STORIA ROMANA |
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MARCO TULLIO CICERONE
Fu proprio in Grecia che maturò l'adesione al genere oratorio detto appunto "rodio", nonché l'ideale di una cultura enciclopedica, accademica, per lo più eclettica e sicuramente anti-epicureista. Andò in Grecia subito dopo aver difeso in tribunale, nell'80, un certo Roscio di Ameria, accusato di parricidio da un protetto del dittatore Silla. E' infatti sotto la dominazione di Silla che il giovane avvocato comincia a fare carriera. In quegli anni l'aristocrazia, potentissima, abusava enormemente del proprio potere; le sue rappresaglie, dopo la fine di Mario, furono molto cruente (duemila teste di cavalieri e senatori erano appena state tagliate), potendo sfruttare l'espediente delle proscrizioni, inventato da Silla, che permetteva di legalizzare l'assassinio. Roscio non era che uno sventurato ridotto sul lastrico dalle spoliazioni dei partigiani di Silla, e siccome era stato accusato d'aver ucciso il padre, nessuno voleva difenderlo. Lo fece il giovane Cicerone, che facilmente poté dimostrare l'assenza di prove e che dietro l'accusa si nascondeva uno dei più potenti liberti di Silla, il ricco e dissoluto Crisogono. Cicerone lo accusa senza mezzi termini e, con lui, il regime di Silla. Il successo della requisitoria fu tale che Cicerone entrò subito nelle grazie del partito democratico. Tuttavia, per sicurezza, col pretesto d'un aggiornamento culturale, se ne andò appunto ad Atene. Poi per fortuna nel 78 muore Silla. Al suo ritorno sposò nel 77 Terenzia, che faceva parte, già da molti secoli, della classe dirigente. Oltre alla nobiltà, Terenzia portava al marito una cospicua dote: 100.000 sesterzi (qualcosa come 200.000 euro), alcuni poderi e immobili a Roma. Il successo per Cicerone non tarda ad arrivare: nel 75 ottiene la questura di Lilibeo, in Sicilia, dove si distinse per la sua integrità; nel 70 assume l'accusa di malversazione contro un ex-governatore della Sicilia, Gaio Verre, che aveva letteralmente depredato l'isola, spogliandola delle opere d'arte e che per questo e altri reati verrà costretto all'esilio. Nel 69 diventa edile e nel 66 pretore. In quell'anno, in un'orazione, si pronuncia in favore del trasferimento del comando della guerra contro Mitridate da Lucullo a Pompeo. La sua veloce carriera dipende anche dal fatto che riesce a scegliere con grande oculatezza gli inquisiti da difendere: dovevano essere non particolarmente invisi alla classe dominante e in grado di pagare favolose parcelle (che potevano anche essere veri e propri lasciti testamentari: è stato calcolato che alla sua morte, in 30 anni di carriera, Cicerone abbia speso almeno 150 milioni di sesterzi, cioè circa 300 milioni di euro, di cui si ignora la provenienza). (1) Nel 64 ottiene il favore dei nobili per l'elezione a console, contro Catilina. E infatti nel 63 viene nominato. Era talmente ben visto anche dalla gente comune che pare non avesse speso nulla per la campagna elettorale. Nessun uomo politico del suo tempo conquistò così facilmente le più alte cariche: gli stessi Catone, Cesare, Pompeo ebbero bisogno di coalizioni e di brogli per avere successo. Le sue orazioni più famose restano quelle contro Catilina, capo del partito popolare, reo di aver congiurato contro lo Stato. Esse rappresentano il vertice dell'oratoria ciceroniana, ma anche l'inizio del declino della sua carriera. Sconfitto da Cicerone, Catilina viene bandito da Roma, poi sconfitto con le sue truppe e ucciso in battaglia. Ma Cicerone vuole inspiegabilmente infierire contro questo personaggio ordinando di giustiziare, senza regolare processo, altri cinque suoi complici. (2) Ne approfitta un tribuno della plebe, Clodio, che nel 58 riesce a far passare una legge che condannava all'esilio chiunque avesse fatto uccidere un cittadino romano senza la regolare sanzione del popolo. Cicerone lascia Roma per Tessalonica e di lì per Durazzo. La sua casa sul Palatinato viene distrutta. Ma già un anno dopo, per decreto dei comizi, Cicerone può rientrare in patria, pronunciando quattro discorsi contro i clodiani. Poi, con l'aiuto di Catone Minore, fa in modo che il tribuno Milone, in una rissa sulla via Appia, uccida a tradimento Clodio e massacri altri suoi parenti. Nel 52 Cicerone assume la difesa di Milone, ma inutilmente, perché la folla lo costringe a fuggire. Ormai si sente sempre più estraneo al partito democratico e sogna, senza successo, di creare un nuovo partito, col favore di Cesare e Crasso e con l'appoggio della classe equestre, cioè i cosiddetti "cavalieri" che traggono fortuna, non avendo titoli nobiliari, direttamente dalle guerre e che investono i loro capitali nei paesi conquistati, sfruttando al meglio il privilegio d'essere degli industriosi cittadini romani. Infatti, ovunque arrivino le armi romane, i cavalieri diventano banchieri, commercianti, esattori delle imposte e finiscono con l'accumulare ingenti ricchezze. Cicerone tenta di fare di questo nuovo ceto medio la base di quel partito moderato che vuole creare. Tuttavia i cavalieri, questa borghesia ante litteram, non hanno la forza del numero come i plebei (piccola borghesia, operai, artigiani, contadini liberi), né quell'esperienza di governo che hanno mantenuto così a lungo al timone la nobiltà. I cavalieri sono istintivamente attratti più dalla ricchezza che dal potere e preferiscono l'ordine alla libertà. Ecco perché ad un certo punto si orienteranno decisamente verso Cesare. All'insorgere della rivalità tra Cesare e Pompeo cercò, inizialmente, di non prendere posizione. Tra l'altro nel 56 aveva proposto e ottenuto dal Senato la conferma a Cesare del governo della Gallia. Tuttavia, non si sentiva tranquillo. Il fatto stesso che cercasse d'avvicinarsi al partito dei nobili lo rendeva inviso ai democratici. Sicché alla fine del 52 accetta di andare a governare la provincia di Cilicia, in Asia Minore, vasta e minacciata d'invasione dai Parti. Nel 51 ottiene una piccola vittoria contro dei ribelli e chiede di essere acclamato col titolo di imperator. Naturalmente ciò non ha alcuna conseguenza politica e l'unica cosa certa di questo proconsolato fu che gli fruttò ben 3.200.000 sesterzi (6.400.000 euro). All'inizio del 50 è di nuovo in Italia e allo scoppio delle ostilità tra Cesare e Pompeo decide di seguire quest'ultimo in Grecia. Una malattia però gli impedisce di prendere parte alla battaglia di Farsalo (49). Dopo la sconfitta, torna in Italia (47), consapevole che Cesare non infierirà su di lui, a condizione ovviamente ch'egli si astenga dal fare politica. Infatti, durante la dittatura di Cesare egli si dedica esclusivamente agli studi e alle pubblicazioni dei trattati retorici e filosofici, nonché all'attività giudiziaria, in cui difende due personaggi ostili a Cesare. In questi anni però si conclude anche il matrimonio con Terenzia che gli chiede il divorzio per salvare i propri beni mobili e immobili insidiati dal marito. Si risposa con la ricca Publilia, una ragazza più giovane di sua figlia, che a 31 anni era morta di parto: lo fa semplicemente per pagare i debiti del divorzio, infatti dopo pochi mesi la ripudia. L'assassinio di Giulio Cesare nel 44 lo riporta alla ribalta, anche perché Bruto lo esalta come vero democratico. Ottaviano però, figlio adottivo del dittatore, è deciso a marciare con le sue legioni su Roma per vendicare Cesare. Una folla di cittadini di vari ceti sociali, tra cui forse lo stesso Cicerone, va incontro ad Ottaviano per testimoniargli la propria devozione ed evitare un massacro. Cicerone è convinto di poter trovare in Ottaviano un alleato contro Antonio e lancia una serie di filippiche contro quest'ultimo, fatto passare come erede del dispotismo cesariano. Senonché i due segretamente prendono contatti con Lepido, uomo politico legato a Cesare, e formato un triumvirato, con l'intenzione di far fuori tutti i nemici di Cesare. Nella lista di proscrizione Cicerone è il primo. E' soprattutto Antonio, più che Ottaviano, a volerlo morto. Egli quindi decide di rifugiarsi nella sua villa di Astura, da dove potrebbe imbarcarsi verso l'Oriente. Vi trascorre solo la notte. L'indomani s'imbarca per Gaeta. Lo raggiunge un distaccamento di soldati guidato da un tribuno di nome Popilio, che ha ai suoi ordini un centurione, Erennio, che proprio Cicerone, molto tempo prima, aveva difeso da un'accusa di parricidio. E' proprio lui che taglia a Cicerone testa e mani e che le porta ad Antonio, il quale le fa esporre ai Rostri, la tribuna del Foro romano, dove tante volte aveva parlato l'oratore. [1] Cicerone infatti sperperava tutti i suoi averi nell'esibizione di un lusso smodato, che lo equiparasse all'alta società. I suoi redditi fondiari si aggiravano sui 500.000 sesterzi l'anno (un milione di euro). Altri redditi gli venivano dalle numerose "insule", case popolari, che aveva acquistato a Roma e dato in affitto (non perdonò mai Cesare che aveva condonato ai poveri un anno di affitti arretrati). Aveva sette ville fastose il cui mantenimento gli costava più di quanto gli rendessero. (Qui si suppone che un sesterzio valga circa due euro: vedi scheda) Da un prestito da lui richiesto, nel 44, per il normale ménage familiare di cinque mesi, risulta che spendeva 40.000 sesterzi al mese (80.000 euro), ma con un potere d'acquisto di molto superiore. Il reddito di un artigiano libero era di circa 10.000 sesterzi l'anno (20.000 euro). Cesare, che gli prestò, in un'unica soluzione, ben 800.000 sesterzi al tasso di favore del 2,50% (metà di quello normale), non rivide più la somma. (torna su) [2] Oggi la critica è molto meno severa nei confronti di Catilina, che viene ritenuto al massimo un demagogo e certamente non un terrorista, come invece vollero far credere Sallustio e lo stesso Cicerone e Catone Minore. Catilina cercò di ottenere democraticamente per quattro volte l'elezione al consolato e solo alla quinta pensò di forzare la mano, facendo chiaramente capire che la direzione politica dell'impero andava tolta al senato e affidata a una figura carismatica, in ciò anticipando quella che sarà la posizione di Cesare, Marco Antonio e dello stesso Ottaviano. Catilina fu un demagogo perché pensò di arrivare alla dittatura politico-militare, servendosi dell'idea di condonare i debiti ai piccoli-medi proprietari non in grado di pagarli. Ma l'idea di Cicerone di tenere uniti i ceti con interessi contrapposti e soprattutto di tenere unita la "toga" (il senato) colla "spada" (gli eserciti) era del tutto illusoria, rispetto alla crisi drammatica della repubblica. Cicerone voleva addirittura coinvolgere Cesare e Crasso nell'accusa di tramare
contro la legalità. Cesare infatti riteneva il caso dubbio e preferiva l'esilio
e la confisca dei beni alla condanna a morte. Ma poi Cicerone, insieme a Catone
Minore, disse di voler confermare la condanna a morte "secondo il costume degli
antichi", cosa che in realtà soltanto la flagranza di reato, la confessione e un
regolare processo suscettibile di appello al popolo giustificavano: non a caso la pena di morte
era stata soppressa sin dal 195 a.C. per i cittadini
romani. S. L. Utčenko, Cicerone e il suo tempo, Editori
Riuniti, Roma 1975 Il tramonto dell'oligarchia senatoria e il riformismo dei GracchiMario, l'uomo nuovoSilla, il difensore dell'oligarchia senatoriaIl dopo-Silla: Pompeo al potereLa lotta tra Cesare e PompeoLa lotta tra Ottaviano e Marco AntonioEnrico Galavotti |
- Stampa pagina Aggiornamento: 11/09/2014 |