loro opere, nelle quali stigmatizzavano con grande energia l'assolutismo e il cattolicesimo. Polemizzando con gli ideologi dell'assolutismo (tra i quali vi era il vescovo Bossuet, col suo libro La politica, tratta dalla Sacra Scrittura), un autore anonimo (probabilmente l'ugonotto Pierre Jurieu) scriveva nel pamphlet I sospiri della Francia asservita, pubblicato in Olanda nel 1689: “il popolo francese conserva nel cuore il desiderio di scrollarsi di dosso il giogo, e questo è il seme delle rivolte. Perché il popolo si rassegni alla violenza che subisce, gli somministrano prediche sul potere del re. Ma in qualunque modo predichino e dicano al popolo che ai sovrani tutto è permesso, che occorre ubbidire loro come a Dio, che il popolo non ha alcun altro mezzo per combattere la loro violenza se non pregare e ricorrere a Dio, nel fondo dell'animo nessuno crede a tutto questo”. Pensatori progressisti come Claude Joly (1607-1700) e Pierre Jurieu (1637-1713) elaborarono la teoria della sovranità popolare: quando ancora gli uomini si trovavano alla condizione naturale - essi scrivevano - non esisteva il potere dell'uomo sull'uomo; il potere del re è il risultato di un contratto tra il re e il popolo, e quest'ultimo ha il diritto, tramite i suoi rappresentanti, di limitare le azioni del re. Alcuni pensieri di Jurieu, ideologo dei protestanti francesi, anticipavano la teoria del contratto sociale di Rousseau. La chiesa cattolica, i gesuiti, la corte, la nobiltà si sforzavano di suscitare una “rinascita del cattolicesimo”, ricorrendo in particolare a quel potente mezzo d'influsso sulla psicologia delle masse ch'era la filantropia religiosa: la “società dei santi doni” si batteva con ogni mezzo contro la mancanza di fede e la decadenza della “devozione”, creando una rete di nuove organizzazioni religiose nell'ambiente dei bassi strati popolari. Una parte del clero, appoggiata dalla borghesia degli uffici, ricercava la rinascita del sentimento religioso del popolo attraverso il rinnovamento del cattolicesimo. Questa corrente, nota con il nome di “giansenismo” (dal nome del teologo olandese Cornelius Jansen), aveva il proprio centro nel monastero di Port-Royal, nei pressi di Parigi. I giansenisti tuttavia non acquisirono alcuna influenza sul popolo, restando una specie di setta aristocratica, nota soprattutto per la sua avversione ai gesuiti. E comunque anche loro furono oggetto di persecuzione, in quanto troppo vicini alle idee protestantiche. Il sovrano infatti si avvalse di tre condanne papali (1643, 1653, 1713) e arrivò a distruggere il convento di Port-Royal, facendo contenti i gesuiti controriformisti, loro principali avversari. Il giansenismo criticava non solo la Controriforma, ma anche l'idea di Chiesa di stato, di Stato della chiesa e di Stato confessionale (tra i più famosi esponenti di questa comunità vi era il filosofo e scienziato Blaise Pascal). Pierre Bayle (1647-1706), un emigrante ugonotto, si rese famoso per la sua critica dell'intolleranza religiosa e la propaganda dello scetticismo religioso, che trovò la sua più chiara espressione nel suo famoso Dizionario storico e critico, che fu la prima enciclopedia della storia moderna. Un altro filosofo, Bernard Fontenelle (1657-1757), nel corso di tutta la sua lunga vita fu un entusiastico combattente della scienza contro l'ignoranza e il pregiudizio. Le sue opere popolari, come p.es. il Dialogo sulla moltitudine dei mondi, scritte con grande arguzia e brio letterario, anticipano le idee illuministiche degli enciclopedisti, mentre i suoi lavori filosofici, indirizzati contro le concezioni idealistiche nelle scienze naturali, prepararono la vittoria del materialismo meccanicistico nella letteratura scientifica dell'epoca illuministica. Infine dalle file del popolo uscì il prete di campagna Jean Meslier (1664-1729), che riuscì a dare una sistemazione organica dal punto di vista filosofico all'ateismo e al materialismo. Per la sua serrata critica dei presupposti evangelici del cristianesimo, Meslier può essere considerato l'equivalente francese del capostipite dell'ateismo tedesco, Hermann S. Reimarus, vissuto anche lui nel Settecento e anche lui destinato a diventar famoso solo dopo morto. Non per questo, tuttavia, Luigi XIV voleva mostrarsi ossequioso nei confronti della volontà pontificia. Tutt'altro. Nel 1673, siccome aveva bisogno di denaro per le dispendiose guerre che stava conducendo, aveva esteso unilateralmente a 59 diocesi, che ne erano esenti, la cosiddetta "regalìa", cioè il diritto del sovrano di percepire le rendite di ogni singola diocesi in caso di "vacanza" della sede episcopale, fino alla nomina del nuovo vescovo. Di fronte alle ferme proteste del pontefice Innocenzo XI, la chiesa francese si schierò compatta dalla parte del sovrano, ribadendo nel 1682, con la Dichiarazione dei quattro articoli, il cui estensore fu il vescovo Jacques-Bénigne Bossuet, alcuni punti fondamentali: 1) la chiesa non ha alcun potere politico e il sovrano che lo esercita non può sottostare al potere ecclesiastico; 2) il papato non è superiore al concilio; 3) la chiesa cattolica francese si considera paritetica rispetto a quella romana; 4) il papa può legiferare, ma se pretende che i suoi decreti siano universalmente validi, deve prima ottenere il consenso della chiesa universale. In pratica si era riaffermata la tradizione gallicana francese, la cui dottrina era stata elaborata in Francia alla fine del XIII sec., al tempo del conflitto tra Filippo IV il Bello e papa Bonifacio VIII. I cattolici gallicani infatti non solo ritenevano che il sovrano dovesse ritenersi del tutto autonomo rispetto alle pretese politiche del papato, ma non sopportavano neppure che il papa rivendicasse un primato assoluto rispetto a organi collegiali come i sinodi e i concili. Nessuna disposizione pontificia poteva essere accettata senza una discussione pubblica. Erano in sostanza arrivati a dire che mentre la sovranità ecclesiastica doveva spettare a tutti i sacerdoti, il potere legislativo era prerogativa dei sinodi e dei concili, mentre per quello esecutivo papi e vescovi dovevano considerarsi in maniera paritetica. Il gallicanesimo iniziò a venir meno quando, nel 1801, Napoleone Bonaparte sottoscrisse un Concordato con papa Pio VII. In quell'occasione il papa, su richiesta dell'imperatore, depose l'Assemblea dell'episcopato francese composta dai vescovi eletti in virtù della Costituzione civile del clero (promulgata durante la rivoluzione) e dai prelati dell'ancien régime superstiti. Questo segnò la fine dei princìpi della chiesa gallicana, e il riconoscimento implicito del primato del papa. Alcuni vescovi e preti refrattari, di ideali gallicani, rifiutarono di sottomettersi al papa e fondarono la "Piccola Chiesa". Dopo la Restaurazione del 1815, l'ultimo sussulto del gallicanesimo politico si manifestò con la comparsa nel 1844 del Manuale di diritto ecclesiastico francese di Dupin. Il cattolicesimo francese progressivamente si uniformò alla chiesa di Roma, sancendo la vittoria dei cosiddetti "ultramontani". La fine del gallicanesimo ecclesiastico fu però segnata dalla progressiva laicizzazione dello Stato. Nel 1905 la legge relativa al regime di separazione recise ogni legame tra la chiesa francese e lo Stato. La chiesa gallicana, che ancora oggi sussiste, separata da quella cattolica, dispone di un clero che non supera le cinquanta unità. (4) La politica economica Il principale artefice della politica economica di Luigi XIV fu il ministro delle Finanze, delle Costruzioni pubbliche, delle Arti e Manifatture, della Marina, Jean-Baptiste Colbert, che operò dal 1661 al 1683. Egli proveniva da una famiglia di mercanti impegnata nel commercio dei panni e aveva iniziato a fare carriera già sotto il governo Mazzarino. Quando si parla di Colbert si parla di "mercantilismo", un termine coniato nella seconda metà dell'Ottocento per definire l'insieme delle politiche economiche adottate dalle monarchie europee tra i secoli XVI e XVIII. Mercantilismo vuol dire molte cose, ma la principale è "protezionismo". Si usa sempre questo termine quando lo Stato impone alte tariffe doganali sull'importazione di manufatti stranieri e sull'esportazione di materie prime nazionali: ciò al fine di favorire la produzione interna, l'esportazione di prodotti finiti e per impedire la concorrenza ai prodotti nazionali. In questo modo si evita anche la fuoriuscita di metalli preziosi (oro e argento) con cui acquistare i prodotti esteri. Nel 1667 l’importazione in Francia di merci straniere era quasi impossibile. A quel tempo si voleva soprattutto impedire che uscissero dai confini nazionali le materie prime necessarie a produrre manufatti che garantivano la ricchezza di un paese (seta, lana, lino, canapa, ecc.), o comunque i prodotti grezzi o semilavorati. È ovvio che, a fronte di provvedimenti del genere, i buoni rapporti commerciali che in precedenza la Francia aveva avuto con Inghilterra e Olanda, si deteriorano piuttosto velocemente: al protezionismo infatti si risponde sempre con un analogo protezionismo. Le uniche barriere doganali da rimuovere potevano essere soltanto quelle interne alla nazione, costruendo p.es. grandi vie di comunicazione (la maggiore fu quella del Canal du Midi, che collegò l'Atlantico al Mediterraneo). Per costruire un unico mercato interno era indispensabile unificare il sistema dei pesi e delle misure, equilibrando inoltre le diverse forme di prelievo fiscale. La Corona favorì anche l'immigrazione di personale specializzato, utile a tutta la nazione (tessitori olandesi, setaioli lombardi, ecc.). L'intervento, molto attivo, dello Stato fu decisivo per la realizzazione di questa politica economica. Cosa, d'altra parte, inevitabile, in quanto tendevano a crescere in maniera esponenziale le esigenze finanziarie del nuovo Stato borghese centralizzato, a causa dei costi delle guerre di conquista e quindi del mantenimento di un esercito regolare sempre più numeroso, ma anche dei costi di un'efficiente burocrazia, di un significativo apparato diplomatico, di una corte reale rappresentativa. Durante il "colbertismo" l'imposta diretta, che aveva fino ad allora rappresentato la voce principale delle entrate dello Stato, passò dal 55% del bilancio al 31-41%. Questo perché lo Stato intervenne direttamente nella gestione dell'economia, particolarmente nei settori del tessile, metallurgico e degli armamenti. Furono infatti create manifatture per beni di lusso la cui proprietà diretta era del re, p.es. a Beauvais (arazzi), a Gobelins (tappezzerie), a Saint-Gobain (vetrerie), ma vi erano anche manifatture autorizzate e protette dalla Corona oppure manifatture privilegiate, di proprietà privata, ma in possesso di particolari prerogative reali, come il monopolio di determinate produzioni (si pensi p.es. all'industria della seta di Lione). Colbert infatti sapeva bene che gli utili provenienti dal settore industriale potevano essere di gran lunga superiori a quelli derivanti dall'agricoltura. Preferì tuttavia favorire lo sviluppo di poche industrie centralizzate, piuttosto che quello delle imprese decentrate, che pure costituivano ancora la maggioranza (p.es. nella manifattura tessile dell’olandese van Robais ad Abbeville, nei pressi di Amiens, vi lavoravano oltre 6.000 operai). Alle grandi manifatture era commissionato quasi per intero l’approvvigionamento dell’enorme esercito reale nelle guerre della seconda metà del XVII e dell’inizio del XVIII secolo. Facilitazioni fiscali e protezioni statali stimolarono la creazione di cinque Compagnie commerciali, intorno al 1664, operanti in America (Canada, Lousiana e Antille), in India, nel Senegal ecc., soprattutto per facilitare un aumento sensibile delle esportazioni francesi (il che però non avvenne come si sarebbe voluto) e per evitare di acquistare da altri paesi europei quei prodotti che si trovavano solo nelle colonie (p.es. lo zucchero). Il mancato sviluppo di una potente flotta navale risulterà decisivo, in senso negativo, nella gestione delle colonie troppo lontane dalla madrepatria e di questo la Francia si renderà facilmente conto quando inizierà a confrontarsi sui mari con gli inglesi. Colbert pretese anche che tutti gli artigiani si iscrivessero alle Corporazioni e impose a queste di esercitare un severo controllo sul rispetto dei regolamenti di produzione e dei livelli di qualità. Migliorò inoltre la raccolta fiscale, sia attraverso il controllo nei confronti degli appaltatori, al fine di ridurne la corruzione, sia cercando di colpire l'evasione di quanti si fingevano nobili per non pagare alcuna tassa. Tuttavia poté fare ben poco contro i signori che aumentavano di continuo le tassazioni ai loro propri contadini. Anzi, sotto questo aspetto, fu indotto ad aumentare di molto le imposte indirette (p. es. quella sul vino), che gravavano maggiormente sugli abitanti delle città. Va detto comunque che, nonostante l'impegno di Colbert, non fu mai raggiunto l'obiettivo del pareggio del bilancio statale, soprattutto a motivo delle costose guerre in cui la Francia venne costantemente impegnata dal sovrano. Le rivolte popolari Nel "secolo d’oro" di Luigi XIV la stragrande maggioranza del popolo viveva in disperata miseria, come dimostrano i frequenti anni di carestia che devastarono spaventosamente la campagna francese e le massicce epidemie. Un anno di fame crudele fu il 1662, nel quale perirono interi villaggi; tali carestie si ripeterono periodicamente, e particolarmente duri furono gli inverni degli anni 1693-94 e 1709-10. Inevitabilmente nei villaggi e nelle città scoppiarono tumulti diretti contro gli speculatori sul pane, i mugnai, gli usurai locali ecc. La protesta delle masse contadine si esprimeva soprattutto con il rifiuto di pagare le troppo gravose imposte statali: all’avvicinarsi degli ufficiali tributari, l’intera popolazione dei villaggi si rifugiava nei boschi oppure sui monti; alla fine però il potere li costringeva a pagare con la forza. La riscossione delle tasse con l’aiuto di reparti di soldati non era un’eccezione, ma una regola. Nel 1662 ebbero luogo contemporaneamente in molte città numerose rivolte della plebe (Orléans, Bourges, Amboise, Montpellier ecc.) e rivolte contadine in diverse province; fra queste ebbe risonanza nazionale quella di Boulogne, nota sotto la denominazione di "guerra degli straccioni": i contadini in rivolta resistettero a lungo al numeroso esercito reale, finché non furono sbaragliati; molti rimasero uccisi sul campo di battaglia e per i 1.200 prigionieri Colbert esigette dal tribunale crudeli punizioni, per dare una lezione alla popolazione di tutta la Francia. Se Richelieu ricorreva alla "punizione esemplare" dei rivoltosi soltanto raramente, Colbert invece la esigeva in ogni occasione. Una seconda grande rivolta scoppiò nel 1664 nella Guascogna, nota come "rivolta di Audijos", dal nome del capo, il nobile decaduto Bernard Audijos, che guidò nel corso di molti mesi la lotta partigiana dei contadini in rivolta su un vasto territorio montuoso della Francia sud-occidentale. Contro i rivoltosi vennero inviate truppe regolari, che commisero atti di estrema crudeltà nelle città e nei villaggi sospettati di aiutare i partigiani. Negli anni 1666-69 la guerra contadina divampò nel Rossiglione, confinante con la Spagna (acquisito dalla Francia nella pace dei Pirenei). Poi, nel 1670 una sommossa popolare percorse la Linguadoca. Anche qui alla testa dei contadini c’era un capo militare di origine nobile, Antoine de Rouher, che prese il titolo di "generalissimo del popolo oppresso". I reparti dei rivoltosi occuparono alcune città e fecero giustizia non soltanto dei funzionari delle imposte, ma anche dei nobili, del clero e di quanti occupavano una qualsiasi carica o fossero ricchi. I poteri locali mobilitarono tutte le forze militari a loro disposizione, compresi tutti i nobili della provincia, ma non poterono aver ragione della rivolta. Poiché la Francia in quel momento non conduceva guerre fuori dai propri confini, Luigi XIV e il suo ministro della guerra Louvois riuscirono a inviare in Linguadoca un ingente esercito, che comprendeva anche tutti i moschettieri del re. Alla fine le truppe contadine di Antoine de Rouher furono sbaragliate e seguì in tutta la regione ribelle un’orrenda strage. Dopo alcuni anni, nel 1674-75, mentre le forze militari erano impegnate oltre i confini del paese, in varie province divamparono altre sommosse ancor più minacciose, ma, grazie alle riforme effettuate nell’esercito da Louvois, il governo riuscì a disporre di riserve (circa 20.000 uomini) per gli scopi interni, da utilizzare per qualsiasi provincia, teatro di qualche rivolta. Nel 1675 scoppiarono rivolte nelle province della Guyenna, del Poitou, della Bretagna, del Maine, della Normandia, del Borbonese, del Delfinato, della Linguadoca, del Bearnese, ecc. Proporzioni particolarmente vaste assunse il movimento nella Guyenna e nella Bretagna. A Bordeaux, capitale della Guyenna, le masse cittadine rivendicavano la revoca di tutte le nuove tasse. La guardia cittadina non osò intervenire contro i rivoltosi. Sulle prime il governo dovette revocare le tasse e solo molti mesi più tardi venne inviato a Bordeaux un numeroso esercito per punire duramente la città ribelle: la fortezza cittadina fu ricostruita in modo che l’artiglieria potesse tenere sotto il proprio tiro tutte le piazze e le strade principali della città. In Bretagna la rivolta interessò particolarmente la campagna, ma ad essa parteciparono anche le città di Rennes, Nantes e altre. Comandati da un notaio impoverito, Lebalp, i contadini organizzarono un grande esercito e misero a sacco i castelli dei nobili e le case della ricca borghesia cittadina; gli elementi più decisi proponevano anche lo sterminio dei nobili e avanzavano la rivendicazione della "comunità dei beni". In un programma più moderato, formulato in un particolare “Codice” (il “Codice contadino”), veniva avanzata quale principale rivendicazione l’esenzione dei contadini da quasi tutti i pagamenti e le prestazioni ai signori, e così pure dalla maggior parte delle tasse statali. I poteri locali si videro costretti ad allacciare trattative coi rivoltosi, finché non sopraggiunsero ingenti unità militari che sottoposero la Bretagna a un periodo di brutale terrore: lungo le strade si ergevano centinaia di forche a cui erano appesi i cadaveri per spaventare la popolazione locale. Negli anni 80 non scoppiarono rivolte degne di nota. I movimenti delle campagne e delle città, anche i più irrilevanti, venivano crudelmente domati dalle forze militari, ormai libere dopo la conclusione della pace di Nimega. Tuttavia negli anni 90 la lotta di classe prese nuova forza, assumendo all’inizio del XVIII secolo (al tempo della guerra di Successione spagnola) in alcune località il carattere di una nuova guerra contadina. Straordinaria importanza ebbe la rivolta dei "camisards" (cosiddetti dalla bianca camicia che i rivoltosi portavano sopra il vestito, durante gli attacchi), scoppiata nel 1702 in Linguadoca, nella zona delle Cevenne. I partecipanti alla rivolta, contadini e lavoratori urbani, erano ugonotti insorti per le persecuzioni cui erano sottoposti. Ovviamente la causa principale della rivolta risiedeva nel pesante sfruttamento feudale dei contadini e nell’aumento delle imposte statali durante la guerra di successione spagnola.
La rivolta dei camisards fu uno di quei movimenti popolari che
scossero le fondamenta del regime assolutistico feudale e contribuirono
alla formazione della grande tradizione rivoluzionaria del popolo
francese. La loro lotta armata contro l’esercito governativo si
protrasse per circa due anni. La politica estera Il governo di Luigi XIV fu piuttosto insensato in politica estera. Egli infatti volle a tutti i costi sostenere, per quasi mezzo secolo, una lunga serie di guerre di pura conquista, compromettendo non solo le risorse del proprio paese, ma anche gli equilibri faticosamente raggiunti con la pace di Westfalia. Inoltre ottenne dei risultati decisamente inferiori sia agli ambiziosi programmi iniziali che alle spese effettivamente sostenute. La partecipazione della Francia alla guerra dei Trent’anni aveva avuto un carattere più che altro difensivo: essa era entrata nella coalizione antiasburgica prima di tutto perché l’Impero e la Spagna minacciavano di circondarla con l’anello dei loro possedimenti, come ai tempi di Carlo V, e di costringerla a una posizione subalterna nei loro confronti. Dopo la guerra dei Trent’anni e la pace di Westfalia invece la politica estera francese acquistò sempre più un carattere aggressivo e predatorio: Luigi XIV pretendeva di assumere il ruolo, a cui sino a non molto tempo prima aspiravano gli imperatori germanici, di monarca “paneuropeo”. Egli affermava che il suo potere risaliva all’impero di Carlo Magno, e poneva la propria candidatura per l’elezione a imperatore del Sacro Romano Impero. Ecco perché mirava ad assoggettare la Germania occidentale, ad annettersi i Paesi Bassi spagnoli (meridionali) e a porre l’Inghilterra sotto il suo controllo, sostenendo finanziariamente e diplomaticamente gli Stuart. La prima cosa ch'egli fece fu quella di porre le forze armate alle sue dirette dipendenze, strutturandole in base a una precisa gerarchia, secondo cui le cariche di maggiori responsabilità dovevano essere attribuite soltanto all'esperienza di servizio. Chiunque poteva entrare nell'esercito e fare carriera. I salari dovevano essere adeguati e regolari e le punizioni severissime. Nessun corpo armato poteva considerarsi indipendente dagli altri. Gli effettivi dell'esercito passarono dai 72.000 uomini del 1667 a circa 400.000 nel 1703, una cifra enorme in un periodo in cui prevalevano ancora gli eserciti mercenari. Anche la marina da guerra fu rafforzata, passando dai 18 vascelli del 1661 ai 276 nel 1683, e fu dato impulso all'attività dei corsari contro i convogli spagnoli, inglesi e olandesi. Lungo i confini della Francia fu costruita anche una fittissima rete di piazzeforti. Fatto questo, il re iniziò a inserirsi nella successione al trono spagnolo, subito dopo la morte di Filippo IV (1665). Siccome aveva sposato Maria Teresa, figlia maggiore di Filippo, Luigi XIV volle contrapporre la candidatura della moglie al trono spagnolo, in contrapposizione a quella di Carlo II, nato dalle seconde nozze di Filippo. E, nel fare questo, il re pensava di avvalersi di una disposizione legislativa in vigore nella regione del Bramante (situata nei Paesi Bassi spagnoli), detta ius devolutionis, secondo cui l'eredità paterna poteva essere ceduta solo ai figli di primo letto. A dir il vero il trattato dei Pirenei, con cui si era conclusa nel 1659 la guerra franco-spagnola, aveva escluso ogni diritto successorio francese sul trono spagnolo, liquidando l'eredità di Maria Teresa con una gigantesca dote di 500 mila scudi d’oro (pretesa dal Mazzarino), ma è anche vero che questa somma non era mai stata pagata, a causa delle ristrettezze finanziarie delle casse spagnole. Sicché Luigi XIV era anche disposto, se proprio non si voleva concedere alla moglie il trono, ad accettare, in cambio della dote non pagata, che si assegnassero alla Francia i Paesi Bassi spagnoli. La cosiddetta "guerra di devoluzione" scoppiò appunto quando, nel 1667, ciò gli fu negato. In meno di quattro mesi le truppe francesi occuparono le Fiandre e parte della Franca contea (del tutto indifese). L'Olanda però, fortemente preoccupata di questa iniziativa (e indignata per le alte tariffe doganali francesi del 1667, che avevano minato il suo commercio), strinse subito con Inghilterra e Svezia un'alleanza anti-francese, sulla base del timore di trovarsi in diretto contatto con la bellicosa Francia assolutistica, qualora questa avesse conquistato i Paesi Bassi meridionali. La formazione di questa coalizione fu aiutata anche dal fatto che il Parlamento inglese, insoddisfatto della politica di Carlo II Stuart, costrinse quest'ultimo a interrompere la guerra con l’Olanda e a contrarre con essa un’alleanza diretta contro la Francia. Era evidente che la guerra non aveva avuto una preparazione diplomatica da parte francese, e sebbene le truppe francesi fossero addirittura pronte a marciare sulla Spagna e sulla Germania, Luigi XIV fu costretto a interrompere in gran fretta la guerra nel 1668, accettando la pace di Aquisgrana, che gli permise di ottenere soltanto alcune città ai confini dei Paesi Bassi e 12 piazzeforti militari nelle Fiandre. Il secondo obiettivo del sovrano fu l'occupazione delle Province unite olandesi, la cui politica coloniale e doganale danneggiava gli interessi francesi. Dopo aver ottenuto l'alleanza di Svezia e Inghilterra (5), con generosi sussidi in denaro, Luigi XIV iniziò a invadere l'Olanda nel 1672, conquistando, con 100.000 soldati, decine di fortezze. L'obiettivo era anche quello d'impadronirsi della sua formidabile flotta mercantile. Guglielmo III d'Orange, governatore politico e militare (futuro sovrano inglese), pur di rallentare l'avanzata del nemico, prese la decisione estrema di allagare il territorio rompendo le dighe. Fu a questo punto che la guerra si trasformò da regionale ad europea, in quanto la Spagna, l'Impero, il Brandeburgo e la Danimarca si schierarono a fianco della Repubblica olandese, mentre l'Inghilterra firmava con essa una pace separata. Dopo due anni di strenua difesa, l'Olanda poté chiudere la guerra con la pace di Nimega (1678), salvando la propria autonomia e la propria integrità territoriale. La Francia però ottenne dalla Spagna tutta la Franca contea e altre città delle Fiandre meridionali. Fu questo il primo accordo internazionale, redatto non in latino, come si era soliti fare in Europa, ma in francese. Negli anni successivi Luigi XIV, per ampliare il territorio nazionale, cominciò a pretendere l’Italia settentrionale e la corona dell’imperatore germanico. Sfruttando il fatto che l’imperatore Leopoldo I era impegnato nella lotta contro la Turchia, il Re Sole, senza incontrare ostacoli, spadroneggiava nella Germania occidentale: speciali "camere di riunione", con ogni sorta di cavilli giuridici, proclamavano i diritti del re francese su varie località e interi territori, tra cui Strasburgo, mentre i principi tedeschi si sottomettevano di fatto al protettorato francese. Le cosiddette "camere di riunione" erano dei tribunali speciali mediante cui egli accampava il diritto di "riunire" alla Corona territori non francesi (lungo il Reno), ma legati da qualche dipendenza a città acquisite dalla Francia dopo il 1648. In questo modo egli si sentì in diritto di controllare tutta l'Alsazia, la Lorena, il Lussemburgo e la città di Strasburgo. Il massimo della sua potenza, infatti, la Francia assolutistica lo raggiunse nel 1684, quando l’imperatore e il re spagnolo, in base al trattato di Ratisbona, avallarono tutte le sue conquiste. Quando però cominciò a rivendicare anche una parte del Palatinato, si formò, nel 1686, un'alleanza anti-francese (Lega di Augusta) tra Spagna, Austria, Olanda, Svezia e diversi principati tedeschi. Intanto il colpo di stato del 1688 contro l'ultimo Stuart rese possibile l’entrata dell’Inghilterra in questa coalizione, dal momento che il principale organizzatore della Lega di Augusta, lo statolder di Olanda Guglielmo III d’Orange, era diventato contemporaneamente re degli inglesi. Messo alle strette, il re francese si alleò, senza riserve, con l'Impero ottomano, per indebolire l'Austria sul fronte orientale, dando così vita a una guerra che si protrasse per nove anni (1689-97). Nonostante i numerosi nemici, i francesi mantennero la supremazia militare nella guerra sulla terraferma, sul Reno e nei Paesi Bassi, in Italia e in Spagna: ma sul mare la flotta inglese inflisse loro pesanti sconfitte. La guerra si concluse con gli accordi di Ryswick, per i quali il sovrano da un lato ottenne Alsazia e Strasburgo e dall'altro dovette rinunciare a Lorena e Lussemburgo. L'ultimo impegno militare di Luigi XIV fu occasionato dalla morte dell'ultimo sovrano asburgo di Spagna, Carlo II (1665-1700), che, non avendo avuto figli e resosi conto che gli Asburgo d'Austria dell'imperatore Leopoldo I (1658-1705) e i francesi avevano intenzione di spartirsi tutto l'impero spagnolo, aveva designato come suo successore un principe di Baviera, che però era morto subito dopo. Come nuovo candidato alla successione egli aveva scelto nel testamento il duca Filippo d'Angiò (1700-46), nipote di Luigi XIV, alla condizione che l'erede rinunciasse a qualsiasi diritto di successione alla corona francese. Luigi XIV non aveva però alcuna intenzione di osservare questa clausola. Non appena suo nipote, con il nome di Filippo V, fu proclamato a Madrid re di Spagna, egli prese a governare di fatto la Spagna e le sue colonie, per cui gli furono attribuite le parole: “I Pirenei non esistono più”. Egli inoltre respinse le richieste dell’Inghilterra e dell’Olanda perché fossero loro accordati privilegi commerciali nelle colonie spagnole e nei possedimenti francesi in India. A questo punto la reazione anti-borbonica di Austria, Inghilterra, Olanda, Prussia e Portogallo fu inevitabile (alla loro coalizione si unì anche Vittorio Amedeo II di Savoia). Carlo VI (figlio dell'imperatore Leopoldo I) si autoproclamò re di Spagna, in quanto anch'egli era membro della famiglia Asburgo. Con la Francia si schierarono soltanto la Baviera e la Spagna di Filippo V. La guerra di successione spagnola durò dal 1701 al 1714. La Francia praticamente si trovò contro una coalizione che comprendeva quasi tutte le potenze dell’Europa occidentale e subì pesanti sconfitte: le truppe francesi furono cacciate dalla Germania, dalla Spagna, dall’Olanda e dalle città di confine e dovettero cedere anche una parte di territorio francese alle forze della coalizione. L'Inghilterra aveva occupato Gibilterra, la Sardegna e l'isola di Minorca nelle Baleari. L'Austria aveva invaso il regno napoletano. Sul trono spagnolo si era insediato Carlo VI d'Asburgo (1711-40). Quando però questi fu chiamato a succedere anche al trono imperiale, il timore che i territori d'Austria e di Spagna si unissero di nuovo in un solo impero, come ai tempi di Carlo V, spinse i sovrani europei a porre fine alle ostilità. Nel 1713 si accordarono a Utrecht per risolvere il problema della successione spagnola. Carlo VI d'Asburgo non volle parteciparvi, ma fu costretto a farlo l'anno dopo, con la pace di Rastadt, dopo essere stato sconfitto da Luigi XIV. I risultati di questa pace furono i seguenti: l'Austria cedeva la corona spagnola a Filippo V, che diventerà il primo sovrano della dinastia Borbone in Spagna e che s'impegnerà a tenere separati i regni di Spagna e di Francia. L'Inghilterra conserverà Gibilterra e Minorca; inoltre ottenne l'"assento", cioè il diritto d’esclusiva sull’importazione di schiavi negri dall’Africa e sul loro trasporto nelle colonie spagnole d’America, e il possesso dell’Acadia e di Terranova (francesi), che divennero le basi di lancio per l’ulteriore penetrazione inglese nel Canada. La Francia dovrà cedere agli inglesi anche la baia di Hudson e le Antille. Gli Asburgo d'Austria otterranno il Belgio, Milano, Mantova, il regno di Napoli, quello di Sardegna e lo Stato dei Presìdi (in pratica si sostituiranno in Italia agli spagnoli). La Sicilia veniva ceduta ai Savoia, i quali dovettero fronteggiare la rioccupazione spagnola dell'isola da parte di Filippo V. Questi però fu sconfitto dagli inglesi, che strapparono agli spagnoli non solo la Sicilia, che vollero tenersi, ma anche la Sardegna, che cedettero ai Savoia, i quali, a partire da questo momento, assunsero il titolo di "re di Sardegna". Il bilancio del Re Sole Luigi XIV morì a Versailles nel 1715. Nessuno dei suoi figli legittimi gli era sopravvissuto. Al trono sarebbe salito il suo pronipote Luigi XV (1715-74) di appena cinque anni, che, quando raggiunse la maggiore età, affidò il governo del paese ai suoi ministri, non seguendo le indicazioni che il Re Sole gli aveva dato nelle sue Memorie. Alla notizia della sua morte il popolo francese, stremato da un lungo sforzo bellico, esultò. Il re fu sepolto nella basilica di Saint-Denis, ma i suoi resti furono dispersi durante la rivoluzione del 1789. Il bilancio del suo regno non fu affatto positivo, in quanto i secolari privilegi del clero e della nobiltà non erano stati affatto scalfiti e, dopo la sua morte, i parlamenti locali, in grado di dar voce al malcontento della borghesia e della nobiltà di provincia, cercarono di riprendersi i loro poteri. Inoltre il debito pubblico, a causa delle guerre e delle spese di corte, si dilatò enormemente. Si può anche dire che la fine della guerra di Successione spagnola vide la Francia privata di fatto in Europa di quella egemonia che aveva conquistato con la guerra dei Trent’anni, anche se certamente continuava a restare una nazione temibile, in virtù della propria compattezza territoriale, dell'imponenza del proprio esercito e della propria consistenza demografica, anche se si trovava particolarmente debole sui mari, dove sarebbe stata facilmente soppiantata dagli inglesi. All'inizio del Settecento essa però aveva quasi raggiunto i suoi confini attuali: le mancavano soltanto la Savoia a sud-est e la Lorena a nord-est. Note (1) Memorie. Le istruzioni del Re Sole al Delfino, ed. Bompiani, Milano 1977. Nel 1668 il re si presentò nel Parlamento di Parigi e con le proprie mani strappò dal libro dei protocolli tutti i fogli risalenti al periodo della Fronda. Proprio in tale occasione, secondo la tradizione, egli pronunciò le famose parole: "Voi credevate, signori, che lo Stato foste voi? Lo Stato sono Io". (2) La nobiltà di toga era costituita da borghesi che, per i servizi resi allo Stato, avevano acquisito un titolo nobiliare. (3) La reggia di Versailles, a 20 km da Parigi, occupa 67.000 mq, ha 2153 finestre, 2300 stanze, quasi 500 specchi, 67 scale, 6123 dipinti, 1500 disegni, 28.000 incisioni e 2102 sculture nella collezione del museo, e 5210 mobili e oggetti d'arte. Vi si producono circa 150.000 piante floreali all'anno. L'Unesco, nel 1979, l'ha considerata "patrimonio dell'umanità". A tutt'oggi vi lavorano ben 900 dipendenti dell'Ente pubblico incaricato della gestione del complesso architettonico, con 400 guardie addette a sorvegliare il suo patrimonio artistico. I visitatori che ogni anno la visitano, per il 70% stranieri, sono stimati in circa 10 milioni. (4) Il gallicanesimo iniziò a venir meno quando, nel 1801, Napoleone Bonaparte trattò un Concordato con papa Pio VII. In quell'occasione il papa, su richiesta dell'imperatore, depose l'Assemblea dell'episcopato francese composta dai vescovi eletti in virtù della Costituzione civile del clero e dai prelati dell'ancien régime superstiti. Questo segnò la fine dei princìpi della chiesa gallicana, e il riconoscimento implicito del primato del papa. Alcuni vescovi e preti refrattari, di ideali gallicani, rifiutarono di sottomettersi al papa e fondarono la "Piccola Chiesa". Dopo la Restaurazione, l'ultimo sussulto del gallicanesimo politico si manifestò con la comparsa nel 1844 del Manuale di diritto ecclesiastico francese di Dupin. Il cattolicesimo francese progressivamente si uniformò alla chiesa di Roma, sancendo la vittoria dei cosiddetti "ultramontani". La fine del gallicanesimo ecclesiastico fu segnata dalla progressiva laicizzazione dello Stato: nel 1905 la legge di separazione tra la Chiesa e lo Stato recise ogni legame tra la chiesa francese e lo Stato. Tuttavia oggi sussiste ancora una chiesa gallicana, separata da quella cattolica, molto ridotta, il cui clero non conta più di una cinquantina di membri. (5) L'appoggio inglese l'ottenne nel 1670 con un accordo segreto stipulato col sovrano Carlo II Stuart, in stridente contraddizione con gli interessi nazionali inglesi, in quanto il governo inglese s’impegnava ad astenersi da una politica protezionistica dell’industria nazionale, a soddisfare completamente le rivendicazioni della Francia sui problemi del commercio anglo-francese e a favorire la politica di conquista di Luigi XIV in Europa. Da parte sua, Luigi XIV garantiva a Carlo II il pagamento di una regolare pensione e, in caso di “disordini” in Inghilterra, prometteva l’invio di un corpo di spedizione per soffocare la rivolta. Le conseguenze di tale accordo segreto si fecero sentire nel 1672, quando il governo inglese dichiarò improvvisamente guerra al proprio alleato, l’Olanda. Il voltafaccia era stato appunto imposto da Luigi XIV, che allora combatteva contro l’Olanda e la minacciava di distruzione completa. Quando gli inglesi decisero di sbarazzarsi definitivamente degli Stuart, affidando il governo a Guglielmo d'Orange, l'ultimo degli Stuart, Giacomo II, si rifugerà proprio in Francia, sotto la protezione del Re Sole. Le due Fronde sotto il cardinale Mazzarino - Teoria politica e cultura nella Francia di Luigi XIV |