LE ORIGINI E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA IN GRECIA
1-2-3-4-5-6-7
IL PERCORSO CULTURALE E POLITICO DEI GRECI

(b.2) Sviluppi culturali e politici del mondo greco nell’età arcaica
Qui avanti tenteremo, anche
attraverso l’analisi di alcune fonti primarie (Omero, Esiodo e i
poeti lirici), di esaminare gli aspetti principali della
trasformazione culturale – e in seconda battuta anche di quella politica – del
mondo greco arcaico. Non che, a nostro giudizio, i cambiamenti politici siano un
effetto diretto di quelli culturali – ché anzi essi sono entrambi, almeno in
buona misura, espressione della trasformazione dell’organizzazione materiale
della società. Sarà tuttavia qui nostro interesse prevalente lo studio della
trasformazione della mentalità e del modo di concepire l’esistenza avvenuto in
questo periodo, mentre nel prossimo paragrafo ci dedicheremo specificamente alle
sue forme di organizzazione politica.
Mostreremo dunque come la civiltà
preclassica, e in seguito quella classica, furono il risultato dell’incontro tra
due mentalità – l’una essenzialmente agonale, l’altra essenzialmente cooperativa
– che nei secoli precedenti erano rimaste distinte. Un tale incontro infatti
poteva verificarsi solo all’interno della città-stato: luogo di convivenza di
classi sociali diverse, unite però dalla consapevolezza di appartenere ad una
medesima realtà politica e quindi da valori almeno in parte condivisi.
(b.2.1) l’Iliade d’Omero: il rimpianto del passato
È ormai quasi universalmente
accettata l’idea che Omero sia un personaggio mitico, come del resto molti altri
personaggi della storia greca. Ma i miti, se ben interpretati, possono contenere
molti indizi sulla verità dei fatti. In particolare, si narra che egli fosse un
poeta originario della Ionia, ovvero di quella parte della costa
anatolica antistante ad Atene che i Greci avevano iniziato a colonizzare molto
prima dell’VIII secolo.
I Greci vissuti in quelle zone,
relativamente distanti dalla madrepatria e circondati spesso da popolazioni
ostili, erano forse più affezionati degli altri al bagaglio di leggende della
loro terra e quindi più gelosi custodi di esse. Oltre a ciò la Ionia fu, nel
periodo di rinascita del quale stiamo parlando, una della regioni greche più
vitali sia sul piano del commercio che su quello della cultura.
È dunque assai probabile che fu
proprio in Ionia che vennero raccolti e conservati (da un certo momento in
avanti anche attraverso la scrittura) molti componimenti mitologici e
celebrativi dei secoli precedenti, alcuni dei quali peraltro risalenti
addirittura al periodo miceneo. L’Iliade e l’Odissea sono quindi
due lunghe raccolte di canti opera di diversi aedi, ma legati tra loro da temi
comuni, e (soprattutto nel caso dell’Odissea) organizzati in base a una
trama ben articolata.
Il fatto di costituire il prodotto
finale di un percorso poetico durato secoli spiega poi molte
delle incoerenze che le caratterizzano: ad esempio la convivenza di aspetti
tipici della civiltà micenea (uno per tutti, le armi in bronzo) con altri tipici
dell’età oscura (le armi in ferro), i quali invece nella storia reale non
poterono coesistere.
Inoltre, questi due poemi rivelano
una diversa concezione di fondo, quasi certamente espressione del periodo e
delle convinzioni dei loro rispettivi redattori. In base a questa osservazione,
possiamo affermare che l’Iliade tradisce una visione delle cose più
primitiva rispetto all’Odissea. Mentre infatti la prima è scritta
(probabilmente ancora all’inizio dell’età arcaica) nel segno del rimpianto della
civiltà guerriera del periodo oscuro, nella seconda invece si scorgono già
chiaramente i segni di una sensibilità più moderna: segni che peraltro
accomunano quest’opera, seppure molto alla lontana, agli altri autori analizzati
in questo stesso paragrafo.
Cominciamo dall’Iliade.
Abbiamo già citato alcuni brevissimi stralci di quest’opera nel precedente
paragrafo, cercando di descrivere l’animo dell’uomo del periodo oscuro, i valori
che guidavano e davano forma alla sua esistenza. Abbiamo visto come questi
vivesse in una dimensione più pubblica che privata, tutto proiettato
verso la gloria e il riconoscimento del proprio valore da parte dei suoi
simili.
In effetti, l’Iliade è il
poema che maggiormente riflette la temperie del periodo oscuro, ragion per cui
si potrebbe dire che – ai fini del nostro discorso – non vi siano più ragioni
per parlarne. Qui di seguito infatti, vogliamo più che altro ricapitolare quanto
già detto aggiungendovi qualche osservazione, dal momento che i concetti
fondamentali sono già stati esposti.
Oltre che dell’onore, si deve
osservare come l’Iliade sia il poema della forza fisica celebrata
come strumento di imposizione nonché – in qualche modo – come fondamento del
diritto, inteso nel senso primitivo della vendetta per i torti (gli affronti)
subiti. La ragione, anche solo come strumento di sopravvivenza fisica, ha in
esso un ruolo del tutto secondario, si potrebbe dire quasi inesistente! Odisseo
e le sue arguzie, ad esempio, vi compaiono in modo solo sporadico (anche se il
personaggio in sé è tra quelli più ricorrenti dell’intera opera). Lo stesso
episodio del Cavallo di Troia, pur cruciale nella vicenda della guerra
narrata, non compare nell’Iliade bensì nell’Odissea.
Quanto agli dei olimpici (che spesso
peraltro interagiscono direttamente con i personaggi del poema), essi risultano
privi di qualsiasi senso di giustizia, e il loro comportamento è
fondamentalmente analogo a quello dei loro omologhi terreni, altrettanto
sfrontati e pronti a prevaricare i propri simili e a pretendere il rispetto per
se stessi.
Ma al fondo di questo poema scorre
anche una vena sotterranea di pessimismo cosmico: tutto – gli uomini
semplici, gli eroi e gli stessi dei – è sottoposto all’inesorabile Destino
(tuche) filato dalle Parche, che qualcuno (come ad esempio
Achille) può conoscere in anticipo ma non modificare.
A differenza degli dei immortali, gli
eroi dell’Iliade sono, pur nella loro grandezza, profondamente fragili, e
non è certamente un caso che il protagonista di tutta l’opera, Achille, sia
assieme il più potente e temibile, ma anche il più infelice dei Greci,
consapevole del destino di morte che proprio sotto le mura di Troia presto lo
attenderà.
Il sentimento di assoluto pessimismo
che si riflette in quest’opera, del resto, doveva essere più che naturale
nell’aristocrazia guerriera dell’epoca oscura, costantemente esposta dalla
spaventosa frequenza delle guerre al pericolo della morte in battaglia. Unica
consolazione alla precarietà della propria esistenza doveva essere per essa la
speranza del ricordo nei tempi a venire: da esso e solo da esso infatti,
sarebbe venuto un misero raggio di luce a rischiarare la tetra esistenza del
defunto.
In ultimo, ai fini del nostro
discorso, si deve osservare una volta di più come in questa visione pessimistica
fossero già presenti per molti versi i semi di quell’atteggiamento e di quella
mentalità problematica che avrebbero caratterizzato la civiltà greca dei
secoli successivi.
(b.2.2) l’Odissea di Omero e l’opera di Esiodo: la Grecia all’epoca della
colonizzazione
Abbiamo qui accomunato l’opera Esiodo
e l’Odissea di Omero per una ragione molto semplice, che entrambe – pur
nelle enormi differenze che le separano – sono espressione di un clima culturale
decisamente mutato rispetto a quello che traspare dall’Iliade.
(b.2.2.1) l’Odissea
Sarebbe sbagliato dire che i temi
dell’Odissea, passata a sua volta alla storia come opera di Omero,
siano del tutto in disaccordo con quelli del precedente poema. Anche in essa
infatti, sono ampiamente presenti l’esaltazione della figura del guerriero,
ovvero del maschio combattente, il mito della nobiltà del sangue e quello della
regalità assoluta. Ma questi temi sembrano anche essere superati da
altri, di natura molto diversa.
Odisseo, personaggio principale del
poema, è definito, sin dai primi versi del primo canto, come un “eroe ingegnoso”
e un “gran giramondo”, definizioni che ci introducono subito ai temi
fondamentali della prima parte dell’opera: quelli della curiosità, dell’indagine
e soprattutto dell’astuzia.
Balza all’occhio la differenza con
l’Iliade, nella quale la forza fisica prevale in modo assoluto sulla
ragione. Qui, al contrario, più del vigore animalesco conta la sottigliezza del
pensiero, il tempismo nel prendere le decisioni in situazioni estreme, in una
parola la sagacia. Per la prima volta nella letteratura greca, dunque, la
ragione assume la dimensione di valore assoluto, e questo suona quasi profetico,
visti i poderosi sviluppi intellettuali che caratterizzeranno il mondo ellenico
nei secoli futuri.
Assieme all’intelletto il poema
esalta poi, quantomeno implicitamente, la capacità dell’uomo di divenire
l’autore del proprio personale destino (anche se l’antico fatalismo non è del
tutto superato). Il pessimismo ontologico dell’aristocrazia guerriera sembra
dunque essere qui mitigato da una visione decisamente più
ottimistica.
Gli dei poi, che nell’Iliade
si divertono ad assistere alle disgrazie e alle sofferenze umane e che
parteggiano per diletto o per ripicca per l’una o per l’altra parte, qui si
riuniscono invece a consesso per deliberare – in base a criteri di giustizia
ed equità – sulla sorti del protagonista, che sanno essere
ingiustamente perseguitato da Poseidone: una bella differenza dunque da quelli,
spregiudicati e immorali, dell’Iliade!
Infine, al posto dei combattimenti
qui troviamo i viaggi. E in essi è dato forse di scorgere un’eco della grande
“diaspora” greca dovuta alla colonizzazione dell’VIII secolo (ma anche, si
intende, a quelle precedenti). Così come, al posto del valore del coraggio e
della forza fisica troviamo quello, apparentemente più pacifico, della
civiltà in opposizione allo stato ferino (un contrasto
splendidamente esemplificato nel IX canto dalla dicotomia
Odisseo-Polifemo) nonché, tra le righe, la presunzione greca (poi
europea) della propria superiorità rispetto agli altri
popoli.
Nella seconda parte dell’opera, in
cui Odisseo torna clandestino in patria riuscendo alla fine a riaffermare i
propri diritti regali, emergono altri temi, molti dei quali senza dubbio ancora
più lontani dall’universo semantico dell’Iliade.
Essenzialmente possiamo ridurli a
due: il valore intimistico della famiglia e degli affetti,
e quello della patria, dell’onore e della regalità
(temi presenti anche nel poema precedente, ma che qui assumono sfumature
nuove).
Anche la figura della donna,
inoltre, che nell’Iliade era relegata al ruolo di ornamento e di simbolo
di potere maschile, acquista qui un significato molto più alto. A partire da
Penelope, vera eroina femminile del poema, per arrivare a Nausicaa e a Calipso,
essa assume uno spessore psicologico e poetico inedito, che peraltro tenderà
nuovamente a perdersi nella letteratura dell’età classica, espressione di una
civiltà maschilista e misogina.
Ma l’Odissea è ricca anche di
descrizioni che rimandano ad un mondo senza dubbio molto più complesso e
articolato rispetto a quello dell’età oscura: quello delle nascenti città-stato.
A tale riguardo osserva, per esempio, Pierre Lévêque che: “La sovranità
nell’Odissea appare chiaramente come un’istituzione nuova: la sovranità
delle poleis, temperata dalla presenza di una potente aristocrazia.”
Se questa osservazione è vera, allora
la lotta tra Odisseo e i rapaci pretendenti al trono di Itaca, i proci,
sarebbe essenzialmente la trasfigurazione poetica di quella ben più reale tra il
sovrano e una nobiltà terriera sempre pronta ad eliderne il prestigio e magari a
prendere il suo posto.
(b.2.2.2) Esiodo
Leggendo Esiodo entriamo in un mondo
molto diverso da quello descritto nei poemi omerici, un mondo fatto non più di
eroi ma di gente comune, quel popolo negletto e immiserito di cui abbiamo più
volte parlato, sia a proposito dell’età oscura che dell’età arcaica.
Ma, a dispetto di ciò, le due opere
di Esiodo a noi giunte (Teogonia e Opere e Giorni) hanno con
l’Odissea anche alcuni elementi in comune. Ovviamente si tratta di
affinità molto vaghe, sul piano dei contenuti più generali, ma tanto più
importanti se si considera la lontananza del nostro autore (umile possidente
terriero vissuto alla fine dell’VIII secolo in Beozia, una regione priva di
sbocchi sul mare e dipendente da un’economia prevalentemente agraria) dal mondo
sia fisico che spirituale dell’Odissea.
La Teogonia è un’opera che
cerca di definire una sorta di albero genealogico degli dei, di porre ordine tra
la massa estremamente eterogenea delle divinità accumulatesi nel corso dei
secoli e aventi le origini più diverse. Essa dunque probabilmente costituiva,
nelle intenzioni dell’autore, un tentativo di razionalizzare il mondo
della fede nonché di superare la divisioni tra i membri della società in materia
teologica (e non si dimentichi che le diverse concezioni religiose erano in gran
parte espressione delle differenze di classe all’interno della società).
Secondo questo tipo di
interpretazione, quest’opera può essere perciò letta come una conseguenza della
crescente unità che si andò determinando, a partire dall’VIII secolo in avanti,
sia (orizzontalmente) tra le varie regioni che componevano il
mondo greco, sia (verticalmente) tra le classi che ne componevano
la struttura sociale.
Opere e Giorni è invece un
poemetto didascalico che Esiodo dedica a suo fratello Perse, al quale dispensa
una lunga serie di consigli sul ‘buon vivere’ (“O Perse, tu ascolta Giustizia e
la violenza non favorire”). Esso rivela quindi presumibilmente molti aspetti
della mentalità e degli stili di vita propri del luogo e della classe sociale da
cui il suo autore proviene ed è molto più interessante del precedente ai fini
del nostro discorso.
I temi che, almeno a nostro giudizio,
sono in esso maggiormente significativi sono quelli inerenti gli dei,
visti come inflessibili custodi della giustizia; il lavoro (è difatti
presente in Esiodo una vera e propria etica del lavoro, del tutto
inconcepibile tra i membri delle classi aristocratiche); la sana competizione
tra persone della stessa condizione (segno, come vedremo, dell’emergere di
uno spirito agonale anche in seno alle classi
umili).
Già nell’Odissea gli dei
avevano conosciuto una parziale conversione morale, ma non erano certo ancora
divenuti i supremi custodi dell’ordine e della giustizia, anche perché tale
opera era – come l’Iliade del resto – destinata molto probabilmente ad
allietare i banchetti dell’aristocrazia e in genere gli eventi conviviali. Le
opere di Esiodo, al contrario, erano caratterizzate da uno spirito decisamente
austero, e avevano come scopo essenziale quello di educare i propri
uditori.
Nella visione esiodea, gli dei sono
riuniti in una gerarchia molto rigida, culminante nella figura di Zeus, il
quale, dice ad esempio l’autore,
“facilmente dona la forza, facilmente
abbatte chi è forte, facilmente umilia chi è grande e l’umile esalta, facilmente
raddrizza chi è storto e dissecca chi è florido”.
Il destino umano, improntato alla
sofferenza e al lavoro, è del resto giustificato come la conseguenza di un
peccato originale, quello di Prometeo che ingannò Zeus e che, rubandolo agli
dei, consegnò agli uomini il fuoco. Per tale ragione il Padre degli dei, dopo
aver punito Prometeo nel modo che tutti sanno, inventò la donna
(Pandora), la quale fece dilagare nel mondo tutti i mali costringendo gli
uomini a vivere nel dolore e nella fatica!
Nella visione esiodea dunque, ogni
cosa ha una precisa ragion d’essere, nulla avviene a caso o per il capriccio di
qualcuno. Ed è difficile non vedere come essa sia, per molti versi, l’erede
della concezione e della religiosità popolare dei secoli oscuri. Certo, vi sono
tra esse anche delle differenze: ad esempio il fatto che Esiodo abbia fatto
propria la fede nelle divinità olimpiche e posto in loro subordine quelle
terrestri, che in origine dovevano essere state invece l’oggetto esclusivo della
religiosità delle masse. Oppure il mutato ruolo della donna, che diviene per
Esiodo la “sorgente di tutti i mali”, mentre nelle culture egee primitive e,
seppure certamente in grado minore, in quella popolare del periodo oscuro aveva
ricoperto un ruolo socialmente positivo.
Dal tema della dannazione, della
cacciata dal paradiso terrestre, si passa poi a quello del lavoro: la
vita è intesa da Esiodo esclusivamente come impegno e fatica, in linea con
quella che da secoli doveva essere l’esistenza dei piccoli possidenti terrieri,
che vivevano prevalentemente di un’economia autarchica, e che in più erano
spesso sottoposti ai capricci dei “re mangiatori di doni”, come li definisce
l’autore, ovvero di una nobiltà ingorda e rapace che non si faceva certo molti
scrupoli ad abusare del proprio potere.
Ma dal discorso di Esiodo emerge
anche un’idea nuova rispetto al passato: quella della contesa. Egli parla
per l’esattezza di due tipi di contesa: l’una giusta e l’altra degna di biasimo.
La prima è quella che segue le regole
della giustizia, che è onesta e “risveglia chi è pigro al lavoro […] e il vasaio
[rende] geloso del vasaio, e il fabbro del fabbro, il mendico del mendico, il
cantore del cantore.” Basata sulla sana competizione, sul rispetto delle regole,
essa non entra in conflitto con il principio di equità e di giustizia, poiché
premia chi è maggiormente degno di essere premiato. In essa vediamo forse la
traduzione sul piano ideale di uno stile di vita mutato rispetto al passato, di
una società più dinamica, nella quale attraverso l’iniziativa economica
personale è data anche agli umili la speranza di un sia pur timido miglioramento
delle proprie condizioni.
La cattiva contesa è invece quella
che non segue le regole della “retta giustizia che, venendo da Zeus, è la
migliore”; è quella di chi, come Perse, cerca di impadronirsi di ciò che non gli
spetta “prodigando i tuoi [di Perse] omaggi ai re mangiatori di doni, i quali a
giudicare con questa giustizia sono ben disposti.”
Ed è appunto quest’ultima componente,
nella quale già si realizza una prima fusione tra lo spirito agonale delle
classi alte e quello di giustizia delle classi popolari, e che inoltre
preannuncia gli stessi fondamenti etici della polis matura fondata sulla
lotta tra individui giuridicamente eguali, ciò che rende più interessante e
degno di nota ai nostri occhi il pensiero di Esiodo.
Dunque, se volessimo riassumere in
poche parole quanto abbiamo detto in questo paragrafo, dovremmo affermare
l’emergere nei testi qui analizzati di due sfere di idee tra loro
complementari: da una parte quella che tende alla valorizzazione
dell’ingegno, della ragione e quindi della dignità dell’uomo;
dall’altra (soprattutto in Esiodo) quella che afferma il principio della
competizione sociale, non più appoggiato però – come in passato – sul concetto
di forza bruta ma su quello di legalità, come basi ideali di un mondo
nuovo, che pone fine al lungo periodo di oscurità che l’ha
preceduto.
(b.2.3) la lirica: il mezzo espressivo della città-stato
Il periodo arcaico della storia greca
conobbe l’emergere di orientamenti in decisa controtendenza rispetto ai
caratteri dell’età oscura, orientamenti peraltro già visibili nei testi e negli
autori citati e analizzati nel precedente paragrafetto, ma riconoscibili con
chiarezza ancora maggiore nell’opera dei cosiddetti poeti lirici.
La poesia lirica è un genere
letterario sorto nel VII secolo (ma la cui fioritura si colloca nel corso di un
po’ tutta la storia greca) e che costituì la prima vera espressione culturale
del nuovo mondo delle città-stato. In essa, intesa non solo come fatto poetico
ma anche come evento sociale, possiamo infatti riconoscere i caratteri
essenziali della civiltà greca quale emerse dalle trasformazioni avvenute a
partire dall’VIII secolo, riassumibili come già detto nella nascita e nello
sviluppo delle poleis e nel graduale superamento delle antiche
organizzazioni sociali di stampo tribale, basate su legami familiari e
clientelari.
I caratteri di questo nuovo mondo
furono appunto un nuovo senso della collettività, ovvero il sentimento da
parte di classi prima rigidamente separate dell’appartenenza ad una medesima
entità politica e sociale, e un nuovo spirito di affermazione
personale, che non passava più esclusivamente attraverso la forza fisica e
il coraggio guerriero, ma anche attraverso il rispetto delle leggi e
della comunità. Altri elementi erano poi la scoperta del valore della
ragione, e la rivalutazione della dimensione immanente della vita,
contro l’antico spirito d’ascesi indirizzato verso la gloria nel caso
delle classi aristocratiche, e verso la salvezza ultraterrena in quello delle
classi umili.
L’uomo greco iniziava insomma,
dopo lunghi secoli di anarchia sociale e di povertà materiale e culturale, a
darsi un nuovo ordine e a riscoprire così il significato della legalità contro
quello della violenza, acquisendo al tempo stesso una nuova fiducia in se
stesso, nelle proprie capacità critiche, nel valore intrinseco e nella
godibilità della propria esistenza terrena.
(b.2.3.1) il poeta e la comunità
Sia dal punto di vista dei contenuti
che da quello sociale la lirica non fu affatto un fenomeno ‘monolitico’. Le
occasioni all’origine della composizione e della lettura di opere liriche
potevano essere di diversi tipi: celebrative (in tal caso il poeta
componeva, di solito su commissione, dei versi dedicati a un qualche evento
particolare o cerimoniale, solitamente religioso), simposiali (il poeta
componeva allora per allietare o arricchire un evento conviviale),
agonali (quando più poeti si misuravano in una gara poetica).
Anche i componimenti erano poi di
differenti tipi: monodici, nel caso di una poesia di natura soggettiva e
intimista (che esprimeva il punto di vista dell’autore su qualche problema a lui
particolarmente caro); corali, nel caso della poesia pubblica (il cui
oggetto o il cui spunto era costituito da fatti che riguardavano l’intera
comunità politica).
Oltre al fatto di non attingere più
soltanto al patrimonio dei miti, un altro aspetto che distingue in modo
fondamentale la lirica dal genere epico è l’importanza che in essa riveste
l’autore, in qualità di persona singola.
Nell’epica, l’aedo (autore del testo)
o il rapsodo (suo esecutore) costituivano agli occhi del pubblico un qualcosa di
secondario. I loro componimenti infatti dovevano rievocare un patrimonio di miti
e leggende il cui valore era già tutto nei soggetti trattati (i cui personaggi,
oltre a divertire, costituivano degli esempi di virtù guerriere non esenti da
difetti e meschinità), mentre coloro che fungevano da intermediari tra la
tradizione e gli spettatori rimanevano sullo sfondo. Ciò era dovuto al
sostanziale disinteresse della civiltà che tali opere aveva prodotto verso la
persona, verso l’individuo come tale. Essa era infatti tutta proiettata verso
l’ideale, l’assoluto, il mito. In quest’ottica, poco importava della
personalità dell’autore, il quale probabilmente restava sconosciuto ai fruitori
della sua stessa opera.
Al contrario, già con Esiodo e
successivamente con i poeti lirici, il poeta iniziava a divenire un soggetto
dotato di valore indipendente rispetto ai propri componimenti. Un fatto
che è segno di una forte rivalutazione dell’essere rispetto al dover
essere, del contingente rispetto all’ideale. La comunità (fosse essa
l’intera comunità cittadina, come nel caso della lirica corale, o una più
ristretta cerchia di individui, come nel caso della lirica monodica) cominciava
a interessarsi all’autore come tale, alla sua sensibilità e alla particolare
visione delle cose che esprimeva attraverso i suoi canti.
Ma l’aspetto di rivalutazione
dell’individuo non è l’unico che qui ci interessa. La poesia lirica implica
infatti anche un nuovo rapporto tra il poeta e i suoi uditori, che a sua
volta è la manifestazione di un cambiamento profondo avvenuto nella civiltà
arcaica rispetto ai secoli precedenti.
Non solo difatti la comunità si
interessa all’individuo, ovvero al poeta, ma quest’ultimo a sua volta si
interessa alla comunità, ed anzi ne ha un imprescindibile bisogno, nel senso di
trovare in essa l’unico vero termine di confronto. Si crea insomma a partire
da questo periodo una dialettica insopprimibile tra individuo e comunità: una
dialettica che costituisce l’essenza stessa della città-stato e la cui crisi –
non a caso – coinciderà con la crisi di quest’ultima.
Guardando indietro, ai secoli
passati, si sarebbe portati a concludere che l’antico spirito individualistico
aristocratico si sia fuso con quello delle classi popolari, e che ciò abbia
determinato la nascita di una società nuova, in cui queste due componenti
– non più separate da una distanza sociale e culturale insormontabile – si
richiamano e si completano a vicenda.
Del resto, la compresenza, non solo
all’interno di questo genere, ma anche alle volte dei suoi stessi autori,
di argomenti intimistici e personali (opinioni, enunciazioni di principi morali,
ecc.) e di argomenti di carattere civico (esaltazione o denigrazione di
personaggi, eventi e valori di dominio collettivo) conferma la realtà di una
tale duplicità e complementarietà di atteggiamenti.
Mentre infatti da una parte la lirica
corale (pubblica) si rivolge all’insieme dei privati cittadini, in
qualità di soggetti politici attivi ed autonomi, dall’altra e
complementariamente la lirica monodica (personale e spesso finanche
intima) “non è mai, per il poeta lirico, un colloquio con la solitudine
del proprio animo ma, al contrario, un’apertura verso l’esterno, verso
i compagni che sanno identificarsi in lui” [corsivi miei] (Marina Cavalli).
Si può dunque inferire da ciò che,
all’interno della nuova realtà delle città-stato, la dimensione collettiva
rimanda a quella privata così come, a sua volta, quest’ultima rimanda alla
prima: ciò che contribuisce a spiegare la coesistenza di tematiche e autori
apparentemente tanto distanti all’interno di uno stesso genere e, in ultima
analisi, di una stessa stagione culturale. La polifonia che riscontriamo nel
genere lirico – peraltro non solo nel periodo arcaico di cui ci stiamo
occupando, ma anche in quelli successivi – riflette dunque la ricchezza e la
complessità della vita politica e culturale del mondo ellenico.
Se, ad esempio, mettiamo a confronto
personaggi come Solone e Tirteo, o come Archiloco e Teognide, possiamo scorgere
punti di vista diametralmente opposti tra loro, le cui radici peraltro
affondano spesso, prima che nei loro autori, nelle società stesse da cui
provengono. Eppure, nonostante tali enormi diversità, essi furono tutti poeti di
uno stesso periodo, di una stagione culturale che, pur molto
variegata al suo interno, fu comunque caratterizzata da disposizioni comuni.
Solone per esempio, oltre che un
riformatore ateniese, fu un grande e rinomato poeta che fece dei valori
dell’equilibrio, dell’equidistanza dalle parti in conflitto e quindi del
pluralismo la sua filosofia di vita oltre che di azione
politica.
Egli anticipava per molti aspetti
l’ideologia del periodo democratico, ragion per cui fu in seguito giustamente
ritenuto uno dei padri dell’Atene classica. Cantava ad esempio di essersi posto
tra le due fazioni (ovvero, l’aristocrazia e le plebi prive di terre) “come
pietra di confine”, impedendo così una guerra civile. Egli, inoltre, affermava
che “la città perisce per colpa dei potenti, e il popolo / per ignoranza si fa
schiavo di un monarca”, ma anche che “è giusto criticare il popolo: / ciò che
ora esso possiede, non l’aveva mai visto / nemmeno in sogno!”
Insomma, la poesia e il pensiero di
Solone erano un inno alla moderazione e alla libertà personale di fronte a ogni
intransigenza ideologica (sia popolare sia nobiliare), oltre che a quello
spirito di corpo che doveva legare tra loro i membri dell’intera cittadinanza
a prescindere dalle divisioni di classe, e come tali preannunciavano i
futuri sviluppi democratici della città ateniese.
All’opposto, la poesia di Tirteo era
espressione di una civiltà, quella spartana, spiccatamente guerriera (e in
questo molto simile a quella omerica) nonché basata sull’adeguamento
incondizionato del singolo alle norme e ai valori imposti dalla
comunità.
Il valore della libertà individuale,
basilare non solo ad Atene ma anche nel resto del mondo greco, non era qui
altrettanto importante. Gli Spartiati difatti, pressati dall’esigenza di tenere
in soggezione sia le popolazioni vicine che gli iloti (schiavi di stato)
nei propri territori, avevano sviluppato una cultura militare particolarmente
inflessibile, che comportava una cieca obbedienza del singolo all’autorità
costituita (vedremo avanti la struttura politica e giuridica del regno
spartano).
Anche a Sparta però, fortissima era
la dialettica tra individuo e comunità, laddove il primo si identificava
con la seconda al punto da ambire di sacrificare ad essa la propria giovinezza,
nella convinzione – come scrive Tirteo – che
“La morte è bella, quando il prode
combatte / in prima fila per la patria. / Ma lasciare la patria e i vecchi campi
/ e mendicare è più di tutto tremendo / e vagare con la madre e il vecchio padre
/ e i figlioli piccoli e la sposa”.
Dal confronto tra Solone e Tirteo
emerge chiaramente la differenza di assetto politico e ideologico che poteva
sussistere tra le diverse popolazioni greche, ma anche al tempo stesso la loro
affinità su alcuni punti essenziali: il senso della comunità e dell’appartenenza
a una medesima realtà politica da parte di tutti i cittadini, i nuovi
valori patriottici e – come vedremo meglio avanti – l’antico
desiderio di riconoscimento personale.
Diversa, ma altrettanto radicale, è
la contrapposizione tra Archiloco e Teognide, due nobili entrambi caduti in
disgrazia ed esiliati dalle rispettive patrie, ma opposti nel contegno verso le
proprie origini. Al realismo scherzoso del primo, capace se non di rinnegare
almeno di ironizzare sui valori della propria classe (“Qualcuno dei Sai si vanta
dello scudo, / arma perfetta, che presso un cespuglio abbandonai non volendo
[…]”), fa da contraltare il cupo risentimento del secondo verso un mondo nuovo,
quello della borghesia cittadina, di un popolo sempre più impegnato ad
arricchirsi e di una società “imbastardita” e succube del mito della
ricchezza.
Celebri sono i versi coi quali
Teognide descrive le città moderne, la loro trasformazione
progressiva:
“La città è sempre la città, ma la
gente è un’altra, / sono quelli che un tempo – senza legge, senza giustizia – /
logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi / e pascolavano come cervi,
fuori dalle mura”.
Così come evidente appare la sua
indignazione per una società a suo avviso corrotta, nella quale gli
aristocratici si apparentano molto spesso con i nuovi ricchi, i parvenus,
solo per rimpinguare le proprie ricchezze.
“Sola venerazione è la ricchezza:
il nobile s’incrocia con il plebeo, / il plebeo col nobile – è l’oro
che fa la razza.”
Anche in questo caso dunque, vediamo
una contrapposizione netta sul piano dei contenuti, che si accompagna però a una
condizione sociale simile (quella del nobile decaduto, appunto). Il contrasto
tematico non è perciò qui, come nel caso precedente, imputabile a una diversità
oggettiva (quale, appunto, l’appartenenza a società molto diverse tra loro),
bensì essenzialmente soggettiva (legata cioè a profonde differenze di
personalità).
Infine, non si deve dimenticare la
presenza, già all’interno della lirica del VII secolo, di tutta una serie di
autori – quali Mimnermo e Saffo – che potremmo tranquillamente definire
intimistici e sentimentali.
Quanto a questi due, essi furono
entrambi nobili e come tali espressione di una classe che stava perdendo gran
parte del proprio antico predominio sociale e politico (vedremo avanti il modo
in cui le lotte per il potere presero forma in questo periodo), ma che non per
questo poteva dirsi sconfitta e tantomeno estromessa dal potere. Forse anche per
questo, molti membri di essa si aprivano (seppure a modo proprio e con alcune
ovvie riserve) a questa nuova società, caratterizzata rispetto ai loro standard
da una maggiore apertura sociale e culturale e da una maggiore dinamicità.
Al contrario di altri poeti di
origini nobiliari (come ad esempio Alceo, o lo stesso Teognide) i quali fecero
della lotta in favore della propria classe e contro le rivendicazioni popolari
il senso della propria esistenza e della propria opera poetica, sia Mimnermo che
Saffo si dedicarono soprattutto alla scoperta di se stessi, della propria
interiorità. Con loro dunque, e per la prima volta, il sentimento
soggettivo, la visione personale e intima delle cose assurse a tema poetico di
valore universale.
Entrambi questi poeti fecero
dell’amore (Saffo), o del godimento dei frutti della giovinezza (Mimnermo), il
tema principale delle loro opere, nelle quali peraltro introdussero una grande
novità, cioè la descrizione dei propri stati d’animo più intimi, delle
vibrazioni più segrete del proprio cuore e del proprio corpo.
Mimnermo scriveva ad esempio: “Subito
la pelle mi si inonda di sudore, / e mi smarrisco, quando vedo il fiore, / bello
e gioioso insieme, di giovinezza”, e Saffo: “Subito mi sobbalza, appena / ti
guardo, dentro il mio petto il cuore, / e voce più non mi viene e mi si spezza /
la lingua […]”
In questi ed altri autori, dunque,
l’antico egotismo aristocratico pare essere messo al servizio dell’analisi
psicologica, della conoscenza di se stessi, e quindi della scoperta
dell’individuo come tale, a prescindere dalla sua collocazione
all’interno di un dato contesto sociale e politico. Eppure, come ricorda Marina
Cavalli, “è il confluire nel momento simposiale di queste due precise volontà –
riconoscimento di coesione spirituale e apertura alla libera
introspezione – che dà ragione dell’ampio spazio dedicato all’autobiografia,
o comunque a riflessioni profondamente individuali, nella poesia lirica: solo
un uditorio che condivida intimamente le esperienze e le abitudini
socio-culturali del poeta può nutrire interesse per i suoi casi personali”.
[corsivi miei]
Dunque, la forte complementarietà tra
momento personale e momento collettivo fu uno degli aspetti salienti della
cultura greca di questo periodo e, con essa, delle sue espressioni letterarie.
Tutto ciò può apparire strano a un moderno, abituato per una lunga serie di
ragioni a contrapporre queste due dimensioni, sentite l’una come opposta e in
qualche modo escludente l’altra. Ma ciò non fu vero per i periodi e i luoghi di
cui stiamo parlando, nei quali la scoperta della dimensione politica (che
prendeva la forma di uno scontro tra gruppi di potere relativamente piccoli) e
quella dell’individuo, del valore della sua singolarità e irripetibilità,
andarono di pari passo, attraverso un percorso nel quale tali termini si
completavano e – soprattutto – si implicavano
vicendevolmente.
(b.2.3.2) altri aspetti della poesia lirica
Altri aspetti insiti nel fenomeno
della poesia lirica che qui vogliamo affrontare, sono da una parte quelli
agonali e dall’altra quelli analitici. I primi avvicinano tale fenomeno
soprattutto alla politica, i secondi invece alla filosofia.
(b.2.3.2.1) la componente agonale
Come evento sociale, la lirica è
impregnata dei valori agonali tipici della civiltà greca. Certo, essi si
manifestano qui in forme nuove rispetto alla civiltà primitiva descritta da
Omero, ovvero in forme “civili”, dal momento che divengono parte integrante
della vita stessa della città-stato, la quale dà loro una forma inedita
attraverso le proprie leggi e le proprie consuetudini.
Innanzitutto, l’evento poetico è
spesso già di per se stesso un evento “agonale”, ovvero – come già si accennava
– una gara al termine della quale vi è un vincitore. E quest’aspetto di
competizione, fondamentale un po’ in tutta la letteratura greca, si trasmetterà
in particolare al teatro, le cui rappresentazioni avverranno sempre nel contesto
di un concorso tra autori.
Oltre a ciò, i componimenti sono
molto spesso mezzi per celebrare la vittoria di un atleta in una gara sportiva,
o la fondazione di un tempio, o più in generale un evento attraverso il quale
una persona o un gruppo di persone si mettono in luce agli occhi della
cittadinanza.
Al pari della lotta politica
dunque, anche la lettura delle opere liriche acquista, oltre a quello
intrinseco, anche un secondo significato: essa diviene cioè l’occasione
per uno o più membri della comunità politica di imporsi all’attenzione degli
altri. E ciò non può apparire per nulla strano, se si considera che quella
greca è, ora più che mai, una società in cui più individualità si confrontano
tra loro all’interno e per mezzo di una struttura politica definita, di cui la
libertà e l’iniziativa personale costituiscon0 un aspetto non solo fondamentale
ma addirittura fondante.
Certo, anche in passato – e non meno
che ora – quella agonale era stata una componente essenziale della vita sociale
greca. Ma adesso essa assume anche sfumature del tutto nuove rispetto ai secoli
oscuri.
Per comprendere la differenza che
separa queste due stagioni della storia greca, può essere particolarmente
indicato confrontare la poetica di Omero (e soprattutto dell’Iliade) con
quella di Tirteo, il cantore di quei valori guerrieri che costituirono la base
stessa dell’esistenza di Sparta.
Scrive molto bene, a tale proposito,
Guido Carotenuto: “La poesia di Tirteo ha creato un nuovo concetto di eroismo.
Anche l’eroe omerico combatte e muore per la gloria, ma per la sua
gloria, come suprema espressione della sua personalità. L’eroe di
Tirteo muore per la patria, offre la sua vita al sublime ideale della
polis. E la patria riconoscente dona al suo eroe onore in vita, immortalità di
gloria dopo la morte.” [corsivi miei]
L’eroismo e il culto dell’individuo,
insomma, non si collocano più, per così dire, “nel vuoto”, bensì all’interno di
una realtà definita, la città-stato, e sono profondamente ed anzi essenzialmente
legati alle aspettative che questa nutre verso i propri cittadini. È
quindi all’interno della città-stato che tali valori ricevono il loro
riconoscimento, la loro gratificazione e la loro stessa ragione
d’essere.
Sempre Tirteo, a proposito dell’uomo
valoroso in battaglia, cantava:
“Perde la vita cadendo in prima fila
/ – gloria per la città, il popolo, il padre –, / col petto trafitto, e lo scudo
/ umbilicato e la corazza. / I giovani lo piangono, e i vecchi / e la città
intera lo rimpiange con dolore: / la sua tomba è illustre, e i suoi figli / e i
figli dei figli e la stirpe intera.”
Un ottimo commento e una chiara conferma, ci pare, di quanto appena detto.
(b.2.3.2.2) la componente analitica
Il secondo tema su cui vogliamo
soffermarci è quello dell’approfondimento analitico. Nella poesia lirica,
infatti, si manifesta anche la tendenza ad un’analisi spregiudicata del reale,
in tutti i suoi aspetti.
La poesia epica si soffermava sempre
sull’insieme: i componimenti epici erano difatti delle specie di litanie che
andavano da un punto ad un altro di una trama già fissata, quella della grande
narrazione mitica.
Ora invece il poeta – anche quando si
soffermava su un evento mitologico – lo faceva comunque con estrema libertà,
scegliendo ciò che in esso gli appariva maggiormente degno di attenzione e
sviluppandolo a proprio arbitrio.
Abbiamo già visto quali fossero i
principali temi affrontati dagli autori lirici, da quelli politici a quelli
morali a quelli intimi. Ma – a prescindere dal tipo di tematica trattata –
l’autore ne parlava e ragionava sempre con grande spregiudicatezza, come se si
trattasse di un fatto reale, concreto, di stretta attualità (e molto spesso,
infatti, lo era!)
Spirito d’osservazione, libertà nei
temi e nelle tesi sostenute (le quali erano peraltro sempre riflesso della
personalità e delle convinzioni personali dell’autore), a volte anche un
atteggiamento pragmatico e moralmente disinvolto: era dunque iniziata un’epoca
nuova della storia greca: l’epoca della ragione!
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