LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
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I METECI E LA CITTA'LA CONDIZIONE DEGLI STRANIERI RESIDENTI NELL'ATENE DEL PERIODO CLASSICO Motivi d'interesse - Il ruolo economico dei meteci nell'Atene del periodo classico (VI - IV secolo) - Il "meteco ideale" - Due atteggiamenti verso i meteci
D'altronde, per comprendere un tale ideale, ci pare utile rivolgerci - prima e piuttosto che ad autori propriamente politici (quali ad esempio i filosofi) o comunque impegnati (come gli oratori) in una riflessione cosciente in merito alla realtà della polis e ai rapporti di potere in essa vigenti - a quegli artisti e letterati che, fondandosi su una visione più istintiva delle cose, riflettono maggiormente ai nostri occhi i luoghi comuni della propria epoca. In particolare, ci soffermeremo qui sul testo di uno dei tre principali autori tragici, Euripide, il quale in una celebre tragedia (Le Supplici) delineava, in modo rapido ma molto inciso, un ritratto del "buon meteco", nella figura di Partenopeo. Egli scriveva difatti che Partenopeo, cresciuto fin da bambino dalla città di Argo, <<come debbono fare gli stranieri in una città che non è la loro, non portò mai invidia e odio alla città, né fu mai amante delle contese che rendono odiosi i cittadini agli stranieri>>, e concludeva infine dicendo che egli <<difese la città come uno che fosse argivo>>.Questi comportamenti del resto - secondo tale visione - non erano per nulla casuali, essendo piuttosto il risultato di una precisa educazione che era stata impartita al meteco Partenopeo, sin dalla prima infanzia. Scriveva difatti poco dopo Euripide che: <<nobile educazione produce senso dell'onore>>, e che <<ad essere un buon cittadino si impara, se ancora bambino [ il giovane straniero ] viene istruito a dire e a fare quello che non conosce>>.Si può dunque ben comprendere da una tale descrizione, e dalle considerazioni a essa associate, come il fondamento ideologico dell'"ingratitudine" dei cittadini ateniesi (e in generale dei cittadini delle poleis ospitanti) nei confronti degli stranieri residenti, risiedesse essenzialmente nel fatto che questi, anche qualora fossero stabilmente insediati sul territorio e - come tali - spesso ben integrati nel corpo della comunità, non fossero comunque mai sentiti fino in fondo come portatori di quei caratteri etici (la cui natura, secondo un'antica mentalità d'origine gentilizia, era essenzialmente "etnica" e di stirpe) che caratterizzavano la vera e propria cittadinanza, e che erano alla base della superiorità di questa rispetto alle popolazioni vicine. La città, partendo da tali presupposti, non si sente quindi in dovere di ricompensare i meteci con particolari favori economici, né con (eccessive) concessioni politiche. Essa si sente piuttosto in dovere - tanto per tutelare se stessa, quanto appunto per ricompensare i propri ospiti - di rendere questi ultimi il più possibile partecipi delle virtù (aretai) proprie dei suoi cittadini. E' appunto questo, allora, il dono che la polis fa agli stranieri che hanno scelto di stabilirvisi: il dono della "trophé", di un sostentamento che non ha carattere materiale, bensì una natura molto più alta, spirituale e morale! Un dono che, inoltre, permette allo straniero di inserirsi nella città (intesa come un'unità armonica ed autosufficiente: come un kosmos) [3] in qualità di parte attiva - seppure chiaramente con alcune limitazioni. Come scrive Guido Avezzù, nella sua introduzione ad una delle più celebri orazioni di Lisia, la "Contro Eratostene": << Se il meteco svolge, sul piano economico, una funzione insostituibile e indubbiamente più estesa di quella che l'organizzazione statale esercita nei suoi confronti, a sua volta ne riceve qualcosa che sopravanza il vantaggio economico derivante dal fatto di trovarsi su una "piazza" come Atene: questo qualcosa - la vera e propria trophé elargita al meteco - è il dono della kosmiotes, un'azione pedagogica che lo inserisce in un ordine e ne fa un soggetto in grado di comunicare con altri soggetti in conformità all'ordine>>.Insomma, lo straniero residente (quantomeno nell'accezione ideale del termine) è un individuo che, pur originariamente estraneo alla città, ha assimilato e fatto propria - per merito s'intende di un'azione pedagogica che la comunità dei cittadini ha consapevolmente esercitato su di lui - la visione e concezione (in senso prima di tutto politico) che caratterizza questi ultimi. Un fatto che lo ha reso, seppure solo entro certi limiti, un soggetto attivo all'interno della stessa polis ospitante, dal momento che - e solo poiché - egli ha assimilato le virtù che caratterizzano la comunità che lo ospita, avendo acquisito così gli strumenti indispensabili a prendere parte alla sua vita sociale, a "comunicare" con i veri cittadini. D'altronde il meteco - sempre s'intende in una simile visione - si accontenta, essendo consapevole di non poter comunque essere un vero cittadino, di un'integrazione solo parziale, in qualità appunto di non-polités, mostrandosi ciononostante grato alla città per i benefici ricevuti. E' questa - manco a dirlo - una visione estremamente partigiana del problema, e volta tra l'altro a giustificare lo sfruttamento economico portato avanti dalle istituzioni cittadine ai danni dei meteci (i quali però, non va dimenticato, ricevevano anche grandi vantaggi dalla propria presenza su una "piazza" quale era quella ateniese, e più in generale quelle delle città ospitanti). Ma una tale concezione, lungi dall'essere meramente strumentale, aveva anche dei profondi fondamenti storico-ideologici, le cui origini risalivano ancora alle società gentilizie del cosiddetto "Periodo oscuro" e – più recentemente - a quelle precedenti il periodo più propriamente classico. Tenteremo quindi, qui avanti, di analizzare tali origini. [2] Sarebbe infatti semplicistico affermare che, a questo proposito, la cittadinanza nella sua interezza mantenesse un’unica posizione. Come mostreremo più avanti, per esempio, i cittadini più conservatori si mostrarono quasi sempre estremamente refrattari a concedere anche a singoli meteci la cittadinanza, anche peraltro nel caso di individui la cui abnegazione alla causa e agli interessi della città erano un fatto dimostrabile attraverso le azioni personali. Più aperte erano invece di solito, in questo senso, le fazioni democratiche. A riprova di quanto si è appena detto, si potrebbero portare gli eventi che seguirono la restaurazione oligarchica in Atene, nel periodo dei Trenta Tiranni (404). Il celebre oratore (nonché meteco) Lisia, ad esempio, nella sua orazione Contro Eratostene ci tramanda il vero e proprio pogrom compiuto ai danni di alcuni ricchi meteci dagli esponenti del nuovo regime politico. Anche se, secondo la testimonianza dell'oratore ateniese, non furono tanto motivazioni di carattere ideologico a guidare gli assassini, bensì piuttosto la loro personale brama di ricchezze, giustificata agli occhi della cittadinanza da idee e pregiudizi xenofobi. (torna su) [3] L'idea - di origine arcaica - della polis come un'unità in sé finita ed autosufficiente (kosmos) non fu mai del tutto superata. Ancora sul finire del periodo classico, per esempio, il grande filosofo Aristotele, nel suo trattato sulla "Politica", parlava di essa come di una realtà autarchica, capace cioè di bastare a se stessa, sia da un punto di vista materiale che da un punto di vista politico. Tuttavia, lo sviluppo in epoca classica e poi in epoca ellenistica e romana, di un'economia di scambi sempre più estesa e - parallelamente - di un'agricoltura di carattere intensivo, in gran parte finalizzata ai commerci internazionali, portò una tale idea a perdere sempre di più la propria reale consistenza. La polis divenne insomma col tempo, una realtà sempre più integrata - sia economicamente che politicamente - in un tessuto molto più vasto: prima in quello delle altre poleis greche, in seguito in quello dei grandi Stati ellenistici, e più tardi infine in quello dell'Impero romano. (torna su) |
a cura di Adriano Torricelli