STORIA ROMANA


Il valore delle monete romane

Moneta del I sec. a.C. con scena sacrificale prima di una votazione

Prima della coniazione vera e propria, la diffusione della moneta a Roma era affidata a lingotti di bronzo il cui valore era quello del metallo stesso e dipendeva dal peso.

La nascita della coniazione della moneta, sempre in bronzo, avviene alla fine del IV sec. a.C., su iniziativa e responsabilità statale e recanti, sul dritto e sul rovescio, i segni di riconoscimento della fonderia pubblica e del valore di scambio, ossia tutti i requisiti essenziali della moneta.

Queste monete, pesanti e scomode, avevano un valore intrinseco insufficiente rispetto alla mole degli scambi commerciali. Anche se l’uso della moneta ridusse progressivamente il baratto fino a farlo pressoché scomparire e contribuì fortemente allo sviluppo della città, della economia e della potenza romana.

Nel 217 a.C., durante la seconda guerra punica, con la legge Flaminia si effettuò un alleggerimento del peso dimezzandolo, e nell’anno 89 a. C. con la legge Papiria, si procedette ad un ulteriore dimezzamento. I vari alleggerimenti nel peso del metallo non toccarono però il potere nominale di scambio, che rimase invariato, e così il valore reale delle monete si fece minimo rispetto a quello nominale, avviandosi in pratica ad acquistare soprattutto un valore convenzionale o legale attribuito in forza di legge; questo fu il primo clamoroso esempio di svalutazione monetaria che si sarebbe ripetuto poi molte altre volte nel corso della storia romana.

Il sistema basato sul bronzo andava bene per uso interno ma era inadatto al commercio con l’oriente e la Magna Grecia, dove occorreva moneta di valore intrinseco reale. Ed allora Roma si decise a coniare monete in argento somiglianti alla dramma greca e poi, nel 269 a.C. iniziò una monetazione argentea propria basandola sul denario: un denario equivaleva a due quinari oppure a quattro sesterzi oppure a 10 Assi.

Inizialmente si scelse l'argento perché si riteneva che le monete d'oro racchiudessero un valore troppo alto in un volume troppo piccolo. Non a caso i romani esigevano che i popoli vinti pagassero il bottino di guerra in monete d'argento ed era considerato un trattamento di favore autorizzarli a usare monete d'oro.

L'uso delle monete d'oro s'impose solo dopo la discesa di Annibale in Italia, per pagare i militari, e soprattutto dopo le conquiste dei paesi orientali, dove questa moneta era in vigore da secoli.

Denari, aurei e sesterzi per i Romani divennero anche strumento di propaganda politica: le immagini di conio riportavano le effigi degli imperatori, ne celebravano le imprese e le qualità.

Fino al III sec. d.C. la moneta più diffusa nel mondo romano fu il sesterzio (prima in argento poi in bronzo), il cui valore era abbastanza basso per non aver bisogno di sottomultipli, ma anche abbastanza elevato da rivelarsi comodo nelle valutazioni dei cambi correnti.

Oggi è molto difficile stimare in euro il valore di un sesterzio, anche perché quello che conta è in ultima istanza il potere d'acquisto effettivo di una moneta, che sicuramente cambiò molto nel corso del millennio della storia romana.

P.es. ai tempi di Catilina (63 a.C.) la produzione di metalli preziosi era del tutto insufficiente rispetto alla ricchezza reale, sicché il prezzo del denaro era alto. Conseguenza inevitabile di ciò fu l'insolvenza dei debiti contratti. I piccoli e medi proprietari terrieri finirono sul lastrico, determinando la concentrazione latifondistica della terra.

Sappiamo che nel 161 a.C. a Pompei la spesa prevista per un pranzo comune era di 10 sesterzi. Ma quanto valeva un sesterzio?

Ottaviano Augusto nel 23 a.C. riordinò il sistema monetario anche per farlo corrispondere alla vastità e alla ricchezza dell’impero, fondandolo sull’oro e sull’argento e cercando di riportare il valore intrinseco delle monete vicino al loro valore nominale.

Nel I sec. d.C. un aureo (moneta d'oro) era corrispondente a 25 denari (moneta d'argento), 100 sesterzi (moneta di bronzo), 400 assi (moneta di bronzo). Quindi un denario corrispondeva a 4 sesterzi e un sesterzio a 4 assi.

Con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme. Quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa due €.

Oltre due secoli dopo (fine del III secolo d.C.) per comprare 6,5 chili di grano occorrevano 240 sesterzi (ce ne volevano tre nel I secolo d.C.). Quindi a causa dell'inflazione il sesterzio si era svalutato di 80 volte: approssimativamente il suo valore potrebbe essere calcolato a poco più di due centesimi di €.

Crasso, uno degli uomini più ricchi di fine Repubblica, aveva un patrimonio stimato in 192 milioni di sesterzi, e il suo "collega" Giulio Cesare, nei nove anni di campagna in Gallia, fece oltre un milione di prigionieri che vennero venduti come schiavi a Roma ed ai popoli vicini. I tributi imposti ai popoli non rendevano nemmeno una minima parte di quello che si ricavava dalla vendita di schiavi. Se pensiamo che a tutta la Gallia Cesare impose un tributo annuo di 40 milioni di sesterzi, che in nove anni portò a Roma 360 milioni, quanto ricavò dalla vendita degli schiavi, considerando che il prezzo di ognuno di loro si aggirava sui 1.200-2.500 sesterzi?

La borghesia più bassa, esclusa dal potere pubblico, doveva avere almeno 5.000 sesterzi di rendita annuale, mentre quella dell'ordine equestre partiva da un censo minimo di 400.000 sesterzi: meno della metà rispetto al milione di sesterzi che come minimo doveva avere un senatore. Un cittadino poteva rivolgersi al Senato di Roma soltanto per cause dal valore maggiore di 15.000 sesterzi.

Ma nella Roma di Traiano 20.000 sesterzi di rendita erano appena sufficienti per le necessità vitali del piccolo borghese. Il poeta Giovenale limita a 400.000 sesterzi il capitale di un uomo equilibrato che sappia accontentarsi di 20.000 sesterzi di rendita, al di sotto della quale regnava l'indigenza.

Plinio il Giovane possedeva un capitale non inferiore ai venti milioni di sesterzi, eppure si dichiarava di modicae facultates e costretto a vivere di vita frugale.

Ecco un brano interessante di Petronio (morto nel 66 d.C.), tratto dai  Saturnali o Satyricon LXXVI, in cui il liberto Trimalcione diventa ricco:

"Mi venne voglia di mettermi nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi, le riempii di vino – e allora si pagava a peso d’oro – e le spedii a Roma. Potresti pensare che l’avessi ordinato io: tutte le navi naufragarono; ed è la realtà, non è una storia. In un solo giorno Nettuno si era divorato 30 milioni di sesterzi. Pensate che mi sia arreso? Per Ercole, questi fatti non mi toccarono nemmeno, come se non fosse successo nulla. Ne costruii delle altre, più grandi, più robuste e più belle, perché nessuno dicesse che io non sono un uomo coraggioso. Sai, una grande nave ha una grande robustezza. Le riempii di nuovo di vino, lardo, fave, profumi e schiavi. A questo punto Fortunata fece un bel gesto: vendette infatti tutti i suoi ori ed i suoi vestiti e mise nelle mie mani 100 monete d’oro. Questo fu lievito per il mio patrimonio. Si fa presto quello che gli dei vogliono. Con un solo viaggio mi tirai su 100 milioni di sesterzi. Subito mi sono ricomprato tutti i terreni che erano appartenuti al mio padrone. Mi costruisco una casa, compro mercati di schiavi e giumenti; tutto quello che toccavo cresceva come un favo di miele. Quando presi a possedere io più di quanto tutta la mia patria messa insieme possiede, passai la mano: mi ritirai dal commercio ed iniziai a fare prestiti ai liberti".

I prestiti ai liberti spesso erano usurai, al punto che per frenare questa pratica, assai diffusa, già nell’anno 357 a. C. con la legge Menenia venne stabilito un interesse massimo annuo dell’8%.

A partire dal III secolo d.C. l’economia e la politica romane incontrarono molti eventi negativi, determinati soprattutto dall'aumento delle spese imperiali e soprattutto militari: il che portò a svalutazione e inflazione dei prezzi, con conseguente scomparsa delle monete in metallo pregiato. Si cercò rimedio aumentando la produzione dell’oro e imponendo il blocco dei prezzi come fece Diocleziano, ma inutilmente, perché le monete persero inesorabilmente gran parte del loro valore reale conservando solo quello nominale stabilito dalla legge.

L’imperatore Costantino cercò, agli inizi del III secolo, di riorganizzare il sistema monetario dando maggiore importanza all’oro con una prestigiosa moneta: il solido, che durò a Roma fino al V secolo e si protrasse molto nell’oriente bizantino

Le monete in argento e in bronzo di Costantino degenerarono invece in pezzi sempre più piccoli e leggeri arrivando infine nel V secolo a valori minimi.


Fonti
La moneta nell'immaginario latino (pdf)
Vicino ed Estremo oriente: forme dello scambio monetale (pdf)
L'eredità di Tolomeo e le monete di Silla (pdf)
cfr Riforme monetarie
R. Bartoloni, Monete di Roma imperiale, Mondadori, Milano 1996
G. G. Belloni, La moneta romana. Società politica cultura, La Nuova Italia, Firenze 1993
G. Mazzini, Monete imperiali romane, Milano 1957-58
M. North, La storia del denaro, ed. Piemme, Casale Monferrato 1998
M. Crawford, La moneta in Grecia e a Roma, 1982
1. Coordinate generali del periodo (VI - III sec.)
2. I principali eventi politici interni
3. I principali eventi politici esterni
La condizione schiavile
La rivolta di Spartaco
Enrico Galavotti

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014