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TEORIA POLITICA E CULTURA NELLA FRANCIA DI LUIGI XIV
La difesa del regime assolutistico-feudale francese era fatta non solo dalla macchina statale, ma anche da tutto il sistema ideologico della classe feudale dominante. Nello stesso tempo però le nuove esigenze economiche maturate all’interno della vecchia società spingevano alla confutazione di tutte le vecchie ideologie, contrapponendovi concezioni più progressive e avanzate. Nel XVII secolo in Francia i conflitti ideologici non avevano ancora assunto un carattere aperto e deciso come nel secolo successivo, ma essi ebbero una grande importanza nella preparazione della combattiva ideologia borghese del XVIII secolo. Il cattolicesimo e i suoi critici La Chiesa cattolica, nella Francia del XVII sec., continuava ad essere il più importante strumento per la salvaguardia dell’ordinamento feudale: la vita intera dell’uomo del popolo, fosse contadino o anche cittadino, trascorreva, da una parte, sotto il controllo della burocrazia locale, dall’altra, sotto la continua sorveglianza e l’influsso della Chiesa, che educava le masse popolari allo spirito di ubbidienza ai propri signori e al potere reale. La fermezza e l’intangibilità dell’autorità della fede cattolica furono tuttavia incrinati in una certa misura dalla presenza in Francia del protestantesimo degli Ugonotti, legalizzata dall’editto di Nantes del 1598. L’esistenza nel paese di due fedi religiose ammesse dalla legge apriva le porte allo scetticismo e indeboliva il cattolicesimo. Conscio di questa situazione, Luigi XIV, a partire dal 1661, varò una serie di provvedimenti, aventi come scopo la completa liquidazione degli Ugonotti. Le persecuzioni e la mancanza di diritti costringevano alcuni Ugonotti a passare al cattolicesimo, altri invece a fuggire dalla Francia. Poiché emigravano in prevalenza borghesi e artigiani, l’industria francese ne subì un grave danno. Nel 1685 agli Ugonotti venne inferto il colpo decisivo: l’editto di Nantes fu completamente revocato. Tuttavia questa politica d’intolleranza religiosa non giovò al rafforzamento del potere del cattolicesimo sugli animi dei francesi: gli scrittori ugonotti diffondevano dall’estero i loro libelli e le loro opere, nelle quali stigmatizzavano con grande energia l’assolutismo e il cattolicesimo. La Chiesa cattolica, i gesuiti, la corte, la nobiltà si sforzavano di suscitare una “rinascita del cattolicesimo”, ricorrendo in particolare a quel potente mezzo d’influsso sulla psicologia delle masse che era la filantropia religiosa: la “società dei santi doni” si batteva con ogni mezzo contro la mancanza di fede e la decadenza della “devozione”, creando una rete di nuove organizzazioni religiose nell’ambiente dei bassi strati popolari. Una parte del clero, appoggiata dalla borghesia degli uffici, ricercava la rinascita del sentimento religioso del popolo attraverso il rinnovamento del cattolicesimo. Questa corrente, nota con il nome di “giansenismo” (dal nome del teologo olandese Cornelius Jansen), aveva il centro nel monastero di Port-Royal, nei pressi di Parigi. I giansenisti tuttavia non acquistarono alcuna influenza nel popolo, restando una specie di setta aristocratica, nota soprattutto per la sua avversione ai gesuiti. Nello stesso periodo i filosofi francesi più avanzati del XVII secolo, Gassendi, Bayle e altri, senza rompere ancora apertamente con la religione, cominciarono a concentrare la loro attenzione sulla fondazione del materialismo e dello scetticismo religioso: giustificavano cioè e indirettamente teorizzavano l’ateismo. Pierre Bayle (1647-1706), un emigrante ugonotto, si rese famoso per la sua critica dell’intolleranza religiosa e la propaganda dello scetticismo religioso, che trovò la sua più chiara espressione nel suo famoso Dizionario storico e critico, che fu la prima enciclopedia della storia moderna. Un altro filosofo, Bernard Fontenelle (1657-1757), nel corso di tutta la sua lunga vita fu un entusiastico combattente della scienza contro l’ignoranza e il pregiudizio. Le sue opere popolari, come p.es. il Dialogo sulla moltitudine dei mondi, scritte con grande arguzia e brio letterario, anticipano le idee illuministiche degli enciclopedisti, mentre i suoi lavori filosofici, indirizzati contro le concezioni idealistiche nelle scienze naturali, prepararono la vittoria del materialismo meccanicistico nella letteratura scientifica dell'epoca illuministica. Infine dalle file del popolo uscì il prete di campagna Jean Meslier (1664-1729), che riuscì, già all’inizio del XVIII secolo, a dare una sistemazione organica dal punto di vista filosofico all’ateismo ed al materialismo. La lotta delle idee assolutistiche contro quelle anti-assolutistiche La classe dominante feudale cercò di contrapporsi alla ideologia borghese, avanzando un proprio programma politico ufficiale: la dottrina assolutistica è sviluppata con particolare chiarezza nelle opere dello stesso Luigi XIV. In base alla sua teoria, i sudditi sono tenuti a obbedire al re come a dio, proprio perché il potere del re impersona davanti agli altri uomini il potere divino. Soffocare severamente ogni resistenza e ogni segno d’insubordinazione, non solo è diritto, ma è dovere del re. Persino le minime indulgenze verso il “popolino” andavano considerate come un segno di debolezza politica, proprio perché ogni sovrano doveva sapere che il popolo non si sarebbe mai accontentato delle concessioni fatte. Di conseguenza, affermava Luigi XIV, soltanto il potere illimitato del re e l’assoluta mancanza di diritti per i sudditi garantiscono la saldezza e la grandezza dello Stato. Più velatamente e con l’aiuto di una argomentazione teologica, il vescovo Bossuet teorizzava la dottrina assolutistica nel libro La politica, tratta dalla Sacra Scrittura. Polemizzando con gli ideologi dell’assolutismo, l’autore anonimo del pamphlet I sospiri della Francia asservita, pubblicato in Olanda nel 1689 (si suppone che il suo autore sia stato il pubblicista ugonotto Pierre Jurieu), scriveva che il popolo francese "conserva nel cuore il desiderio di scrollarsi di dosso il giogo, e questo è il seme delle rivolte. Perché il popolo si rassegni alla violenza che subisce, gli somministrano prediche sul potere del re. Ma in qualunque modo predichino e dicano al popolo che ai sovrani tutto è permesso, che occorre ubbidire loro come a dio, che il popolo non ha alcun altro mezzo per combattere la loro violenza se non pregare e ricorrere a dio, nel fondo dell’animo nessuno crede a tutto questo “. L’impotenza della propaganda assolutistica, evidente a molti pensatori del tempo, dette origine a dottrine che riconoscevano, seppure in misura diversa, l’importanza della funzione del popolo. Pensatori progressisti del XVII secolo, come Claude Joly (1607-1700) e Pierre Jurieu (1637-1713), elaborarono la teoria della sovranità popolare: quando ancora gli uomini si trovavano alla condizione naturale - essi scrivevano - non esisteva il potere dell’uomo sull’uomo; il potere del re è il risultato di un contratto tra il re e il popolo, e quest'ultimo ha il diritto, tramite i suoi rappresentanti, di limitare le azioni del re. Alcuni pensieri di Jurieu, ideologo dei protestanti francesi, anticipano la teoria del contratto sociale di Rousseau. La dottrina assolutistica affermava che tutta la proprietà dei francesi era in ultima istanza proprietà del re e che questi aveva il diritto di riprendersela ogniqualvolta gli fosse necessario, per mezzo delle tasse. A questi principi gli ideologi borghesi opponevano la teoria della santità e intangibilità della proprietà borghese. Contro la dottrina assolutistica si pronunciarono anche alcuni rappresentanti della nobiltà, allarmati dai segni dell’incombente catastrofe. Questi autori si trovavano in disaccordo con la dottrina assolutistica sulla valutazione della situazione politica interna della Francia: Luigi XIV, negli anni 60, pensava che, dopo l'eliminazione della Fronda, in Francia, non vi era e non vi poteva essere alcuna seria opposizione sociale all’assolutismo. Ma alla fine del XVII secolo la monarchia assoluta faticava non poco ad aver ragione dell’opposizione. Da qui la critica di alcuni nobili all’assolutismo. Alcuni di essi pensarono di salvare le basi dell’ordinamento esistente attraverso concessioni alle nuove tendenze borghesi (Vauban, Fénelon...), ma non ebbero alcun successo, almeno non in quel periodo. Nel 1689 Sébastien Le Prestre de Vauban scrisse un Mémoire sull'opportunità, giustificata su basi politico-economiche, di richiamare gli ugonotti, esortando Luigi XIV a ripristinare l'Editto di Nantes. Affrontò in modo originale anche il problema delle imposte nella sua Dîme royale (1707), ove propose di sostituire le molteplici imposte ancora semifeudali in vigore con una tassa sul reddito di un'unica aliquota di circa il 10%, senza esclusioni per alcuna classe privilegiata. Questa e altre prove d'indipendenza di pensiero furono le cause della sua disgrazia a corte. Quanto a François de Salignac de La Mothe-Fénelon, egli si oppose a Bossuet e cadde in disgrazia in conseguenza della querelle sul quietismo e, soprattutto, dopo la pubblicazione del romanzo Les Aventures de Télémaque (1699), considerato una critica alla politica di Luigi XIV. L'influenza letteraria di quel romanzo rimase notevole per almeno due secoli. Un altro gruppo di autori rappresentava l’opposizione borghese all’assolutismo: p.es. l’autore de I sospiri della Francia asservita mette duramente alla gogna l’assolutismo di Luigi XIV, nella convinzione ch'esso sarà causa di una rivoluzione popolare del tipo di quella inglese, con “il taglio della testa del re” e con la “sfrenatezza del popolo”. Per evitare questa “calamità” l’autore insiste, prima che sia tardi, perché si dia vita dall’alto ad una monarchia costituzionale, tramite un rivolgimento non violento, simile al compromesso classista inglese del 1688. La letteratura e l'arte La seconda metà del XVII secolo rappresenta un periodo eccezionale nello sviluppo della cultura francese. La monarchia assoluta mirava a sottomettere al proprio controllo tutta la vita culturale del paese. A questo scopo il governo creò, sul tipo dell’Accademia francese, altre accademie: nel 1663 fu fondata l’Accademia delle Iscrizioni e di Belle Lettere; nel 1666 l’Accademia delle Scienze. Ancora nel 1663 venne approvato lo statuto dell’Accademia della Pittura e della Scultura, e nel 1671 sorse l’Accademia dell'Architettura. Il re assegnava agli scrittori ed agli artisti pensioni e premi, li prendeva sotto la sua protezione, li trasformava in un particolare tipo d’impiegati statali; in cambio, essi dovevano glorificare la potenza e la grandezza della Francia assolutistica e intrattenere il re ed i suoi cortigiani. La corte del re divenne l’arbitra del gusto artistico. Nel 1661 Luigi XIV iniziò grandiose costruzioni a Versailles: il castello reale e un gigantesco parco, ricco di viali, acque, statue e fontane. All’abbellimento di Versailles presero parte i più illustri architetti, pittori, scultori, giardinieri e mobilieri della Francia di quel tempo. I più capaci ingegneri e tecnici, migliaia di operai e artigiani lavorarono alla sua costruzione. Il complesso architettonico di Versailles, assurto quasi a simbolo della grandezza della monarchia assoluta, divorò enormi mezzi. Nella seconda metà del XVII secolo in Francia furono costruiti molti altri complessi architettonici di alto valore estetico: l’Hòtel des Invalides, la cui costruzione venne iniziata nel 1670; l’edificio dell’Osservatorio; la grandiosa facciata orientale del Louvre, la chiesa del Val-de-Gràce. Nel 1672 venne eretta l’Accademia reale di Musica, alla cui direzione venne messo il grande violinista e compositore italiano G. B. Lulli, uno dei fondatori dell’opera francese e autore della musica di alcune commedie di Molière; egli ottenne il privilegio esclusivo di scrivere gli accompagnamenti musicali delle opere drammatiche e di mettere in scena gli spettacoli operistici. Nel 1680 avvenne la fusione di tutte le compagnie teatrali di Parigi in un unico teatro drammatico, che ricevette il nome di Comédie Francaise. Alle arti figurative fu ovviamente di ostacolo la pedantesca tutela dell’Accademia, che ostacolava le ricerche creative degli artisti, obbligandoli a una incondizionata soggezione ad alcuni canoni estetici considerati irremovibili e vincolanti. Durante il regno di Luigi XIV, tranne rare eccezioni, come quella del noto paesaggista Claude Lorrain (1600-1682) e del pittore di ritratti psicologicamente profondi e severi Philippe de Champaigne (1602-1674), domina il classicismo accademico esternamente vistoso, ma freddo. I suoi maggiori rappresentanti sono Charles Lebrun (1619-1690), il primo artista del re, presidente dell’Accademia delle Arti e direttore dei lavori decorativi di Versailles, e il suo rivale e nello stesso tempo successore alla carica di presidente dell’Accademia, Pierre Mignard (1612-1695). Larga popolarità ebbero anche, verso la fine del XVII secolo, i maestri del ritratto di gala Hyacinthe Rigaud (1659-1743) e Nicolas de Largillière (1656-1746). Tra i grandi rappresentanti dell’arte francese di questo periodo seppe mantenere una maggiore autonomia nei confronti della corte e dell’Accademia lo scultore Pierre Puget (1622-1694), dotato di un potente temperamento creativo e di una tempestosa fantasia. Anche la pittura, ispirata a uno spirito umanistico e di tendenze realistiche, troverà il suo miglior interprete, all’inizio del XVIII secolo, in Antoine Watteau (1684-1721), che aprirà una pagina completamente nuova nella storia dell’arte progressista francese. Nella letteratura francese della seconda metà del XVII secolo esistono in generale le stesse correnti già chiaramente manifestatesi all’inizio del secolo, cioè gli scrittori continuano le tradizioni della letteratura cosiddetta “preziosa” (leziosa). Con questa differenza, che l’arte “preziosa” della seconda metà del XVII sec. può essere definita, a pieno diritto, come una sorta di “classicismo cortigiano”, in quanto si evitano gli eccessi della bizzarria presentata come originalità e vengono assimilate le regole della dottrina classicista. Gli scrittori del manierismo continuano a scrivere nei loro generi tradizionali: lirica (Isaac Benserade, madame de Deshoulières) e drammaturgia. I più noti drammaturghi sono Thomas Corneille (1625-1709), fratello minore di Pierre Corneille, e Philippe Quinault (1635-1688), che si conquistarono il successo accontentando i gusti degli spettatori aristocratici. La tragedia galante acquista ora una fama sempre più crescente: i drammaturghi “preziosi” divertono il pubblico aristocratico e i borghesi abbagliati dalle meraviglie dell’alta società; essi rappresentano in una forma raffinata e ricercata la vita quotidiana di corte, “immortalando” le gesta avventurose dei famosi abitanti di Versailles. Tuttavia soltanto alcune opere superarono la prova del tempo; a queste
appartengono le opere scritte da esponenti dei circoli più
progressisti della nobiltà, ostili alla politica di Luigi XIV: il duca
François de La Rochefoucauld (1613-1680) e la sua amica Marie
Madeleine de La Fayette (1634-1693). Sia le Massime di La Rochefoucauld che il romanzo La Principessa di Clèves della La Fayette e il carteggio di madame de Sévigné (1626-1696), la quale era in stretti rapporti con questi scrittori, sono scritti in una lingua straordinariamente chiara, cristallina, espressiva, e sono modelli indiscussi di prosa francese. Un apporto fondamentale nella formazione della prosa francese fu dato anche dalle opere del grande matematico, fisico e filosofo Blaise Pascal (1623-1662). Le sue Provinciali (1656) furono, in particolare, un avvenimento di grande risonanza nella vita letteraria e sociale del paese. Con la pubblicazione di questa raccolta di pamphlet mordaci e brillanti, Pascal, convinto assertore del movimento giansenistico, portò un tremendo colpo ai gesuiti. Altri due famosi rappresentanti del classicismo francese furono Nicolas Boileau-Respreaux e Jean Racine. Ambedue, in misura minore o maggiore, hanno a che fare col giansenismo, anche se la loro opera supera di gran lunga i limiti ideali di questi movimenti. Boileau (1636-1711) era figlio di un ufficiale giudiziario. La sua opera come scrittore è complessa e tortuosa. Egli esordì nell’arena letteraria negli anni 60 con le coraggiose, intelligenti e acute Satire, in cui ironizza sulla religione e attacca con sarcasmo gli uomini di stato e persino Colbert. A cominciare dal 1668 egli si avvicina ai circoli giansenisti e contemporaneamente cerca la strada per arrivare alla corte reale. Nel 1674 pubblica il suo famoso trattato in versi L’arte poetica, che lo colloca al primo posto tra i critici letterari e i teorici del classicismo: in esso egli sottolinea la funzione educativa dell’arte e invita a imitare la natura nobilitata e purificata dalla ragione; inneggiando alla ragione come fonte della conoscenza artistica della vita e del buon senso, egli condanna come eccessi biasimevoli sia la convenzionalità dell’estetica manieristica che i tentativi di penetrazione realistica nelle contraddizioni del mondo circostante. L’opera, scritta in versi, abbonda di motti e di formulazioni precise, che facilmente rimangono impresse nella mente e che perciò entrarono saldamente nell’uso della lingua letteraria. La fanciullezza e la giovinezza del grande drammaturgo Racine (1639-1699), appartenente a una famiglia di notai, trascorsero nelle aule di vari istituti scolastici giansenisti. La severa educazione giansenistica permeata di spirito ascetico lasciò una profonda traccia nella sua coscienza. A 24 anni, contro la volontà dei suoi precettori, egli si diede completamente all’attività letteraria. Le sue più famose tragedie, composte negli anni 60-70, lo rivelarono come uno dei più grandi scrittori della Francia. Le sue opere hanno una struttura semplice e chiara. Trasferendo il centro di gravità vero la rappresentazione del mondo interiore dei suoi eroi, lo scrittore evita la trattazione di intrighi confusi e complicati. I severi canoni classicisti, come p. es. le regole delle tre unità aristoteliche, non riuscivano a limitarlo; al contrario, esse lo spingevano a tendere ad una maggiore semplicità compositiva. Racine fu un grande maestro del verso, che sapeva usare con eccezionale musicalità e armonia. Nello stesso tempo dietro la forma esteriormente equilibrata, le tragedie di Racine nascondono una tensione di passioni, di acuti conflitti drammatici e un contenuto ideale straordinariamente ricco. La sua opera creativa è multiforme: lo scrittore componeva a volte opere in cui si facevano sentire la fedeltà al re e l’accecamento provocato dallo splendore della corte di Versailles (come ad es. le tragedie Alessandro il Grande e Ifigenia); nelle sue opere maggiori invece si manifestano apertamente tendenze critiche e umanistiche, in quanto si stigmatizzano i re coronati, il cui illimitato potere porta inesorabilmente all’arbitrio e alla violenza (p.es. Andromaca e Britannico). Con penetrante forza poetica Racine ricostruisce la tragedia spirituale di quegli uomini che, nell’esercizio del dovere sociale, sacrificano la propria felicità personale (vedi p.es. Berenice); nei suoi personaggi, sugli oscuri istinti e sulle passioni prodotte dalla depravazione del mondo circostante, trionfa in ultima analisi l’inarrestabile aspirazione alla luce, alla ragione, alla giustizia (vedi p.es. Fedra). Le significative tendenze sociali dello scrittore emersero con particolare schiettezza nella sua ultima tragedia permeata di idee antitiranniche (Atala, del 1691). I drammi di Racine, a paragone dell’opera di Corneille, rappresentano una nuova tappa nello sviluppo della tragedia classica. Se Corneille nei suoi potenti personaggi avvolti da un alone eroico celebrava in primo luogo il processo di rafforzamento dello Stato unitario centralizzato, nelle opere di Racine invece non di rado emerge la condanna morale dell’arbitrio del monarca e l’insensibilità della vita di corte. Questi motivi ideali che dominano nella drammaturgia di Racine rispecchiavano gli stati d’animo dei circoli della società francese della seconda metà del XVII secolo. Proprio per queste ragioni il mondo aristocratico più reazionario odiava il grande drammaturgo. Tuttavia le tendenze sociali più avanzate assunsero maggior forza e respiro nelle opere di scrittori, la cui creazione artistica, oltrepassando i limiti del classicismo, conteneva a volte caratteri realistici, come Jean Baptiste Molière (1622-73) e Jean de La Fontaine (1621-95). Sin dall’inizio della sua attività letteraria, Molière si presenta come convinto assertore della dottrina del filosofo materialista Gassendi. La Fontaine invece lo sarà nel periodo più fecondo della sua creazione artistica. Essi attingono all’inesauribile “forziere” dell’arte popolare. La farsa popolare fu decisiva per Molière, mentre La Fontaine, nelle sue favole, accanto alla poesia antica, utilizzava la tradizione letteraria nazionale, e non soltanto la novellistica e la poesia del Rinascimento, ma anche le ricchissime “miniere” del folklore medievale francese. Fu un'idea convincente quella di basarsi sulla secolare saggezza popolare, sulle aspirazioni degli uomini semplici: da lì poteva nascere la forza di una denuncia sociale. Le "prime" delle più famose opere di Molière, fondatore della commedia nazionale francese, si trasformavano in tipiche battaglie tra il grande drammaturgo e le forze reazionarie, che reagivano con rabbiose resistenze e persecuzioni. Molière colpiva contemporaneamente la falsa “cultura” preziosa e l’infingardaggine piccolo-borghese, e sferzava gli scolastici e i pedanti. A partire dalla Scuola delle mogli (1762), la denuncia dell’oscurantismo inculcato dalla Chiesa cattolica e la critica della morale religiosa occupano un posto di rilievo. Queste tendenze ideali raggiungono il loro punto culminante nel Tartufo. Nel Don Giovanni (1665) Molière scopre le latenti contraddizioni della realtà francese del suo tempo, creando il personaggio, sorprendente per varietà e forza di tipizzazione, del nobile illuminato e allo stesso tempo cinico e amorale. Nel Misantropo (1666) il grande drammaturgo descrive con eccezionale maestria psicologica il dramma spirituale dell’uomo progressista del suo tempo: Alceste è profondamente indignato dai vizi del regime dominante, tuttavia si chiude in se stesso e quindi si priva della possibilità di trovare la via della lotta attiva. Nella seconda metà degli anni 60 la drammaturgia di Molière pone in primo piano la satira di quei borghesi, contemporanei allo scrittore, i quali cercavano di allearsi alla nobiltà permettendole in tal modo di rafforzare la loro propria egemonia. Infine nell’Avaro e nel Malato immaginario Molière con incomparabile arte comica si prende gioco dell’egoismo di quegli uomini che credono ciecamente nello strapotere del denaro, nella sua capacità di corrompere e comperare tutto, persino la salute e la vita. Molière elevò a vette mai toccate la commedia francese, trasformandola in mezzo di rappresentazione dei più importanti problemi della vita sociale del suo tempo, e arricchendo nel contempo i suoi mezzi di espressione artistica. La sua eredità letteraria esercitò una profonda influenza sull’ulteriore sviluppo della commedia francese. Diretti continuatori dei precetti realistici di Molière commediografo furono Jean Franwois Regnard (1655-1709) e Alain René Lesage (1668-1747). La più forte opera poetica di La Fontaine fu il secondo volume delle sue Favole, pubblicato dallo scrittore stesso nel 1678. In questo libro egli si rifiuta ormai d'interpretare astrattamente i vizi, rappresentati come risultato di certe carenze eterne e di difetti della natura umana. La sua satira assume ora una grande profondità di sentimenti e nello stesso tempo maggior mordente sociale e concretezza realistica. L’interpretazione della realtà francese si esprime sempre più chiaramente nel paragone diretto e facilmente comprensibile al lettore tra la monarchia assoluta, la società aristocratica e il regno delle sanguinarie, rapaci e insaziabili belve. Un posto preponderante occupano nell’opera di La Fontaine gli attacchi contro la Chiesa e le scettiche sue affermazioni sulla religione. Col passare del tempo la lotta di La Fontaine col potere della Chiesa va assumendo nelle sue favole un fondamento sempre più profondamente filosofico, che si riallaccia alla diretta popolarizzazione della dottrina materialistica di Gassendi. Nelle sue favole passa davanti agli occhi del lettore tutta la Francia della seconda metà del XVII secolo. E quanto più aperta si faceva la denuncia satirica delle classi dirigenti, tanto più conseguentemente il poeta contrapponeva ad esse quali portatori della vera umanità i rappresentanti del popolo, i lavoratori oppressi (p. es., nelle favole “Il calzolaio e l’appaltatore”, “Il contadino del Danubio”, “Il mercante, il nobile, il pastore e il figlio del re” ecc.). Le favole degli anni 70 dimostrano il meraviglioso talento artistico dello scrittore: la maestria della composizione concisa e laconica, la capacità di delineare con alcuni dettagli scelti con precisione i caratteri, la straordinaria ricchezza del lessico poetico, la padronanza assoluta del verso libero. Le favole ci dimostrano che La Fontaine fu non solo un osservatore e un narratore attento, che possedeva l’arma dell’ironia, ma anche un grande lirico. Nel novero dei rappresentanti progressisti della letteratura francese della seconda metà del XVII secolo si colloca anche Antoine Furetière (1620-88). La sua opera maggiore, Il romanzo borghese (1666), segna una tappa fondamentale nello sviluppo del romanzo realista. In questo libro, che descrive in chiave critica il modo di vita dei borghesi parigini, l’autore tende alla creazione di caratteri tipici condizionati dall’ambiente sociale. Nella vita culturale della Francia un fatto di notevole portata fu il Dizionario universale della lingua francese dello stesso Furetière, che contrappose coscientemente i suoi principi lessicografici alle teorie dell’Accademia francese e di conseguenza introdusse nel suo lavoro una grande quantità di termini scientifici e tecnici e così pure di espressioni familiari rifiutate dai puristi dell’Accademia. Il carattere avanzato dell’opera intrapresa da Furetière incontrò la resistenza dell’Accademia, che espulse lo scrittore e lo perseguitò. Altro grande prosatore della fine del XVII secolo fu Jean de La Bruyère (1645-1696), la cui attività letteraria coincide con la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, cioè col periodo di più manifesta fioritura non solo della tendenza di opposizione politica, ma anche della letteratura progressista. Nel suo famoso libro I caratteri, ovvero i costumi del nostro secolo (prima edizione, 1688) La Bruyère rappresentò gli stridenti contrasti sociali della Francia assolutistica. Accanto alle figure satiriche dei rappresentanti della nobiltà e della borghesia egli descrisse con una forza fino allora sconosciuta lo sconvolgente quadro di povertà e di privazioni delle masse contadine francesi. Nel definire il suo atteggiamento nei riguardi della realtà circostante, La Bruyère a volte giungeva all’idea della necessità del fronte comune col popolo oppresso, e anticipando gli illuministi, concludeva che solo un cambiamento radicale dell’ambiente può favorire lo sviluppo della personalità umana. Tuttavia nel pensiero di La Bruyère osserviamo non poche incongruenze: spesso infatti il pessimismo sembra convincerlo dell’inevitabilità della conciliazione coi vizi del regime dominante. Le stesse qualità artistiche dei Caratteri non sono prive di contraddizioni. Infatti, mentre da una parte egli ci dà nello spirito dello stile classico i “ritratti” dei personaggi che rappresentano le varie indoli astratte dell’uomo e le sue condizioni sociali, dall’altra ci è facile individuare in quest’opera le fonti del nuovo genere letterario, il saggio realista. La crisi sociale degli anni novanta trovò la sua più chiara eco nel romanzo dell’arcivescovo Fénelon (1651-1715), Le avventure di Telemaco (1699), in cui lo scrittore dà alle sue concezioni etiche e politiche la forma di un attraente racconto sui viaggi del figlio dell’eroe greco Ulisse, Telemaco, e del suo precettore Mentore. Ricorrendo ad allegorie, Fénelon sviluppa la sua critica alla monarchia assoluta, denuncia le privazioni del popolo e delinea un quadro utopistico di riforme sociali. Avvenimento degno di nota nella tenzone letteraria della fine del secolo fu la disputa tra gli “antichi” e i “moderni”. Tra i primi, che difendevano la superiorità della letteratura antica sulla moderna, troviamo i nomi più famosi di questo periodo: Racine, Boileau, La Fontaine e La Bruyère. L’ammirazione per l’antichità permetteva loro di esprimere, seppure in maniera indiretta, la loro profonda insoddisfazione nei confronti dell’ordinamento esistente. I maggiori esponenti del secondo campo furono Charles Perrault (1628-1703), autore della famosissima raccolta di favole popolari, e il suddetto Bernard Fontenelle. I “moderni” esaltavano la monarchia assoluta, quantunque nelle loro teorie del progresso culturale ci fossero i primi germi di alcune idee del primo Illuminismo. La contesa tra gli “antichi” e i “moderni”, che ebbe una grande risonanza in tutta Europa, rappresentò nello sviluppo della cultura la fine di un periodo e l’inizio di un altro. Lo sviluppo delle tendenze realistiche e democratiche nella letteratura francese progressista della seconda metà del XVII secolo ridestò i timori e la vigilanza del regime assolutistico: il re cercò di prendere sotto la sua protezione e di aiutare i più illustri rappresentanti della letteratura, ma a determinate condizioni ed entro limiti ben chiari e precisi: non permise, p. es., al partito cattolico di schiacciare Molière, ma nello stesso tempo il Don Giovanni, dopo la prima rappresentazione, fu immediatamente tolto dal repertorio e la messa in scena del Tartufo fu concessa solo dopo cinque anni dalla sua prima apparizione. Nel 1677, dopo la messa in scena di Fedra, il re, per consiglio dei suoi favoriti, elevò Racine alla dignità onoraria di storiografo, privandolo però de facto della possibilità di dedicarsi alla creazione artistica. Fu infine vietata la rappresentazione di Atala. Quando Racine consegnò al re una memoria, in cui osava criticare la politica reale, cadde subito in disgrazia. Il re non cercò nemmeno d’attirare a corte La Fontaine e Furetière, giudicandola un’inutile perdita di tempo. Alla vigilia della revoca dell’editto di Nantes la corte concesse il suo appoggio più aperto ai rappresentanti più reazionari della “rinascita” cattolica. La letteratura francese nella seconda metà del XVII secolo, con le sue opere maggiori, nulla deve all’assolutismo, anzi, proprio smascherando le piaghe sociali della Francia assolutistica, gli scrittori progressisti francesi favorirono la presa di coscienza dei circoli democratici e si presentarono come degni precursori dell’Illuminismo. La Francia di Luigi XIV - Le due Fronde sotto il cardinale Mazzarino |