LE ORIGINI E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA IN GRECIA
1-2-3-4-5-6-7
IL PERCORSO CULTURALE E POLITICO DEI GRECI

Divideremo l’argomento trattato in
questo capitolo in quattro paragrafi, ognuno corrispondente a una fase dello
sviluppo storico della civiltà greca antica:
- il primo sarà dedicato al cosiddetto periodo oscuro (con un breve accenno alla precedente epoca
micenea);
- il secondo all’età arcaica;
- il terzo all’epoca classica;
- l’ultimo all’epoca tardo-classica e a quella alessandrina o ellenistica.
L’argomento centrale sarà la
trasformazione istituzionale e politica conosciuta dal mondo greco nel corso dei
secoli, vista peraltro nella sua interconnessione sia con i fenomeni sociali ed
economici che con quelli culturali. Quanto a questi ultimi, essi saranno anche
utilizzati – nella forma delle testimonianze letterarie – come fonti della
ricerca e della ricostruzione storiografica, ovvero come utili tracce della
mentalità, del pensiero e della sensibilità dominanti in un dato periodo e
luogo, oltre che delle condizioni materiali e dell’organizzazione politica di
esso.
Come già detto, il discorso non potrà
limitarsi alla democrazia, ma dovrà per forza di cose (come meglio vedremo nel
corso dell’articolo) estendersi anche ad altre forme di governo: sia cioè a
quelle interne alla Grecia, sia (seppure più superficialmente) a quelle
dominanti nel Vicino Oriente.
(a) Il periodo oscuro
“L’avventura greca è figlia della fame.”
Pierre Lévêque
La prima civiltà di cui si abbia
notizia in Grecia è quella micenea (all’incirca XVI-XIII secolo a.C.), fondata –
come già quella cretese, e prima di essa quella egizia e in genere quelle
vicino-orientali – sul rigido controllo da parte dello stato delle attività
economiche e sull’incameramento dei beni eccedenti le esigenze immediate della
popolazione in depositi pubblici (proprietà statale).
Già a quei tempi però, grosse
differenze sussistevano tra gli stati greci o occidentali e gli stati del Vicino
Oriente, differenze che determinavano – e ancor più avrebbero determinato in
futuro – due situazioni abbastanza diverse. Le dimensioni relativamente ridotte
dei regni micenei (comunque più estesi delle future città-stato) tendevano
infatti ad attenuare la piramidalità e la rigidità delle strutture politiche e
sociali tipiche delle vicine regioni orientali. Tra i sovrani e i loro vassalli
(nobili guerrieri, nonché proprietari di terre) vigevano ad esempio nel mondo
miceneo rapporti molto più stretti e familiari di quelli che vi erano, ad
esempio, tra il Faraone egizio e i suoi funzionari/amministratori locali. La
tendenza greca a costituirsi in una società di liberi individui, in
contrapposizione alle società fondate su poteri assoluti e su masse
politicamente asservite tipiche del vicino mondo orientale (dispotismo
asiatico), iniziava già allora a delinearsi, seppure in una forma ancora
attenuata rispetto ai secoli successivi.
Si può dire che l’individualismo
fu un carattere essenziale del mondo greco già a partire dalla fase più
arcaica della sua storia, e che esso fu determinato molto probabilmente dalla
natura estremamente frastagliata dei suoi territori e quindi – soprattutto per
l’epoca – dalla loro difficile governabilità attraverso poteri centralistici e
dispotici di stampo asiatico. Gli stati centralizzati d’Oriente trovavano
dunque nel vicino mondo greco, che pure avevano potentemente influenzato, una
copia abbastanza sbiadita. Tuttavia, è indubbio che la civiltà micenea e,
prima di essa, quella cretese furono largamente debitrici di molti dei propri
caratteri a quelle vicino orientali.
Ma il vero “salto di qualità”, ossia
la trasformazione in qualcosa di radicalmente alternativo rispetto al Vicino
Oriente, il mondo greco lo fece solo nel cosiddetto periodo oscuro,
un’età il cui inizio si collocò attorno al XIII secolo. Nel corso di esso
infatti, e forse anche del successivo, le ripetute invasioni di popoli di
stirpe greca, ricordati poi come dori, provenienti dalle zone a nord
della Grecia civilizzata, posero fine o comunque destabilizzarono in modo
sostanziale le strutture della precedente civiltà micenea.
Fu attraverso tali eventi traumatici
che vennero poste le basi della successiva civiltà classica. E ciò sia perché –
come vedremo – l’anarchia politica e sociale che ad esse seguì fu un
ingrediente essenziale alla base della nascita, qualche secolo più tardi, delle
città-stato; sia perché, indebolendone l’economia e la civiltà, tali
eventi isolarono per forza di cose il mondo greco da quello vicino orientale,
determinandone un’evoluzione indipendente e originale
rispetto ad esso.
E quando, a partire dall’VIII secolo,
la civiltà greca riprese ad avere frequenti contatti con l’Oriente, traendone
peraltro, come già era accaduto in passato, preziosi spunti di avanzamento, il
tempo aveva oramai consolidato i caratteri che la contraddistinguevano dalle
regioni circostanti.
Le invasioni doriche diedero molto
probabilmente il colpo finale al mondo miceneo, la cui decadenza era avviata già
da parecchi decenni a causa delle continue guerre e rivalità tra stati. Esso
venne da tali eventi pressoché spazzato via. Le sue antiche strutture sociali,
ad esempio, furono fortemente ridimensionate, e l’istituto regale, che vi era a
base, iniziò un processo di decadenza che ne decretò la scomparsa quasi ovunque
già all’inizio del periodo arcaico (VIII secolo). La vita culturale poi, si
imbarbarì in modo impressionante: la scrittura scomparve totalmente, mentre gli
scambi commerciali e in genere le comunicazioni divennero molto più radi che in
passato (le devastazioni e la povertà rendevano infatti le vie di transito
estremamente pericolose).
Scrive a tale proposito Moses Finley
(La Grecia dalla preistoria all'età arcaica): “Possiamo a buon diritto
affermare che con i palazzi [ovvero i centri del potere regale nelle società
micenee e minoiche] crollò la particolare struttura sociale piramidale dalla
quale essi erano stati creati. [...] E il palazzo scomparve in modo così
radicale che mai più esso comparve nella storia greca.” [corsivi
miei]
In particolare gli stati micenei
conobbero, soprattutto in alcune zone dove le invasioni doriche o comunque gli
stravolgimenti a esse legati furono più violenti, un’accentuata tendenza a
disgregarsi e a dividersi in piccoli sottoregni autonomi. Ebbe inizio così di un
periodo di anarchia sociale simile per molti aspetti a quello del medioevo
cristiano (da cui l’espressione medioevo ellenico) che lo storico Rosario
Villari così descrive: “il legame tra monarchia e feudalità era basato su una
sorta di contratto che metteva i singoli contraenti sullo stesso piano. Da
qui nascevano parecchi inconvenienti: instabilità politica, contrasti tra le due
parti, mancanza di un indirizzo unitario nella politica dello Stato, anarchia.”
Fattori questi che, pur con le inevitabili differenze del caso, ritroviamo
anche nel periodo di cui stiamo trattando. In più, per ciò che concerne
quest’ultimo, dobbiamo considerare anche l’assenza pressoché totale delle città
(quelle micenee furono tutte, con poche eccezioni tra cui Atene, cancellate o
ridotte a villaggi) nonché spesso di insediamenti stabili, sostituiti dalla vita
pastorale.
Può apparire strano, ma proprio a
partire da questo quadro di desolazione e miseria (molto maggiore rispetto a
quello caratterizzante i vicini stati orientali negli stessi periodi) presero
forma coi secoli i caratteri fondamentali della civiltà greca classica, in tutta
la sua modernità e il suo splendore. Sempre Finley, ad esempio, ci ricorda che
“il futuro dei greci [dell'età oscura] non si trovava negli stati burocratici,
incentrati attorno al palazzo, ma nel nuovo tipo di società che venne
elaborandosi dalle comunità impoverite che sopravvissero alla grande
catastrofe.”
(a.1) Una società a due livelli; l’etica “agonale” dell’aristocrazia
guerriera
Le società del periodo oscuro erano
almeno tendenzialmente ‘a due livelli’: da una parte vi erano infatti i
nobili/guerrieri, ovvero i grandi proprietari terrieri, e
dall’altra i piccoli proprietari indipendenti, in realtà però per molti
aspetti asserviti ai primi. Il legame che univa tra loro i membri di un medesimo
territorio era – almeno presumibilmente – clanico, ancor prima che etnico. Il
ghenos (ovvero la famiglia in senso allargato, la stirpe) era infatti ciò
che accomunava idealmente gli individui di una medesima comunità.
Ai due livelli di cui abbiamo appena
parlato corrispondevano inoltre due culture differenti, pressoché opposte
tra loro. Questo fenomeno si può riscontrare sia nella religione che, più in
generale, nell’universo di valori propri di tali classi.
Le divinità agricole venerate dalla
popolazione minuta, di sesso prevalentemente femminile (un ricordo delle quali
rimase, ad esempio, nella Demetra del pantheon classico), si
contrapponevano infatti a quelle solari e maschili dell’aristocrazia guerriera.
Ciò poiché il popolo, che viveva
faticosamente dei prodotti del proprio lavoro, divinizzava istintivamente la
Madre-Terra, mentre l’aristocrazia (che demandava ad altri i lavori agricoli e
si dedicava alla guerra e alle attività di comando) trovava nelle divinità
olimpiche (le quali avrebbero finito per prevalere nei secoli
successivi), nel loro temperamento bellicoso e vanesio, un ideale di
comportamento e una “santificazione” dei suoi stessi valori.
Da una parte vi era dunque il popolo,
i cui membri come vedremo conducevano per forza di cose una vita semplice e si
sostenevano vicendevolmente, dall’altra le classi nobiliari la cui esistenza era
improntata agli eccessi e all’ambizione di conquista.
Ma quel che distingueva veramente il
mondo greco dalle vicine civiltà orientali non era tanto il solidarismo che
vigeva tra le classi popolari (e che caratterizza da sempre la vita di ogni
comunità povera) ma l’esasperato spirito di competizione che divideva gli
esponenti della nobiltà.
Anche altre civiltà del mondo antico
conoscevano un’accesa rivalità tra i membri dell’aristocrazia, la cui ragione
d’essere stava nel desiderio di ciascuno di essi di incrementare il proprio
potere e le proprie ricchezze, spesso attraverso l’amicizia del sovrano che
poteva essere fonte di grandi privilegi. Ma solo nel mondo greco un tale
sentimento divenne la base stessa dell’etica, il principio direttivo del
comportamento dei ceti aristocratici.
Di questo tipo di atteggiamento
mentale sono state date diverse definizioni: Jacob Burckhardt, ad
esempio, parlò di “spirito agonale” (agon in greco significa infatti
lotta, guerra, competizione), mentre Eric R. Dodds definì icasticamente
quella greca “civiltà di vergogna”. Quel che è certo è che, mai come in Grecia,
la figura del maschio combattente divenne un ideale di comportamento
sistematicamente e rigorosamente perseguito.
Per sondare le profondità di questo
spirito possiamo rivolgerci al più celebre poema omerico, l’Iliade, prima
opera letteraria della civiltà occidentale, e ai suoi personaggi. Ettore ad
esempio, nel famoso episodio dell’incontro con la moglie Andromaca e con il
figlioletto, dice:
“Ho tremendamente vergogna dei
Troiani e delle Troiane se mai dovessi fuggire come un vile lontano dalla
guerra” e
“ho imparato a essere valoroso sempre
e a combattere fra i Troiani in prima fila, cercando di conservare la gloria di mio padre.”
e più avanti, nella preghiera che esprime per suo figlio:
“O Zeus e voialtri dei, concedete che
anche questo mio figlio sia, quale appunto sono io, illustre tra i Troiani, e
del pari valente per il suo vigore [...] ed un giorno qualcuno possa dire di
lui, quando torna dal campo di battaglia: costui è molto più forte del padre;
porti egli le spoglie cruente dopo aver ucciso il nemico e la madre si
rallegri in cuore”.
Già da questi brevi passi (così come
da molti altri) si possono evincere i caratteri fondamentali dell’etica greca
del periodo oscuro. Prenderne atto è importante, tra l’altro, perché essi
(seppure ovviamente in forma aggiornata) sopravvissero anche in età classica e
costituirono una delle basi essenziali di tale civiltà.
Il tema fondamentale dell’etica
aristocratica è, senza ombra di dubbio, quello dell’onore o della gloria
(kleos). È un valore primario e totalizzante, che implica il timore del
giudizio della comunità, dei propri simili, e diviene principale forza morale e
sprone dell’azione personale. Un tale desiderio di riconoscimento sociale poi,
travalica anche, e di molto, la brama di ricchezze materiali. Sempre dalla
lettura dell’Iliade, emerge chiaramente come i bottini di guerra (causa
di tante contese tra i principi achei, oltre che dell’evento centrale di tutto
il poema omerico: il rifiuto di Achille di partecipare alla guerra contro il
nemico comune dei Greci) abbiano molto più valore in quanto segno tangibile del
potere e del prestigio tributato a coloro che li ricevono, che non come semplici
beni materiali.
Oltre a questo senso dell’onore, e ad
esso strettamente connessa, vi è poi la volontà dell’eroe di crearsi un seguito
sociale, delle clientele private che siano strettamente legate a lui, sia
per riconoscenza per i favori ricevuti che per il carisma che da egli promana e
che è attestato da imprese che sono sotto gli occhi di tutti. In
quest’ottica, anche la vendetta assume un significato centrale, in quanto
risposta che l’eroe (o comunque colui che si ispira a tali ideali) dà a coloro
che cercano di insediare e mettere in discussione il suo
prestigio.
Ma a queste componenti puramente
individuali se ne aggiungono altre, che vedono un legame molto forte tra l’eroe
o la persona e il suo gruppo di appartenenza, ovvero – come si è già detto – il
suo ghenos o la sua stirpe. Da notare che quest’ultimo concetto può
essere considerato in un senso più o meno allargato: nel primo finisce per
comprendere un intero popolo e un’unica comunità politica, in quanto almeno
idealmente appartenente ad un’unica stirpe; nel secondo invece coincide con la
famiglia, intesa nel senso decisamente più ristretto del gruppo dei
consanguinei, dei parenti.
In quest’ultimo caso, il concetto di
ghenos rimanda all’idea della solidarietà tra i membri di una medesima
casata, ovvero di un’unica discendenza nobiliare. È in questo contesto che si
collocano le eterie, o società nobiliari, che tanta importanza ebbero
nella vita politica dell’età arcaica e di quella classica e post-classica.
Le eterie (da etàiros,
compagno) erano delle associazioni di nobili consanguinei il cui fine era la
conquista del potere politico. Ognuna di esse era di solito in guerra con una o
più rivali. Esse erano dunque espressione e risultato della frattura tra membri
dell’aristocrazia di una medesima comunità, che si combattevano per il potere.
Le eterie erano inoltre divise al loro interno tra differenti gradi di
prestigio e potere, e ciò anche se ciascun affiliato traeva vantaggio
dall’aderirvi, pur dovendo osservare rigidi cerimoniali e obblighi
inderogabili.
Uno di questi obblighi era quello
della vendetta: l’eteria non poteva infatti tollerare alcuna mancanza di
rispetto nei confronti dei propri membri, soprattutto di quelli di più alto
lignaggio. La vendetta era perciò un obbligo dell’intera comunità a difesa
sia del proprio onore che di quello dei suoi membri. Nelle eterie
nobiliari si scorge quindi una logica simile a quella solidaristica e
cooperativista tipica della gente comune, di cui parleremo tra poco. E ciò anche
se non si deve dimenticare che esse erano, prima di tutto, espressione di quel
desiderio d’onore e prestigio sociale che permeava la cultura nobiliare in tutti
i suoi aspetti.
Rafforzando l’aspetto di
clandestinità originario, le eterie divennero poi molto spesso, nel
periodo delle poleis vere e proprie, dei poteri occulti paralleli a
quelli dello stato, attraverso i quali le diverse fazioni nobiliari erano in
grado di influenzare anche pesantemente la vita di
quest’ultimo.
(a.2) La vita e la mentalità della gente comune
Fin qui ci siamo soffermati sulla
concezione aristocratica dell’esistenza, ma non si deve dimenticare che anche il
popolo, la massa dei poveri o della gente comune, aveva una mentalità, degli
stili di vita e un’organizzazione sociale propri.
Certo, data la scarsità delle fonti
in proposito (il primo autore che ci dia una qualche informazione su come si
svolgesse la vita popolare è Esiodo, che tuttavia scrisse in un periodo
successivo di alcuni secoli a quello di cui qui vogliamo trattare), su questi
temi sappiamo ancora meno che su quelli trattati nel precedente paragrafo.
D’altra parte, tutto lascia presumere che in questo stadio della storia greca la
vita sociale fosse ancora molto semplice e primitiva. Essa doveva essere ancora
di carattere tribale, priva cioè di poteri stabili e di una vera e propria
organizzazione politica.
Il potere del sovrano, come si è già
detto, era stato pesantemente ridimensionato dalla disgregazione seguita alle
invasioni doriche e all’imbarbarimento della vita sociale e culturale. Ai
nobili, di cui abbiamo appena parlato, si contrapponevano le classi umili, tra i
cui membri vigeva un regime comunitario e una logica associativa e cooperativa.
La povertà diffusa infatti, rendeva necessaria tra di essi la solidarietà e
l’aiuto reciproco.
Alla smodata ricchezza degli
aristocratici, si contrapponeva la povertà degli umili contadini (cosa questa,
vera anche nel Vicino Oriente). Al mondo dorato e opulento dei primi, si
contrapponeva quello umile e sofferente del popolo; alle religioni olimpiche e
solari delle classi aristocratiche, contraddistinte da un pantheon di dei
immorali e prepotenti, quelle materne e salvifiche degli umili lavoratori della
terra!
La religione fu ovviamente un aspetto
essenziale della cultura delle popolazioni antiche, e la differenza tra queste
due diverse forme di religiosità lascia intravedere quanto distanti dovessero
essere i modi di vita e di sentire di queste due classi.
Anche se della religiosità popolare
sappiamo davvero pochissimo (possiamo fare delle illazioni su di essa sulla base
dei periodi successivi, che conosciamo molto meglio) non è assurdo credere che
tale religiosità avesse un carattere misterioso e iniziatico, e che tendesse ad
avallare l’idea di una ricompensa dopo la morte delle fatiche e dei
soprusi subiti in questa vita – o che in ogni caso fosse fondata su riti
magici e iniziatici che dovevano dare all’adepto, in una vita successiva,
l’accesso a uno stato di felicità e di pace estraneo alla condizione
terrena.
Molto probabilmente sia i culti
misterici attestati per il periodo classico e post-classico (ad esempio, ad
Atene, i riti elusini), sia alcune divinità del pantheon classico (ad
esempio quelle legate alla terra, come Demetra, o al culto della natura,
come Dioniso) furono un’eredità della religiosità popolare di questi
periodi primitivi della storia greca.
Un aspetto paradossale su cui vale la
pena di soffermarsi è come la religiosità “solare” delle classi aristocratiche
fosse in realtà molto più buia e pessimistica, in particolare riguardo alla vita
dopo la morte, di quella delle classi umili, che nella religione trovavano un
conforto alle fatiche e ai soprusi quotidiani e, in qualche modo, la speranza in
una vita migliore. Al contrario, la concezione aristocratica considerava
l’esistenza dell’uomo come una fugace apparizione destinata a cadere presto nel
nulla, la cui unica (ma poco consolante) chance di eternità stava nel
lasciare dietro di sé un durevole ricordo (convinzione da cui, ovviamente,
discendevano il culto della gloria e dell’onore).
La similitudine tanto spesso
ricorrente nell’Iliade di Omero, e nella tradizione poetica successiva,
tra le generazioni umane e le foglie, accomunate da una analoga caducità,
o la famosa affermazione che Omero pone in bocca al fantasma di Achille
nell’Odissea: “preferirei essere vivo, anche schiavo del più umile dei
padroni, che essere il principe dei morti”, ci danno un’idea del profondo
pessimismo della visione aristocratica, in particolare in merito al problema
della vita dopo la morte. Al contrario, pur nella consapevolezza dell’iniquità
dell’esistenza, le classi popolari erano a loro modo anche portatrici di valori
vitalistici positivi.
In ogni caso, in entrambe queste
forme di religiosità emerge la consapevolezza – tipicamente greca – della
fragilità e della grandezza dell’uomo, e l’aspirazione a una
condizione di stabilità ed equilibrio cui si affianca la coscienza
dell’irrimediabile caducità della vita umana. Una visione problematica che pare
contenere già i semi di molti aspetti della cultura greca classica più
matura.
(a.3) La guerra come valore e monopolio dell’aristocrazia
Infine, un’altra differenza
essenziale tra popolo e aristocrazia stava nel differente rapporto con la
guerra.
Può apparire strano agli occhi di noi
moderni, abituati a considerare quest’ultima come un dovere e una tragica
incombenza, che in tali società essa fosse vista invece come un
privilegio, un segno di distinzione sociale. Ma la cosa non deve del
tutto stupirci, a ben vedere. Vi sono essenzialmente due ordini di ragioni che
giustificano questo fatto.
Innanzitutto vi è un fattore
sociale, presente peraltro – seppure con esiti molto differenti – anche
nel vicino mondo orientale. Armare il popolo infatti avrebbe potuto essere molto
pericoloso, data la condizione di minorità in cui esso era tenuto! Anche per
questo la guerra era il “lavoro” dei nobili, mentre la gente comune doveva
dedicarsi soprattutto all’agricoltura, e più in generale allo svolgimento di
attività pacifiche.
Anche nei grandi stati
medio-orientali vi era questo problema, ma l’ampiezza e la ricchezza dei
territori permettevano ai sovrani e ai loro funzionari di acquistare le
prestazioni di eserciti mercenari, spesso stranieri e quindi del tutto
disinteressati alle implicazioni che le loro attività avrebbero avuto per le
popolazioni locali.
Inoltre, gli eserciti dovevano essere
attrezzati, e i piccoli sovrani feudali della Grecia non avevano certo i mezzi
economici necessari a questo scopo. (Su questo discorso torneremo avanti, quando
parleremo della polis arcaica e della trasformazione di essa in direzione
della democrazia). Al contrario, i poteri statali dei vicini imperi asiatici
disponevano di solito di sufficienti ricchezze per adempiere a questa
incombenza.
Le motivazioni appena descritte, di
carattere essenzialmente pratico, contribuiscono a spiegare la fondamentale
estraneità del popolo alla guerra, ovvero il fatto che essa rimanesse
sostanzialmente un “affare dei nobili”, i quali non a caso costituivano una vera
e propria classe guerriera in seno alla società (per inciso, anche nel Vicino
oriente i re si vantavano spesso di essere grandi generali e condottieri, mentre
tra gli alti funzionari vi era una categoria – quella militare – specializzata
nella guerra. Ma il mestiere di combattere era comunque svolto prevalentamente
da soldati mercenari di estrazione popolare).
Vi era tuttavia anche un altro ordine
di ragioni, di carattere più spiccatamente culturale, che determinava
questa ripartizione delle mansioni sociali.
Il bisogno delle classi alte di
distinguersi da quelle inferiori non poteva infatti passare attraverso molti
canali. In assenza delle scienze e delle arti, al tempo ancora pressoché
sconosciute (se si esclude la poesia, ovvero la composizione ad opera degli
aedi di opere celebrative delle azioni guerresche dei nobili, che era
comunque considerata più che altro un mestiere, al pari delle arti plastiche),
l’unico valore che potesse creare un chiaro discrimine tra nobili e
plebei era appunto la guerra, l’azione violenta vista come prova di coraggio e
di valore personale che innalzava il singolo al di sopra degli altri membri
della comunità.
D’altra parte, la boria dei nobili
nei confronti del popolo e del lavoro manuale che esso doveva svolgere (al tempo
peraltro, dato il basso livello di sviluppo tecnologico, davvero massacrante) fu
un tema costante di tutto il mondo antico, e non solo di quello
greco.
Vedremo meglio più avanti le pesanti
ripercussioni che tale atteggiamento ebbe sugli sviluppi sociali e politici di
quest’ultimo. A questo riguardo, osserva giustamente Chester G. Starr (Storia
del mondo antico) come non vi sia da stupirsi se, in un mondo in cui tutto o
quasi il lavoro doveva essere svolto attraverso la forza fisica – seppure spesso
con l’aiuto degli animali – una delle principali rivendicazioni aristocratiche
fosse appunto quella di non dover praticare attività di questo tipo e di potersi
dedicare invece ad attività superiori, quali appunto – specialmente nei periodi
più antichi – quelle inerenti alla guerra.
(a.4) Società e cultura
Vogliamo cercare adesso di riassumere
quanto detto, dedicando particolare attenzione a un tema fin qui solo sfiorato,
quello cioè del rapporto di influenza reciproca che sussisté tra i dati
culturali e i dati sociali sopra delineati.
Il nostro racconto è iniziato un po’
arbitrariamente con le invasioni (comunemente dette doriche) che, nel
XIII secolo, diedero avvio alla cosiddetta età oscura della storia greca.
La Grecia, già povera di suo (soprattutto se paragonata ai grandi imperi del
Vicino Oriente), venne da tali eventi gettata in uno stato di instabilità
politica e di arretramento culturale e sociale che ne determinò un ulteriore
impoverimento.
Il progressivo sgretolamento
dell’organizzazione statale micenea determinò, soprattutto in certe zone, uno
stato sempre meno latente di anarchia feudale e di conflitti tribali. Il
sovrano, ridotto difatti a un primus inter pares, non aveva più gli
strumenti materiali e morali per tenere a freno lo spirito naturalmente
ambizioso dei potentati locali, che per tale ragione tendevano sempre più a
combattersi.
Fu molto probabilmente in questo
clima di anarchia e di disordine generalizzati, che prese forma quello “spirito
agonale”, quel culto dell’onore e dell’affermazione individuale che segnò non
solo il periodo oscuro ma più in generale, pur con inevitabili trasformazioni,
tutte le stagioni della storia greca. Un così accentuato spirito di competizione
poi – fondamentalmente estraneo alle élites funzionariali dei vicini stati
asiatici, stabilmente asservite al potere direttivo del sovrano – favoriva una
recrudescenza di quello stesso disordine sociale e politico che l’aveva
creato.
Ma in un tale atteggiamento mentale –
che a tutta prima potrebbe apparire solo negativo – era latente anche uno dei
caratteri più prolifici del mondo greco. Il sentimento dell’indefinita
libertà umana, l’idea di potersi spingere sempre oltre i confini già
raggiunti, l’ansia della ricerca e della scoperta sarebbero infatti germogliati
nei periodi successivi in quelle grandi creazioni che hanno fatto dei Greci i
padri della moderna civiltà europea.
Possiamo dire che l’esasperato
individualismo e l’estrema ambizione che caratterizzarono i Greci, resero un
tale popolo – assieme peraltro ad altri, come ad esempio i fenici, ma con
un’intensità ancora maggiore – il prototipo di un’umanità sempre protesa
verso il nuovo, verso l’indagine e la scoperta, in contrasto con la passività,
il materialismo e il conservatorismo mentale e politico dei vicini popoli
asiatici, per tradizione assuefatti al pesante giogo della schiavitù al Re e
allo Stato.
E proprio in un tale spirito
inquieto, ci è dato di scorgere i semi di quella vita culturale che il popolo
greco seppe sviluppare e – almeno da un certo momento in avanti – diffondere in
tutto il mondo mediterraneo.
Accanto allo spirito agonale della
nobiltà, abbiamo poi rilevato la presenza di un altro tipo di mentalità,
peraltro ancora più difficile da decifrare data la pressoché totale mancanza a
riguardo di fonti scritte: quella del popolo.
Caratterizzata da un’estrema
rassegnazione alle privazioni e alla povertà, tale mentalità era senza dubbio il
prodotto del secolare asservimento delle masse popolari allo strapotere
economico e politico della nobiltà terriera, la quale inoltre deteneva su di
esse anche il privilegio delle armi.
Al pari di quella agonale e nobiliare
anche questa concezione, la cui caratteristica morale era un più accentuato
spirito di fratellanza e solidarietà tra i propri membri (nonché, in un ambito
propriamente religioso, un’istintiva venerazione per la Madre-Terra),
contribuirà a dare forma alla civiltà ellenica dei secoli
successivi.
Mostreremo infatti, nei prossimi
paragrafi, che le fasi arcaiche e classiche della storia greca furono,
soprattutto nei loro aspetti politici, risultato in gran parte dell’incontro tra
queste due diverse ed opposte ispirazioni.
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