t.me/multipolare

Edizione febbraio-giugno 2024

Pubblicizza questo libro come credi, anche facendone oggetto di commercio, ma se lo modifichi non attribuire a me cose che non ho mai detto, a meno che tu non pensi di contribuire alla causa di un socialismo davvero democratico.

MIKOS TARSIS

IL CROLLO OCCIDENTALE


DIARIO DEL 2024


(febbraio-giugno)





E' facile amare il tuo amico,

ma a volte la lezione più difficile da imparare è amare il tuo nemico.


Sun Tzu







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Nato a Milano nel 1954, laureatosi a Bologna in Filosofia nel 1977,

già docente di storia e filosofia, Mikos Tarsis (alias di Enrico Galavotti) si è interessato per tutta la vita a due principali argomenti:

Umanesimo Laico e Socialismo Democratico, che ha trattato in homolaicus.com e ora in t.me/multipolare.

Per contattarlo:

info@homolaicus.com

Sue pubblicazioni su Amazon.it


Premessa


Tutto può accadere nella vita, anche una guerra mondiale. In fondo i miei nonni ne vissero due. I miei genitori invece, nati negli anni Trenta, sorbirono una parte del fascismo e la seconda guerra.

La mia generazione invece, nata verso la metà degli anni Cinquanta, poté beneficiare del boom economico (che, in genere, è inevitabile dopo ogni catastrofe), e poi si lasciò invischiare nel decennio di fuoco e di piombo, che va dalla contestazione operaio-studentesca del 1968 fino al delitto dello statista Aldo Moro del 1978. Dopodiché dominò incontrastato il reflusso, il revisionismo, il progressivo smantellamento dello Stato sociale e quindi dei diritti acquisiti.

Oggi assistiamo alla dichiarata sottomissione coloniale dell'intera Unione Europea nei confronti dell'impero americano. Si era notata questa cosa, solo però sul piano militare, quando la NATO poteva andare a bombardare tranquillamente la Jugoslavia socialista. Poi, sempre sul piano militare, lo si è visto nelle guerre contro l'Irak, l'Afghanistan, la Libia, la Siria ecc. Tutte guerre che non sono servite ad altro che a rubare risorse altrui (soprattutto quelle energetiche), a sperimentare e vendere armi di propria fabbricazione, a posizionare in punti strategici varie basi militari... Per il resto infatti tutto ciò ha lasciato dietro di sé solo enormi tragedie umane e ambientali.

Ma con la guerra russo-ucraina si è assistito anche a una chiara sottomissione coloniale di tipo economico e finanziario. La rottura dei rapporti con la Russia ha reso inevitabile il declino dell'Europa, che non è più in grado di competere né con gli USA né con la Cina.

Non è solo problema di "deindustrializzazione". Se fosse solo questo, potremmo anzi rallegrarcene: la natura avrebbe sicuramente da soffrire di meno. Il vero problema è che all'orizzonte non si profila alcuna vera alternativa. Siamo così abituati a una vita artificiale indotta dal macchinismo, che non sappiamo più cosa voglia dire vivere una vita normale.


p.s. All'inizio di questo diario avevo intenzione di parlare di vicende non così drammatiche come le guerre russo-ucraina e israelo-palestinese, che mi han fatto perdere il sonno. Ma dopo pochi giorni mi ero già pentito. Preferisco farmi schiacciare dal peso dei problemi mondiali.

Febbraio




1 febbraio


Filosofia della rottamazione


Stamattina ho comprato una Panda dal costo, chiavi in mano, di 13.000 euro, una scemenza rispetto agli standard attuali. In alternativa avevo la Dacia Streetway, ben più capiente, pur con la stessa cifra, ma siccome la fanno in Romania, mi sembrava di fare uno sgarbo al "patriottismo", visto che la Panda viene prodotta a Pomigliano d'Arco, dove lavorano ben 4.000 persone.

Sono il solito ingenuo. Stellantis in realtà se ne frega dell'Italia, tant'è che la Panda elettrica la farà produrre nel 2026 in Serbia. Dobbiamo smettere di pensare che acquistando "italiano" si fa un favore al nostro Paese. Se guardo cos'ho addosso d'italiano, probabilmente solo i miei capelli bianchi.

Ho chiesto che fine avrebbe fatto la mia gloriosa Clio Storia della Renault (40.000 km dal 2008, quindi usata pochissimo), che mi ha sempre voluto bene, anche se non la sua carrozzeria. Mi è stato risposto che verrà trasformata in un cubo pressato per il cimitero di Savignano sul Rubicone. Peccato, un immigrato avrebbe festeggiato come me se avesse potuto comprarla a 1.000 euro. Ma così va il mondo. Se voglio avere i 2.000 euro di rottamazione, devo proprio portarla al cimitero, anche se perfettamente funzionante sia a benzina che a GPL. E pensare che altri 60.000 km avrebbe sicuramente potuto farli.

Naturalmente abbiamo parlato del colore. L'impiegato mi ha detto che se volevo spendere il meno possibile, me l'avrebbe data nera. Tutti gli altri colori costavano 600 euro in più. Con la Dacia il colore base era invece il bianco; con la Clio l'orribile arancione.

Inevitabilmente gli ho chiesto: "Ma scusa anche il bianco costa più del nero?". "Quest'anno la Fiat ha deciso così", ha risposto. Naturalmente ho pensato all'attuale governo di destra e mi sono adeguato...

Quando poi ho letto nel contratto ch'era del tipo "Nero Cinema" m'è venuto quasi da ridere. Una volta avremmo detto "Nero Seppia" o "Nero Inchiostro". Più intrigante ancora sarebbe stato "Nero Anima", come quel liquore alla liquirizia che, secondo la pubblicità, ha "una personalità unica e decisa". Con una Panda al massimo si può giusto andare al cinema! Ma dov'è il "nero" al cinema? Quando spengono le luci?


2 febbraio


Preoccupante il caso Salis


Strano che i due neonazisti malmenati da Ilaria Salis non l'abbiano denunciata. Forse perché avevano contusioni da ridere. Non riesco a immaginarmi una maestra elementare di 39 anni con un manganello che procura "lesioni potenzialmente letali" (come sostiene l'accusa) a due maschi nerboruti. Scommetto che quando in aula è entrata sorridendo, era per far vedere che ha un coraggio indomito. Solo che dichiarandosi innocente e quindi rifiutando il patteggiamento di 11 anni, ora ne rischia più di 20. Se penso che lo youtuber Matteo Di Pietro ha patteggiato 4 anni e 4 mesi e ha evitato il carcere, pur avendo ucciso un ragazzino di 5 anni andando a 120 orari, mi vien da pensare che il nostro Paese è per i criminali una cuccagna. Dopo per forza che ti costringono a unire politica a diritto.

Comunque in Ungheria son messi male. Invece d'essere contenti che qualcuno reagisce contro i fascisti, lo mettono alla gogna. M'ero fatto di Orbán un buon giudizio, visto che nei confronti della Russia era andato controcorrente rispetto alla UE. Maledette le apparenze...1


*


La Salis ha scritto in un suo memoriale del 2 di ottobre, spedito ai propri avvocati e reso pubblico da Mentana, che quando l'hanno arrestata le avevano sequestrato scarpe e vestiti, lasciandola in mutande, reggiseno e calzini. Poi l'hanno costretta a rivestirsi con abiti non suoi, sporchi, malconci e puzzolenti, e a indossare un paio di stivali coi tacchi a spillo non della sua taglia. E' rimasta con questi vestiti per 5 settimane. Per 7 giorni non ha avuto carta igienica, sapone e assorbenti, rimediati solo grazie a una detenuta ungherese. In quelle settimane è rimasta senza ricevere il cambio delle lenzuola. Per i primi 3 mesi è stata tormentata dalle punture delle cimici da letto. I corridoi erano pieni di scarafaggi, mentre nel corridoio esterno appena fuori dall'edificio spesso si aggiravano i topi.

Il carcere era di massima sicurezza, per cui per 8 mesi non ha potuto parlare con nessuno. La cella era completamente chiusa: vi trascorreva 23 ore su 24 con una sola ora d'aria.

Il cibo era scarso e in condizioni igieniche carenti: a colazione di solito riceveva una fetta di salume in cattivo stato; a pranzo zuppe molto acquose con pochissimo cibo solido, ma dove in compenso spesso trovava pezzi di carta o di plastica, capelli o peli.

Ha raccontato anche di avere un nodulo al seno che ha un aspetto benigno, ma che diversi dottori in Italia le hanno raccomandato di controllare periodicamente. In carcere a metà giugno è stata portata in un ambulatorio dove le è stata fatta ecografia e mammografia, ma non ha mai ricevuto nessun referto scritto.

Non ha potuto iscriversi alle lezioni di scuola elementare ungherese (lingua in cui avvengono tutte le comunicazioni), con la motivazione che "non parla ungherese".

A Budapest era andata solo per protestare contro la celebrazione del "Giorno dell'Onore", in cui gruppi di estrema destra da tutta Europa si erano dati appuntamento in città per commemorare un battaglione nazista che nel 1945 aveva tentato d'impedire l'ingresso dell'Armata Rossa in città.

E' vero che l'han trovata in taxi con un manganello, ma gli aggressori erano irriconoscibili perché col volto coperto. E poi quell'arma poteva tenerla come difesa personale.

L'ambasciata italiana ha già partecipato ad almeno 4 udienze in cui la Salis è stata portata in tribunale, per cui i diplomatici sanno bene che lei ha denunciato di non aver potuto visionare le immagini che secondo l'accusa dimostrano il suo coinvolgimento nel pestaggio. Ha inoltre detto di non aver avuto la possibilità di leggere gli atti di accusa a suo carico, perché non sarebbero stati tradotti né in italiano né in inglese.

Si è dichiarata non colpevole, rifiutando la proposta di patteggiamento a 11 anni di carcere. Gli arresti domiciliari evidentemente non li contemplano. In questo modo però rischia fino a 24 anni di carcere.

Sembra che un trattamento del genere si profili come una punizione esemplare a carico di uno straniero indesiderato. In ogni caso se questa in Ungheria è la prassi per tutti gli accusati di qualcosa, poveri noi. Invece d'essere contenti che qualcuno reagisce contro i fascisti, lo mettono alla gogna? M'ero fatto di Orbán un buon giudizio, visto che nei confronti della Russia era andato controcorrente rispetto alla UE. Infatti è stato minacciato che se non approvava i 50 miliardi da dare a Kiev, l'economia e la finanza ungheresi sarebbero saltate. Ma qui ce ne sarebbe abbastanza per cacciarlo dall'Europa. O forse è una sua strategia per andarsene?


6 febbraio


I conflitti d'interesse di Sgarbi


Sgarbi lo conosciamo tutti, è un insopportabile borioso che quando va in escandescenza pronuncia parole di una volgarità inaudita, che nessuno penserebbe possibili in un uomo di cultura, per di più impegnato politicamente. Al giornalista di Report, che l'accusava di aver violato la legge Frattini, di aver trafugato un quadro, ecc., ha persino augurato di morire in un incidente stradale. La cosa strana è che però sapeva che accanto al giornalista c'era un cameraman che riprendeva tutto.2 Qui siamo proprio a livelli di psichiatria. Invece di andarsene, come fece Alemanno quando il giornalista gli fece domande imbarazzanti sulla sua funzione filo-mafiosa di sindaco, a momenti faceva vedere il suo ammennicolo alla telecamera per interrompere le riprese. Sembra proprio che gli piaccia farsi immortalare così alterato e scomposto. Anche questa, in fondo, è una forma di narcisismo.

Meno male ch'era solo sottosegretario alla Cultura: pensiamo solo se l'avessero fatto Ministro dell'Istruzione!


*


La legge Frattini del 2004 sul conflitto d'interesse parla chiaro (una legge peraltro voluta dal governo Berlusconi di cui pure Sgarbi faceva parte): "I titolari di cariche di governo non possono esercitare attività professionali in materie connesse con la loro carica".

Lui invece s'è difeso dicendo: "Le mie attività sono un esercizio legittimo del diritto d'autore". In che senso?

Poi ha aggiunto: "Io sono diventato sottosegretario alla Cultura perché sono scrittore, conferenziere, critico d'arte. Ma questa non si può considerare una professione come fare il medico". E allora?

Nessuno può impedirgli di fare alcunché nella sua veste di sottosegretario alla Cultura: basta che lo faccia a titolo gratuito o al massimo pretendendo un rimborso delle spese. E' ovvio infatti che se si fa pagare (anche fatturando e denunciando, non è questo il problema), scatta in automatico il sospetto di un conflitto di interessi. Per "interessi" s'intende qualcosa di "materiale". Non credo qualcosa di "ideologico".

Cioè se fosse stato ministro dei Trasporti, come il nullafacente Salvini, chi gli avrebbe detto qualcosa se in privato, come critico d'arte, teneva una conferenza prendendo 200.000 euro?


8 febbraio


Mito infranto di PoltroneSofà


Stasera ho visto su Youtube un documentario sull'azienda forlivese PoltroneSofà. Sono rimasto abbastanza sconcertato.

Praticamente l'azienda non esiste, sfrutta in prevalenza operai cinesi sottopagati (e di altre nazionalità) e poi gestisce rivendita, logistica, pubblicità. Non rispetta le regole standard della concorrenza e paga tranquillamente le sanzioni che le impongono, tanto con tutta la sua pubblicità ha guadagnato l'ira di Dio.

Ufficialmente risulta che l'azienda abbia in proprio solo tre operai. Significativo che le associazioni di categoria si siano rifiutate di dire la benché minima parola.

Comunque il materiale dei divani è scadente ed è male assemblato, e l'assistenza lascia molto a desiderare. E soprattutto non ha nulla di artigianale.

Fonte: youtube.com/watch?v=X3969qnzErA


10 febbraio


Parole in libertà su Sanremo


Mi chiedo chi potrà sostituire Amadeus dando a Sanremo la stessa fisionomia giovanilistica che lui ha così fortemente voluto, soprattutto uno con la sua stessa incredibile competenza musicale (da deejay navigato), in grado di scegliere 30 canzoni, nel complesso di buon livello, in mezzo ad altre 400. E poi dove trovare una spalla incredibile come Fiorello, che se anche, sbagliando, ha trattato Travolta come un bambino, ha fatto un'incredibile performance mischiando Modugno con Michael Jackson.

Devo dire che la Cinquetti m'è parsa piuttosto penosa. Una non può cantare a 76 anni una canzone (Non ho l'età) che andava benissimo quando ne aveva 16. Semmai doveva cantare Non ho più l'età (per fare certe cose...). E' entrata in scena che sembrava appena uscita da un tombino cimiteriale. Perché non ha cantato una qualunque altra sua canzone? Possibile che uno non capisca che ogni cosa ha il suo tempo? Chi le ha detto che la sua canzone è entrata nei classici della musica leggera con lo stesso spirito di quando lei la cantava? Oggi i ragazzi fanno certe cose ben prima dei 16 anni e una canzone come quella la buttano nel cestino. Il che non vuol certo dire che abbiano messo nel dimenticatoio tutte le canzoni di 60 anni fa. I giovani di oggi amano Mogol-Battisti esattamente come noi.

Un pugno in un occhio anche gli ultimi due sopravvissuti dei Ricchi e Poveri, che si lamentano di prendere una pensione di soli mille euro al mese. Potete fare i giovani quanto volete, ma più lo fate e più siete stonati in rapporto alla vostra veneranda età, soprattutto in un contesto canoro in cui l'elemento giovanile è preponderante al 90%.

Testo incomprensibile, perché in dialetto napoletano, di Geolier. Com'ha fatto ad arrivare secondo? Dicono che sia famoso nei social. Ma, se è così, allora la democrazia non funziona.

Invece m'è piaciuto moltissimo il ballerino Bolle: ha un fisico eccezionale. Quanto tempo passa in palestra? Pur col doppio degli anni degli altri ballerini era stratosferico. Sembra un Adone greco. Guardandolo rinuncio ad attribuire alle donne l'esclusività della bellezza.

Bene ha fatto Ghali a Sanremo a uscire di scena con la frase "Stop al genocidio", mandando a quel paese la comunità ebraica di Milano che aveva contestato la sua canzone, giudicandola filo-palestinese. Tutta la sua canzone è un invito alla pace. Andava premiato il testo, ma non si è avuto abbastanza coraggio. D'altronde quando mai i nostri giornalisti ne hanno (salvo quelli del "Fatto Quotidiano", naturalmente).

"Figli di un deserto lontano" (perché di origine berbere? araba? islamica?).

"Zitti non ne posso parlare" (islamofobia occidentale?).

"Ai miei figli cosa dirò. Benvenuti nel Truman show" (capitalismo sostenuto da un mainstream ipocrita).

"Non mi chiedere come sto. Vorrei andare via. Però la strada non porta a casa se la tua casa non sai qual è" (a causa del colonialismo?).

"Casa mia" (africana, islamica). "Casa tua" (occidentale, ebraica). "Che differenza c'è? Non c'è. Mi manca la mia zona. Mi manca il mio quartiere" (immigrazione verso l'Europa).

"Di alzare un polverone non mi va" (quieto vivere?). "Ma come fate a dire che qui è tutto normale? Per tracciare un confine con linee immaginarie, bombardate un ospedale" (genocidio a Gaza). "Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane non c'è mai pace" (capitalismo occidentale, insediamenti coloniali ebraici).

Il video su Raiplay è stato tagliato senza includere né i ringraziamenti finali né tanto meno il messaggio politico di cui sopra. La clip dopo qualche ora era stata ripristinata. Vergogna. Che poi anche Dargen D'Amico in diretta ha chiesto il cessate il fuoco (successivamente interrotto da Mara Venier quando parlava d'immigrazione, con la frase: "Questa però è una festa e non c'è tempo necessario per affrontare un tema così importante").

Caduta di stile di Amadeus quando ha usato in maniera strumentale il grande Sergio Endrigo per parlare delle foibe. In tutti i suoi testi Endrigo ha parlato dell'esodo dalmata solo nella sua canzone "1947", citando la sua città natale Pola. Ma chi si ricorda di questa cosa? E comunque un conduttore non può mai schierarsi in maniera così esplicita, anche perché i fascisti italiani han fatto massacri indicibili in Jugoslavia. Un conduttore deve fare la parte del moderatore, che anche l'anno scorso, leggendo il testo di Zelensky, non ha saputo fare. Al massimo dovrebbe lasciare che siano i cantanti a esprimersi.


11 febbraio


Ma come siamo messi in Italia?


In Facebook si sono meravigliati che guardo Sanremo. Ma come si fa a non guardare un evento che ha coinvolto solo in Italia fino a 14 milioni di persone e che è stato trasmesso in diretta ad altre 16 nazioni europee? Almeno l'ultima puntata, per motivi di curiosità mediatica e sociologica, è d'obbligo. Vuoi che non capiti qualcosa di strano? Infatti puntualmente è successo.

Ho già detto ch'era scoppiato il caso Ghali, con la sua canzone filo-palestinese e la sua uscita di scena piuttosto imbarazzante per il mainstream italiano: "Stop al genocidio", che aveva suscitato le ire persino dell'ambasciatore d'Israele Alon Bar a Roma, il quale così si era espresso, nella maniera più arrogante e delirante possibile: "Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile. Nella strage del 7 ottobre, tra le 1.200 vittime, c'erano oltre 360 giovani trucidati e violentati nel corso del Nova Music Festival. Altri 40 di loro sono stati rapiti e si trovano ancora nelle mani dei terroristi insieme ad altre decine di ostaggi israeliani. Il Festival di Sanremo avrebbe potuto esprimere loro solidarietà. E' un peccato che questo non sia accaduto".

Arrogante perché un ambasciatore non può interferire sulle decisioni artistiche e mediatiche di un festival nazionale come quello di Sanremo, anche perché esplicitamente nessun Paese è stato accusato in nessun testo canoro (non l'avrebbero permesso durante la preselezione). Delirante perché dicendo "Stop al genocidio" non si diffonde "odio e provocazioni" ma tutto il contrario.

All'ambasciatore aveva già risposto Ghali dicendo: "Ho sempre parlato di questo fin da quando ero bambino, non è dal 7 ottobre e Internet può documentare. La gente ha sempre più paura di dire 'stop alla guerra e stop al genocidio' e il fatto che l'ambasciatore dica così non va bene, continua questa politica del terrore. Le persone sentono che vanno a perdere qualcosa se dicono 'viva la pace', ma questo non deve succedere. L'Italia porta valori completamente opposti. Ci sono dei bambini di mezzo."

Ieri la sceneggiata servile del mainstream si è ripetuta.

Mara Venier in diretta a "Domenica In" si è sentita in dovere di leggere il seguente comunicato dell'Amministratore Delegato RAI Roberto Sergio: "Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta."

Lei ha aggiunto di suo che queste parole le "condividiamo tutti". Perché ha detto "tutti"? Perché non ha parlato solo per se stessa? Perché non ha detto che solo una parte degli italiani le condivide, mentre un'altra parte no? Perché una a 73 anni si affanna ancora a compiacere il suo datore di lavoro? Quali conseguenze poteva temere per la sua carriera? Non ha forse guadagnato abbastanza da potersi permettere una parola in libertà? Che bisogno aveva di dire ai giornalisti che l'hanno intervistata: "non mi mettete in difficoltà"? Insomma perché non va in pensione e lascia spazio a persone più giovani e coraggiose?

Ma soprattutto come si permette l'amministratore di un servizio pubblico, pagato con le tasse dei cittadini, di esprimere un parere personale fatto passare come rappresentativo e quindi vincolante per tutti? Come si permette di obbligare un conduttore televisivo a leggere un suo parere personale? Perché non l'ha letto lui di persona? Era forse un comunicato ufficiale da parte di un Consiglio di Amministrazione, approvato all'unanimità? No, non lo era. E comunque se lo fosse stato, si sarebbe dovuto difendere il diritto di parola di un artista, e anche l'autonomia di un servizio pubblico. Come si fa a non capire che un ambasciatore del genere dovrebbe essere espulso da un qualunque Paese democratico? E a non capire che un amministratore del genere e una conduttrice del genere vanno licenziati?


A Gaza continua il macello


L'esercito israeliano questa notte ha effettuato oltre 50 attacchi aerei, terrestri e marittimi, prendendo di mira almeno 20 edifici residenziali e due moschee in tutta Rafah, provocando l'uccisione di oltre 109 civili palestinesi, per lo più bambini. Oltre 200 i feriti.

Il tutto per poter liberare due ostaggi! Che poi involontariamente ne ha fatti fuori altri tre! Senza poi considerare i due ostaggi (Louis Har e Fernando Marman) erano già stati liberati, secondo il quotidiano israeliano "Haaretz", il 2 febbraio scorso, essendo in un elenco ad hoc già ufficiale. Insomma sembrano non solo assassini ma anche mentitori seriali.

E noi in Italia abbiamo un ambasciatore israeliano che se la prende col festival di Sanremo perché ha permesso al cantante Ghali di dire "Stop al genocidio" e perché il conduttore non ha detto nulla sull'attacco di Hamas del 7 ottobre.


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Le forze israeliane assediano l'ospedale Nasser, a ovest di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, da giorni, sparando a chiunque si trovi a vista e terrorizzando centinaia di civili che cercano rifugio lì. In particolare i cecchini sparano a chiunque cerchi di raggiungere i feriti o di recuperare i corpi presso l'ospedale. Se non è un comportamento nazista questo, che cos'è? Che termine possiamo usare?


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L'esercito egiziano è in stato di massima allerta: circa 40 carri armati sono stati dispiegati nel Sinai nord-orientale, vicino al confine con Israele e Gaza, in vista dell'operazione di terra a Rafah da parte dell'esercito israeliano.

Il Cairo ha ripetuto a Tel Aviv che qualsiasi violazione del confine da parte dell'esercito israeliano potrebbe scatenare una guerra. Non solo, ma ha anche dichiarato che qualsiasi trasferimento forzato di palestinesi da Gaza sarebbe la fine dell'accordo di pace con Israele.

In Egitto non han capito che queste manovre e queste dichiarazioni vengono accolte da Israele come oro colato, in quanto l'obiettivo n. 1 degli USA è allargare il conflitto il più possibile.


12 febbraio


Le prime parole nell'universo


Quali sono le parole che vorrei ascoltare quando vivrò in un'altra dimensione? Sono molto semplici e soprattutto consolatorie e operative.

"Ora che avete completamente distrutto la Terra, rendendola inabitabile per qualunque essere vivente, vi svelo alcune fondamentali verità e vi indico alcune basilare condizioni per continuare a vivere nell'universo.

Nell'intero universo non ci sono altri esseri umani diversi da voi. L'unico pianeta abitato da umani era il vostro. Non esistono nell'universo degli esseri o delle entità che abbiano poteri superiori ai vostri.

Ora avete capito che la morte non esiste, in quanto tutto è soggetto a trasformazione.

Qui, sulla base delle vostre capacità, potete fare ciò che volete e ovunque vogliate. L'universo è eterno, infinito, illimitato come lo siete voi. L'essere umano, come essenza universale, esiste da sempre, non è mai nato e non morirà mai. Si può morire solo dentro, quando non si vuole essere quel che si è.

L'unica condizione da rispettare è la libertà di coscienza, cioè il fatto che nessuno può essere costretto o indotto a fare qualcosa che non vuole fare.

Rispettare la libertà di coscienza vuol dire avere coscienza della libertà. Nessun altro valore è più grande di questo. Chi pensa di non poter vivere questo valore perché si sente in colpa di qualcosa, chieda d'essere perdonato a chi ha mancato di rispetto. Ricordate solo che la coscienza è insondabile, esattamente come l'universo che la racchiude.

Il compito che avete è quello di ricostruire la materialità della vita secondo i vostri desideri e rispettando le leggi universali della materia, che, a loro volta, dipendono da quelle dell'energia, che non è solo materiale ma anche immateriale, relativa appunto alla coscienza.

Vi può servire, in questa opera di ricostruzione, tutta la conoscenza acquisita nel periodo in cui avete vissuto sulla Terra. La conoscenza va soltanto resa compatibile con le leggi oggettive della coscienza e della materia.

Vivere secondo coscienza significa vivere in pace con tutti, in armonia con la natura delle cose, essere padroni del proprio destino, affrontare insieme i problemi comuni, essere trasparenti e rispettarsi con convinzione."


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Il problema degli infiniti linguaggi umani non so come verrà risolto. Se io vorrò parlare con Toro seduto, che lingua userò? L'ideale sarebbe che ognuno continuasse a parlare la sua lingua e che tutti però si capissero. Poi se uno vuole anche parlare la lingua di Sitting Bull, si metterà a studiarla frequentando la tribù dei Sioux.

Di sicuro tutte le lingue sono affascinanti e nessuna merita di scomparire. Sai quanti libri di linguistica si potrebbero scrivere? Per un cultore della bella scrittura sarebbe una pacchia.


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A volte mi chiedo se il tempo e lo spazio abbiano davvero un senso nell'universo (o nell'aldilà). Sono condizioni puramente terrene. Se tutti noi saremo giovani e belli per sempre, perché dormire? perché fare sogni imbarazzanti, ansiosi, incomprensibili? perché restare vincolati alla gravità? perché riprodursi? perché avere bisogni così materiali? perché fare cose che non dipendono dalla nostra volontà?

Si va in pensione quando del lavoro si è stufi, quando si avverte d'essere inadeguati, quando non c'è più feeling con le nuove generazioni. Ma questo dovrebbe valere per qualunque cosa. Cioè ad un certo punto il feto si mette a testa in giù e decide che è ora di uscire. Anch'io vorrei farlo, senza sapere cosa c'è fuori. Gli occhi li apriremo dopo.


13 febbraio


Chi ci obbliga alla guerra?


Un missile Sarmat russo RS-28 di 208 tonnellate trasporta fino a 15 testate termonucleari differenti nell'ordine dei 500-1.000 kilotoni. Ha una gittata di 18.000 km e un'accuratezza di 10 metri. Come colpire un piattello nel tiro al volo con un proiettile a 200 km di distanza. Viaggia a 33.000 km/h (mach 26,7). Elude le difese missilistiche avversarie.

In 5 minuti arriva tranquillamente in Italia a partire dal suolo russo. Sottomarini nucleari armati con un missile del genere possono dimezzare la distanza e quindi il tempo di volo.

In mezz'ora può arrivare dall'altro lato del globo.

Uno solo di questi missili può ammazzare direttamente qualcosa come 20 milioni di persone in varie forme e modi. I più fortunati sono quelli vaporizzati all'istante. Ulteriori incalcolabili morti seguono a causa di epidemie, carestie, collasso economico della società. L'inverno nucleare limita per anni l'agricoltura.

Con questi mezzi ha senso la guerra? L'Italia dove vuole andare? Possibile che dal giorno alla notte siano scomparse dal suo vocabolario parole come pace, trattativa, negoziato, accordo diplomatico? Chi ci vuole indurre al suicidio?


14 febbraio


Non mettiamo il naso nelle questioni sensibili


Sulle questioni sensibili relative alla libertà di coscienza non si dovrebbe interferire quando l'esercizio di tale libertà non viola la libertà altrui. In Italia siamo ancora troppo indietro per accettare un principio del genere. C'è ancora gente che pensa che se si consente l'eutanasia a persone anziane e/o disabili, tutti potrebbero dedurre che ogni persona problematica che non si autoelimina crea volontariamente costi impropri e danni per la propria famiglia e per la società. Quindi se un tetraplegico volesse farsi fuori, dobbiamo costringerlo a vivere perché non possiamo fargli credere che andandosene ci farebbe un favore sul piano economico. Di queste assurdità il mondo cattolico è pieno.

Immaginiamoci se oggi per San Valentino avessi detto a mia moglie: "Senti cara, volevo regalarti un set di coltelli d'acciaio inossidabile, ben affilati, non come quelli d'albergo, perché ho visto che i nostri, a forza di metterli in lavastoviglie, han tutti il manico rovinato. Poi però siccome sentiamo di tanti mariti che sgozzano le mogli, temevo che tu ti facessi strani pensieri su di me, per cui ho preferito regalarti un set di cucchiaini. Ti va bene lo stesso? Magari facciamo più spesso il budino Elah!"

Semmai bisogna stabilire chi deve essere autorizzato ad applicare l'esercizio al libero arbitrio quando il diretto interessato non è nelle condizioni fisiche per poterlo fare. Di qui l'urgenza di firmare un testamento biologico quando si è in possesso delle proprie facoltà mentali, anche per non mettere in imbarazzo gli altri sul da farsi quando verrà il nostro turno. Nessuno può mettersi a sindacare se, nel firmare il suddetto testamento, uno pensa di fare un favore alle casse dello Stato o pensa a una qualsiasi altra motivazione. In Comune l'impiegato deve limitarsi a prendere atto di una decisione irrevocabile, non può mettersi a fare domande di tipo "esistenziale".

Dove sta il problema se due coniugi olandesi (lui si chiamava Dries van Agt, lei Eugene) di 93 anni, di cui 66 matrimoniali, han scelto di andarsene insieme? Quanto deve campare uno? Tanto è evidente che a quell'età siamo pieni di acciacchi. La medicina ha i suoi e i suoi contro. Non può tenerti in vita come uno zombie contro la tua volontà, solo perché predica un astratto diritto alla vita. Quelli erano adulti in grado di decidere (lui era stato addirittura un premier del suo Paese e per giunta era di religione cattolica).

Anche supponendo che la natura ci abbia fatto per campare fino a 100 anni, di fatto viviamo in contesti urbani dove è facilissimo ammalarsi di qualcosa. Semmai potremmo chiederci i motivi per cui ci ammaliamo così spesso e a volte in maniera così grave da risultare inaspettata. Ma che uno debba essere padrone quanto più possibile del proprio destino, specie nelle questioni di coscienza, non ci piove. Habeas corpus si diceva, quando si era più liberi di noi.


Restituire il maltolto


Dalla guerra dei Sei giorni ad oggi sono passati più di 50 anni. Eppure il Levitico dice che dopo 49 anni gli ebrei devono restituire le terre ai proprietari "storici", antecedenti a quelli subentrati successivamente.

Così dice Jahvè, che rappresenta l'istanza collettiva: "Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni". "Ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e ognuno di voi tornerà nella sua famiglia". Il riscatto era gratuito.

Se poi le terre sono state acquistate in maniera abusiva, peggio ancora: vanno restituite subito, a prescindere dal Giubileo, e con 1/5 di risarcimento relativo al loro valore. La restituzione veniva fatta al proprietario (non al governo né a terzi) e il risarcimento doveva essere accompagnato da un'offerta di colpa al Signore.

Non solo, ma nel Giubileo andava proclamata la "libertà" nell'intero Paese, quindi gli schiavi andavano emancipati.

Questo per dire che i palestinesi, parenti stretti degli ebrei, in quanto semiti come loro, discendenti di Ismaele, fratellastro di Isacco: vanno liberati dalle carceri e devono tornare in possesso di ciò che hanno venduto agli ebrei o ceduto per cause indipendenti dalla loro volontà.

Ma si sa che i sionisti interpretano la Bibbia come gli pare. I coloni poi non ne parliamo.


E poi dicono che noi non siamo in guerra


Alle operazioni di guerra contro Gaza partecipano le unità navali armate con i cannoni di OTO Melara 76/62. Sono cannoni multiruolo prodotti dall'omonima società del gruppo Leonardo SpA con quartier generale a Roma e stabilimenti a La Spezia e Brescia. Questi strumenti bellici sono caratterizzati da una cadenza di tiro molto elevata, soprattutto nella versione Super Rapido (120 colpi al minuto), per la "difesa" antiaerea e anti-missile e il bombardamento navale e costiero.

Fonte: infoaut.org


15 febbraio


Perché non dimettersi?


Il Viminale ha deciso di assegnare una tutela personale all'amministratore delegato della RAI per motivi di sicurezza. Si tratta del livello più basso di protezione che prelude alla scorta personale. Il provvedimento è stato preso dal ministero dell'Interno sulla base di minacce che sono state ricevute da Sergio e dalla sua famiglia per la presa di posizione a difesa d'Israele, dopo il comunicato letto dalla conduttrice Mara Venier di "Domenica In" e seguito all'intervento contro i bombardamenti su Gaza del cantante Ghali dal palco di Sanremo.

Poverino questo delegato non della RAI ma dell'ambasciata di Israele. Un cantante è riuscito a prenderlo con le mani nella marmellata, mentre la conduttrice le aveva addirittura nella ...

Ma perché non si dimettono? L'avete fatta grossa. Avete dimostrato che il nostro Paese non è solo servo degli USA ma anche d'Israele. Ce ne sono forse altri che ci comandano?


Fase 2 a Gaza


A Rafah ci sono oltre un milione di palestinesi sfollati, a rischio d'essere coinvolti nell'operazione militare rivolta verso il sud della Striscia. Secondo fonti egiziane, Israele pretende che i costi dei campi - con strutture mediche - siano a carico di USA e Paesi arabi.

Intanto Israele ha preparato un piano che prevede l'evacuazione dei civili lungo la costa di Gaza e l'ha presentato all'Egitto. Sono stati individuati 15 luoghi, ognuno dei quali ha 25.000 tende, che vanno dalla punta sud di Gaza City fino a Moassi, a nord della città di Rafah.

E' incredibile la faccia tosta di questo comportamento: prima creano un disastro di enormi proporzioni; poi i costi li attribuiscono a terzi; infine si appropriano di tutti i beni di oltre 2 milioni di persone che vengono letteralmente espulse dal loro territorio.


16 febbraio


Meglio tardi che mai


Amadeus ha detto alla puntata di "Porta a Porta" del 13 febbraio: "Rispetto le decisioni di tutti, ma non sono assolutamente d'accordo con l'ambasciatore israeliano. Mai mi sarei sognato, ma neanche i cantanti, di portare odio, anzi noi portiamo esattamente l'opposto. I cantanti che vengono in gara lanciano messaggi e appelli di pace, di libertà, di libertà di idee, di pensiero, di uguaglianza di pelle, di valori. Mi sento di dire che nella storia di Sanremo, senza sembrare presuntuoso, in questi anni c'è stato un grande senso di inclusione che va assolutamente rispettato e mai cambiato, sennò torniamo indietro".

Infine: "La guerra da qualsiasi parte è da condannare, non c'è una guerra da un lato o dall'altra, qualsiasi guerra al mondo va fermata".

Ci ha messo un po' a dire queste cose, ma finalmente le ha dette, per quanto generiche siano, e senza stare a disquisire sul significato delle parole usate da Ghali.

In parte anche Fiorello a "Viva Rai2" le ha condivise: "Far leggere quelle veline è stato un errore, ma adesso calmiamoci tutti. E' successo ed è stato stigmatizzato abbondantemente. Adesso calma, perché quando entra in gioco la violenza non va più bene. Addirittura hanno dovuto assegnare la scorta all'Ad Sergio, finisce che la daranno anche a me...".

Si preoccupa per se stesso. Si preoccupa della violenza. Perché a Gaza cosa c'è? Da parte di chi non dovrebbe temere d'essere licenziato dalla RAI o di non ricevere più contratti dalla RAI, ci si aspetterebbe più coraggio.

I giovani vanno sempre ascoltati quando sono spontanei, quando non usano la lingua biforcuta degli adulti. In Italia invece si fa tutt'altro: si emarginano, si strumentalizzano, si censurano, e ora, per fargli capire bene come stanno le cose, si manganellano, e senza tanti complimenti.


Il limite della tollerabilità


Sanchez e Varadkar, rispettivamente premier di Spagna e Irlanda, han chiesto a Bruxelles di "verificare urgentemente" il rispetto dei diritti umani a Gaza da parte di Israele.

La Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia sta svolgendo le proprie verifiche sulle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica, mentre a Washington stanno indagando su possibili crimini di guerra compiuti da Tel Aviv nella Striscia.

A sentire queste cose si dovrebbe essere contenti, invece viene un gran nervoso. Infatti ci si chiede quale sia il limite oltre il quale un genocidio, una mattanza, una pulizia etnica, uno sterminio possono essere qualificati coi loro nomi.

Macron ha chiamato direttamente Netanyahu per dirgli che il bilancio dei morti a Gaza è "intollerabile" e che l'operazione di Tel Aviv deve "cessare".

Che significa "intollerabile"? C'è forse un calcolo matematico che gli statisti devono fare per non essere detronizzati? Come fecero per es. i nazisti per le Fosse Ardeatine: per ogni tedesco ucciso, 10 italiani fucilati.

Alla Commissione Europea della von der Leyen è stato chiesto di svolgere verifiche su eventuali violazioni dei diritti umani su suolo palestinese.

"Eventuali"... Naturalmente non si manca di aggiungere che se Hamas avesse rilasciato subito gli ostaggi, i morti sarebbero stati molti di meno. Ancora non s'è capito che Israele vuole tutta la Striscia, per cui più tardi Hamas restituisce gli ostaggi e meglio è per Netanyahu.

Però han capito che per loro è meglio un'altra cosa: mettere le mani avanti e lavarsele come Pilato. Infatti a Rafah, ultima città-rifugio dei milioni di sfollati palestinesi nella Striscia, è atteso il temuto attacco di terra che potrebbe provocare l'ennesima carneficina.

Gli USA poi sono i più ipocriti di tutti: il Dipartimento di Stato vuole indagare sul possibile uso di fosforo bianco per colpire i civili in Libano e anche sull'attacco del 31 ottobre al campo profughi di Jabaliya, nel quale sono morte più di 135 persone. Si pensa che Israele abbia usato bombe da oltre 900 kg, che servono per distruggere costruzioni e bunker sotterranei, ma che, data la loro grande potenza distruttiva, non vengono impiegate in aree densamente popolate come le città.

Cioè stanno pensando che Israele possa aver usato armi americane in modo "improprio". Come quando nel loro Paese permettono ai diciottenni di comprare armi che sparano 100 colpi al minuto, e poi si meravigliano che le usino contro le loro ex scuole.

Abbiamo davvero una grande accortezza, una speciale sensibilità per capire le varie modalità d'uso degli ordigni che procurano morte e distruzione.


17 febbraio


Sono stato frainteso


Com'è accurato nella sua arrogante ipocrisia l'ambasciatore israeliano a Roma, dopo aver criticato il card. Pietro Parolin, che si era permesso di dire che non aveva senso parlare di "diritto alla difesa" quando a Gaza c'erano 30.000 morti ammazzati, di cui la metà minorenni.

Il sionista avrebbe detto che c'è stato un quiproquo nella traduzione. L'aggettivo della frase "It is a regrettable declaration" (riferita alla dichiarazione di Parolin) andava tradotto come "sfortunata" o "infelice" non come "deplorevole".

Se l'è presa col traduttore. Su qualcuno la colpa delle proprie assurdità andava scaricata.

Peccato però che la precisazione è soltanto una brutta arrampicata sugli specchi. Infatti "regrettable" vuol proprio dire "deplorevole" o, se si preferisce, "spiacevole", "deprecabile", "increscioso", "riprovevole", tutto meno che "sfortunato".

Dicendo "sfortunato" ha fatto passare Parolin per uno che quando parla non misura le parole. Proprio lui! Un cardinale del Vaticano che parla a sproposito, a vanvera! Non lo sa questo leguleio che la Chiesa cattolica è maestra nella diplomazia, avendola ereditata dai tempi dell'impero romano?


A passi veloci


In Europa si sta già cominciando a pensare che se negli USA vince Trump, la NATO farà una brutta fine. Trump infatti non vuole spendere soldi per gli europei, in quanto ritiene che lo scontro decisivo sarà con la Cina.

Di qui le esternazioni di Macron, che si è già montato la testa. Anche perché gli statisti europei, nei propri deliri paranoici, temono che la Russia attaccherà la UE entro 5-8 anni.

L'obiettivo principe è uno solo: fare dell'Europa un'area militarmente così forte che nessuno voglia misurarsi con noi. Tutti i Paesi dovranno avere bunker e arsenali atomici.

Quindi, anche dando per scontato che la dotazione nucleare della NATO resterà tutelata, si tratta comunque di potenziarla parecchio. E chi se non la Francia se ne farà carico? Gli inglesi son fuori della UE e poi hanno armi nucleari soprattutto nei sottomarini.

Insomma ci stiamo avviando a passi veloci alla completa autodistruzione dell'Europa. Non sono previste forme alternative di coesistenza pacifica.


18 febbraio


Essere democratici stando dalla parte dei cantanti


Sullo scandalo censorio dell'AD della Rai, Roberto Sergio, e di Mara Venier ha scritto un collaboratore della Schlein, Marfo Furfaro: "La Rai è di tutti, è servizio pubblico, è e deve essere una piazza libera dove gli artisti possano dire ciò che pensano senza censure. Che ci piaccia o meno. Perché le persone non sono stupide, giudicheranno loro senza il filtro della propaganda di regime. Lo schifo andato in onda, le pressioni sugli artisti, gli imbarazzi, il comunicato della Rai, mostrano un Paese dove la stampa non è libera, gli artisti devono essere sottoposti al controllo di chi governa, la critica non è accettata. L'Italia merita di più, la libertà merita di più".

Sostanzialmente ha ragione, anche perché nelle ultime cinque edizioni Amadeus e Fiorello hanno rivitalizzato una kermesse canora che aveva fatto il suo tempo e che di sicuro ai giovani non piaceva per niente.

Purtroppo la Venier, nelle sue interviste, continua a non capire come si doveva comportare. Continua a difendersi dicendo: "Mai in vita mia ho censurato qualcuno, né sono mai stata accusata di censura". E a "Repubblica", che l'ha definita "vestale del melonismo", ha risposto: "Se sono da trent'anni in tv, è perché non ho mai sposato una parte politica. Io mi rivolgo a tutto il pubblico, a prescindere dalle idee politiche di ciascuno, e rispettandole tutte".

Ancora non ha capito cosa doveva fare del messaggio personale dell'AD, e per una che è in Rai da 30 anni è grave. 1) Non era tenuta a leggerlo, perché non era un comunicato ufficiale del Consiglio di Amministrazione; 2) dopo averlo letto, non era tenuta a condividerlo; 3) condividendolo, ha sbagliato completamente a dire che anche gli italiani dovevano farlo. Anche perché al 99% degli italiani è evidente il contrario, e cioè che la reazione d'Israele è enormemente sproporzionata.

Il suo atteggiamento ha tradito posizioni vergognose, che evidentemente le sono diventate una sua seconda natura, come la piaggeria, l'opportunismo, il servilismo. Non ha capito che la Rai è un servizio pubblico, pagato con le tasse dei cittadini. E meno ancora l'ha capito l'AD, visibilmente arrogante e presuntuoso.

Purtroppo c'è ancora gente che non capisce il motivo per cui era giusto dare a Ghali e Dargen D'Amico la libertà di esprimere la loro posizione antiisraeliana, mentre l'AD della Rai doveva tacere e Mara Venier rifiutare di leggere il suo comunicato che esprimeva solidarietà a Israele. Non è che la libertà di opinione non vale per loro. E' che loro sono in una posizione di potere in grado di togliere questa libertà ai cantanti, mentre i cantanti non sono in grado di fare la stessa cosa nei loro confronti.

Questi soggetti di regime ancora non han capito che se Sanremo ha avuto un incredibile successo di pubblico, è per merito dei cantanti. E' anche a loro che l'AD e la Venier devono il loro stipendio, la loro carriera, il loro potere.

Per ogni puntata di "Domenica In" la Venier prende 19.000 euro. Cosa deve dire un giovane italiano? Soprattutto quelli che, pur essendo laureati, fanno lavori assurdi o sono costretti a emigrare? O entrano nella criminalità perché non hanno alternative? Persino i testi delle loro canzoni denunciano un disagio insopportabile. Bastava leggerli per offrire loro tutta la libertà di opinione che volevano.


*


Il prossimo anno voglio un Sanremo aperto anche ai cantanti stranieri che vivono da noi senza cittadinanza, liberi di dire ciò che vogliono. Anzi, ne voglio uno anche per la poesia, per dimostrare che si può diventare famosi anche senza mettere le parole in musica.


19 febbraio


Dilemmi e figuracce


Netanyahu è un fascista, lo sappiamo. Quando poi usa i versetti biblici per giustificare il suo operato genocidario, è persino rivoltante. Meraviglia che la Corte Penale Internazionale non abbia emesso un mandato di cattura a suo carico, visto che con tanta solerzia l'aveva fatto nei confronti di Putin, quando i russi avevano trasferito nel loro Paese, salvandoli da un tragico destino, circa 700.000 bambini ucraini. Il valore di questa Corte ridicola lo si capisce anche da queste assurdità.

Fatto sta che adesso Netanyahu si trova di fronte a un dubbio amletico, che non sa bene come risolvere coi suoi soliti metodi spicci.

Non avendo conseguito gli obiettivi fondamentali che si era prefisso, come per es. liberare tutti gli ostaggi israeliani, eliminare il grosso del movimento Hamas (e soprattutto i suoi leader), obbligare quanti più civili possibili a emigrare verso il Sinai, ora il premier si sta chiedendo cosa fare.

Se bombarda il sud della Striscia come ha fatto col nord, rischia di perdere il sostegno occidentale, senza il quale non potrebbe far nulla di decisivo. Ma se non lo fa, il suo governo salta. Lui finirà sotto processo, non solo per le accuse di corruzione, frode e abuso di fiducia in tre casi diversi che gli erano state mosse prima del 7 ottobre scorso, ma anche per tutte quelle di genocidio che gli pioveranno da ogni parte del mondo (ora anche dal Brasile di Lula).

Inoltre, a dispetto dell'opinione mondiale, non ha alcuna intenzione di concedere ai palestinesi la possibilità di avere un proprio Stato autonomo, non solo perché, pur di non concedere questa possibilità, ha dovuto sacrificare la vita di molti suoi militari, uccisi dalla resistenza di Hamas, ma anche perché tale concessione lo obbligherebbe a uscire da Gaza e quindi a rinunciare a sfruttare i grandi giacimenti gasiferi scoperti al largo di quella Striscia.

Ecco perché, vada come vada, almeno la parte nord se la vuole tenere, anche se questo comporterebbe l'impossibilità per gli oltre due milioni di palestinesi di vivere nell'area meridionale. Tra morti, dispersi, feriti e mutilati, circa 100.000 palestinesi sono già stati direttamente coinvolti in questa mattanza. Altre centinaia di migliaia lo sono per le conseguenze dei bombardamenti indiscriminati sulle loro abitazioni e per la carenza di aiuti umanitari (e tralasciamo qui i traumi psicologici sui minori sopravvissuti).

Siamo già in presenza di una catastrofe di immani proporzioni. Dove si vuole arrivare? E meno male che il conflitto non si è allargato come Biden, reduce da una sonora sconfitta in Ucraina, avrebbe voluto. Infatti gli iraniani han mostrato sangue freddo. Sanno di poter colpire qualunque città d'Israele, ma evidentemente qualcuno (Cina? Russia?) li ha persuasi a non farlo.

Gli Hezbollah si limitano a delle scaramucce; gli egiziani (pur sostenuti ora da Macron) a delle minacce. Quanto a Siria e Irak, al momento stanno a guardare, spingendo però gli USA a smantellare le loro basi militari illegali. Quindi gli unici che stanno davvero preoccupando gli occidentali (beninteso sul piano economico) sono gli Houthi, che però sanno benissimo di non poterlo fare a lungo sul piano militare, senza consistenti aiuti esterni.

Insomma anche in Medioriente, come già in Ucraina, l'occidente a guida americana, sta facendo una figuraccia.


20 febbraio


Mesi per un parere inutile


La Corte Internazionale di Giustizia, il più importante tribunale dell'ONU, ha cominciato le udienze per un procedimento che riguarda le conseguenze legali dell'occupazione da parte di Israele della Cisgiordania e di Gerusalemme est, oltre che delle Alture del Golan. Vi sono le deposizioni di oltre 50 Paesi, che accusano Israele di forti discriminazioni.

Questo caso è separato da quello per genocidio intentato dal Sudafrica contro Israele sempre presso la stessa Corte, in quanto è nato il 31 dicembre 2022, grazie a una risoluzione votata dall'Assemblea generale dell'ONU.

La cosa ridicola è che alla Corte non è stato richiesto di emettere una sentenza, ma solo un'opinione non vincolante.

Ma la cosa ancora più ridicola è che per avere un verdetto ci vorranno mesi. E quando sarà emesso, Israele se ne sbatterà tranquillamente.


Partire dalla non interferenza militare


Quando si vede un governo compiere un genocidio nei confronti di una popolazione, viene istintivo augurargli tutto il male possibile. Soprattutto se vengono sterminate popolazioni innocenti, disarmate, indifese, come lo sono soprattutto i bambini, le loro madri, gli anziani, i malati, e comunque, in generale, le persone più deboli.

E' una tentazione in cui non bisogna cadere, poiché ci si mette sullo stesso piano di chi compie questi orrendi crimini, anche se non ci vuol molto a capire che, se vengono compiuti impunemente, è perché qualcuno, che svolge ruoli importanti, li giustifica, anzi li rende materialmente possibili.

Purtroppo però in occidente sappiamo bene come vanno le cose: dovendo scegliere con chi relazionarsi, tra ebraismo e islamismo, preferiamo l'ebraismo. Non è solo una questione culturale: l'ebraismo lo consideriamo come facente parte della natura "cristiana" del continente europeo (una natura che, nella veste cattolica, abbiamo trasferito con gli ispano-lusitani in quello sudamericano, e nella veste protestantica, in quello nordamericano, in Oceania e in molti Stati africani).

E' anche una questione psicologica: nei confronti degli ebrei, a causa dell'antisemitismo dei secoli passati e della più recente shoah, proviamo sensi di colpa. I sionisti lo sanno e ne approfittano per sfoggiare tutta la loro insopportabile arroganza.

Inoltre gli islamici ci fanno paura perché sono troppi. Gli imponenti flussi migratori degli ultimi 30 anni ce li hanno resi vicini di casa. Non è un tempo sufficiente per nutrire nei loro confronti stima o amicizia. Li avvertiamo ancora troppo diversi da noi: parlano una lingua incomprensibile, le donne si vestono in modo strano, hanno usanze religiose molto particolari, e non mangiano le nostre stesse cose o non nella stessa maniera.

Per accettarli con relativa facilità, dobbiamo prima vederli nelle nostre scuole, insieme ai nostri figli. Se le frequentano sin dall'infanzia, capiscono meglio la laicità e si lasciano assimilare più facilmente. Non pretendiamo che diventino cattolici o protestanti o atei, ma solo che non facciano pesare troppo la loro alterità in campo religioso.

Se non compiono gesti terroristici o criminali, li sopportiamo tranquillamente, anche se non li frequentiamo più di tanto, perché a noi occidentali piace restare un po' razzisti, far pesare la nostra superiorità culturale, tecno-scientifica, ecc.

Tuttavia con la questione del genocidio compiuto da Israele a Gaza (ma la cosa va avanti dal 1948) il nostro atteggiamento sta cambiando. Verso gli islamici palestinesi stiamo nutrendo simpatia, comprensione, anzi ammirazione. E ci stiamo chiedendo, senza voler provare odio verso gli israeliani, come sia possibile risolvere pacificamente questa annosa questione, cioè se sia davvero possibile concedere ai palestinesi un proprio Stato autonomo, senza che ciò porti a una nuova guerra contro Israele.

Abbiamo necessità di capire come non ricadere negli errori del passato. Non serve a niente odiare. Noi dobbiamo risolvere i problemi ponendo le condizioni di base affinché non si ripresentino. Più li lasciamo incancrenire, più la soluzione sarà dolorosa.

Visto che fin adesso nessun problema è stato risolto, noi occidentali dovremmo chiederci se non sia più per colpa nostra che non delle popolazioni che vivono in Medioriente. Sarebbe una grande cosa se noi occidentali smettessimo d'interferire militarmente in quell'area geografica. Sarebbe un primo passo significativo smantellare tutte le nostre basi militari.


Ucraini e armi chimiche


Ormai le forze armate ucraine sono così disperate che stanno cominciando a usare armi chimiche provenienti dagli USA, in violazione della Convenzione sulle armi chimiche ratificata dagli stessi americani il 25 aprile 1997.

D'altra parte è difficile pensare che gli ucraini possano davvero far qualcosa contro i russi senza il totale appoggio della NATO, soprattutto degli angloamericani.


21 febbraio


La crisi dell'occidente collettivo


Probabilmente il capitalismo dell'occidente collettivo è diventato così aggressivo negli ultimi 30 anni (ma forse potremmo partire dalla prima guerra del Golfo), perché il capitale ha bisogno di controllare in maniera assolutamente sicura le risorse energetiche che lo nutrono, le risorse che hanno gli altri Paesi, specie quelli mediorientali. Senza queste fonti a buon mercato il nostro sistema finisce molto presto in crisi drammatiche, senza sbocchi, che non sa affrontare, in politica interna, se non in maniera violenta, autoritaria, quella che gli è più consona.

Il capitale non può difendersi da questa continua diminuzione di risorse energetiche, trasformandosi da produttivo a finanziario, poiché la finanza si espande (in genere senza scossoni), se si espande la produzione, altrimenti è soggetta a sicure e rovinose "bolle speculative", che in poco tempo fanno perdere quanto si è guadagnato in molti anni. Una delle più catastrofiche è stata quella immobiliare dei subprime del 2008.

L'investimento in titoli borsistici si basa sull'assunto illusorio che ci si può arricchire facilmente facendo delle scommesse, come nel gioco del Monopoli. Ma in borsa chi non ha informazioni riservate, facilmente perde i suoi investimenti. Si è in troppi per poter vincere tutti.

Oppure si potrebbe dire che l'industria va a cercare in borsa quei capitali che le servono per sopravvivere in un mondo sempre più povero di risorse energetiche e dove la competizione è sempre più forte, in quanto tutti i Paesi vogliono diventare capitalisti in un mercato internazionale. E gli ultimi arrivati non han bisogno di ripercorrere le grandi e faticose tappe di quelli partiti per primi.

Inoltre da quando è nata l'informatica, si sono quotate in borsa delle aziende che non sono produttive in senso classico, cioè in senso materiale, ma lo sono in senso immateriale, basandosi unicamente su dei servizi che potrebbero scomparire, per qualunque motivo, da un momento all'altro.

Da questo punto di vista è evidente che il capitalismo non può sopravvivere se tutti vogliono essere sfruttatori di risorse umane e materiali altrui. Qualcuno deve far la parte dello "sfruttato". E la cosa non è semplice, poiché il capitalismo non è come lo schiavismo classico: deve garantire una certa libertà formale o giuridica, altrimenti non ha alcun senso parlare di "democrazia". Solo che chi ha questa libertà cerca di approfittarne per emanciparsi. Ecco perché le guerre sono inevitabili.

I nuovi Paesi capitalisti che entrano in scena rendono il problema della progressiva mancanza di risorse energetiche sempre più difficile da risolvere.

Non è da escludere che i gestori dei grandi capitali si stiano chiedendo come rinunciare alla democrazia formale, alla libertà giuridica, pur di conservare a livello sociale un certo livello di benessere materiale, in assenza del quale alcune fette di popolazione, quelle più vessate, potrebbero insorgere. Il capitale deve togliersi la maschera della pseudo-democrazia e trasformarsi in una palese dittatura, come fecero a Roma nel passaggio dalla repubblica all'impero, quando gli imperatori si presentavano demagogicamente a fianco del popolo contro il senato e gli agrari.

Al tempo dei Romani l'impero si reggeva sulla manodopera schiavile per i grandi latifondisti, per cui vincere le periodiche guerre coloniali era fondamentale, tant'è che quando non fu più possibile, si cominciò a trasformare lo schiavo in colono, cioè in un lavoratore che giuridicamente fruiva di certe libertà o di una certa autonomia d'azione sul piano economico, caratterizzata da un patto contrattuale. I coloni dovevano fornire ai proprietari terrieri un quantitativo di beni o di ore di lavoro gratuito o un determinato affitto in denaro. Questo però non implicava affatto che l'impero fosse più democratico della repubblica; anzi, il contrario: la dittatura era più feroce.

Oggi invece la ricchezza del capitale industriale sono le risorse energetiche che fanno funzionare le macchine. Quanto meno sono disponibili, tanto più il capitale diventa aggressivo.

Una volta si diceva che il benessere dell'occidente collettivo è strettamente correlato al malessere del Sud globale. Ma lo è ancora di più se questo Sud si vuole liberare del nostro colonialismo.


22 febbraio


Le alternative previste dall'occidente collettivo


Il capitalismo sta puntando a sostituire le risorse energetiche classiche (quelle fossili) con le nuove risorse basate sulle cosiddette "materie rare", che dovrebbero garantire la transizione verso l'elettrico, considerato (ingenuamente?) meno inquinante.

In pratica si è già capito che strumenti come le pale eoliche e i pannelli solari non sono assolutamente sufficienti per sostituire gli idrocarburi, neanche come energia complementare: al massimo vanno bene per l'uso domestico, familiare.

Ma forse sarebbe meglio dire che sono i "poteri forti" che vogliono convincerci che con l'elettrico il nostro benessere sarebbe meglio garantito. L'ecologia basata sulle batterie elettriche è ovviamente un nuovo business.

Al momento comunque si è convinti che il nucleare non sia un'alternativa praticabile al fossile: le centrali sono troppo pericolose, sia quando funzionano, sia al momento di smaltire i loro rifiuti. Chernobyl e Fukushima hanno terrorizzato il mondo intero.

Tuttavia il fatto che le risorse per l'elettrico siano "rare" rende la transizione molto difficile. Il capitalismo occidentale non è più in grado di garantirsi il colonialismo di un tempo. Risorse del genere deve acquistarle sui mercati internazionali, e sono molto costose.

Inoltre lo smaltimento dei materiali esausti in campo elettrico è molto complesso e per nulla eco-compatibile. Batterie, pannelli solari3, computer, cellulari, centrali e armi nucleari... stanno diventando una maledizione ambientale per l'intera umanità, soprattutto per quei Paesi che l'occidente sfrutta come vere e proprie discariche a cielo aperto.

Ora, se per queste ragioni dobbiamo essere soggetti a periodiche guerre, si dovrebbe almeno aver chiaro quale possibile alternativa porre allo sviluppo del capitalismo, altrimenti a ogni guerra ne seguirà un'altra, con possibili effetti ancora più catastrofici.


Nove lezioni russo-ucraine


Domande a cui trovare risposte:

1. quali sono le fonti più attendibili per avere informazioni sufficientemente veritiere?

2. quali sono le conseguenze più disastrose sull'occidente causate da questa guerra?

3. che cosa il socialismo democratico può aspettarsi dal multipolarismo?

4. come può finire questa guerra, evitando il ricorso al nucleare?

5. quali sono le condizioni minime per assicurare all'Europa una pace sufficientemente stabile?

6. che rapporto ci può essere sul piano giuridico tra sovranità nazionale, indipendenza politica e autodeterminazione dei popoli?

7. come può essere riformulata la presenza della basi NATO in Italia?

8. in che senso una possibile riforma dell'ONU?

9. quale rapporto ci può essere tra Enti Locali Territoriali e Stato nazionale in vista delle prossime elezioni?


Risposte


1. Con questa guerra in Ucraina abbiamo capito che non possiamo fidarci di semplici sensazioni o impressioni o percezioni (tipica p.es. quella che divide i contendenti nella coppia semantica di aggredito e aggressore), ma dobbiamo esercitare l'intelligenza delle cose, avvalendoci di molte fonti. Bisogna mettere alla prova le fonti stesse, verificarle costantemente con un approccio freddo, razionale, distaccato, capace di vedere se viene dato spazio ad analisi storiche, a motivazioni di natura economica, sociale, politica, ideologica, militare. Bisogna mettere tutte le cause, le spiegazioni, le tesi che si sostengono a confronto tra loro, evitando di fare i fact-checking come Open di Mentana, che crede di svolgere il ruolo del giudice superiore a tutto e a tutti.

A me Giulietto Chiesa a volte pareva esagerato quando parlava di III GM a partire dal conflitto ucraino, già nel 2014. Col tempo mi sono ricreduto e mi sono fatto anche una cultura militare con questa guerra. Ma lui aveva le idee chiare perché leggeva fonti statunitensi, e diceva che gli americani sono così arroganti che non solo mentono di continuo, ma non si preoccupano neanche di dire le verità più imbarazzanti, poiché sanno che nessuno li può contestare.

Le fonti più attendibili sono tante, quasi illimitate, perché crescono di continuo al di fuori del mainstream mediatico dominante. Sono reperibili su Youtube: vedi i canali di Stefano Orsi, Alessandro Orsini, Giacomo Gabellini, Nicolai Lilin, Paolo Borgognone, Giuseppe Masala, Il Vaso di Pandora di Carlo Savegnago, Pangea Grandandolo di Manlio Dinucci, Casa del Sole Tv e Levante della Margherita Furlan e soci, Border Nights di Fabio Frabetti, Massimo Mazzucco, Roberto Quaglia, Alessandro Di Battista, gli autori di Radio Radio Tv, Il Fatto quotidiano, Visione TV di Francesco Toscano (che spesso fa il paio col comunista Marco Rizzo), Dazibao di Davide Martinotti sulla Cina, Lafinanzasulweb di Arnaldo Vitangeli, Fabbrica della comunicazione di Beatrice Silenzi, Una voce libera di Tiziana Alterio, 100 giorni da leoni di Riccardo Rocchesso, ByoBlu di Claudio Messora, persino la Pubble (cioè Paola Ceccantoni) è una fonte attendibile, seppure ironica. Direi di lasciar perdere decisamente La miniera e Parabellum, ma anche, per certi versi, Dario Fabbri. Interessanti le interviste a Fulvio Grimaldi, ma anche a Enrica Perrucchietti.

I social più frequentati, pieni di canali o meglio gruppi utili, sono, come al solito quelli di Meta/Facebook e X (ex Twitter), ma è bene seguire anche Quora perché non ha la censura di Facebook.

Poi ovviamente c'è la grande novità per tutti: Telegram (l'abbonamento annuale, per avere la traduzione immediata in tutte le lingue, costa pochissimo). I canali russi, quello di Lilin e di tanti altri italiani (come Giubbe Rosse, L'Antidiplomatico, Idee&Azione, L'Indipendente, Controredazione, ecc.) sono fondamentali. Molti di questi canali hanno i rispettivi blog in rete.

Nel mondo cartaceo fondamentali sono i libri di Orsini, Gabellini, Dinucci, Fracassi, Lilin, Travaglio, Bonelli, Mussetti, la Bifarini, la Reginella, e tanti tanti altri (p.es. Andrea Zhok, Demostenes Floros, Fulvio Grimaldi ecc.). Bisognerebbe anzi fare un elenco di tutti questi libri, da distribuirlo a tutti. Tra le riviste geopolitiche segnalerei Eurasia, Sicurezza Internazionale di Orsini, L'Indipendente, Marx21 di Sorini, Prospettiva marxista e Limes di Caracciolo (quest'ultima cum grano salis, poiché è finanziata dal Gruppo Gedi, ma ha collaboratori di spessore). Tra i quotidiani "Il Fatto Quotidiano" (vergognosa la rottura del "Manifesto" con Dinucci. Nessuno in Italia conosce la NATO meglio di Dinucci). Incomprensibile la posizione antirussa di MicroMega.

Tutte queste fonti sembrano anche troppe. Spesso s'intersecano tra loro, si sovrappongono, ripetono le stesse cose. Il problema è che il mainstream dominante non le prende in considerazione, perché sin dall'inizio ha sostenuto una tesi russofobica e guerrafondaia, mettendosi in linea con la posizione angloamericana. Ma sono fonti strabordanti, che arricchiscono come non mai, superando infinitamente le news trasmesse da radio e tv. L'unico "normale" in RAI era Marc Innaro: gli altri, in genere, son tutti corrotti, limitati intellettualmente, pieni di pregiudizi, di retorica, di luoghi comuni sul piano concettuale. Se non si ascoltano, non si perde nulla.


2. Le conseguenze più disastrose per l'occidente sono prima di tutto quelle economiche, poi quelle politiche, com'è inevitabile che sia in un sistema dove l'economia è più importante della politica, e oggi la finanza è più importante della stessa economia.

Le inevitabili conseguenze economiche sono l'aumento dell'inflazione, cui si cerca di porre rimedio (inutilmente) con l'aumento del costo del denaro, il quale aumento deprime gli investimenti produttivi e fa salire i mutui alle stelle. Mancati investimenti riducono l'occupazione. L'inflazione erode i risparmi. Il debito pubblico diventerà sempre più fuori controllo. Si stamperà sempre più moneta fiat, cioè senza sottostante di qualità. Ci sarà un incredibile accaparramento di metalli pregiati. I governi controlleranno i conti correnti dei cittadini sino all'ultimo centesimo: finiranno col prelevare soldi da questi conti e ci obbligheranno a non spendere più di tanto al giorno. Ci si impedirà di accedere liberamente agli sportelli bancari o postali. L'uso di Paypal o di altre forme di pagamento online che sfuggono al controllo statale verranno interdetti. Tutti i pagamenti verranno tracciati, con la scusa di debellare elusione ed evasione fiscale. Nelle borse occidentali rimarranno solo poche aziende super-ricche. I grandi fondi finanziari internazionali (Black Rock, Vanguard, State Street, FMI ecc.) col pretesto dell'efficienza, dell'ecologia, del risparmio energetico ecc. si compreranno i gioielli di famiglia (da noi tutto quanto concerne il turismo e l'alimentazione), ci costringeranno entro un decennio a ristrutturare in toto le abitazioni, altrimenti perderanno di valore, ma anche ad acquistare macchine elettriche e altre scemenze che non serviranno assolutamente a niente ai fini della vera alternativa a un sistema produttivista e consumista. Infine se gli USA vanno in default, la UE e il Regno Unito e il Canada e tutto l'occidente collettivo seguiranno a ruota. Ecco in quel momento bisognerà avere le idee chiare su come procedere a una vera alternativa, che non potrà essere l'intera statalizzazione dei mezzi produttivi, perché abbiamo già visto nel sistema sovietico che alla lunga non funziona. Sono bastati 70 anni perché tutto crollasse. Da quell'esperimento non possiamo prendere nulla. Dovremo inventarci qualcosa di nuovo. E la prima cosa che dovremo fare sarà abbattere la dittatura militare che ci piomberà sulla testa. Perché è fuor di dubbio che di fronte al dissesto economico e finanziario il sistema si difenderà affidando i poteri ai militari. La guerra civile sarà inevitabile, così come inevitabile sarà il tentativo del sistema di deviare l'attenzione dai problemi interni verso l'esterno, favorendo la guerra contro uno Stato definito "nemico" o "canaglia". Se ci sarà guerra civile, l'occupazione delle leve dello Stato sarà un obiettivo prioritario. Ma lo Stato serve per coordinare la resistenza contro i reazionari. Non può servire per ricostruire l'economia, se non a livello d'indirizzo o di coordinamento. Qui devono farsi valere gli Enti Locali Territoriali, che devono gestire le risorse locali in maniera sociale, togliendo la loro proprietà ai privati. Poi le Regioni faranno intese o convenzioni obbligatorie con altre Regioni per eliminare le disparità.

Ma dobbiamo evitare con cura che lo Stato monopolizzi la produzione e la distribuzione dei prodotti. Lo Stato deve favorire la difesa nazionale e il commercio estero, ma in politica interna deve delegare agli organi periferici la gestione del territorio, perché solo così si sviluppa l'intelligenza delle cose e si elimina la burocrazia. Questo però vuol dire che ci vorranno risorse finanziarie. Cioè le tasse non potranno essere inviate a Roma e aspettare che da qui torni una parte indietro. A Roma andrà quella parte di tasse per far funzionare quel che serve a livello nazionale, come per es. la costruzione di infrastrutture interregionali.


3. All'attenzione pubblica mondiale si è imposto il concetto di "multipolarità", ma non facciamoci illusioni. Serve a vincere il globalismo neoliberista? Non lo so. Il capitalismo di stato della Russia, della Cina, dell'India ecc. può vincere il capitalismo privato dell'occidente? Forse. Ma il punto è un altro. Poniamoci una domanda: il multipolarismo è forse l'anticamera di un socialismo finalmente democratico? Ho i miei dubbi. In sé riguarda solo il rispetto reciproco delle civiltà esistenti, degli interessi diversificati, della necessità di utilizzare le proprie monete nazionali, senza dover dipendere dal petrodollaro. Sarà sicuramente giusto agganciare le monete nazionali alle effettive risorse interne, come le riserve energetiche, i minerali pregiati, le terre rare, la produzione industriale... Ma ben presto ci si accorgerà che una nazione ha più beni di un'altra, e nell'ambito dei BRICS cosa si farà? La nazione più debole pretenderà di avere più potere per non essere fagocitata? Forse si realizzerà una comune moneta virtuale per realizzare alcune forme di scambio commerciale. Ma poi, in definitiva, che significa che la moneta va collegata a beni utili in ambito capitalistico? Perché obbligare gli Stati a pensare a dei vincoli del genere? E se gli scambi avvenissero sulla base del baratto? Non sarebbero meno faticosi, meno dispendiosi, più liberi dalle esigenze dei mercati? Sono così indispensabili i mercati e le borse di titoli e valori? Siamo sicuri che l'autoconsumo sia una cosa obbrobriosa, da evitarsi assolutamente? Senza dubbio il multipolarismo è un concetto che favorisce l'indipendenza dello Stato politico, la fine del neocolonialismo. Ma questo non può bastare per realizzare la democrazia sostanziale, il socialismo reale e non mercantilistico come quello cinese.

A chi piace una Russia così legata alla tradizione religiosa dell'ortodossia? A chi piace un presidente che frequenta in maniera così stretta gli ambienti ortodossi in una Federazione multiconfessionale? A me no. Sotto questo aspetto preferisco i cinesi: sono più laici, più indifferenti alle religioni, più equidistanti.

E che dire della civiltà islamica? E' ancora più lontana dalle idee laico-umanistiche. Multipolarismo vorrà sicuramente dire che l'unipolarismo razzista, guerrafondaio, cinico e materialista dell'occidente morirà. E allora, quale sarà l'alternativa? Il burqa? Lo Stato confessionale? Il politeismo indiano? Oppure ognuno dovrà tenersi le proprie tradizioni? Le proprie identità? I propri valori? Quindi vorrà dire che si creeranno a livello mondiale dei giganteschi ghetti che comunicheranno tra loro solo sul piano commerciale? E' tutto qui quello che chi è socialcomunista vuole per tutta l'umanità?


4. Come finirà questa guerra? Falcone diceva che ogni cosa ha un inizio e una fine, e anche questa l'avrà. Ma non finirà bene né per l'Ucraina né per la NATO né per l'Europa né per l'occidente collettivo. Ormai le cose si sono incancrenite e stanno procedendo per conto loro, come un treno senza macchinista. Gli obiettivi iniziali della Russia erano molto chiari: denazificazione del governo di Kiev, smilitarizzazione del Paese (ridotto ad avere armi puramente difensive), fuori la NATO dall'Ucraina, anche se il Paese poteva entrare nella UE. Putin inoltre vuole smantellare tutte le basi NATO ai confini del suo Paese, poiché si rende conto che possono minacciarlo sul piano nucleare.

Sotto questo aspetto ho i miei dubbi che Mosca voglia accettare la soluzione coreana, in cui la parte occidentale dell'Ucraina passa sotto la NATO e il Donbass se lo tiene la Russia, lasciando che il Paese resti diviso, all'incirca, dal grande fiume Dnper. Questa infatti è una soluzione che tra qualche anno riproporrà una nuova guerra, anche nel caso in cui Mosca ottenga una zona di smilitarizzazione di 200-300 km dal Donbass, e anche nel caso in cui l'attuale giunta neonazista venga sostituita con una più moderata, che rispetti le regole della democrazia formale, pur conservando la necessaria russofobia. Questo perché l'Ucraina è destinata a perdere qualunque forma di indipendenza politica ed economica, a prescindere da quello che vogliono i neonazisti di Kiev.

Ora poi che nella NATO sono entrate anche Finlandia e prossimamente Svezia, il problema della sicurezza si è incredibilmente complicato. Dopo il coinvolgimento dell'occidente collettivo, Mosca ha bisogno della resa incondizionata da parte di Kiev. Non possono esserci trattative con Washington relative all'attuale linea di contatto. A meno che Mosca non dimostri di non essere in grado di occupare Kiev, ma è molto dubbio che non riesca a farlo. In un primo tempo ha sperato in una trattativa diretta e veloce con Kiev per non far perdere all'Ucraina la sua indipendenza, per limitare il più possibile le perdite umane e materiali. Ora la situazione è completamente diversa: la Russia si sente in guerra contro l'intero occidente, che continua a boicottarla e sanzionarla in tutte le maniere. Mosca in realtà ha bisogno di un cambio di regime a Washington, che a sua volta determini un mutamento radicale nella postura bellicistica all'interno della UE.

Nella guerra di Corea la Cina fu indotta ad accettare il congelamento perché non aveva forze sufficienti per vincerla con sicurezza (come invece oggi le ha la Russia). Anzi oggi la Cina tende a porre fine a tutto ciò che la separa da Taiwan. Se vi riesce, pretenderà poi la riunificazione delle due Coree con tanto di chiusura forzata di tutte le basi militari americane. Perché avvenga tutto ciò è solo questione di tempo.

Di sicuro in una soluzione coreana Mosca non darà un rublo per ricostruire l'Ucraina occidentale. Anzi non è da escludere che prima di accettare una soluzione del genere, Mosca faccia in modo d'impedire all'Ucraina occidentale di non nuocere per molto tempo, al punto che la UE dovrà discutere se accettare al proprio interno un Paese completamente distrutto.

Mosca non può neppure permettere che la Polonia si riprenda la Galizia e la Volinia, perché sarebbe troppo umiliante per gli ucraini filo-russi. Anche perché la Polonia non darebbe niente in cambio. Al massimo Mosca potrebbe accettare di concedere qualcosa della Transcarpazia agli ungheresi, al fine di permettere loro di ricongiungersi coi magiari residenti in Ucraina, perseguitati dai neonazisti di Kiev esattamente come i russofoni del Donbass. Potrebbe fare questa concessione come premio per essersi rifiutati di aderire alle sanzioni antirusse. Non credo neppure che cederà una parte della Bessarabia alla Romania, che non vede l'ora di unirsi alla Moldavia per diventare un grande Stato della NATO. Anzi per me Putin finirà con l'occupare Odessa per unire il Donbass alla Transnistria, realizzando i desideri dei russofoni della Transnistria. Dopodiché la Moldavia o la Romania ci penserebbero due volte prima di minacciare la Transnistria. Non è poi da escludere che la Gagauzia, una regione autonomista della Moldavia, non riconosciuta dal governo centrale, non chieda aiuto alla Turchia o alla Russia per essere riconosciuta come tale.

Se la Russia occupa Odessa, toglie all'Ucraina lo sbocco al mare e la riporta al Medioevo. Non credo che arriverà a tanto se Kiev accetta la resa incondizionata.

Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito hanno quasi completato i lavori su una bozza di accordo-quadro sugli obblighi di sicurezza dell'Ucraina: si prevede che i Paesi del G7 e della UE vi aderiranno. Cioè Kiev, in cambio della promessa di adesione alla NATO, potrebbe essere persuasa a negoziare la pace coi russi, ammettendo la perdita del Donbass e della Crimea. Questo perché in Europa i grandi Stati cominciano a essere stanchi della guerra. Insomma per la NATO è importante che rimanga un pezzo di territorio ucraino che, come un cancro, possa indebolire la Russia, permettendo alla NATO di dispiegare contingenti militari e armi nel territorio rimasto libero dalla presenza russa.

Potrà però Mosca, dopo i tanti soldati morti che ha avuto, accettare una conclusione del genere, che non risolverà affatto il problema della sicurezza dell'intera Federazione? Assolutamente no.

Altra ipotesi risolutiva: il modello israeliano. Israele non è membro della NATO e quindi non è obbligato ad aiutare gli alleati in caso di attacco da parte di un qualche nemico, come previsto dall'art. 5 del Trattato Nord Atlantico. Ma allo stesso tempo il Paese è considerato un partner importante degli Stati Uniti, che gli forniscono una significativa assistenza militare e finanziaria.

In particolare Kiev non dovrebbe aspettarsi che l'accordo sia "legalmente vincolante" né attendere che si svolgano esercitazioni militari sul territorio ucraino. L'accordo conterrà la nozione di "obblighi" ma non di "garanzie di sicurezza". Non è però chiaro se l'accordo sarà pluriennale o di breve durata. E' probabile che gli aiuti militari rimangano ai livelli attuali e diminuiscano se il conflitto finirà. Di sicuro al momento l'Ucraina non potrà entrare nella NATO, poiché non c'è consenso unanime tra i membri dell'alleanza. Il Regno Unito, i Paesi dell'Est e quelli scandinavi sarebbero favorevoli, ma altri no. La UE sta discutendo, come possibili obblighi per l'Ucraina, il proseguimento del finanziamento delle forniture di armi attraverso il Fondo europeo per la pace, l'ampliamento delle possibilità di addestramento dell'esercito ucraino, l'invio di missioni militari in tale Paese a condizioni adeguate. La bozza di dichiarazione dei leader europei parlava della natura a lungo termine di un possibile accordo.

E' evidente che con questa proposta l'occidente vuole riprendere fiato, dopo le sonore sconfitte sul campo, per rimpinguare le sue scorte militari. E tutti sappiamo che Israele è dal 1948 ad oggi la principale disgrazia del Medio Oriente.

Non è da escludere, vedendo l'irrazionalità di Zelensky, che i politici ucraini più moderati decidano di abolire il presidenzialismo e di tornare al parlamentarismo, facendo in modo che il primo ministro venga eletto con pieni poteri dalla popolazione, ma sia soggetto al parlamento. Oggi è solo una marionetta in mano al presidente della Repubblica.

Finita questa guerra è impossibile che la Russia non voglia intervenire nei Paesi Baltici, ove i russofoni hanno cominciato a subire vessazioni di ogni genere; è impossibile che non voglia regolare i conti con Svezia e Finlandia, ora che sono entrate nella NATO, per la questione della sicurezza dei confini e per l'accesso al Mar Baltico (fondamentale per rifornire Kaliningrad); è impossibile che la situazione della Transnistria rimanga così precaria e indefinita sul piano internazionale; è impossibile che in Siria, nazione alleata di Mosca, le basi americane continuino a derubarla del suo petrolio con la complicità dei kurdi; è impossibile che Mosca resti indifferente alla richiesta dei serbi di risolvere l'assurda questione del Kosovo; è impossibile che non si risolva una volta per tutte l'annosa conflittualità tra armeni e azeri; è impossibile che Moldavia e Georgia possano pretendere di entrare nella NATO; è impossibile che le responsabilità per il sabotaggio del Nordstream non vengano definitivamente accertate e che non si faccia luce su tutti gli atti di terrorismo compiuti da Kiev con la complicità dell'intelligence occidentale. E' impossibile che Mosca non chiarisca al mondo intero, nella maniera più dettagliata possibile, quanto sono pericolosi i biolaboratori che gli USA gestiscono segretamente in molte parti del mondo.

Se questa guerra russo-ucraina non viene vinta dalla Russia, verrà persa dall'intera Europa, poiché inevitabilmente si ricorrerà al nucleare. Ma se viene vinta, Mosca chiederà necessariamente di risolvere tutte le altre situazioni di tensione che rischiano in futuro di provocare nuove guerre. E in questo suo atteggiamento costruttivo potrebbe trovare in Europa degli alleati o dei sostenitori disposti a ripristinare la cooperazione economica.


5. Le condizioni per realizzare una pace stabile in Europa sono molto semplici, e quindi probabilmente irrealizzabili, perché noi siamo fatti apposta per complicarci la vita.

Questa guerra non può finire con una semplice trattativa di pace. Vanno reimpostati i criteri della reciproca sicurezza. L'occidente non ha mai capito il principio che la sicurezza o è reciproca o esiste solo per il più forte. Poiché l'aggressività della NATO è diventata insostenibile per la sicurezza della Russia, questa pretenderà che la UE abbia un proprio esercito che non dipenda dall'egemonia americana. Le trattative per smantellare il nucleare da tutto il teatro europeo si faranno successivamente. Dai Pirenei agli Urali il continente va denuclearizzato. E questo non sarà mai possibile finché la UE non rinuncia al suo ruolo di colonia americana.

In Europa, per garantire un minimo di sicurezza alle generazioni future, dovremmo anzitutto pretendere la limitazione o riduzione degli armamenti nucleari strategici e a medio raggio, fino a preventivare la loro definitiva distruzione.

All'interno di tale obiettivo dovrebbero essere inclusi due divieti: 1) qualunque tipo di sperimentazione che aumenti la potenza delle armi nucleari; 2) poter usare, in caso di conflitto, l'arma atomica per primi (il cosiddetto "attacco preventivo" o "primo colpo"). Due cose che, se non vengono tolte di mezzo, qualunque altro discorso diventa inutile.

Ora, visto che NATO e Russia hanno già tante di quelle armi nucleari da potersi annientare reciprocamente, dovrebbe essere relativamente facile mettersi d'accordo sull'eliminazione di tutte le altre armi di distruzione di massa: chimiche, batteriologiche, spaziali, a laser, a fasci particellari ecc. Non ha alcun senso pensare di disintegrarci a vicenda usando armi differenti, quando abbiamo capito che ne basta solo una per farlo e che di questa ne abbiamo più del necessario.

Certo è che se la NATO continua a installare basi a ridosso dei confini della Russia, queste proposte non hanno alcun senso. La NATO capisce solo i rapporti di forza, per cui la Russia (e col tempo lo farà anche la Cina) sarà costretta a installare le proprie basi nucleari il più vicino possibile agli USA (Caraibi? Centro America? Nord Corea?).

Non c'è bisogno d'essere degli esperti psicologi per capire che quando due nazioni sono in guerra e si odiano a morte, quella fermamente convinta che la propria forza militare dipenda dalle armi che l'altra non ha, sarà più propensa a sferrare il primo colpo. E sappiamo bene questo cosa significhi in campo nucleare (o comunque nel settore delle armi di distruzione di massa).

Chi possiede le armi atomiche vuole usarle per primo, facendo in modo che il nemico non sia in grado di reagire. La prima nazione a dichiarare che non le avrebbe mai usate per prima fu l'URSS nel 1982. Gli USA si sono sempre rifiutati di prendere un analogo impegno.

Anche un bambino capisce che se tutte le nazioni nucleari rifiutassero di sparare il primo colpo, non potrebbero esserci neppure i successivi, e quindi una guerra nucleare sarebbe virtualmente scongiurata. Probabilmente i russi fecero quella dichiarazione di buon senso perché ritenevano che nessun primo colpo può essere così devastante da impedire al nemico di reagire in maniera altrettanto catastrofica. Erano in sostanza giunti a una realistica conclusione: non esiste alcuna difesa antimissilistica impenetrabile.

Sotto questo aspetto bisogna convincersi che quanto più si militarizza lo spazio, tanto più è probabile che scoppi sulla Terra una guerra nucleare. Qualunque esercito vorrebbe guerreggiare guardando il nemico dall'alto. Oggi non c'è niente di meglio che farlo coi satelliti (militari, spionistici, telecomunicativi, meteorologici ecc.).

Per queste ragioni è difficile pensare che un qualunque trattato di pace tra russi e ucraini non preveda un allargamento dei criteri di sicurezza in cui sia coinvolta l'intera Alleanza atlantica (che va anche oltre i Paesi della UE). Sono troppe le sue basi militari ai confini della Russia. Per "basi" non si devono intendere solo quelle terrestri, ma anche quelle dislocate nello spazio. Per non parlare del fatto che una portaerei americana è una base a se stante, in grado di controllare ampie porzioni di oceano, stretti commerciali, spazi aerei, e di gestire sbarchi terrestri di marines, e di lanciare missili intercontinentali.

Ci devono per forza essere delle condizioni militari in grado di offrire più o meno sicurezza. Una potrebbe essere questa: nessuno Stato dovrebbe possedere armi che possano impedire a un altro Stato di reagire. Cioè non solo andrebbero evitati gli attacchi di sorpresa, ma anche che tali attacchi siano così devastanti da scongiurare un colpo di ritorsione. Questo significa che qualunque arma superveloce, di lunga gittata e di distruzione di massa andrebbe smantellata. Nessun esercito dovrebbe puntare ad avere un'evidente superiorità in mezzi e uomini su un altro esercito (almeno a parità di estensione geografica o di densità demografica). La sicurezza di uno Stato dovrebbe essere stabilita a un livello di armamenti ragionevole, sufficiente alla propria difesa. Se fosse possibile porre dei controlli effettivi su condizioni del genere, allora forse si potrebbe parlare di pace. Che ovviamente va garantita con sempre meno armi o sempre meno pericolose, creando zone totalmente smilitarizzate sempre più ampie.


6. Vediamo il concetto di autodeterminazione dei popoli, un principio riconosciuto dall'ONU e dalla comunità internazionale. Abbiamo parlato molto di questo concetto già al tempo in cui lo rivendicava la Catalogna contro la Spagna. Ma nel passato lo rivendicavano anche i baschi contro gli spagnoli, gli scozzesi e gli irlandesi contro gli inglesi, gli abitanti della Corsica contro la madrepatria francese, e così via. La stessa Ucraina nel 1991 si separò dalla Russia in nome dell'autodeterminazione dei popoli. In Italia abbiamo avuto a che fare coi sudtirolesi, al tempo in cui facevano i terroristi perché volevano passare sotto l'Austria. La DC gli concesse di tenere il 100% delle tasse e quelli smisero di buttare le bombe. Oggi sono così felici e contenti che non solo non chiedono di passare sotto l'Austria ma non sanno neppure che farsene della doppia cittadinanza. Infatti l'Austria non gli farebbe di sicuro un favore così grande.

Prima di questa guerra russo-ucraina i Protocolli di Minsk I e II, mai rispettati a partire dal golpe del 2014, parlavano chiaro: lo Stato neonazista, fortemente centralista, di Kiev non ha mai accettato l'idea di concedere uno statuto speciale al Donbass, che gli permettesse di dotarsi di forze di polizia autonome e di un sistema giudiziario propri, e di un'autodeterminazione linguistica. I russofoni delle due repubbliche del Donbass (Donetsk e Lugansk) volevano anche la partecipazione degli organi locali di autogoverno alla nomina dei Capi delle procure e dei Presidenti dei tribunali delle aree autonome. Per tutte queste cose venivano considerati "terroristi". Ricordo che queste due regioni, sommate per estensione geografica, erano grandi come il Lazio e che l'Ucraina è due volte l'Italia. Oggi, per non concedere il decentramento a queste due piccole regioni, Kiev rischia di perdere l'intera nazione.

I vari governi neonazisti ucraini non hanno mai accettato né il cessate il fuoco del loro esercito regolare, né l'uso di armi di un certo calibro, né il rispetto di una zona smilitarizzata, né l'obbligo di disarmare i gruppi ultranazionalisti e neonazisti (battaglione Azov e apparato militare di Pravij Sektor) che combattevano illegalmente contro i separatisti, e tanto meno si sono preoccupati di processarli quando si macchiavano di atrocità (come per es. quella di Odessa). Naturalmente rifiutavano l'appoggio militare della Russia alle due repubbliche di Donetsk e Lugansk. L'OSCE registrò 200 violazioni del cessate il fuoco tra il 2016 e il 2020 e oltre 1.000 dal 2021. Insomma Kiev firmò gli accordi sapendo a priori che li avrebbe disattesi e non vedeva l'ora di sferrare un attacco mortale contro quelle due repubbliche. Voleva farlo perché sapeva benissimo di avere alle spalle la NATO.

I protocolli sono stati firmati anche da Francia, Germania e Polonia, non solo da Russia, Ucraina, OSCE e leader separatisti. Ottennero anche il visto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Francia e Germania hanno ammesso che i Protocolli furono firmati solo per dar tempo ai nazisti del governo di Kiev di armarsi e addestrarsi a dovere.

Un forte punto di disaccordo era l'ordine d'implementazione dei punti politici e militari dei protocolli. La Russia considerava l'ordine dei punti una scaletta da attuare cronologicamente: l'Ucraina doveva prima garantire ai separatisti nel Donbass un'autonomia effettiva e una rappresentanza nel governo centrale; solo dopo sarebbe avvenuto il ritiro dei mezzi militari e il ripristino del controllo ucraino del confine.

Zelensky invece pretendeva il contrario: prima il ripristino dei confini nazionali, poi le elezioni regionali. Inoltre rifiutava di garantire una vera autonomia alle regioni filorusse, poiché le considerava "occupate" dalla Russia, che col passare degli anni aveva concesso la cittadinanza a oltre 800.000 abitanti. Era convinto che l'autonomia alle regioni separatiste avrebbe potuto essere un mezzo per Mosca per ottenere una sorta di veto sulle decisioni di politica estera dell'Ucraina, soprattutto in riferimento all'intenzione di aderire alla NATO. In effetti Mosca, se non si è mai opposta all'idea di Kiev di aderire alla UE, non ha mai accettato l'idea di avere dei missili americani in grado di colpirla in pochi minuti. In 8 anni ci sono stati 14.000 morti e 1,5 milioni di sfollati.

In Crimea il referendum sull'indipendenza fu vinto dai separatisti col 97% dei voti. Nelle regioni del Donbass il referendum conseguì il 79% dei voti favorevoli.

L'occidente non vuol sentir parlare di autodeterminazione dei popoli, a meno che questa autodeterminazione non serva per distruggere uno Stato socialista o non globalista o islamizzato, cioè a meno che gli insorti non facciano gli interessi dell'occidente, come è successo col Kosovo (dove i fascisti dell'UCK passarono da terroristi a patrioti in un attimo), col Sud Sudan, coi Kurdi, coi Tibetani, gli Uiguri in Cina, le tribù libiche... La stessa disintegrazione della Jugoslavia è frutto di una concezione di autodeterminazione favorevole agli interessi occidentali. A proposito del Sud Sudan: questo Paese acquisì l'indipendenza definitiva il 9 luglio 2011, a seguito di un referendum passato con il 98,83% dei voti. Ebbene l'ONU lo riconobbe il 14 luglio! Se avesse avuto la stessa celerità nei confronti delle due repubbliche del Donbass, forse tutto questo macello non sarebbe successo. E' evidente, infatti, che se uno Stato non viene riconosciuto come separatista o secessionista, si autorizza l'altro, da cui si è staccato, a combatterlo continuamente.

In occidente se lo Stato è pienamente capitalistico, occidentalizzato, formalmente democratico, vale il principio dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale e indipendenza di uno Stato politico centralizzato, che è tale anche quando è federato, poiché il riconoscimento dell'autonomia regionale è molto relativo, puramente formale, riguardante solo alcuni campi ristretti di intervento. Una cosa infatti è staccarsi consensualmente in due nazioni distinte (come Cekia e Slovacchia), entrambe capitalistiche, con tradizioni e lingue diverse (si separarono pacificamente il 1 gennaio 1993 e 18 giorni dopo furono riconosciute dall'ONU); un'altra è staccarsi autonomamente, riducendo i confini di una nazione o addirittura per finire sotto un'altra nazione (come per es. vorrebbero fare i magiari della Transcarpazia in Ucraina, che vorrebbero passare sotto l'Ungheria perché si sentono molto discriminati).

Insomma con questa guerra abbiamo capito che quando un popolo rivendica la propria autonomia, indipendenza, autodeterminazione, bisogna ascoltarlo molto attentamente, bisogna trovare un'intesa effettiva, un compromesso efficace, convincente, altrimenti si rischia una guerra civile, e se il popolo chiede l'intervento di uno Stato straniero, si rischia addirittura una guerra regionale e persino una guerra mondiale (come successe nella I guerra mondiale, quando le varie etnie, nazionalità, regioni dell'impero austro-ungarico pretendevano di separarsi da Vienna. Per non concedere questa autonomia, saltò per aria l'intero impero e oggi l'Austria è una nazione dal peso geopolitico quasi nullo).


7. Le basi NATO che abbiamo in Italia, a prescindere dalle intenzioni europee e dalla volontà americana, vanno nazionalizzate, eliminando la loro extraterritorialità giuridica, e vanno denuclearizzate, cioè ridotte a un sistema di difesa convenzionale, e vanno private della presenza americana in Italia, poiché la difesa va posta sotto il controllo di uno Stato nazionale indipendente, uno Stato che, nel nostro caso, appartiene anche a una Unione Europea, per cui la difesa è anche un argomento sovranazionale, ma sempre nell'ambito di un collettivo scelto per contratto consensuale. I criteri della difesa non possono essere imposti da uno Stato estero, in virtù della sua forza militare. Noi non possiamo fare a meno della difesa, ma non possiamo neppure rinunciare alla libertà di difenderci come vogliamo. E neppure possiamo accettare l'idea che le nostre basi abbiano una capacità offensiva tale per cui gli Stati limitrofi non si sentano sicuri con noi. Non possiamo disporre di armi che impediscano a un eventuale nemico di difendersi o di sparare un colpo di ritorsione, perché nessuno Stato accetterà di essere messo in una condizione tale da avere costantemente paura del suo vicino di casa. Noi dobbiamo evitare al massimo di porre le condizioni che favoriscono una corsa al riarmo.

La NATO fa paura, non solo perché è sommamente aggressiva, ma anche perché ambisce a un ruolo internazionale. Non è più un'alleanza anticomunista meramente europea. E' uno strumento di morte a favore del dominio statunitense, contro chiunque lo metta in discussione, comunista o islamista o capitalista, rivale o colonizzato insubordinato.

Tuttavia se la NATO non si scioglie, come ha fatto il Patto di Varsavia, la Russia punterà gran parte dei propri missili nucleari sulla UE. Anzi Russia e Cina costruiranno basi militari nel Centro America e riempiranno la Corea del Nord di missili ipersonici, in grado di colpire qualunque area degli USA.

La NATO domina nettamente l'Unione Europea: la Commissione Europea, il Consiglio di Stato, lo stesso Parlamento europeo prendono ordini dalla NATO o dagli USA. Persino il Tribunale Penale Internazionale, cui gli USA non hanno aderito, non può esprimere sentenze autonome.

Non solo, ma gli USA tendono a preferire nell'ambito della NATO gli ex Paesi del blocco sovietico, perché, essendo più poveri, sono più facilmente ricattabili.

Addirittura l'Unione Europea è costretta a pretendere, da parte di quegli Stati che vogliono entrare in questo blocco economico, che entrino anche nella NATO.

Insomma o nella NATO entra la stessa Russia, e allora si può ragionare sulla sicurezza reciproca, oppure la guerra andrà avanti finché USA, UE e NATO non scenderanno a più miti consigli.

Putin disse in un'intervista: "Noi moriremo come martiri, ma voi come cani". Nel senso che i russi, come al solito, si considereranno vittime di una situazione che non hanno in alcun modo favorito, mentre noi occidentali subiremo un tale colpo di ritorsione che non riusciremo a riprenderci tanto facilmente. La distruzione delle due città giapponesi va considerata un'inezia rispetto a quello che può accadere oggi. Tanto per fare un esempio, i russi sono in grado con le loro armi atomiche di sommergere l'intera Inghilterra con le acque dell'oceano.

Certo, quella frase uno come Gorbaciov non l'avrebbe mai detta, ma perché lui era un ingenuo, un idealista, un buonista. Putin invece è un duro, anche se tra i duri della leadership russa, è forse il più moderato (Medvedev, Surovikin, Patrushev lo sono molto meno). E' rimasto molto deluso dall'atteggiamento dell'Europa e ora non è più disposto a fare concessioni. Se anche volessimo riprendere i rapporti commerciali con la Russia ripristinando il Nordstream, ci risponderebbe che i danni dobbiamo pagarli tutti noi, visto che loro non hanno nessuna colpa.


8. La riforma dell'ONU è imprescindibile. Il Consiglio di Sicurezza non può essere più importante dell'Assemblea Generale, al massimo può svolgere il compito di un organo esecutivo che controlla il rispetto delle decisioni prese in Assemblea (per le quali basterebbe una maggioranza di 2/3). E' vero che lo si è allargato ad altre nazioni, ma il diritto di veto è rimasto solo a cinque nazioni. Oggi il Consiglio di sicurezza è composto da altri 10 Paesi eletti dall'Assemblea Generale per un mandato di due anni, non immediatamente rinnovabile. Sono suddivisi tra i raggruppamenti geografici dell'ONU (3 seggi per l'Africa; 2 per l'Asia-Pacifico; 2 per i Paesi del Gruppo Occidentale; 2 per i Paesi dell'America Latina e Caraibi; 1 per i Paesi dell'Europa dell'Est).

Per espellere la Russia dal Consiglio di Sicurezza - come ha chiesto Zelensky - ci vorrebbe l'unanimità dei Paesi con diritto di veto (probabilmente anche una maggioranza non inferiore ai 2/3 degli altri 10 Paesi) e soprattutto il rifiuto della Russia di partecipare alle riunioni dello stesso Consiglio (cosa che si è verificata solo una volta nei primi anni Cinquanta, quando l'ONU, durante la guerra in Corea, sosteneva la parte Sud filo-americana contro il Nord comunista. Ma nessuno aveva mai avanzato una richiesta così assurda).

Va inoltre detto che i tre Paesi occidentali del Consiglio di sicurezza si sono sempre opposti all'idea di allargare il Consiglio ad altri Paesi di notevole importanza, come Germania, India, Giappone e Brasile, concedendogli il diritto di veto (oggi sono in lizza anche Nigeria, Sudafrica ed Egitto). Si pensi che lo stesso Segretario generale dell'ONU, che pur presiede gli incontri del Consiglio di sicurezza, non ha alcun diritto di voto.

L'unica riforma possibile dovrebbe considerare il fatto che mentre nel 1945 le Nazioni Unite contavano 51 Stati membri, oggi ne contano 193, sicché la distribuzione dei seggi dei Paesi non permanenti nel Consiglio di sicurezza non ha alcun senso. E forse non ha nemmeno senso che esista un Consiglio di sicurezza infinitamente più importante dell'intera Assemblea generale. Se si abolisse del tutto il Consiglio di sicurezza ci saremmo risparmiati il ridicolo discorso che Biden ha rivolto all'Assemblea Generale il 21 settembre 2022, in cui ha assicurato, sperando di togliere consenso ai BRICS, il sostegno degli USA all'aumento del numero di rappresentanti permanenti e non permanenti nello stesso Consiglio di Sicurezza, con particolare preferenza per i Paesi del Sud globale.

Questa guerra ha dimostrato che l'Assemblea è sempre stata più obiettiva dello stesso Consiglio. In tutte le proposte di risoluzione antirusse, l'Assemblea non ha mai dato la maggioranza. E quando l'ha data, all'inizio del conflitto, gli Stati astenuti o contrari avevano una popolazione decisamente superiore a quella degli altri Stati. In tutte le sue risoluzioni l'ONU tende a essere favorevole all'occidente, oppure, se l'occidente interviene militarmente senza un esplicito mandato, l'ONU non reagisce negativamente (anche l'OSCE in Ucraina era favorevole a Kiev e non al Donbass). Quindi o l'ONU accetta di essere riformato, oppure è meglio uscirne, poiché è solo una perdita di tempo e di denaro.

All'inizio dell'operazione speciale in Ucraina i Paesi africani sembravano un po' indifferenti. All'ONU non avevano votato a favore delle sanzioni antirusse, ma neppure contro: si erano astenuti. Avevano attribuito una dimensione regionale a quel conflitto. Poi, con la grande attività diplomatica di Mosca, han capito che stava cambiando il mondo. E la cartina di tornasole di questo mutamento epocale stava nel fatto che l'occidente collettivo voleva conservare nei confronti dell'Africa il rapporto coloniale di sempre. Cioè per avere il continente dalla propria parte contro la Russia, l'occidente avrebbe cercato di ricattarlo e minacciarlo in tutte le maniere (anche affamandolo, se necessario). A un certo punto l'Africa ha detto basta. Un continente ricchissimo di risorse di tutti i generi non può continuare a vivere in maniera poverissima, non può avere a che fare con un modello di sviluppo contrario ai propri interessi, non può essere costretto a una continua emigrazione per motivi economici o bellici. E' stata l'Africa a dare al conflitto russo-ucraino una valenza internazionale.


9. Vediamo ora il ruolo degli Enti Locali a livello nazionale. Questo è il punto più difficile, perché quello operativo e io non sono la persona più adatta per affrontarlo, ma un Comitato urbano, locale, provinciale, con proiezione regionale deve esserlo.

Come premessa direi di non ripetere gli errori del passato socialismo statale, sia quello di tipo industriale-sovietico, che quello di tipo rurale-cinese.

Naturalmente qui dobbiamo escludere a priori che possa esistere un socialismo mercantilista o liberista o capitalista o che il capitalismo di stato sia una forma di socialismo. Altrimenti qualunque discorso diventa privo di senso.

La guerra in corso tra occidente collettivo da un lato e Russia e Cina dall'altro è una guerra tra due forme di capitalismo: una privata, quella occidentale, e l'altra statale. Quella privata è destinata a soccombere, perché, anche se può apparire più avanzata in certi settori tecno-scientifici, nel complesso è più disumana, più ipocrita, più falsa, meno attenta al Welfare, ai bisogni sociali, al bene comune. Col tempo non può reggere, poiché crea malcontento, insofferenza, ribellione non solo al di fuori di sé ma anche all'interno di sé, favorendo una grande instabilità governativa. Il baricentro della storia si sta spostando da ovest a est, e si sposterà ancora di più da nord a sud, o comunque dall'area euro-americana a quella asiatica e da questa a quella afro-sudamericana. L'anglosfera sta morendo e non vuole morire senza combattere.

Qui ormai siamo arrivati a un punto in cui le alternative semplicistiche sono diventate due: o tutti questi conflitti (in Ucraina, in Israele, a Taiwan o altrove) si risolvono a tarallucci e vino, cioè in un nulla di fatto, oppure scoppia una guerra mondiale. Non ci sono vie di mezzo, come ad es. le guerre regionali.

Dipende da cosa vogliono fare gli Stati Uniti: sono loro i principali malati terminali. Infatti che la guerra per procura sia persa in Ucraina è un dato di fatto. Che questa sconfitta resti indipendente da ciò che avverrà in Medio Oriente è altrettanto scontato. Che dopo questa sconfitta gli USA vogliano passare a far la guerra alla Cina per la questione di Taiwan, è probabile.

Ma ci sono altre opzioni, tra cui il default dello Stato americano sul piano finanziario e il rischio che dopo questo default alcuni Stati federali vogliano staccarsi dal governo centrale. Gli Stati Uniti devono poi affrontare enormi flussi migratori provenienti dal Sudamerica, di molto superiori ai nostri. Non è escluso che gli USA trasformino la loro pseudo democrazia in un'esplicita dittatura militare.

Qualunque sia lo scenario prossimo venturo, in Italia (anzi in Europa) abbiamo il dovere di liberarci da questa dipendenza che ci incatena alla NATO e agli USA, e di conseguenza dobbiamo liberarci da tutti i nostri governi collaborazionisti, che non mettono in discussione questa dipendenza.

Come fare? Ci vuole un radicamento nel territorio locale e un coordinamento nazionale di queste unità territoriali locali.

Qual è il fine? Creare forse uno Stato centralista come quello attuale, ovviamente riveduto e corretto? Oppure creare uno Stato federalista come quello svizzero o tedesco? Oppure limitarsi a sostituire gli attuali parlamentari con altri eletti, sempre all'interno dell'attuale democrazia rappresentativa nazionale? Oppure favorire un decentramento o una devoluzione delle funzioni statali, eventualmente a livello regionale?

Per me queste sono tutte soluzioni che non permettono di evitare il rischio di creare una nuova democrazia formale.

Una democrazia sostanziale può essere solo diretta, cioè locale, ove tutte le risorse economiche sono gestite dalla comunità locale, territoriale. Lo Stato deve progressivamente estinguersi, sciogliersi, come i classici del marxismo han sempre detto. Può essere mantenuto per le esigenze della difesa, per favorire il commercio estero, per favorire un certo equilibrio tra le diverse realtà locali e regionali. Ma le decisioni più importanti, nella quotidianità, vanno prese a livello locale, cioè l'ambito amministrativo deve diventare politico, e l'ambito politico-nazionale va subordinato alle esigenze locali-regionali.

E' possibile costruire una democrazia diretta senza fare una rivoluzione che ribalti il sistema politico nazionale? No, non si può. Ecco perché l'idea del Movimento dei Cinque stelle è fallita.

Si può costruire una democrazia diretta, dopo aver fatto una rivoluzione politica, quando all'estero esistono Stati aggressivi che vorrebbero occupare il nostro? Lo stalinismo diceva di no. Noi invece dobbiamo dire di sì. Noi dobbiamo dire che quanto più le comunità locali sono autonome, padrone delle loro risorse, cioè autogestite (almeno nelle risorse fondamentali, quelle che riducono al minimo la dipendenza dai mercati), tanto più saranno disposte a difendersi. Si difenderanno meglio anche dalla criminalità organizzata, che va debellata senza tanti scrupoli.

Se vogliamo costruire col tempo un movimento popolare, non può essere solo antigovernativo, deve essere anche antisistemico. Dovevamo essere antisistemici alla fine della II guerra mondiale, ma le forze partigiane, proletarie, democratiche, socialcomuniste sono state disarmate. La sinistra ha preferito il compromesso, temendo lo scoppio di una guerra civile: una sinistra che ha persino accettato l'art. 7 nella Costituzione perché temeva una guerra di religione tra cattolici e comunisti. Anche alla fine della I guerra mondiale potevamo e dovevamo essere antisistemici, ma dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche per colpa di un socialismo conformistico, ne ha approfittato la destra per fare la marcia su Roma. Ogni occasione mancata è persa e non lo è per poco tempo. Anche il decennio 1968-78 fu un'occasione perduta, e da allora non si è più ripresentato un momento favorevole come quello.

Di sicuro dobbiamo porre fine a una prassi consolidata, quella di uno Stato che vive sul debito. Dobbiamo smetterla di dare così tanta importanza al PIL: non è un criterio che spiega il benessere della popolazione. E' un criterio puramente quantitativo che riguarda prevalentemente imprese private, che per ristrutturarsi chiedono d'essere finanziate dalle tasse dei cittadini, col pretesto che, chiudendo, potrebbe far aumentare la disoccupazione o diminuire la ricchezza.

Quando un Paese ha il 140-150% di debito pubblico sul proprio PIL, si dà per scontato che non sia più in grado di pagarlo, quindi è un Paese prossimo alla bancarotta, e da questo destino non lo salveranno i tagli allo Stato sociale. Anche perché basta che entri in guerra e il debito pubblico salirà alle stelle.

Chi governa non si preoccupa minimamente di questi rischi, per una serie di ragioni: sia perché pensa che il PIL sia troppo alto per far fallire lo Stato; sia perché non può percepire la gravità di un debito pubblico quando lo vede spalmato a livello nazionale (cioè non lo percepisce come un pericolo che lo riguarda personalmente o che riguarda direttamente il territorio da dove ha preso i voti per essere eletto in parlamento); sia perché è convinto che gli italiani, per non veder fallire lo Stato e i loro risparmi, continueranno a comprare i titoli di stato (o bancari o postali); sia perché chi governa ha modo di esportare i propri capitali all'estero senza dover subire alcun controllo.

Democrazia diretta vuol dire diventare responsabili dei bilanci della comunità cui si appartiene. La democrazia non può mai essere una condizione politica che viene concessa dall'alto. Se viene concessa dall'alto, senza essere una conquista anche dal basso, sarà sicuramente una cosa fittizia. Uno Stato che garantisce la democrazia, automaticamente la nega. La democrazia può essere garantita solo da se stessa. Può essere conquistata anche con le armi, se necessario, ma non può coincidere con una rappresentatività parlamentare nazionale analoga a quella odierna, che di democratico ha solo il nome. I poteri che un parlamentare può avere, devono essere inversamente proporzionali alla distanza che lo separa dalla comunità che lo ha eletto, e tanto minori quanto è maggiore il tempo della sua lontananza da tale comunità.

Noi dobbiamo realizzare una versione inedita del socialismo democratico, una versione che non abbia nulla a che fare con le tentazioni della borghesia (liberistiche, globalistiche, socialdemocratiche, populistiche) e neppure coi limiti del multipolarismo, che di socialistico non ha nulla, nel senso che non ha un modello di socialismo da proporre. Multipolarismo vuol dire che ognuno ha il diritto di esistere per quello che è, senza dover subire imposizioni altrui, ma lascia impregiudicato il diritto di scegliere il modello di sistema sociale più conforme alle esigenze della democrazia, dei diritti umani e della tutela ambientale.

Questo vuol dire che dobbiamo ripensare totalmente, integralmente i criteri della produttività, del benessere, del consumo e anche dello sfruttamento, o meglio dell'utilizzo delle risorse naturali. Alla natura va data la possibilità di riprodursi, altrimenti non usciamo dalla logica del saccheggio, dalla prassi dell'inquinamento. Non dobbiamo aver paura di parlare di "decrescita" se questo termine viene associato in maniera seria al socialismo. Socialismo non vuol dire "non avere niente ed essere felici", non vuol dire "socialismo della miseria", non vuol dire "statalizzare o nazionalizzare tutto", in maniera tale che nessuno sia più responsabile di nulla. Vuol dire gestione collettiva di risorse comuni, reperite anzitutto localmente, in modo da ridurre al minimo la dipendenza dai mercati.

Se questo è vero, è evidente che gli Enti locali territoriali acquistano un'importanza strategica, di gran lunga superiore a quella dello Stato e dei suoi organi centrali.

Abbiamo bisogno di occupare lo Stato per realizzare questo progetto? Sì, ne abbiamo bisogno, perché lo Stato sicuramente lo ostacolerà con la violenza, essendo uno strumento nelle mani della borghesia, degli imprenditori, delle multinazionali. E dobbiamo occuparlo con una direzione centralizzata delle operazioni belliche, altrimenti ripeteremo gli errori della guerra civile spagnola, che fallì per le tendenze autonomistiche dell'anarchismo e del trotzkismo.

Abbiamo forse bisogno dello Stato per difenderci, una volta che l'avremo occupato, dalla reazione violenta di chi non accetterà di essere messo nel dimenticatoio? Sì, ne avremo ancora bisogno, perché senza una direzione centralizzata della difesa antisistemica, saremmo facilmente sconfitti.

Avremo ancora bisogno dello Stato quando la controrivoluzione sarà stata debellata? No, non ne avremo più bisogno. Faremo in modo di smantellarlo progressivamente. Non possiamo compiere di nuovo l'errore dello stalinismo, quando, col pretesto che la Russia poteva essere attaccata in qualunque momento dagli Stati capitalisti, ne approfittò per eliminare ogni forma di democrazia e imporre la dittatura del partito e lo Stato centralista, che faceva piovere dall'alto i piani quinquennali (su cui tutti a livello locale mentivano quando non si conseguivano gli obiettivi prefissati. Non solo ma lasciavano fallire le aziende, tanto sapevano che lo Stato le avrebbe assistite). Statale non coincide con sociale, anzi l'istanza statale, una volta vinta la controrivoluzione degli sfruttatori e di chi vuol campare di rendita, diventa il nemico più forte dell'istanza sociale.


23 febbraio


Croce su Marx va cestinato


A volte basta pochissimo per capire se un libro merita d'essere letto oppure no. Prendiamo per es. Materialismo storico ed economia marxistica di Benedetto Croce.

Nella Prefazione delinea i motivi per cui in gioventù gli piaceva Marx. Ebbene, non ce n'è uno che peschi nel vero. A capirlo, si comprenderà anche facilmente il motivo per cui Croce smise piuttosto in fretta di nutrire tale simpatia.

Anzitutto per lui Marx era un semplice hegeliano "assai più concreto" di quelli che riducevano Hegel a teologo o metafisico platonizzante. Lo era perché aveva dato molta importanza all'economia.

In realtà la borghesia europea (specie quella inglese) era piena di teorici che davano importanza all'economia, inclusa quella politica. Agli inizi del Novecento semmai erano i provinciali intellettuali italiani a non saperlo, salvo poche eccezioni (Pareto, Mosca, Michels...). Ma questa ignoranza dipendeva dall'arretratezza economica del nostro Paese.

Marx aveva preso a studiare economia grazie ai socialisti utopistici francesi. Ma fu solo a Londra che poté studiare una miriade di testi degli economisti borghesi.

Tuttavia questo interesse per la scienza economica non vuol dire assolutamente nulla. Anche Hegel conosceva alcuni testi dell'economia politica classica, ma da essi non trasse affatto le stesse conclusioni di Marx.

Non si diventa più "concreti" studiando economia politica o la storia delle dottrine economiche. Marx aveva notato che proprio gli economisti liberisti spesso cadevano in assurdità mistiche provenienti dalla teologia cristiana, seppure assunte in forma laicizzata (si pensi per es. alla "mano invisibile", provvidenziale, che in Smith risolve, quasi magicamente, tutte le storture del mercato capitalistico).

Tutti i testi economici di Marx si pongono come una critica dell'economia politica borghese o liberistica. E se non se ne capisce il motivo, è inutile considerare Marx più "concreto" di Hegel.

Nel Capitale Marx ha delineato per esteso le leggi del funzionamento del capitale, soprattutto del plusvalore, e le strutturali contraddizioni interne al sistema capitalistico, irrisolvibili per via pacifica. Croce queste leggi non le capirà mai, oppure, pur comprendendole, le rifiuterà.

Croce non dirà mai nulla di originale rispetto agli economisti classici della borghesia anglo-francese. Fu un provinciale, anche se si vantava d'aver letto e apprezzato Marx in gioventù, ponendosi sulla scia del suo maestro universitario, Antonio Labriola.

Marx non era un "hegeliano", quantunque più "concreto". Pur avendo aderito all'uso hegeliano della categoria della "necessità" (che Hegel peraltro aveva desunto da Spinoza), riteneva che anche la rivoluzione politica del proletariato industriale fosse necessaria. Cosa che Hegel non avrebbe mai ammesso, in quanto per lui tutte le contraddizioni del capitalismo potevano essere risolte senza aver bisogno di abbattere il sistema: era sufficiente la mediazione dello Stato interclassista, super partes.

Marx aveva accettato l'uso spregiudicato, rivoluzionario della dialettica hegeliana, ma per indirizzarla contro lo Stato prussiano e gli Stati in generale, quando difendevano gli interessi delle classi sociali proprietarie, nemiche giurate del proletariato nullatenente, disposte solo a sfruttarne la forza-lavoro.

La "concretezza" di Marx non dipendeva dagli studi di economia politica, ma dal fatto che si era messo a teorizzare un'alternativa al sistema capitalistico. Semmai non era abbastanza "concreto" quando evitava di mettere in discussione la potenza della rivoluzione tecno-scientifica e industriale della borghesia.

A suo giudizio, per sviluppare al meglio tale produzione, sarebbe stato sufficiente socializzarne la proprietà. Questo fu un errore di prospettiva che oggi, alla luce dei disastri ecologici dell'ambiente, stiamo pagando molto caro.

Il capitalismo non può essere contestato solo sul piano dello sfruttamento socio-economico della forza-lavoro, legittimato da un'arbitraria appropriazione privata dei principali mezzi produttivi. Ma va contestato anche in sé e per sé, come "formazione sociale in generale", come "modalità industriale di produrre", come "forma di civiltà" basata sul macchinismo.

L'industria che sostituisce l'artigianato e l'autoproduzione in agricoltura, è stata un'esigenza della borghesia: non è detto che debba essere salvaguardata. Cioè non è indispensabile, al fine di realizzare il socialismo, che esista un proletariato industriale, padrone dei mezzi produttivi. Anche supponendo di realizzare una completa sostituzione dell'operaio di fabbrica, rendendo automatici tutti i processi produttivi, resterebbe sempre da chiedersi se ciò sia lecito dal punto di vista delle esigenze riproduttive della natura.

Il socialismo non può essere soltanto un capitalismo gestito dallo Stato, né un capitale senza forza-lavoro salariata. Non necessariamente deve essere una società che, dopo aver tolto di mezzo l'ingombrante presenza dello Stato, utilizza l'industria per autoriprodursi. Questa prevalenza concessa all'industria sull'artigianato è tutta da discutere, e che sia gestita direttamente dallo Stato, o da una società che si priva dello Stato, non fa molta differenza.

Marx ha posto soltanto le basi teoriche per un superamento definitivo dello sfruttamento della manodopera nullatenente. Aveva capito che la libertà giuridica non impedisce di per sé a un cittadino di diventare uno schiavo salariato. Ma la sua idea di socialismo industrializzato non è detto che sia la soluzione migliore ai problemi del capitalismo.

Su questo argomento Croce non è di alcuna utilità. Bastano poche parole di una Prefazione per capire che il libro non merita d'essere letto. Le altre sciocchezze che ha scritto subito dopo la suddetta frase sulla "concretezza" di Marx lo confermano.

Infatti non è assolutamente vero che Marx volesse fare della "nuova società lavoratrice" una sorta di "aristocrazia". La classe operaia doveva emanciparsi per emancipare tutti gli altri. Se ci riusciva lei, che non possedeva nulla, perché mai non avrebbero potuto farlo i contadini o la piccola-borghesia, che pur subivano, seppur in altre forme, le vessazioni del capitale?

Marx critica la democrazia borghese perché la considera ipocrita, ma non si sarebbe mai sognato di fare del proletariato una nuova "aristocrazia" al di sopra di qualunque altra classe sociale. Semmai sono i sindacati imborghesiti a trasformare i metalmeccanici in una "aristocrazia operaia", snobbando le altre categorie di lavoratori salariati.

Marx si era semplicemente limitato a dire che, emancipando se stesso dalla borghesia, il proletariato industriale avrebbe emancipato l'intera popolazione. Sarà poi Lenin ad aggiungere che in un Paese arretrato come la Russia l'alleanza di tale proletariato coi contadini privi di proprietà agricola era assolutamente fondamentale per vincere la rivoluzione.

Semmai ci si può chiedere perché, là dove il proletariato industriale è giunto al potere, non si è stati capaci di eliminare la tutela dello Stato. Il "socialismo reale" di taluni Paesi s'è posto in realtà come un socialismo statale gestito dagli intellettuali, i quali, inevitabilmente, calavano dall'alto le loro direttive. Cioè qual è il motivo per cui una statalizzazione dei mezzi produttivi non serve a niente per realizzate un socialismo davvero democratico?

Si rende forse più democratico il sistema comportandosi come fanno gli attuali cinesi, che autorizzano lo sviluppo della borghesia sul piano sociale, pur senza rinunciare a un controllo statale dell'economia? Il fatto che esista un partito comunista al potere rende "comunista" una società?

Anche queste son tutte sciocchezze. Un socialismo davvero democratico non può puntare le sue carte né sullo Stato, né sul mercato, né sull'industria. Non gli deve interessare neppure una democrazia rappresentativa a livello nazionale. Il concetto stesso di "nazione" non ha più alcun significato. Se si elimina lo Stato, si deve per forza eliminare anche la nazione. Se si elimina la dipendenza dallo Stato nazionale, non ha senso farlo per affermare una dipendenza nei confronti di una industria gestita a livello sovranazionale o sovrastatale.

Se una popolazione vuole ottenere maggiore sovranità deve non solo abolire lo Stato, abolire la gestione centralizzata della democrazia rappresentativa; deve anche eliminare la gestione privata dell'economia e della finanza, sia essa gestione condotta a livello nazionale o sovranazionale.

Qualunque idea di Stato nazionale o di popolo nazionale, ma anche di Stato sovranazionale (come per es. quello europeo), va superata. Come va superata qualunque idea di mercato internazionale o di produzione industriale sovranazionale.

Dal punto di vista del socialismo democratico sono sufficienti concetti meno roboanti. Occorrono comunità locali padrone dei mezzi produttivi, che da sole decidano come rapportarsi alla natura circostante. Siamo ancora lontanissimi dal realizzare questo tipo di socialismo.


Una guerra contro i bambini non s'era mai vista


Secondo Save The Children "le forze israeliane hanno ucciso e mutilato bambini nella Striscia di Gaza a un ritmo e su una scala senza precedenti".

Si precisa che circa 12.400 bambini sono morti e altre migliaia rimangono dispersi.

Inoltre in Cisgiordania sono stati uccisi 100 bambini palestinesi.

In media circa 10 bambini al giorno nella Striscia han perso una o entrambe le gambe. Molte di queste amputazioni sono state eseguite senza anestesia.

D'altronde tutti i bambini palestinesi nella Striscia di Gaza "dovrebbero essere uccisi", ha dichiarato il deputato repubblicano Andy Ogles, dello stato del Tennessee, in risposta alla domanda di un attivista filo-palestinese sulle atrocità che l'esercito israeliano sta commettendo nell'enclave.

Di fronte a queste cose uno si può chiedere: chi sostiene Israele sul piano alimentare? Secondo il Ministero dell'Agricoltura israeliano i più importanti Paesi esportatori di prodotti agricoli verso Israele da ottobre ad oggi sono stati, in ordine d'importanza: Turchia, Giordania, Paesi Bassi, Italia e Francia. Del tutto assente l'Egitto. Dunque chi è che sostiene la guerra?


L'ONU non cerca la verità


L'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha dichiarato di aver ricevuto informazioni secondo cui donne e ragazze palestinesi sarebbero state "giustiziate arbitrariamente a Gaza, spesso insieme ai loro familiari, compresi i loro figli, nei luoghi in cui hanno cercato rifugio o durante la fuga".

Nel rapporto ONU si lancia un allarme anche per la detenzione arbitraria di centinaia di donne e ragazze palestinesi, tra cui difensori dei diritti umani, giornaliste e operatrici umanitarie a Gaza e in Cisgiordania. Secondo quanto riferito, molte sono state sottoposte a trattamenti inumani, a molteplici forme di violenza sessuale, spogliate nude e perquisite da ufficiali maschi israeliani. Un numero imprecisato di donne e bambine palestinesi sarebbero scomparse dopo essere entrate in contatto con l'esercito israeliano a Gaza.

Di fronte a queste accuse gravissime, che avrebbero richiesto come minimo un'indagine super partes, cos'ha risposto il portavoce governativo israeliano Eilon Levy? Questo genere di accuse è "disgustoso"; gli esperti che hanno redatto il rapporto sono inattendibili, in quanto mossi non da uno spirito di verità ma dal loro odio verso Israele e il popolo ebraico.

Ci mancava che concludesse con le parole: "Amen, la pace sia con voi".


La resa dei conti nel Ramadan


Se Hamas non libera i 130 ostaggi, Israele bombarderà Rafah nel mese di Ramadan, intorno al 10 marzo. Sono a rischio 1,4 milioni di palestinesi, che lì si trovano come profughi interni. Non hanno più un altro posto dove scappare.

La minaccia di questa disumana catastrofe è arrivata addirittura da Benny Gantz, avversario politico di Netanyahu, come se i due volessero mostrare al mondo di essere uniti in vista di un attacco contro cui i Paesi occidentali già protestano.

Non ci sono negoziati che possano impedire tale svolgimento dei fatti. Al Cairo è tutto bloccato. Israele si giustifica dicendo che non può concedere uno Stato autonomo a dei terroristi, e in ogni caso, prima di qualunque concessione, Hamas deve liberare gli ostaggi.

Intanto il ministro della sicurezza nazionale israeliana, Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell'estrema destra, ha intenzione di porre forti restrizioni durante il Ramadan per accedere alla spianata delle moschee di Gerusalemme, luogo di riferimento per i palestinesi musulmani. Una mossa rifiutata dai palestinesi d'Israele, che, al contrario degli abitanti dei territori occupati, hanno dei diritti in quanto cittadini dello Stato ebraico.

Esistono solo due scenari in cui i combattimenti potrebbero fermarsi. Il primo è quello in cui Israele ritenga di aver raggiunto i suoi obiettivi e possa proclamare una vittoria, ma non sembra questo il caso. Il secondo è quello in cui le pressioni internazionali si facciano finalmente sentire, ma anche questa è solo una speranza.

Negli ultimi giorni Israele ha attaccato anche l'ospedale Nasser a Khan Yunis, dove sostiene di aver catturato alcuni combattenti di Hamas.

Ma questi attacchi contro le strutture civili avvengono anzitutto per terrorizzare la popolazione e indurla ad andarsene dalla Striscia. Che nascondano dei terroristi è solo un pretesto.

Israele non sa che farsene delle raccomandazioni della Corte internazionale di giustizia, che gli ha ordinato di prendere tutte le misure per evitare atti di genocidio.

E' più preoccupata del fatto che, siccome le forze armate han dovuto richiamare 300.000 riservisti, il proprio PIL è crollato del 19,4% su base annua nel quarto trimestre. Nello stesso periodo i consumi privati sono diminuiti del 27% su base trimestrale, le esportazioni sono scese del 18%, mentre le importazioni sono crollate del 42%.

Inoltre i palestinesi non possono più andare a lavorare nello Stato ebraico, cosa che sta colpendo particolarmente il settore delle costruzioni.

Se Israele non viene sostenuta dagli USA, il suo crollo economico sarà inevitabile.

Intanto i ministri degli Esteri del G20 hanno raggiunto, nel corso del vertice di Rio de Janeiro, un accordo unanime: apertura immediata di un accesso umanitario a Gaza che porti ad un cessate il fuoco e sostegno per la creazione di un Stato palestinese.

Ma, si sa, l'inferno è lastricato di buone intenzioni.


Quel maledetto uranio impoverito


Quando i giorni scorsi il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik ha incontrato Putin a Kazan, gli ha ribadito che la Republika Sprska (l'entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina di cui lui stesso è presidente), non solo resta contraria alle sanzioni alla Russia e a una eventuale adesione alla NATO, ma gli ha fatto anche presente che la Serbia sta soffrendo ancora oggi per i bombardamenti all'uranio impoverito compiuti dalla NATO nel 1999, durante la guerra del Kosovo.

Dopo un quarto di secolo ancora "un gran numero di giovani, perfino neonati, soffrono per le conseguenze dell'uranio impoverito, con il livello di contaminazione radioattiva aumentata nella regione anche di dieci volte", ha detto Dodik a Putin.

Qualcuno ha forse condannato la NATO per l'uso di questi proiettili anti-umani e anti-naturali? Nessuno.


24 febbraio


Due Paesi chiaramente a favore del nazismo


La Terza Commissione dell'ONU ha approvato una risoluzione che vieta la glorificazione del nazismo con 125 voti a favore, 53 astenuti e i voti contrari di Stati Uniti e Ucraina.

Questi ultimi due Paesi rifiutano ancora una volta il progetto che viene messo ai voti ogni anno e che mira a combattere ogni forma di nazismo, neonazismo, discriminazione razziale o xenofobia.

Il documento, raccomanda ai Paesi di adottare misure concrete in ambito legislativo, educativo, dei diritti umani e altro per eliminare la discriminazione razziale ed evitare la revisione della storia della Seconda Guerra Mondiale.

Gli autori della risoluzione condannano fermamente la glorificazione del nazismo, in particolare con scritte e oltraggi ai monumenti dedicati alle vittime della II Guerra Mondiale.

La risoluzione mette in guardia anche dalla diffusione di razzismo, discriminazione, odio e violenza basati su razza, religione, nazionalità, genere, appartenenza a un determinato gruppo o opinioni politiche, nelle scuole.

Una volta messa ai voti con il seguente titolo: "Combattere la glorificazione del nazismo, del neonazismo e di altre pratiche che contribuiscono ad alimentare forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza correlata" ha visto i seguenti risultati in commissione, in attesa d'essere votata all'Assemblea Generale il prossimo mese.

121 Sì alla mozione:

Algeria, Angola, Antigua-Barbuda, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Azerbaijan, Bahamas, Bahrain, Bangladesh, Barbados, Belize, Bhutan, Bielorussia, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Botswana, Brasile, Brunei, Burkina Faso, Cambogia, Camerun, Capo Verde, Cile, Cina, Colombia, Comore, Congo, Costa D'avorio, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Egitto, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Eswatini, Etiopia, Fiji, Filippine, Gabon, Ghana, Giamaica, Gibuti, Giordania, Grenada, Guatemala, Guinea, Guinea Equatoriale, Guyana, Haiti, Honduras, India, Indonesia, Iraq, Israele, Kazakistan, Kenya, Kirghizistan, Kuwait, Laos, Lesotho, Libano, Libia, Madagascar, Malawi, Maldive, Malesia, Mali, Marocco, Mauritania, Mauritius, Messico, Mongolia, Mozambico, Myanmar, Namibia, Nauru, Nepal, Nicaragua, Niger, Nigeria, Oman, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Qatar, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica di Corea, Repubblica Dominicana, Russia, Rwanda, Saints Kitts e Newis, Saint Lucia, Senegal, Serbia, Sierra Leone, Singapore, Siria, Somalia, Sry Lanka, Sudafrica, Sudan, Suriname, Tagikistan, Tanzania, Thailandia, Timor Est, Togo, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turkmenistan, Uganda, Uruguay, Uzbekistan, Venezuela, Vietnam, Yemen, Zambia, Zimbawe.

2 No: Stati Uniti, Ucraina

53 Astenuti: Afghanistan, Albania, Andorra, Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Cipro, Corea del Sud, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Giappone, Grecia, Kiribati, Irlanda, Islanda, Isole Salomone, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Malta, Moldavia, Monaco, Montenegro, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Papua Nuova Guinea, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Samoa, San Marino, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Tonga, Turchia, Ungheria.

E' probabile che molti si siano astenuti perché la mozione era stata presentata dalla Russia. In ogni caso di fronte a un argomento del genere, astenersi equivale a essere contrari.


Un'alternativa a tutto


Là dove si parla di primato del valore d'uso su quello di scambio, si deve per forza parlare di primato del baratto sul denaro.

Questo vuol anche dire eliminare i mercati internazionali (o ridurne di molto l'importanza), a tutto vantaggio dell'autogestione locale o regionale, che include la cooperazione di imprese autogestite.

Le basi del capitalismo saltano. L'idea stessa di "sfruttamento" delle risorse naturali va ripensata, poiché bisogna dare a tali risorse tutto il tempo necessario per riprodursi.

Resta in sospeso la questione del macchinismo. Cosa fare dell'industria quando, per rispettare le esigenze riproduttive della natura, dovremmo stare molto attenti a non sprecare nulla e soprattutto a non inquinare nulla? La natura andrebbe lasciata così com'è, o comunque, se si modifica un paesaggio, bisogna poi dargli il tempo per ricostituirsi.

E' inevitabile che ad un certo punto ci si accorge che l'industrializzazione non ha senso. Oppure si può arrivare a dire: la produzione in serie di determinati beni ha senso solo nella misura in cui non diventa il fine della produzione. Infatti, se lo diventa, il vero fine, in realtà, è un altro: accumulare capitali in maniera indefinita (o comunque abnorme).

In questa maniera si torna al limite di fondo del capitale, che ha continuamente bisogno di valorizzare se stesso tramite il mercato, altrimenti fallisce, implode, soccombe alla concorrenza altrui. Capitalismo vuol dire individualismo, che tale resta anche quando si formano i monopoli.

Tuttavia, anche se l'industrializzazione va ripensata in toto, qualunque idea di socialismo, che si limiti a gestire l'intervento dello Stato nell'economia o a socializzare la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi, è un'idea incapace di porre le basi per una vera alternativa al capitalismo.

Il futuro dell'umanità non avrà bisogno né di capitalismo (privato o statale) né di socialismo statale, e neppure di un socialismo industrializzato. Avremo bisogno soltanto di un socialismo autogestito, senza la presenza ingombrante delle due entità che procurano dipendenza: Stato e Mercato.

La produzione andrà gestita dalle comunità locali, che utilizzeranno risorse locali, e che praticheranno il baratto come forma di scambio dei beni in eccedenza che producono.

Le teorie del socialismo scientifico andranno rettificate parecchio, mentre tutte quelle a favore del capitalismo andranno completamente rimosse. Anche le teorie del socialismo utopistico basate sul macchinismo non serviranno a niente. Per non parlare di quelle teorie del socialismo autogestito che pensano di poter creare isole felici all'interno di sistemi dominanti favorevoli soltanto al primato dello Stato e del Mercato. Prima di poter parlare di "autogestione" o di "autoconsumo" il sistema va abbattuto.

L'obiettivo finale è quello di capire che saremo più liberi soltanto se aumenteremo l'autonomia gestionale delle nostre risorse naturali, debitamente socializzate.


25 febbraio


Il nostro rapporto con la natura


Le risorse fondamentali della natura non andrebbero mai privatizzate. Quando aria, acqua, foreste, energia solare, ecc. fanno vivere intere collettività, non solo non ha senso privatizzarle ma neppure inquinarle.

Alle fonti energetiche naturali, da cui dipende la vita umana, non bisogna mai impedire di riprodursi nei tempi che la natura richiede e che non dipendono certamente dalla nostra volontà. La natura ha i suoi tempi di riproduzione: se non li rispettiamo, non ci rimette solo lei, ma anche noi, poiché noi siamo esseri o enti di natura. Cioè anche se possiamo considerare la natura come un mezzo a nostra disposizione, di fatto la natura è costituita di leggi proprie, che dobbiamo conoscere e rispettare.

Se per es. un essere umano nasce dopo nove mesi di gestazione, è la natura che ce lo impone. Se gli impediamo di nascere, procurando l'aborto in maniera artificiale, compiamo un gesto contro natura (al netto delle motivazioni sociali che possono esserci). Il che non vuol dire che la natura non conosca l'aborto spontaneo. Anzi, di fronte a una tale decisione della natura, dovremmo chiederci il perché. Non è da escludere che la natura c'impedisca di riprodurci perché ci avverte come nemici. Non siamo suoi nemici quando, passati i nove mesi di gestazione, ci sembra meglio indurre il parto in qualche maniera.

Ma, a parte questi casi particolari, bisogna ammettere che, lasciata a se stessa, la natura è infallibile, o comunque molto più perfetta di noi, poiché conserva memoria di processi che, per stabilizzarsi, hanno impiegato milioni di anni. Anche noi, col passar del tempo, a forza di prove ed errori, creiamo mezzi artificiali sempre più perfetti (performanti). Ma questo non vuol dire che siano più compatibili con le esigenze della natura.

Il problema è che noi non sappiamo lasciare la natura a se stessa. Sarebbe per es. inconcepibile per noi non lavorare i terreni per permettere loro di rigenerarsi dallo stress produttivo che gli imponiamo. Se di fronte a questa richiesta ambientale da parte della UE gli agricoltori protestano, vanno capiti, anche perché la concorrenza delle multinazionali li sta uccidendo. Ma questo non vuol dire che, in astratto, la richiesta non sia giusta.

Cioè, per non impedire alla natura di vivere una vita autonoma, noi dovremmo ridurre al minimo gli strumenti artificiali con cui la utilizziamo, o almeno dovremmo fare in modo che tali strumenti non abbiano un impatto così forte da non poter essere assorbito in tempi ragionevoli. Tutte le volte che usiamo un mezzo artificiale, dovremmo chiederci: lo utilizzerà qualcuno dopo di noi? Potrà farlo nella stessa maniera? Se lo farà in maniera diversa, sarà un problema per la natura? Se non lo userà in nessuna maniera, quanto tempo impiegherà la natura a riassorbirlo completamente?

Non ha alcun senso che uno se ne vada per sempre da questo pianeta, lasciando alle generazioni future i problemi causati dai mezzi che ha usato. Questi atteggiamenti irresponsabili vanno impediti sul nascere, altrimenti, sommandosi tra loro, alla fine diventano ingestibili, creando problemi irrisolvibili.

Non possiamo sempre sperare che sia la natura a scongiurare gli effetti della nostra follia. Non è detto che abbia la forza per farlo. Soprattutto non è detto che ce la possa fare mentre noi siamo ancora in vita. E' probabile infatti che la natura si riprenderà ciò che le appartiene quando noi non esisteremo più. Ci meravigliamo che intere popolazioni, scomparendo dalla faccia della Terra, non abbiano lasciato nulla di sé. Invece dovremmo rallegrarcene. E' un segno che sono state perfettamente naturali.

Se la natura è "vivente", è impossibile che non ci guardi con molta preoccupazione quando andiamo a cercare delle fonti energetiche nella profondità delle sue viscere, o quando deturpiamo l'ambiente o modifichiamo i processi integrati (osmotici, simbiotici, olistici) che mantengono in vita, secondo una certa frequenza e regolarità, i fenomeni naturali.

E' comunque fuor di dubbio che i problemi maggiori alla natura li abbiamo causati a partire dalla nascita delle civiltà schiavistiche, le quali, là dove hanno potuto, sono state responsabili della desertificazione di buona parte del pianeta, per ottenere la quale è stato sufficiente eliminare le foreste.

Oggi siamo responsabili dell'inquinamento (soprattutto chimico) del pianeta, cioè non solo continuiamo a deforestarlo, ma lo riempiamo di scorie non riciclabili, non riutilizzabili, non riassorbibili. E' da circa 6000 anni che non solo creiamo deserti, destinati a durare molto di più della nostra singola esistenza, ma produciamo anche rifiuti che dureranno ancora di più dei nostri deserti. Pensiamo soltanto alle scorie nucleari, alle batterie delle macchine elettriche, alla componentistica elettronica ecc. Se noi non esistessimo più, forse la natura riuscirebbe a recuperare i nostri deserti. Ma quanto tempo le ci vorrebbe per riassorbire i nostri mezzi artificiali?

Noi ci lamentiamo che le risorse energetiche sono limitate. In realtà è la nostra fortuna. Il problema semmai è che, a fronte di questo limite, non siamo indotti a ripensare il nostro stile di vita, ma, anzi, a conservarlo, cercando nuove fonti energetiche, ancora più pericolose delle precedenti, ancora più impattanti sui processi naturali. Ormai non sappiamo più distinguere il naturale dall'artificiale: tutto ci sembra naturale in quanto tutto è artificiale. Questa si chiama "distorsione cognitiva".

Noi usiamo le risorse naturali come fossero illimitate, e quando ci accorgiamo che non lo sono, ci ammazziamo a vicenda, almeno finché non troviamo il modo di sostituirle con altre che riteniamo ugualmente illimitate. Né la storia né la natura ci insegnano qualcosa di utile. Sembra che neppure di fronte al rischio di una nostra estinzione riusciamo ad accettare l'idea di cambiare alla radice il nostro stile di vita.

Noi modifichiamo gli strumenti con cui vivere la vita, ma sempre all'interno di una cornice fondamentalmente violenta, nei confronti di noi stessi e dei nostri rapporti con la natura. Non riusciamo più a recuperare uno stile di vita naturale, antecedente alla nascita dello schiavismo.


26 febbraio


Non è solo un problema di quantità


James O'Connor viene considerato un grande eco-marxista, ma io a volte non lo capisco. Prendiamo ad es. questa sua frase: "non ci sarebbe (quasi) nessun problema ambientale se i corpi da cui vengono estratte le risorse naturali e i corpi riceventi ambientali non avessero dimensione limitata" (cfr Capitalismo, Natura, Socialismo, ed. Jaca Book, Milano 2006).

A causa di questi limiti la produzione di merci umane impoverisce le riserve di risorse naturali e peggiora la qualità dell'ambiente, poiché le nostre scorie hanno il loro peso.

Questo è un ragionamento sbagliato. E' come se dicesse: purtroppo viviamo su un solo pianeta, ma in futuro, quando avremo colonizzato altri pianeti, avremo risolto tutti i nostri problemi (quelli inerenti sia al reperimento delle risorse energetiche che alla collocazione delle scorie più nocive).

Con una tale impostazione delle cose, sembra che la soluzione del problema sia solo di tipo quantitativo, quando invece è di tipo qualitativo.

Cioè il nostro pianeta non è solo il limite strutturale (oggettivo) in cui possiamo muoverci e da cui non possiamo prescindere, ma è anche un "banco di prova". E' una specie di laboratorio in cui testare tutti gli esperimenti che rendono possibile una vita degna d'essere vissuta, compatibile con le esigenze di tipo umano e naturale.

Quando saremo pronti per colonizzare altri pianeti, dovremo farlo con cognizione di causa, sapendo esattamente cosa è necessario riprodurre per vivere al meglio. Bisognerà saperlo prima. Non ha senso colonizzare l'universo ripetendo gli stessi errori compiuti sulla Terra. Il tempo che abbiamo non possiamo sprecarlo: non ci serve solo per testare il peggio di noi, ma anche il meglio, proprio per non ripetere errori già fatti.

Sotto questo aspetto non siamo ancora pronti per insediarci su altri pianeti, proprio perché non riusciamo a garantire la sopravvivenza del nostro. Anzi, se fossimo già in grado di colonizzare il cosmo, sicuramente peggioreremmo il nostro stile di vita sulla Terra, in quanto avremmo l'illusione di poter ottenere risorse energetiche illimitate, con possibilità altrettanto illimitate di stoccaggio delle scorie di lunga o lunghissima durata.

Noi oggi stiamo facendo delle esplorazioni nello spazio cosmico che non servono a nulla, se non a procrastinare nel tempo la mancata soluzione delle nostre contraddizioni più assurde. Di fatto stiamo cercando di esportare il peggio di noi, tant'è che la nostra esperienza nello spazio cosmico non può essere considerata semplicemente scientifica. I satelliti che stiamo usando non hanno solo una funzione meteorologica o comunicativa, ma anche militare e spionistica. E sono già così tanti che abbiamo trasformato lo spazio attorno al pianeta in una vera e propria discarica, foriera di rischi e pericoli per le nostre stazioni orbitanti, navicelle spaziali, sonde robotiche, satelliti artificiali... Probabilmente le guerre che faremo in futuro assomiglieranno a quelle che vediamo nei film di fantascienza.

Se dobbiamo diffondere nell'universo i limiti del capitalismo (privato o statale) o quelli del socialismo (di mercato o pianificato dall'alto), è meglio far la fine dei dinosauri, è meglio che un cataclisma naturale ci riporti all'età della pietra, a vivere nelle caverne, quando sicuramente non facevamo alcun male alla natura.

Con questo naturalmente non voglio dire che potremo colonizzare altri pianeti solo quando smetteremo di usare male il nostro libero arbitrio. La libertà di coscienza è una caratteristica umana, che nessuno può toglierci. Però dovremo avere piena contezza su cosa favorisce l'uso di tale libertà e su cosa invece la ostacola in maniera pericolosa.

Una cosa infatti sono le contraddizioni per le quali occorre trovare una mediazione, il bandolo della matassa. Un'altra, molto diversa, sono gli antagonismi sociali, quelli che ci impediscono di trovare delle soluzioni praticabili, definitive ai nostri problemi di identità, di vivibilità normale.

Quel che della nostra scienza e tecnica non serve per renderci più umani e naturali, dobbiamo gettarlo via senza tanti scrupoli. Se ci giriamo a guardare Sodoma, con atteggiamento nostalgico, ci trasformeremo in una orribile statua di sale. Non ha senso pensare che un giorno la nostra tecnologia potrà tornarci utile. Vi sono problemi che non possono risolversi con nessun mezzo tecnico, né ora né mai. Non possiamo avere nei confronti della tecnologia un atteggiamento mistico o magico, anche perché l'abbiamo sviluppata detestando la religione.

Se "plusvalore" vuol dire "sfruttamento" della forza-lavoro, non si risolve il problema sostituendo la forza-lavoro umana con quella delle macchine (l'automatismo dei robot). Questo perché lo sfruttamento esisterà anche nella costruzione della stessa robotica. Tutto quanto esiste di artificiale è prodotto da esseri umani, anche quando vi sono macchine che costruiscono altre macchine.

Il nostro primo, vero problema è quello di stabilire che cosa è umano e naturale e cosa non lo è. Dobbiamo farlo a prescindere dal tipo di tecnologia che usiamo. Oggi non abbiamo questa consapevolezza non per colpa della tecnologia in sé, ma perché viviamo dei rapporti umani altamente conflittuali.

La tecnologia che usiamo è inevitabilmente un prodotto di tali rapporti; e il fatto ch'essa non riesca a risolvere minimamente l'antagonismo disumano che ci caratterizza (e che si riflette anche nei nostri rapporti con la natura), dimostra che l'odierna tecnologia ha dei limiti di fondo, assolutamente invalicabili.

Tutto questo discorso non deve portarci a pensare che il criterio per stabilire l'umano e il naturale può esserci dato solo dalla nostra condizione terrena. E' infatti evidente che, quando vivremo in una condizione extraterrena, i parametri cambieranno, come cambiano quelli del neonato rispetto al feto materno. Però è altrettanto evidente che se su questa Terra non riusciamo a rispettare le condizioni che ci sono date da vivere, non saremo in grado di offrire alcuna garanzia che vi riusciremo in un'altra dimensione esistenziale.

Gli esseri umani non possono essere "eliminati" (questa è soltanto un'illusione che abbiamo sulla Terra). Che lo si voglia o no siamo eterni. Non esiste un'entità sovrumana che possa stabilire quali persone hanno diritto a popolare l'universo e quali no. I miti come il diluvio universale o la distruzione di città "peccaminose" come Sodoma e Gomorra sono soltanto delle operazioni simboliche della menta umana, che si sente limitata di fronte a certi macroscopici problemi. Ma per popolare l'universo abbiamo bisogno di ben altro.

Chi non è in grado di offrire garanzie di correttezza sostanziale, autentica, di esperibilità o esprimibilità della dimensione umana e naturale, rischierà di vivere una vita emarginata nell'universo. I cosiddetti "grandi della Terra", coloro che hanno ricoperto ruoli apicali nel nostro pianeta, probabilmente saranno i meno idonei a popolare l'universo, a stabilire delle regole di condotta.


27 febbraio


Risorse e popolazione


La questione che all'aumento della popolazione diminuiscono le risorse naturali, per cui è facile aspettarsi delle guerre, non l'ho mai ben capita. Infatti dovrebbe essere il contrario: più gente è disposta a lavorare, più le risorse aumentano, proprio perché l'essere umano è in grado di trasformarle.

Oppure si dovrebbe dire che coi mezzi tecnologici che abbiamo oggi, siamo in grado di soddisfare tranquillamente le esigenze di tutti. Se ciò non accade, è soltanto perché teniamo separati il lavoro dalla proprietà.

Semmai il discorso dovrebbe vertere su altri argomenti. Uno riguarda l'uso eccessivo degli agenti chimici con cui si sfruttano i terreni. Questi fertilizzanti non solo impoveriscono la resa dei terreni a lungo andare, cioè a forza di "drogarli" s'impoveriscono, ma sono anche un problema per la salute umana e animale.

Ultimamente poi si è arrivati a produrre alimenti in parte o del tutto artificiali, in grado di crescere in qualunque momento dell'anno e in qualunque condizione. In un futuro sicuramente non molto lontano subiremo delle conseguenze nel fisico.

Da quant'è che si sa che l'uso eccessivo dei cereali è correlato all'aumento delle carie dentali? L'uso eccessivo degli zuccheri quante patologie crea? E quello delle carni? Al giorno d'oggi dovremmo dire che noi non "mangiamo" qualcosa, ma ci "avveleniamo" di qualcosa.

Se poi si usano prodotti biochimici che modificano la struttura genetica degli alimenti, quanto tempo ci vorrà per tornare a una situazione normale? E' probabile che l'uso eccessivo della chimica renda irreversibile il destino della morte dei terreni agricoli. Noi non li desertifichiamo solo per colpa della deforestazione, ma anche a causa del tipo di produzione che pratichiamo, che di naturale non ha più nulla.

Questo dimostra che produrre alimenti per le esigenze dei mercati è un controsenso. Non può essere un mercato a decidere le esigenze riproduttive di una popolazione. Non ha senso che la gente mangi più del dovuto, solo per soddisfare la mania di accumulare capitali. Si perde la spontaneità dell'agire.

Una popolazione dovrebbe decidere da sola ciò di cui ha bisogno, sulla base per es. della crescita demografica o di mutate esigenze. Dovrebbe trovare in autonomia le risorse con cui sfamarsi. E dovrebbe recarsi sui mercati per scambiare il surplus o per acquistare ciò che non riesce a produrre e che ritiene importante avere.

Certo è che se uno si reca al mercato perché solo lì può trovare qualcosa di assolutamente necessario per la propria sopravvivenza, finisce col perdere subito la propria autonomia. Diventa dipendente da un fattore esterno, che ovviamente non può controllare. Si comporta come un tossicodipendente.

Da questo punto di vista bisogna ammettere che sono soprattutto le persone urbanizzate ad aver bisogno di rifornirsi presso un mercato. Chi vive in campagna è più libero di praticare l'autoconsumo.

Oggi siamo arrivati al punto che il capitalismo ha trasformato il mondo intero in un'assurdità a cielo aperto, come la prigione di Gaza. Miliardi di persone sono concentrate in poche città, mentre miliardi di ettari di terra sono coltivati da poche persone che dispongono di grandi macchinari e di molti agenti chimici. Dopodiché diventa inevitabile dirci che non ci sono abbastanza risorse per soddisfare le esigenze di tutti.

Riequilibrare le cose vuol dire non solo ritornare alla terra, ma farlo anche sulla base di modalità non finalizzate alla produzione per il mercato. Non è il mercato che soddisfa anzitutto le esigenze umane. Anzitutto il mercato soddisfa le esigenze degli imprenditori, pubblici o privati che siano.

Il mercato serve per fare soldi e per mantenere gli acquirenti in uno stato di perenne soggezione. Vi è un uso economico e finanziario e anche politico del mercato. E questi non sono usi umani.


28 febbraio


Il capitalismo umano e naturale


Pensare di rendere accettabile o migliore il capitalismo solo perché si vuole stare più attenti ai problemi ambientali, è semplicemente illusorio. E non perché non sia giusto farlo, ma perché è evidente che nel capitalismo esistono forze così aggressive che faranno anche dell'ecologia un ulteriore business.

Che sia giusto interessarsi di ecologia non dipende dalla buona volontà o dalla sensibilità di qualche governo o partito politico, ma è proprio una necessità causata dai disastri oggettivi che il capitalismo procura all'ambiente e alla vita degli esseri umani.

Sono disastri evidenti a tutti, che il capitalismo pensa di poter risolvere senza mettere in discussione il tipo di industrializzazione che lo sorregge. Cioè non solo si tollera il plusvalore (che è l'esigenza strutturale al capitale di sfruttare il lavoro altrui per potersi riprodurre), ma si dà anche per scontato che il macchinismo può essere modificato solo in taluni suoi aspetti formali, non nella sua sostanza. Pensiamo soltanto al significato ridicolo della parola "ibrido" riferito alle nostre automobili.

Indubbiamente il capitalismo non è nato insieme al macchinismo. In Italia si era "capitalisti" sin da quando nacquero i Comuni borghesi. Il capitalismo industriale è la penultima manifestazione del capitale. La prima è quella commerciale; poi è venuta quella manifatturiera, che, a sua volta, è divenuta industriale. L'ultima manifestazione è quella finanziaria, la peggiore di tutte, poiché con molta nonchalance non si guarda in faccia a niente e a nessuno, pur volendo far credere di non operare alcuna violenza nei confronti della forza-lavoro.

In realtà non potrebbe esistere, nei Paesi occidentali del capitalismo avanzato, alcuna finanziarizzazione dell'economia se non esistesse, in altre parti del pianeta, uno sfruttamento economico della forza-lavoro, di cui il capitalismo occidentale è ampiamente responsabile.

Noi occidentali vogliamo vivere di rendita, investendo i nostri soldi negli immobili, nei prestiti usurari, nelle speculazioni borsistiche e in altre diavolerie di tipo finanziario (tipiche della terziarizzazione dell'economia), che danno l'impressione di far guadagnare abbastanza bene col minimo sforzo.

Il lavoro altrui fonte di ricchezza non è più il nostro unico dogma. L'altro dogma è: i soldi fanno soldi. Cioè bisogna imparare a farli fruttare senza impegnarsi a mettere in piedi un'industria vera e propria, basata sulle macchine. Quest'ultima è diventata un'esigenza di basso livello, che ha senso soddisfare in un Paese arretrato, dove il costo del lavoro è minimo e dove esistono tutte le altre condizioni classiche per rendere molto profittevole un investimento nel macchinismo.

L'occidente ha sempre bisogno di schiavi salariati, ma siccome nei Paesi avanzati gli operai sono sindacalizzati e quindi più costosi, preferisce esportare all'estero lo sfruttamento della manodopera, verso i Paesi più arretrati, dove peraltro non si parla di "ambientalismo".

I Paesi del Sud globale (come oggi vengono definiti) possono continuare a essere sfruttati in maniera classica, come manodopera sottocosto, come materie prime a buon mercato, come mercati di sblocco per le nostre merci, come discariche dei nostri rifiuti, come centri del debito internazionale, che permette a noi di beneficiare degli interessi sul credito, ecc.

Finché il Sud globale non si emancipa, il capitalismo può apparire accettabile in occidente. E' evidente infatti che quanto meno il Sud globale ha intenzione di farsi sfruttare, tanto più la vita in occidente diventerà invivibile, nel senso che diventerà impossibile per il capitale garantire certi standard consolidati di benessere. Qualcuno deve per forza rimetterci. E siccome la gente, abituata al consumismo, non accetta d'impoverirsi (almeno non sino a un certo livello), i governi dovranno per forza diventare più autoritari. E quando diventano autoritari, tutti i discorsi ecologici o ambientali saltano, oppure vengono imposti con la forza, sfruttandoli come una nuova occasione di profitto per chi produce determinate merci (per es. i motori elettrici delle auto, in sostituzione di quelli a combustione fossile; le caldaie a condensazione nelle abitazioni; gli impianti fotovoltaici o eolici nell'edilizia, i condizionatori e così via).

L'ecologia è un lusso del capitalismo avanzato, che può diventare una disgrazia per chi non se lo può permettere.


29 febbraio


Non facciamoci illusioni sull'ecologia


Uno dei principali inganni della moderna ecologia è quello di far credere che l'elettrico sia meno inquinante del fossile.

Ci si limita a guardare il tubo di scappamento delle macchine o le ciminiere delle fabbriche o i camini delle case. Si guardano gli effetti visibili a occhio nudo, non le cause che li generano. E non ci si accorge che i pannelli solari e le batterie elettriche sono altamente inquinanti, non solo perché prodotti con materiali che non si trovano tanto facilmente in natura, ma anche perché non sono riciclabili o riutilizzabili. Non sono pericolosi come le scorie dei materiali nucleari, ma quasi. E in ogni caso, quando funzionano, durano molto meno di una centrale nucleare.

Nel capitalismo non c'è nulla che non sia inquinante o velenoso. La tossicità è una caratteristica dell'industria in sé, che prescinde da come essa funzioni. L'unica non inquinante era quella litica dell'uomo primitivo. Persino quella forestale poteva risultare pericolosa, se non si permetteva alla foresta di autorigenerarsi.

Il solo fatto di produrre oggetti in serie, aventi una durata limitata e che, per essere venduti, han bisogno d'essere propagandati, è un atteggiamento nocivo. Il mercato solo in parte soddisfa dei bisogni reali; per gran parte, infatti, li deve creare. La merce soddisfa anzitutto esigenze di profitto, quindi per forza di cose inquina. Anzi addirittura aliena, deforma la mente, rende eterodiretti, dipendenti da entità esterne, che i mercati non sono in grado di controllare, poiché nei mercati non c'è equivalenza tra produttore e consumatore. Sono i produttori che comandano i mercati.

I consumatori, che non possono beneficiare neppure del diritto costituzionale all'autoproduzione del proprio cibo, possono solo difendersi dagli abusi, dalle truffe, dai continui raggiri. Al massimo la concorrenza è tra produttori, ma il più grande tende a fagocitare il più piccolo e a diventare più o meno monopolista. Oggi i grandi monopoli hanno l'intero pianeta come mercato in cui vendere i loro prodotti. Per loro il concetto di "nazione" è ridicolo. Il loro "tempio religioso" è l'ipermarket.

I consumatori non avranno mai un potere equivalente per difendersi sul piano internazionale. I consumatori, al massimo, possono difendersi sul piano nazionale. Possono nazionalizzare le loro risorse. Possono impedire alle multinazionali di saccheggiare i loro Paesi. Ma, per poterlo fare, questi consumatori devono trasformarsi in cittadini eversivi, politicamente impegnati a combattere lo stato di soggezione in cui vivono. Devono trasformarsi in guerriglieri disposti a compiere delle rivoluzioni politiche. Solo così si vince il potere dei monopoli protetti dagli Stati.

E se riescono a vincere gli Stati e i monopoli, hanno fatto solo il primo passo. Il secondo infatti è molto più impegnativo: trovare un'alternativa non solo al capitalismo, ma anche a un certo modo di concepire l'industria.

Oggi il Sud globale ha bisogno dell'industria con cui produrre armi per difendersi da chi vuole dominarlo. Ma deve stare attento a non avere un atteggiamento di sfruttamento nei confronti delle proprie risorse naturali, altrimenti emanciparsi non serve a niente.

L'industria deve servire per difendersi dai nemici esterni, che vogliono togliere a un intero Paese la sua autonomia. Ma non può essere usata per attaccare la natura. I cittadini devono cercare un sistema di vita alternativo a quello imposto dal capitalismo.

Purtroppo i Paesi che vogliono liberarsi dal peso del capitalismo, possono farlo solo usando i suoi stessi mezzi industriali, che sono ampiamente nocivi per la natura. Devono usare grande accortezza, grande lungimiranza, poiché devono porre le basi per le generazioni future. Vivere in tempo di guerra è una cosa: paradossalmente è più facile, in quanto si tende a usare solo due colori, bianco e nero. Vivere in tempo di pace è ben altra cosa: qui è la natura che deve dettare le leggi dell'autogoverno degli esseri umani.

Cioè su questo pianeta, quando l'essere umano è nato, le risorse naturali con cui vivere e riprodursi erano a portata di mano. Non c'era bisogno di una particolare industria per utilizzare queste risorse: anche quando l'artigiano costruiva recipienti in cotto, il fango lo trovava sulla superficie terrestre. Bastavano le mani, il lavoro manuale, individuale e collettivo, e l'abilità artigianale che si acquisiva per prove ed errori.

Acqua, fuoco, legno, pietra, canne di bambù ecc. erano sufficienti. Non c'era bisogno di scavare in profondità o di perforare le montagne o di deviare i corsi dei fiumi o di creare laghi artificiali. Essere "naturali" voleva dire fare delle leggi della natura il proprio criterio di vita. Era sufficiente prendere coscienza di queste leggi, agire su di esse, avendo cura di non stravolgerle, di non modificarle in maniera irrecuperabile, irreversibile. I deserti già ampiamente presenti sul nostro pianeta sono la dimostrazione più lampante della nostra inadeguatezza.

Se trasformiamo l'intero pianeta in un deserto, non saremo in grado di popolare l'universo. Non saremo in grado di farlo neanche se avessimo molti più poteri di trasformazione della materia. Infatti il vero problema è che non avremmo la mentalità giusta per farlo, la predisposizione corretta.

Su questo pianeta dobbiamo imparare a vivere coi mezzi che la natura ci mette a disposizione. Solo così sapremo vivere in un'altra dimensione con altri mezzi e in altri modi.


Lanciare sassi


Spesso in Facebook Biden viene dipinto come un rimbambito. Ma il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, non è da meno. Il 29 febbraio ha dichiarato che se l'Ucraina verrà sconfitta, le truppe della NATO combatteranno contro la Russia.

In realtà l'Ucraina è già sconfitta: deve solo prenderne atto e accettare le condizioni che la Russia vorrà imporle. Se si fosse arresa subito, poteva scendere a trattative. Ora invece ha di fronte a sé, come unica possibilità per sopravvivere, la resa incondizionata. In caso contrario scomparirà dalle carte geografiche, soprattutto dopo che i russi avranno occupato Odessa per unire il Donbass alla Transnistria.

Se la NATO dichiara guerra alla Russia, la guerra nucleare sarà inevitabile. Ma questo vorrà dire che la UE tornerà all'età della pietra e gli USA subiranno dei danni colossali, cum magno gaudio della Cina, che si mangerà in un boccone Taiwan, che farà abbassare la cresta al Giappone, che occuperà tutto il Pacifico, e così via.

Anche l'idea che ha Biden di utilizzare i beni russi congelati per finanziare il bilancio dell'Ucraina e risanare il Paese, è un'idea non contro la Russia ma contro l'Europa. Infatti, di sicuro Mosca porrebbe ritorsioni a 360 gradi. Chi vive in una casa di vetro, non può lanciare sassi.


Dalla UE è meglio uscire


In una risoluzione sulla politica di difesa e sicurezza dell'UE approvata il 28 febbraio, il Parlamento UE - con il voto favorevole del PD - ha condannato "la risposta sproporzionata dell'esercito israeliano" in corso nella Striscia di Gaza e ha chiesto un "cessate il fuoco permanente per poter fornire aiuti ai civili nella Striscia". Non ha parlato di genocidio. Anzi ha sostenuto il "diritto d'Israele a difendersi".

In particolare però ha vincolato la tregua al rilascio di tutti gli ostaggi e allo smantellamento di Hamas.

Poi lo stesso parlamento ha votato per la guerra totale alla Russia, fino alla riconquista della Crimea, con il massimo di spesa per armi, come vuole Lady genocidio Ursula von der Leyen.



Marzo




1 marzo


Problemi ambientali e mercati mondiali


E' possibile risolvere i problemi ambientali del pianeta in presenza di mercati internazionali? No, non è possibile. Non ha alcun senso acquistare prodotti che provengono da Paesi molto lontani da quelli in cui vengono consumati. Il loro trasporto è una fonte incredibile d'inquinamento. Per non parlare del fatto che i prodotti alimentari possono essere privi di significativi valori nutrizionali perché raccolti acerbi, o addirittura tossici perché trattati chimicamente all'insaputa del consumatore, per la loro conservazione o stoccaggio. Oggi poi con la biochimica vi sono prodotti alimentari con la struttura genetica modificata. Molti di questi prodotti vengono controllati, da parte di chi li acquista, solo a campione, scegliendo a caso il contenitore che li trasporta. E così via.

I mercati mondiali servono anzitutto alle multinazionali. L'utente finale ne ha bisogno solo perché è stato privato, preventivamente, della possibilità di essere autosufficiente, cioè di autoprodursi ciò che di sostanziale gli serve per vivere.

I disastri ambientali non sono soltanto quelli delle petroliere che, di tanto in tanto, a causa di incidenti particolari, sversano in mare la loro merce (in Italia ricordiamo i due gravi incidenti alle petroliere al largo di Genova e Livorno). I disastri più gravi sono quelli di cui non si parla, perché sono quotidiani, ma che producono effetti mostruosi, come per es. le sette isole di plastica galleggianti negli oceani (solo la Great Pacific Garbage Patch è più grande della Francia4).

Ma vi sono disastri provocati dall'uso del carburante per navigare. Di recente è partita da Miami la più grande nave da crociera del mondo, l'Icon of the Seas, cinque volte più grande del Titanic, lunga 365 metri (più di tre campi di calcio messi in fila), ha 20 ponti, 250.800 tonnellate di stazza lorda e può portare 7.600 passeggeri, più 2.350 persone di equipaggio; consuma 10 tonnellate di carburante ogni ora, cioè inquina come un milione di automobili. Poi a noi chiedono di rottamare la vecchia auto, costringendoci, anche se funziona perfettamente, a comprarne una nuova, più "ecologica".

I prodotti ittici che mangiamo sono tutti inquinati dal commercio internazionale. I veleni non hanno un effetto immediato su di noi soltanto perché, come Mitridate, assumiamo il veleno a piccole dosi. Ma se lo sommiamo a tutti quelli che si trovano negli altri alimenti, il risultato finale è scontato. Anche perché, prima d'intossicarci coi prodotti dei mercati internazionali, lo siamo già dove abitiamo, a causa dell'uso degli idrocarburi. Non è solo il nostro apparato digerente che si guasta, ma anche quello respiratorio. Ed entrambi, inevitabilmente, influiscono su quello riproduttivo.

Noi siamo destinati all'estinzione, poiché siamo sostanzialmente autodistruttivi. Ma, quel che è peggio, noi occidentali, col nostro forsennato capitalismo, facciamo ammalare tutti gli abitanti del pianeta, inclusi quelli che hanno lavorato per noi e prodotto beni per i nostri mercati, e che non hanno avuto il nostro stesso benessere.

Siamo il flagello dell'umanità, anche perché costringiamo tutti a imitarci, spingendo i Paesi del mondo a competere tra loro, a produrre sempre più merci a costi sempre più contenuti, finché qualcuno, non reggendo il passo, si lascia schiavizzare o s'illude di poter sopravvivere dichiarando guerra a qualche concorrente. Persino i nostri agricoltori sono costretti a ricorrere ai veleni del mondo, se vogliono competere con la concorrenza delle multinazionali.

Sono mille anni che viviamo di commerci internazionali, cioè dalla fine dell'alto Medioevo, che peraltro fu una parentesi dopo i grandi commerci mondiali delle grandi civiltà schiavistiche, che desertificarono buona parte del pianeta con le loro deforestazioni.

Dove vogliamo arrivare? Qual è il limite massimo di sopportazione del nostro pianeta? Non l'abbiamo già forse abbondantemente superato? Che tipo di alternativa dobbiamo cercare? Se lasciamo fare alle menti pseudo-illuminate del profitto, la soluzione è una sola: ridurre di molto la popolazione terrestre, o con le guerre o con le pandemie.


2 marzo


I diritti della natura


Nel Capitale Marx scrisse che le società umane non sono "proprietarie" della Terra, ma solo "usufruttuarie", e hanno il dovere di tramandarla migliorata alle generazioni successive. Lo diceva perché aveva previsto un degrado capitalistico dei suoli.

Ma al suo tempo non c'era certo l'inquinamento di oggi. Pertanto lui poteva tranquillamente coltivare il culto per il macchinismo, limitandosi a pretendere la socializzazione della proprietà dei mezzi produttivi.

Oggi invece siamo convinti che neanche con questa socializzazione si risolvono i problemi ambientali. E' l'industrializzazione in sé che va ripensata, e purtroppo non sappiamo come farlo, anche perché non accettiamo di contrapporre i diritti della natura a quelli del lavoro, e l'industria è ben contenta di questa nostra posizione, così può estorcere dal lavoro quanto più plusvalore possibile.

Viviamo in un mondo completamente artificiale, sommersi da montagne di rifiuti, dove tutto è potenzialmente cancerogeno. La nostra civiltà si basa sostanzialmente su idrocarburi e plastica (e quest'ultima non è che una sintesi di petrolio e chimica).

Abbiamo capito che sostituire il fossile col nucleare è troppo pericoloso, in quanto gli incidenti durano un tempo troppo lungo e le scorie non si sa dove metterle. Cerchiamo pertanto di optare, disperatamente, per l'elettrico, con risultati però che lasciano molto a desiderare. L'elettrico infatti sembra essere troppo costoso, poiché dipende da "terre rare", poi non è così sicuro e soprattutto non così ecologico come vogliono farci credere. Lo smaltimento delle batterie resterà un grave problema.

Quanto alla plastica, sostituirla con elementi biodegradabili è più facile a dirsi che a farsi. Basta entrare in qualunque supermarket per rendersi conto che il packaging è un nemico mortale dell'umanità.

D'altra parte ci hanno abituato alle comodità, agli sprechi, all'illusione di credere che benessere vuol dire poter scegliere un prodotto tra mille marchi diversi. L'idea di pochi dispenser che sostituiscano decine di confezioni in plastica per tantissimi prodotti, è ancora molto remota. Se in casa facciamo la raccolta differenziata, il bidone della plastica si riempie con la stessa velocità di quello dell'organico. Non riusciamo neppure ad accettare l'idea (che una volta esisteva) di restituire il vuoto in vetro per acquistare un nuovo prodotto. Assurdamente andiamo a buttare dei vetri in perfette condizioni nelle relative campane del riciclo.

Noi siamo convinti, piuttosto ingenuamente, di poter risolvere il problema della plastica inserendo i rifiuti negli appositi contenitori pubblici, che verranno poi svuotati presso un inceneritore o termovalorizzatore o riciclatore di rifiuti. Ci illudiamo che il problema venga risolto a valle, al momento dello smaltimento, e non ci preoccupiamo che lo sia soprattutto a monte, al momento dell'imballaggio.

Circa l'80% di quello che acquistiamo nella UE è confezionato in contenitori di carta (41%) o di plastica (19-20%) o di vetro (19%). Il vetro e l'alluminio sono riservati a ciò che si beve, ad eccezione dell'acqua, che è rigorosamente imbottigliata in contenitori di plastica, che inevitabilmente la rendono non salutare da tutti i punti di vista.

A differenza di quanto si possa pensare, gli imballaggi in carta per alimenti e bevande sono scarsamente riciclabili, poiché costituiti da materiali compositi. Paradossalmente è più facile riciclare la plastica.

Non solo ma negli imballaggi di carta sono presenti sostanze nocive per la salute dei consumatori. E tutto ciò senza considerare che ogni anno nel mondo vengono abbattuti 3 miliardi di alberi per produrre imballaggi a base di carta. L'industria della carta è il terzo maggior consumatore mondiale di acqua (per es. la produzione di un solo foglio di carta A4 richiede circa 10 litri d'acqua). L'industria della carta è anche il quinto maggior consumatore mondiale di energia. Servono grandi quantità di acqua ed energia per riciclare la carta e renderla adatta a creare nuovi prodotti da imballaggio.

Di tanto in tanto dovremmo andare in una stazione ecologica, dove si raccolgono, in appositi, grandi, contenitori i nostri rifiuti più consistenti (televisori, elettrodomestici, computer, mobili...). Ecco, in quel momento ci si accorge molto facilmente di quanto sia assurdo il nostro sistema di vita. Noi tendiamo a buttare via ciò che ancora funziona o ciò che in teoria potrebbe essere riparato, semplicemente perché il progresso ce lo impone.

Persino quando si acquista un'auto nuova, si può beneficiare degli incentivi della rottamazione solo a condizione che quella vecchia venga completamente distrutta, anche se è perfettamente funzionante. Il che fa pensare che nei confronti dell'ecologia l'approccio che abbiamo non è di tipo pratico ma ideologico. Nell'ambito del capitalismo anche l'ecologia è in mano ai poteri forti, che decidono per noi cosa sia bene o male, cioè più o meno conveniente per loro.

Noi non riusciamo a fare dell'ecologia un valore superiore a quello dell'economia. Vendere è più importante che risparmiare, riutilizzare, riciclare, riparare ecc. D'altra parte il primo Paese al mondo che ha messo i diritti della natura nella propria Costituzione è stato l'Ecuador nel 2008.

Ancora non riusciamo a capire che il vero valore di un bene materiale non dovrebbe stare nel suo prezzo di mercato (quanto più è diffuso tanto meno costa), ma nelle materie prime di cui è composto, cioè tanto più alto quante meno ne abbiamo utilizzate. Perché è questo che la natura ci chiede.

Per non parlare del fatto che il valore d'uso di un prodotto dovrebbe essere infinitamente più importante del suo valore di scambio. Noi occidentali abbiamo imposto il valore di scambio (deciso sui mercati) come parametro economico a tutto il mondo. I Paesi più deboli devono produrre soltanto ciò che serve a noi. Le guerre sono soltanto una conseguenza infernale di questo meccanismo innaturale.


Articoli sulla natura nella Costituzione dell'Ecuador


Art. 71. La natura, o Pachamama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi.

Ogni persona, comunità, popolo o nazionalità potrà pretendere dall'autorità pubblica l'osservanza dei diritti della natura. Per applicare e interpretare questi diritti saranno osservati i princìpi stabiliti dalla Costituzione, secondo le circostanze.

Lo Stato incentiverà le persone fisiche e giuridiche, così come le collettività, a proteggere la natura, e promuoverà il rispetto di tutti gli elementi che formano un ecosistema.

Art. 72. La natura ha diritto a interventi di risanamento. Tali interventi saranno indipendenti dall'obbligo che hanno lo Stato e le persone fisiche e giuridiche di risarcire gli individui e le collettività che dipendono dai sistemi naturali danneggiati.

Nei casi di impatto ambientale grave o permanente, inclusi quelli derivanti dallo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, lo Stato stabilirà i meccanismi più efficaci per il risanamento e adotterà misure adeguate per mitigare o eliminare le conseguenze ambientali nocive.

Art. 73. Lo Stato adotterà misure precauzionali e restrittive per attività che possano condurre all'estinzione di specie, alla distruzione di ecosistemi o all'alterazione permanente dei cicli naturali. E' proibita l'introduzione di organismi e di materiale organico e inorganico che possano alterare in modo definitivo il patrimonio genetico nazionale.

Art. 74. Le persone, i popoli, le comunità e le nazionalità avranno diritto a godere dell'ambiente e delle ricchezze naturali che rendono possibile il buon vivere. I servizi ambientali non saranno suscettibili di appropriazione; la loro produzione, il loro approvvigionamento, utilizzo e godimento saranno regolati dallo Stato.


3 marzo


E' ancora lungo il cammino


Quando il capitalismo privato s'impose di prepotenza nell'Europa occidentale (diciamo con la seconda rivoluzione industriale e quindi con la nascita dell'imperialismo, di marca soprattutto anglo-francese), i teorici del socialismo (utopistico e scientifico) capirono subito i grandi difetti di questo sistema, anche se rimasero abbacinati dai grandi progressi del macchinismo, che andavano a sconvolgere in maniera definitiva le ultime tracce dei modi di produzione tardo-feudali o pre-capitalistici.

Il capitalismo veniva criticato per la violenza con cui s'imponeva, per la netta subordinazione del lavoro salariato alla proprietà privata dei mezzi produttivi, per il superamento irreversibile del valore d'uso orchestrato dal valore di scambio, per l'imposizione di mercati e monete internazionali, per la sottomissione coloniale di tanti Paesi extraeuropei, che non potevano vantare una forza di pari livello.

Le contraddizioni antagonistiche del capitale erano chiarissime, ma si pensava, molto ingenuamente, che sarebbe bastato mandare il proletariato al potere e socializzare la proprietà dei mezzi produttivi per fare del macchinismo qualcosa su cui poter contare con fiducia. Si volevano estendere all'intera collettività i benefici dell'industrializzazione.

Oggi dobbiamo constatare che le cose sono andate molto diversamente, non solo perché in occidente la borghesia non ha permesso al proletariato di prendere il potere politico, ma anche perché l'industrializzazione, là dove i lavoratori avevano preso il potere, ha procurato all'ambiente danni colossali. L'area orientale dell'Europa soggetta al socialismo statale ha dimostrato di non essere un'alternativa convincente al capitalismo privato né sul piano sociale né su quello ambientale.

Non solo la critica del sistema si è rivelata molto limitata, ma anche il tentativo di trovare un'alternativa pratica. E' mancata una vera intelligenza delle cose. Ci siamo lasciati influenzare troppo dai miraggi del progresso. Ci siamo lasciati condizionare dai pregiudizi nei confronti delle società pre-borghesi, giudicandole rozze e primitive, dominate dal servaggio e dal clericalismo. E così abbiamo buttato via l'acqua sporca col bambino dentro.

Oggi in tutto il mondo, salvo qualche piccola eccezione, abbiamo a che fare con tutte varianti del capitalismo, sia esso privato che statale. Il capitalismo privato dell'occidente collettivo sta per essere sostituito, nella guida del pianeta, dal capitalismo statale di area asiatica. Di nuovo ci illuderemo d'aver trovato la soluzione a tutti i nostri problemi. In realtà avremo un maggiore controllo sulla popolazione e con armi sempre più sofisticate.

Noi in realtà dobbiamo uscire da questa mistica dei grandi imperi, da questo culto insensato che abbiamo per gli Stati e i Mercati, da questa attrazione fatale per il benessere, il consumismo, le comodità, lo sviluppo meramente economico e finanziario. Dovremmo concentrarci di più sull'essenzialità delle cose, sulla semplicità degli usi e costumi, su ciò che ci rende trasparenti negli atteggiamenti e soprattutto nelle intenzioni. Noi dovremmo usare le armi contro chi ci vuole schiavizzare, ma per riporle nel cassetto subito dopo averlo vinto. Una società è più sicura se disarmata.


La cacciata dei mercanti dal Tempio è falsa


Il vangelo della domenica è una rubrica del "Fatto Quotidiano" tenuta dal gesuita Antonio Spadaro.

Oggi il tema era la cacciata dei mercanti dal Tempio.

Questi esegeti dovrebbero mettersi nella testa che non ha senso scandalizzarsi per la presenza dei mercanti di animali e di cambiavalute nel cortile dei pagani. Semplicemente perché per gli ebrei era del tutto normale fare sacrifici ammazzando gli animali, e siccome i fedeli provenivano da ogni dove, era inevitabile convertire le loro diverse monete in quella corrente usata in Giudea per pagare i sacerdoti.

Gesù non può aver fatto nulla contro questa tradizione consolidata. Non l'avrebbero capito. Non può aver rovesciato i tavoli dei cambiavalute, preso a frustrate i mercanti o liberato gli animali dai sacrifici cruenti.

Il vero problema della corruzione del Tempio non stava in queste scemenze, ma nel fatto che i sommi sacerdoti e la classe aristocratica dei sadducei, preposta alla gestione del Tempio, era collaborazionista nei confronti dei Romani. Il loro era un potere teologico-politico, strettamente confessionale, altamente mercantile e prono ai diktat di Pilato, che rappresentava il potere degli imperatori in Palestina (in particolare in Giudea e Samaria).

Se qualcosa di eversivo Gesù ha fatto in quell'occasione, che secondo il IV vangelo riguarda non la fine della sua carriera politica bensì l'inizio, tant'è che subito dopo fu costretto a emigrare in Galilea, fu ben di più. Fu qualcosa che gli evangelisti hanno taciuto, poiché per loro Gesù non era un politico rivoluzionario ma un predicatore religioso.

In quell'occasione egli cercò di guidare una specie di insurrezione contro i gestori del Tempio. Dalla sua doveva avere una parte del movimento essenico guidato dal Battista, sicuramente gli zeloti galilaici e probabilmente contava sull'appoggio dei farisei giudaici, che nella Knesset erano avversari dei sadducei. Tutte formazioni religiose e politiche anti-templari e anti-romane.

Il tentativo però non andò a buon fine, e non perché fu impedito dalle guardie del Tempio o dalle forze romane presenti nella Fortezza Antonia, che furono colte alla sprovvista, ma perché in definitiva l'appoggio più significativo, quello farisaico, venne meno. Tant'è che il giorno dopo Nicodemo, uno dei leader più democratici dei farisei, dovette scusarsi con Gesù.


4 marzo


Processi lunghi e dolorosi


Il capitalismo di stato in Europa occidentale è in declino irreversibile. In Italia nacque col fascismo e si protrasse nel mezzo secolo di governo democristiano. Paradossalmente iniziò a entrare in crisi coi socialisti craxiani, che odiavano a morte i comunisti e che, piuttosto che governare con loro, preferirono farlo coi democristiani.

Il capitalismo statale fu una risposta borghese al socialismo statale di marca sovietica. Anche il nazismo lo mise in pratica. In fondo nazismo e fascismo furono due sottoprodotti piccolo-borghesi del socialismo proletario. Che però, una volta giunti al potere, dovettero sottostare ai diktat della grande industria, tradizionalmente favorevole al liberismo economico e al liberalismo politico.

Nella loro prima fase fascisti e nazisti ebbero e alimentarono degli aspetti illusori, utili a incantare le masse; nella seconda coltivarono atteggiamenti profondamente reazionari con cui le disillusero.

Lo smantellamento progressivo del capitalismo di stato andò di pari passo con alcuni fenomeni: 1) l'aumento del benessere economico, soprattutto per i ceti medi; 2) la fine della contestazione operaio-studentesca iniziata nel 1968; 3) la crisi del socialismo statale sovietico; 4) l'influenza crescente del modello americano.

In Europa occidentale il capitalismo di stato fu anche dovuto al fatto che le due guerre mondiali prostrarono enormemente le popolazioni europee. Per evitare lo scoppio di guerre civili, che avrebbero potuto essere gestite da formazioni socialcomuniste, la borghesia pensò bene di tutelarsi, promettendo la soddisfazione di molti diritti socioeconomici.

Gli USA invece non ebbero bisogno di ricorrere a questo escamotage, in quanto al proprio interno non subirono le devastazioni delle guerre mondiali, tant'è che diventarono la prima potenza al mondo, sostituendosi all'egemonia anglo-francese.

Oggi nella UE la fine del capitalismo statale va di pari passo con l'accettazione del capitalismo privato statunitense. L'Europa si sta americanizzando. La dipendenza dal modello nordamericano non è più solo militare, come al tempo della guerra fredda, ma anche economica, finanziaria e ideologica,

La guerra russo-ucraina ha mostrato a chiare lettere che siamo una colonia a tutti gli effetti, a vasto raggio, al punto che siamo disposti a deindustrializzarci per fare un favore agli americani, o comunque a dipendere completamente dal loro mercato. La guerra israelo-palestinese l'ha ribadito. Questo vuol dire che se il capitalismo privato statunitense vorrà intraprendere una terza guerra mondiale, noi europei gli andremo dietro.

La guerra sarà inevitabile, poiché il capitalismo privato statunitense non può più esercitare l'egemonia mondiale dei decenni passati. I Paesi che sperimentano il capitalismo di stato o il socialismo di mercato glielo impediscono. E hanno la forza militare per farlo.

L'occidente collettivo si sta scavando la fossa con le proprie mani. E' stato troppo lungo il tempo in cui ha governato il mondo per poter accettare tranquillamente l'idea di multipolarità.

Semmai il problema per noi occidentali si porrà a un duplice livello. Noi usciremo sicuramente sconfitti dallo scontro coi Paesi che preferiscono avere uno Stato che controlla l'economia. Ma dopo questa sconfitta avremo, all'interno dei nostri stessi Paesi, una borghesia che, per sopravvivere, si toglierà la maschera della democrazia formale per mostrare la vera faccia della dittatura del capitale. Saranno processi lunghi e dolorosi.


5 marzo


L'ambientalismo vero e falso


Una qualunque posizione ambientalista, onesta intellettualmente, deve per forza criticare la logica del capitale, soprattutto la sua idea di massimizzare i profitti vendendo quante più merci possibili, e ovviamente a un prezzo tale per cui i concorrenti vengano eliminati dal mercato.

Il fatto che molti si limitino ad arricchirsi speculando finanziariamente sulla vendita di tali merci, non rende la finanza, dal punto di vista ecologico, meno pericolosa dell'economia, non foss'altro perché è impensabile l'esistenza di un capitalismo senza beni da vendere. Qualcuno li deve per forza produrre: non è importante che la forza-lavoro risieda in un Paese egemone o subordinato. Ciò che più conta è che venga sfruttata al costo più basso possibile.

Una logica di questo genere non può avere tanti scrupoli nei confronti della natura. Nel capitalismo lo sfruttamento della manodopera (sia esso diretto, attraverso le macchine, o indiretto, attraverso le borse) va sempre di pari passo col saccheggio delle risorse naturali. Ecco perché un ambientalismo onesto non può dire basta al saccheggio senza porre il dito sulla piaga dello sfruttamento.

Qui però l'ecologia finisce in un vicolo cieco. Infatti, se non è possibile risolvere i problemi del saccheggio senza mettere in discussione quelli dello sfruttamento del lavoro, è ancora meno possibile risolvere entrambi i problemi senza affrontare quello del macchinismo, cioè i processi di industrializzazione che rendono possibile il benessere collettivo ("collettivo", beninteso, in senso lato: i Paesi del Nord rispetto a quelli del Sud o talune classi sociali rispetto ad altre sia al Nord che al Sud, ecc.).

Siamo arrivati a questa conclusione perché, se anche si volesse togliere alla borghesia la proprietà privata dei mezzi produttivi, che la arricchisce in una maniera spaventosa, resterebbe irrisolto il problema del saccheggio delle risorse naturali, che avveniva anche al tempo dell'URSS e che oggi avviene nel socialismo mercantile di tipo cinese. Senza poi considerare il fatto che per un operaio, essere "salariato" da un privato o dallo Stato non gli cambia la vita in modo sostanziale.

Tuttavia oggi in occidente il problema è un altro ancora. Infatti la borghesia imprenditoriale sta approfittando delle idee ambientalistiche per imporre determinati tipi di consumi e di comportamenti che di ecologico hanno solo la parvenza, e che invece nella sostanza favoriscono la grande industria. Quando si parla di raccolta differenziata dei rifiuti, si favorisce la parvenza, in quanto in realtà non si fa nulla per risolvere il problema a monte (si pensi solo al massiccio imballaggio delle merci nei contenitori di plastica).

Quando si parla di auto elettriche o ibride, o di caldaie a condensazione, o di pannelli solari, ecc., si favoriscono nettamente gli interessi della grande industria, che non si preoccupa certamente di tutelare la natura, né quando produce queste nuove merci pseudo ecologiche, né quando si tratta di smaltirle una volta divenute obsolete.

Noi in occidente siamo consapevoli (nel migliore dei casi) dei problemi che noi stessi creiamo, ma non sappiamo assolutamente come risolverli. Non solo non ne abbiamo la volontà, ma, anche avendola, ci mancano gli strumenti adatti per affrontarli.

Infatti una qualunque produzione industriale sembra essere di per sé incompatibile con le esigenze riproduttive della natura. Tagliare un albero è una questione di pochi minuti con una sega elettrica, ma la ricrescita di un altro albero, nelle stesse dimensioni di quello precedente, richiede molti anni.

Ecco perché oggi, quanto gli statisti occidentali parlano di ambientalismo, mentono sapendo di mentire. Non solo, ma fanno mentire anche gli statisti dei Paesi non occidentali, che non vogliono farsi mettere in croce da belle parole prive di riscontri oggettivi. Dietro le "belle frasi" si celano interessi di tutt'altra natura.

L'unica cosa che gli statisti riescono a fare, per accontentare le masse popolari, è promettere che un giorno (ogni volta però posticipato) i problemi saranno risolti.

Nel frattempo impongono fardelli supplementari che erodono i risparmi privati, anche perché li pretendono da parte di chi, in un mercato altamente competitivo, ha meno mezzi per sopravvivere.

L'esempio odierno delle piccole imprese agricole è calzante: possono protestare quanto vogliono, possono lagnarsi d'essere state costrette ad acquistare macchinari costosissimi, a subire regolamentazioni penalizzanti rispetto alla concorrenza estera; possono anche costringere i governi, con le loro manifestazioni, a cedere sulla questione fiscale o sul costo degli idrocarburi, ma il loro destino è segnato. Nei mercati devono operare solo le multinazionali. Le pretese accortezze ecologiche serviranno proprio per farle dominare meglio, e non perché loro avranno più mezzi per metterle in atto, ma proprio perché saranno le altre aziende a non averli.


p.s. A questo post è stata fatta un'obiezione abbastanza argomentata. La seguente: "Se da un lato è ovvio che l'ambientalismo deve per forza di cose ripensare radicalmente il sistema economico e produttivo, non si può realisticamente pensare, fuori dalle bolle anarcoprimitiviste, a una società che rinunci a mezzi di trasporto, riscaldamento e produzione di energia. Le auto elettriche decarbonizzano e azzerano l'inquinamento dovuto a trasporto privato. Sì, prima vanno potenziati il trasporto pubblico e la mobilità alternativa (anche questi in elettrico), ma un certo numero di auto rimarrà sicuramente, e dovranno essere EV. Le pompe di calore (non le caldaie) hanno un'efficienza che rende sostanzialmente ridicole tutte le altre forme di riscaldamento; oltre a consentirci di decarbonizzare. Zero motivi per non installarle. I pannelli solari hanno un costo basso e in picchiata, un'efficienza in rapida crescita, sono già riciclabili per più del 90%, producono elettricità. Anche qui non si capisce quale sia la critica. Tutte queste tecnologie, vale la pena ricordarlo, servono a togliere dalle scatole un settore (quello del fossile) che si fonda sulla devastazione di interi ecosistemi, e sul rilascio di quantità enormi di gas serra. Per cui sì, diminuiamo i consumi, riutilizziamo e recuperiamo, ma se rifiutiamo la tecnologia così per partito preso, o sulla base del fatto che qualcuno ci può lucrare sopra (cosa piuttosto normale in un regime capitalistico), non si capisce che alternative ci rimangono al suicidio di massa".

Così ho risposto: Le tue osservazioni potrei condividerle a una sola condizione, che venissero formulate, previa ampia discussione, all'interno di una società già anticapitalista. Cioè vorrei che fossero il frutto di una decisione comune da parte di una collettività locale, padrona dei mezzi produttivi e capace quindi di democrazia diretta. Al di fuori di una società del genere, non mi fido di niente e di nessuno, proprio perché si può facilmente prevedere che le idee migliori verrebbero prima o poi strumentalizzate dai poteri forti. Detto questo, non ho nulla in contrario, in via di principio, nei confronti dell'anarcoprimitivismo. E comunque voglio dirti che qualunque obiezione tu mi possa fare, ti ricordo che lo faresti da una posizione privilegiata, quella occidentale, che campa sulle spalle altrui. E' troppo facile fare obiezioni del genere dopo 500 anni di colonialismo. Vorrei sentirle da parte di chi ci fornisce le materie prime per la nostra transizione ecologica.

Quando si pensava che gli idrocarburi erano a tempo limitato, si puntò dritti al nucleare civile, anche in Italia. Poi il disastro di Chernobyl ci convinse che stavamo facendo una scemenza. Avevamo avuto bisogno di una tragedia per capirlo. Ora si punta sull'elettrico. Chissà quanto tempo ci metteremo prima di scoprire che anche questo è disastroso per la natura. Ma dovrà dircelo il Sud globale, perché noi del nord siamo sordi e ciechi.

La prima domanda che dovremmo porci è: poiché non voglio che il mio benessere dipenda dal malessere di qualcuno, di quanta energia ho bisogno per vivere? La seconda domanda, più difficile, è: riesco a procurarmi energia sufficiente là dove vivo, senza dover chiedere niente a chi vive al di fuori della mia comunità?


L'aborto è un diritto assoluto?


I francesi si vantano d'aver messo nella Costituzione il diritto all'aborto, così nessun medico potrà fare l'obiettore di coscienza (780 voti a favore e 72 contrari in parlamento).

Questo vorrà dire che nel giro di qualche generazione la Francia sarà composta di soli immigrati, che, essendo prevalentemente di religione islamica e quindi contrari all'aborto, di sicuro saranno i più prolifici.

A parte questa considerazione demografica, l'errore di fondo è un altro. L'aborto è sempre un dramma personale, c'è poco da fare. E' assurdo pensare di renderlo meno drammatico, circoscrivendolo nell'ambito giuridico dei diritti costituzionali.

Ci può stare come diritto relativo, privato, soggetto a varie condizioni, oggettive (per es. permetterlo entro i primi 90 giorni di gestazione) e soggettive, per le quali potrebbero esserci delle discussioni tra la persona interessata, intenzionata ad avvalersi del suo diritto, e altre titolate a dissuaderla, come naturalmente il partner, ma anche lo psicologo, l'assistente sociale, il medico, il datore di lavoro...

Una società davvero democratica dovrebbe favorire le condizioni che impediscono una gravidanza indesiderata o che riducono al massimo le conseguenze sociali e professionali di una gravidanza in generale (soprattutto quelle che ricadono in prevalenza sulla donna).

Cioè una donna non può essere penalizzata proprio perché di genere femminile. Non può essere lasciata sola nel prendere una decisione che, in ultima istanza, riguarda la demografia e lo sviluppo sociale di un'intera popolazione. E non può neppure subire i diktat di una cultura o ideologia dominante che, avvalendosi del proprio potere politico, vuole interferire con le sue scelte private, riguardanti il proprio corpo.

Tuttavia il parto di un nuovo membro della collettività dovrebbe essere un impegno che l'intera collettività si assume. E' evidente che i diritti di una donna sono superiori ai diritti di chi ancora non è nato (qualunque discorso religioso in merito non ha alcun senso), ma i diritti di un qualunque cittadino vanno sempre messi in relazione coi diritti di tutti gli altri. Non siamo monadi isolate. La sopravvivenza di una popolazione non può dipendere dall'esercizio di un diritto assoluto, rinchiuso nella sfera individuale e privata.

Forse l'unico caso in cui la donna va lasciata assolutamente libera di decidere che cosa fare del feto che ha in corpo, è lo stupro. Non si può accettare l'idea che una donna debba subire su di sé gli effetti prolungati di un dramma personale di così eccezionale gravità. Questo naturalmente a prescindere dal fatto che, al momento di partorire, la donna va sempre lasciata libera, che vi sia stato o meno uno stupro, di non riconoscere il nascituro.

In tutti gli altri casi si dovrebbe scendere a una trattativa tra l'interessata e le istituzioni (dando ovviamente per scontato che vietare ufficialmente l'aborto significa relegarlo a una sfera clandestina con tutti i suoi rischi e pericoli).

Prendiamo ad es. un Paese come la Russia, prima nazione al mondo a legalizzare l'aborto nel 1920. E' vastissima e con una popolazione piuttosto scarsa (praticamente il numero dei nati è fermo ai livelli della seconda guerra mondiale). In tal caso potrebbe risultare del tutto normale che lo Stato abbia interesse a che non si pratichi l'aborto, pur ammettendone il diritto. Sarebbe del tutto normale che in un Paese come questo le istituzioni assicurino alla donna tutti i sussidi e l'assistenza che vuole per convincerla a partorire (anche nel caso voglia dare il neonato in affido o adozione); poi nessuno dovrebbe potersi opporre se, nonostante ciò, la donna insiste ad avvalersi del suo diritto ad abortire.

Garantire alla donna un diritto assoluto, da esercitarsi in via esclusiva, senza interazioni di sorta, in un campo così importante come quello della riproduzione della specie, significa affermare l'individualismo più estremo, ed esimere lo Stato dal dovere di investire nelle questioni sociali. Qui di assoluto dovrebbe esserci solo un principio, e cioè che la maternità, l'infanzia e la famiglia vanno poste sotto la protezione dello Stato o comunque della collettività cui la donna appartiene.


6 marzo


Un nuovo Sud globale


Che il Sud globale stia sfuggendo sempre più al controllo neocoloniale dell'occidente collettivo, è pacifico. E' dal secondo dopoguerra che si assiste a questa progressiva emancipazione. Dapprima è avvenuta sul piano politico e in parte militare. Oggi sta avvenendo anche su quello socio-economico. Ma i processi son lunghi e faticosi, anche perché l'occidente sfrutta la leva finanziaria per indebitare questi Paesi, continuando a tenerli sottomessi.

D'altra parte col colonialismo classico li avevano abituati a produrre solo quei beni appetibili per i mercati internazionali. Avendo perso la loro autonomia, ora, per sopravvivere, han bisogno di finanziamenti.

Il Sud globale sarà prima o poi costretto a ripensare se stesso. Infatti quelle risorse naturali che prima erano sfruttate dal saccheggio coloniale occidentale, e poi, dopo l'emancipazione politica, sono rimaste strettamente collegate ai mercati mondiali, si stanno esaurendo. Han fatto la fortuna dell'occidente, ma solo in misura molto limitata riescono a fare altrettanto con le forze nazionali del Paese in via di emancipazione: in genere solo una stretta minoranza ne trae beneficio.

Tuttavia il problema non è solo questo. I Paesi del Sud globale, se vogliono smetterla con le emigrazioni forzate per motivi economici e ambientali, devono superare l'idea occidentale di produrre monocolture o determinate materie prime strategiche per le necessità dei mercati mondiali. Anche perché gli introiti in denaro che ricavano da questo commercio non sfamano le popolazioni nazionali, ma arricchiscono solo le élites privilegiate, che per di più sono protette dallo Stato, cioè da governi corrotti, che di sicuro non fanno gli interessi nazionali.

Per produrre monocolture o particolari materie prime, questi Paesi han visto impoverire la biodiversità e aumentare la desertificazione; han subìto l'insediamento di aziende occidentali altamente nocive per l'ambiente; sono stati trattati come discariche per i rifiuti non riciclabili dell'occidente.5

Andando avanti di questo passo, le emigrazioni forzate verso le aree più ricche del pianeta non finiranno mai, soprattutto se le popolazioni nazionali non riusciranno a rovesciare i loro governi corrotti e reimpostare completamente i criteri della produzione economica, che non possono prescindere in alcuna maniera dalla giustizia distributiva, dall'uguaglianza sociale.

Il Sud globale si deve riscattare da tutti i punti di vista. In tal senso non è una scelta indovinata sostituire le aziende occidentali con quelle cinesi. Questi Paesi han bisogno di autonomia, cioè di essere lasciati in pace, di ritrovare le loro identità originarie, di recuperare le loro tradizioni anteriori al colonialismo occidentale (o comunque antitetiche a questa schiavitù).

E' tutto da dimostrare che il loro destino sia quello di industrializzarsi come i Paesi più avanzati del mondo. Che facciano questo assumendo essi stessi forme di tipo capitalistico o socialistico non cambia nulla nella sostanza. Questi sono Paesi che devono approfittare della crisi del capitalismo globale, che si esprime in periodiche guerre regionali, crolli finanziari e soprattutto in sempre più frequenti e massicce devastazioni ambientali, per ripensare totalmente se stessi.

Non basta più emanciparsi, rivendicare diritti. Occorre anche ricostituirsi, ripristinare delle fondamenta perdute, recuperare le basi essenziali di un passato pre-coloniale.


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Gli ambasciatori dei Paesi dell'UE in Russia hanno rifiutato l'incontro col ministro degli Affari esteri russo, presumibilmente seguendo alcuni consigli di Bruxelles. Ciò va totalmente contro l'idea stessa dell'esistenza delle missioni diplomatiche e degli incarichi di ambasciatori.

In realtà tutti questi ambasciatori dovrebbero essere cacciati dalla Russia e il livello delle relazioni diplomatiche dovrebbe essere abbassato. Questi non sono ambasciatori, ma imbecilli politici che non comprendono i loro reali compiti.

L'Europa è morta.

Così ha affermato Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa.

Impossibile dargli torto.


7 marzo


Facce di bronzo e cuori di pietra


Se la Germania avesse vinto la prima guerra mondiale, avrebbe scatenato la seconda? Una Germania che avesse avuto un po' di colonie sparse nel mondo e che fosse entrata nel Medioriente (come gli anglo-francesi) per sfruttarne le risorse energetiche e le vie commerciali, avrebbe avuto molti meno motivi per occupare l'Europa occidentale.

Tuttavia, siccome Francia e Regno Unito avevano già dei grandi imperi, il III Reich avrebbe di sicuro dichiarato guerra alla Russia bolscevica e, magari con l'aiuto di alcune potenze occidentali, avrebbe cercato di occuparla.

Se ci fosse riuscita, cioè se si fosse presa della Russia la parte più estesa, la storia dell'umanità sarebbe stata molto diversa? Direi proprio di no. Invece di un capitalismo mondiale guidato dagli USA, ne avremmo avuto uno guidato dalla Germania, oltre che da Francia e Regno Unito (e anche gli USA avrebbero continuato a fare la loro parte in America Latina e nel Pacifico).

Poi, dopo essersi spartito la Russia, l'occidente borghese avrebbe cercato di fare altrettanto con la Cina, mentre l'India sarebbe rimasta in mano inglese. Almeno fino a quando non fosse scattata un'esigenza globale di emancipazione dal colonialismo occidentale.

Questo per dire che gli europei sarebbero stati aggressivi come gli statunitensi, poiché siamo della stessa "razza". Anzi, quasi sicuramente avremmo dichiarato guerra agli stessi Stati Uniti, se non ci avessero permesso di avere piena libertà di accesso in Sudamerica.

Questo perché il capitalismo è fatto così: è ingordo, non si accontenta mai di ciò che ha. E le nazioni più forti (o le multinazionali) non vogliono avere concorrenti.

Quindi non meravigliamoci se in questa guerra russo-ucraina gli USA han preteso di trasformare la UE in una colonia senza voce in capitolo. Se la Germania avesse vinto la prima guerra mondiale, se avesse occupato buona parte della Russia, e se non ci fosse stata la seconda, l'Europa occidentale avrebbe continuato a dominare il mondo per ancora molto tempo.

Il bello è che noi europei oggi ci comportiamo come se le cose fossero andate effettivamente così, quando invece è in declino l'intero capitalismo privato di marca occidentale.

Non ci rendiamo conto della realtà, non vogliamo ammettere l'evidenza dei fatti. Pur essendo consapevoli che gli USA nei nostri confronti si comportano come un Paese egemonico, riteniamo che, come "occidente collettivo", continuiamo a dominare il mondo. E siamo disposti a dimostrarlo con la forza militare, essendo intenzionati a dichiarare guerra alla Russia e alla Cina: cosa che faremo quando ci sentiremo adeguatamente pronti.

Infatti, prima di tutto gli statisti devono preparare le popolazioni a questo grande impegno, che comporterà sicuramente enormi sacrifici. Dovranno ripristinare la leva obbligatorio e finalizzare le industrie a un'economia di guerra. Non si vincono i grandi conflitti senza rischiare di perdere la vita o di restare per sempre mutilati o di ammalarsi di qualche grave patologia.

A tal fine la democrazia è destinata a diventare un'inutile zavorra. Per far capire al mondo che siamo noi a dettare le regole per tutti, noi stessi dobbiamo essere i primi ad assumere atteggiamenti intolleranti. Facce di bronzo e cuori di pietra: dobbiamo educarci a diventare così.


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Il Trattato NATO nega la possibilità di sottoscrivere accordi bilaterali con un Paese in stato di guerra. Questo vuol dire che tutti gli accordi siglati in autonomia da inglesi, francesi, tedeschi e italiani con l'Ucraina vanno considerati nulli, a meno che non si voglia ammettere che la NATO non esiste più.


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Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ha scritto su X le seguenti parole di cordoglio verso la brigatista Balzerani: "La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee".

Il post - poi cancellato - ha scatenato un vespaio sui social, ma tutto sommato è condivisibile per chi ha vissuto gli anni '70.

Infatti la stessa docente ha poi precisato: "Sono sempre stata lontana da ogni forma di violenza. Lo testimoniano la mia vita, i miei scritti, il mio insegnamento. Ho ricordato la morte di Barbara Balzerani da cui sono sempre stata distante. In quel contesto ho accennato a quella trasformazione radicale cui la mia generazione aspirava. Alcuni hanno scelto la lotta armata; io ho preso la strada del femminismo. Ho sperimentato la violenza di quegli anni in prima persona, quella di molti fascisti".

Brava Donatella! Hai tutta la mia comprensione e solidarietà.


8 marzo


Le ragioni di un successo mondiale


A volte mi chiedo da dove provenga all'occidente collettivo questa incredibile capacità d'ingannare le masse popolari. Cioè quale sia il sostrato culturale che ha permesso al capitalismo di diventare un sistema economico di rilevanza mondiale.

L'individuazione di tale sostrato non è immediata, poiché, se ci fermiamo all'epoca schiavistica, troviamo che il diritto romano non era più importante della religione egizia o greca o della filosofia indo-buddista. E non è mai accaduto da nessuna parte che il sistema schiavistico sia stato in grado di partorire quello capitalistico. Certo negli USA esistevano i cosiddetti "negri" nelle piantagioni del sud, ma solo perché in Europa esisteva già il capitalismo, e comunque nella guerra di Secessione vince il nord industrializzato.

Marx fa nascere il capitalismo industriale nel XVI sec., ma se avesse studiato in Italia, l'avrebbe anticipato di almeno mezzo millennio. Certo, non quello "industriale", ma di sicuro quello commerciale, cioè quello dei mercanti che si recavano in oriente per acquistare quelle merci che non si trovavano in Europa occidentale, e di cui quei mercanti sapevano suscitare nelle classi agiate un "bisogno voluttuario".

Si dirà che questo tipo di commercio era conosciuto anche da ebrei e islamici. E' vero, ma solo in Europa occidentale ebbe la forza di creare un sistema sociale di tipo "borghese", in cui l'individuo urbanizzato era giuridicamente "libero", cioè non soggetto alle costrizioni tipiche dell'epoca schiavistica e feudale (servile o tributaria).

Solo nei Comuni borghesi italiani si verifica, per la prima volta, che un servo della gleba possa sentirsi protetto dopo essere fuggito da un feudo; solo qui può trasformarsi da contadino infeudato ad operaio salariato, giuridicamente libero, presso un'impresa privata (soprattutto tessile), i cui mezzi produttivi erano di proprietà di un mercante che aveva accumulato capitali tramite il commercio a lunga distanza.

Marx riuscì a capire, senza mai approfondire la tesi, che la cultura più adeguata per lo sviluppo del capitalismo industriale era quella proveniente dal mondo protestante. Tuttavia quando noi parliamo di "nascita della borghesia" in Europa occidentale e particolarmente in Italia, la cultura dominante non era certamente quella protestantica (che neppure esisteva), bensì quella cattolica, una cultura religiosa che dopo il Mille iniziò a opporsi nettamente a quella cristiano-ortodossa dell'area greco-bizantina.

Infatti il capitalismo non nasce nella ricchissima Bisanzio (o Costantinopoli), ma nelle neonate città marinare italiane che commerciavano soprattutto coi bizantini, e che, a un certo punto, avevano capito come mettere in piedi delle manifatture svincolate da qualunque controllo statale, in cui un imprenditore privato, padrone dei mezzi produttivi, poteva sfruttare il lavoro di più operai salariati formalmente liberi. Questi operai dapprima erano sparsi nelle loro abitazioni e usavano i telai che avevano a disposizione; poi furono concentrati negli opifici o manifatture.

La domanda chiave a questo punto è la seguente: come fu possibile che la borghesia comunale italiana maturasse un'idea del genere, che sconvolgerà col passare dei secoli il mondo intero, senza incontrare una ferma opposizione da parte della classe aristocratica, allora nettamente dominante e protetta dai sovrani?

Il motivo è uno solo, tranquillamente verificabile sul piano storico. La borghesia poté nascere e svilupparsi con successo grazie all'appoggio che trovò nel papato, fermamente intenzionato a usare la stessa borghesia in funzione anti-imperiale, cioè per creare un sistema teocratico in cui l'unico vero imperatore fosse lo stesso pontefice, mentre gli altri due (il basileus bizantino e quello occidentale del sacro romano impero) si concepissero come suoi bracci secolari.

Questa pretesa teocratica con ambizione universale ha termine alla fine del '300, quando iniziano a svilupparsi le monarchie nazionali, all'interno delle quali l'idea di agganciare il capitalismo privato con la religione cattolico-romana andò sì avanti (per un po' di tempo), ma sotto la gestione centralizzata di un sovrano indipendente.

In altre parole, l'individualismo assoluto che il cattolicesimo aveva affermato dapprima sul piano politico, inventandosi la figura di un pontefice-imperatore, si era progressivamente esteso, a livello sociale, fino al punto in cui la classe borghese del nord Europa sfuggì completamente al controllo ecclesiastico, trasformandosi (a partire dal 1517) da cattolica a protestante.

Forte del proprio successo economico, la classe borghese era giunta alla convinzione di potersi imporre con lo stesso criterio individualistico del papato, ma emancipandosi da ogni forma di tutela. Come noto, in Italia il papato reagì a questa pretesa imponendo una controriforma che fece uscire il Paese dai processi impetuosi dello sviluppo capitalistico. Ma questo è un altro discorso.

Piuttosto dobbiamo dire che nell'ultimo mezzo millennio la cultura protestantica si è enormemente laicizzata, e ha avuto tutto il tempo necessario per imporre anche ai Paesi non cristiani l'idea che il capitalismo può nascere solo se lo sfruttamento privato del lavoro viene fatto a operai giuridicamente liberi, astrattamente tutelati da vari diritti.

Oggi lo scontro epocale cui stiamo assistendo è tra due forme di capitalismo, aventi una medesima potenza militare, economica, finanziaria: quello privato di marca occidentale, in cui l'economia e la finanza considerano la politica e il diritto un loro strumento operativo, e quello statale di marca asiatica, in cui politica e diritto pretendono di esercitare un certo controllo su economia e finanza. Chi vincerà è facile a capirsi.


9 marzo


Destinati al collasso


Ogni formazione sociale individuata dai classici del socialismo scientifico ha avuto dei periodi plurisecolari. Si pensi solo allo schiavismo e al servaggio. Il comunismo primitivo è durato addirittura milioni di anni. Quindi neanche il capitalismo può sottrarsi a questo trend tipico delle civiltà basate sull'antagonismo sociale.

Quando decise di emigrare a Londra, Marx era così sfiduciato di fronte all'inefficacia delle rivoluzioni proletarie in Europa occidentale, che arrivò a dire che il capitalismo è destinato a sopravvivere finché non ha esaurito tutta la sua carica propulsiva.

Lenin invece dirà che, siccome in Russia il capitalismo era ancora debole, in quanto nato da poco tempo, sarebbe stato più facile abbatterlo, soprattutto se si fosse approfittato della guerra mondiale, trasformandola in guerra civile. E la storia gli diede ragione, anche se, visto come sono andate le cose col socialismo statale, fino a un certo punto.

Al tempo di Lenin il socialismo europeo della II Internazionale era unanimemente convinto (sulla scia dell'ultimo Engels) che, prima di realizzare il socialismo, bisognava sviluppare al massimo il capitalismo: in questa maniera si sarebbe formato un potente proletariato industriale, che avrebbe gestito un socialismo del benessere, proprio grazie allo sviluppo dell'industria.

La transizione al socialismo sarebbe stata, in un certo senso, inevitabile, proprio per impedire la barbarie, cioè l'assurdità di una proprietà privata dei mezzi produttivi a fronte di un grande lavoro collettivo nelle fabbriche.

Lenin veniva visto come un eretico, non perché fosse contrario all'industrializzazione, ma perché parlava di rivoluzione proletaria (fatta da operai e contadini) in un Paese economicamente arretrato come il suo.

Lui si difendeva dicendo che se in Russia sarebbe stato più facile compiere la rivoluzione e difficile portarla avanti, proprio a causa della sua arretratezza economica, in Europa occidentale invece sarebbe stato molto difficile iniziarla (a causa dell'ampia corruzione), anche se sarebbe stato facile proseguirla, visto il suo alto livello di sviluppo industriale.

Come si può notare, sia in un modo che nell'altro, si aveva nei confronti dell'industria un atteggiamento quasi reverenziale. La si considerava come il parametro fondamentale per scongiurare la realizzazione di un socialismo della miseria.

Purtroppo si aveva una scarsa consapevolezza dei disastri ambientali che avrebbe potuto causare l'industria in sé, indipendentemente dalla formazione sociale in cui potesse svilupparsi. Lo dimostra il fatto che, mentre l'Europa occidentale ha devastato sia il proprio continente che quello dei Paesi colonizzati, in Russia invece è stata la propria area europea a devastare se stessa e la propria area asiatica, penalizzando le proprie popolazioni primitive.

Il crollo del socialismo statale non ha affatto costituito un'inversione di marcia, anzi l'industria energetica si è sviluppata ancora di più.

Oggi il capitalismo, sia nella forma privata occidentale che in quella statale asiatica, è diffuso in quasi tutto il pianeta. Ma, se si nota, ovunque si fa un medesimo discorso generale: finché le risorse energetiche classiche (petrolio, gas e carbone6) sono facilmente reperibili, non ha senso porsi il problema di costruire una nuova formazione sociale, un nuovo stile di vita. Al massimo, se proprio vogliamo parlare di transizione ecologica, andiamo in cerca delle cosiddette "terre rare" (quelle che dovrebbero servire per sviluppare l'elettrico contro il fossile).

Ha senso pensare a una transizione del genere puntando sul concetto di "rarità"? Non credo proprio. Infatti si è costretti a puntare anche su altre cose, riguardanti il risparmio energetico: i pannelli solari, i cappotti termici, i doppi vetri e le caldaie a condensazione e la bioedilizia in generale. Ma si parla anche di pale eoliche, di centrali nucleari a fusione (non a fissione), di uso dell'idrogeno separato dall'ossigeno presente nell'acqua, di costruzione di dighe per l'energia idroelettrica, e così via.

In tutti questi casi non viene mai messa in discussione l'industria, e neppure uno stile di vita basato sul benessere/sviluppo/crescita economica. Non solo, ma si continuano a costruire armi il cui potenziale distruttivo è mortale per la natura, al punto che chi sopravvive ai bombardamenti, è destinato a una vita piena di malattie.

L'ecologia viene usata solo come una toppa ai disastri del capitalismo. Ancora non si è capito che, senza ecologia, nessuna economia ha un futuro. Andando avanti di questo passo, il genere umano è destinato a subire un collasso catastrofico. Sarà la stessa natura a incaricarsene.


10 marzo


Dalla rivoluzione neolitica ad oggi


Lo sappiamo tutti che la rivoluzione neolitica è iniziata circa 10.000 anni fa, alla fine dell'ultima glaciazione. Consisteva nella transizione dalla caccia e raccolta all'agricoltura e allevamento.

Non avvenne in tutto il pianeta, ma solo in alcune sue aree, quelle nei pressi dei grandi fiumi, prive di foreste, paludose a causa delle ricorrenti esondazioni, e quindi poco o nulla abitabili dagli umani.

Uno può pensare che la disgrazia del genere umano sia correlata a quella rivoluzione, ma sarebbe un errore. Infatti, perché nascessero le prime civiltà schiavistiche, occorsero altri 4.000 anni. Finché agricoltura e allevamento sono state attività gestite in maniera collettiva, non hanno costituito un problema per la sopravvivenza del genere umano e della natura; anzi, sembravano l'unica soluzione possibile per quelle popolazioni uscite dalle foreste.

Certo, uno può pensare che senza quelle nuove attività non avrebbe mai potuto nascere lo schiavismo. Questo perché quelle attività creavano ricchezza (il cibo era più abbondante e sicuro). Ma resta il fatto che le prime civiltà schiavistiche (lungo per es. il Nilo, il Tigri, l'Eufrate ecc.) risalgono a circa 6.000 anni fa.

Il vero problema è che da allora non ce ne siamo più liberati. Infatti dallo schiavismo siamo passati al servaggio e da questo al capitalismo (privato e statale). Ogni volta si era convinti d'aver risolto i problemi della civiltà precedente. Anche col socialismo statale di marca sovietica si è pensato di aver superato le contraddizioni del capitalismo, ma è stato un fallimento. Oggi si pensa di farlo col socialismo mercantile di marca cinese, ma sarà inevitabilmente un altro fallimento.

C'è qualcosa di fondamentale che non funziona. Questo qualcosa è il rapporto con la natura. Con caccia e raccolta non si "sfrutta" la natura; con agricoltura e allevamento sì. E quando questo sfruttamento diventa intensivo, le risorse diminuiscono: non ce ne sono abbastanza per tutta la popolazione, che nel frattempo è cresciuta parecchio (2.000 anni fa la popolazione dell'intero pianeta aveva raggiunto soltanto i 200 milioni di abitanti).

Agricoltura e allevamento ci avevano abituato a un benessere inaspettato, ci avevano fatto superare la precarietà di una vita al di fuori della foresta. Il venir meno di certe sicurezze ha inciso sui rapporti tra agricoltori e allevatori, tra stanzialità e nomadismo. Le leggende parlano chiaro: l'agricoltore Caino uccide l'allevatore Abele; lo stesso con Romolo e Remo, ecc.

Lo schiavismo è legato soprattutto all'agricoltura. Le prime città sorgono là dove l'agricoltura è intensiva. Un'agricoltura del genere confligge coi grandi allevamenti di ovini, caprini, bovini... che hanno bisogno di spazi aperti, non soggetti a privatizzazione.

Quando ci si specializza in una particolare attività economica, e non c'è spazio per tutti, cominciano a sorgere problemi seri. Infatti la natura, finché ci si limita a sfruttarla in superficie, più di tanto non può dare.

I nativi nordamericani non erano né agricoltori né allevatori7, a differenza degli abitanti delle tre civiltà schiavistiche dell'altra parte del continente: inca, maya e azteca. Erano cacciatori e seguivano lo spostamento periodico, spontaneo, delle mandrie di bisonti. Quando si scontrarono con gli europei, agricoltori e allevatori intensivi, la loro sorte fu segnata.

Noi abbiamo iniziato a parlare di "progresso" quando l'agricoltura non solo ha eliminato la caccia e la raccolta spontanea dei frutti della natura, ma anche quando ha eliminato il potere degli allevatori nomadi. A tutt'oggi i 3/4 dell'alimentazione mondiale dipendono da appena 12 specie vegetali e 5 specie animali.

Stanzialità, agricoltura intensiva e urbanizzazione hanno posto le basi per la nascita dello schiavismo, cioè per la progressiva deforestazione e desertificazione del pianeta (che attualmente colpisce 1/3 di tutte le terre emerse).

La dimensione delle risorse, a fronte di una popolazione sempre maggiore, ha indotto a cercare mezzi sempre più sofisticati per cercare di ottenerle, ma si tratta di mezzi del tutto innaturali, frutto di sperimentazioni tecnico-scientifiche.

Oggi la violenza sulla natura si è estesa all'intero pianeta. Di tanto in tanto gli esseri umani, per ottenere lo sfruttamento esclusivo delle ultime risorse rimaste, sono disposti a sterminarsi a vicenda. Ma anche dopo averlo fatto, si continua ad avere nei confronti della natura lo stesso atteggiamento violento di sempre.

L'antropizzazione della natura è diventata così forte che non conosciamo più la differenza tra naturale e artificiale. Ancora oggi pensiamo che le foreste, nel migliore dei casi, vanno tutelate perché offrono ossigeno. Si è dimenticato completamente che per milioni di anni esse hanno garantito la vita.


11 marzo


In che senso un nuovo modello di sviluppo?


Nel libro di Manlio Dinucci e Carla Pellegrini, SOS Ambiente, s'invoca l'esigenza di un nuovo modello di sviluppo e se ne delineano due parametri fondamentali: 1) dev'essere incentrato sull'essere umano nella sua totalità; 2) deve soddisfare i bisogni delle attuali generazioni senza compromettere quelli delle future generazioni.

Gli autori cosa intendono per "totalità"? Qualcosa di quantitativo/estensivo: tutti i popoli devono essere artefici e beneficiari del loro sviluppo. Sembra, questa, una preoccupazione anticolonialistica. Lodevole ma insufficiente.

Infatti il concetto di "totalità" deve riguardare anche aspetti qualitativi. L'essere umano "totale" è un ente "integrale", cioè un composto indissolubile, inscindibile, di aspetti umani e naturali.

Sotto questo aspetto bisognerebbe dire che le capacità manipolative (o trasformative) degli umani non dovrebbero mai spingersi fino al punto da subordinare gli aspetti naturali della vita umana.

L'essere umano è sicuramente preposto a trasformare le cose in maniera tale da non avere eguali nel mondo animale. Tuttavia questa capacità dovrebbe essere esercitata nei limiti spazio-temporali e ambientali che la natura impone. In caso contrario si perde la nozione di differenza tra artificiale e naturale. Tutto comincia ad apparire naturale anche se non lo è affatto.

La natura non può darci i parametri in cui esercitare la nostra libertà di coscienza e la nostra coscienza della libertà. Però ci dice quali sono le leggi necessarie, oggettive, in cui sviluppare il senso di umanità che ci caratterizza. Se con la nostra libertà (unica e irripetibile) pretendiamo di modificare tali leggi, noi, inevitabilmente, perdiamo di umanità, cioè diventiamo peggio degli animali.

Il secondo aspetto, quello relativo alle generazioni, è una conseguenza di questo. Nel senso che, se si rispettano le esigenze riproduttive della natura, sarà giocoforza non pregiudicare in alcun modo l'esercizio della libertà e creatività delle generazioni future.

Tuttavia, se questo è vero, una generazione può pretendere di avere dalla precedente soltanto quelle conoscenze e abilità (o competenze) che davvero ritiene utili per sé. Cioè non solo deve sentirsi libera dal dover risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti della generazione precedente, ma non deve neppure avere l'obbligo di ereditare tutte le opere d'ingegno, i manufatti, i mezzi artificiali della generazione precedente. Questo perché è assurdo pensare di dover per forza ripercorrere lo stesso identico cammino di chi ci ha preceduti. La libertà di scelta andrebbe a picco. Ciò che si eredita non deve esser tale da vincolare in maniera assoluta le proprie scelte di vita. E in ogni caso una cosa è ereditare una vanga e una zappa; tutt'un'altra ereditare un trattore o una mietitrebbiatrice.

Quando le cosiddette "popolazioni barbariche" entrarono nell'impero romano d'occidente, ereditarono le fogne urbane, gli acquedotti, le terme, le condutture in piombo dell'acqua, e tante altre cose, che poi però abbandonarono a se stesse, poiché non le ritenevano utili a una vita in campagna. Le città furono quasi del tutto smantellate. I concetti di "sviluppo" o di "crescita" vennero intesi in modo completamente diverso.


12 marzo


La quantità anzitutto


Tutti gli indici di produttività e redditività usati nel capitalismo (capitali, materiali, forza-lavoro) sono di tipo quantitativo (economico, finanziario, statistico...).

Il capitalismo ha comportato il trionfo della matematica, che, unita alla logica proposizionale, ha prodotto l'informatica, e questa si è evoluta come telematica: tutte insieme stanno producendo l'intelligenza artificiale, che è un pensiero astratto, vagamente umanoide, in quanto limitatamente capace d'interagire con chi l'interpella.

In tutti i calcoli macroeconomici che si possono fare (i più frequenti sono il prodotto interno lordo, il debito e il deficit pubblici, il tasso di disoccupazione, d'inflazione, d'interesse sul denaro, ecc.), i danni ambientali non vengono neppure conteggiati. Questo perché si riversano sulla collettività. Paradossalmente, mentre si è precisissimi nei confronti del denaro, si è incredibilmente approssimativi, superficiali, minimalisti nei confronti della natura e dell'ambiente in generale.

Criticare il capitalismo solo sul versante del rapporto capitale/lavoro, senza aggiungere il tema dell'ambiente, oggi è la cosa più stupida che si possa fare. Tenere separati i problemi economici da quelli ecologici è da irresponsabili al massimo grado. Al punto che oggi dovremmo rovesciare completamente le priorità dominanti: prima dell'economia viene l'ecologia. Cioè un sistema economico merita d'esistere solo se è compatibile con le necessità ecologiche dell'ambiente naturale.

Oggi i disastri ambientali sono così grandi che dovrebbero essere considerati un motivo sufficiente per compiere una rivoluzione anti-sistema. Infatti non serve a niente garantire un'occupazione lavorativa o un salario dignitoso, se poi ci si ammala facilmente, si devono affrontare cure costosissime, si muore precocemente.

I problemi ambientali sono così gravi che si trasmettono alle generazioni successive in forme sempre più gravi, e non sembrano risolvibili in presenza dell'attività industriale.

La popolazione è destinata a diminuire, non solo perché la tossicità dell'ambiente riduce la capacità riproduttiva, ma anche perché un'economia sganciata dall'ecologia rende la vita sempre più costosa. In Italia il boom demografico si ebbe solo negli anni 1963-65.

Quando il capitale vuol far credere che il benessere è illimitato, i prezzi delle merci tendono inevitabilmente a salire, mentre i salari non reggono il passo. Viviamo in un sistema così assurdo che i prezzi salgono anche quando si hanno preoccupazioni ambientali. Infatti le esigenze ecologiche vengono sfruttate per fare business.

Quando gli scienziati dicono che il rispetto dell'ambiente avrebbe ricadute positive sull'economia, gli imprenditori privati chiedono allo Stato d'intervenire con le tasse di tutti i cittadini. Non solo si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, ma si statalizzano anche i costi della tutela ambientale. Per es. gli impianti di depurazione sono tutti pubblici, mentre quelli privati riguardano l'acqua per uso domestico.

Esiste un ciclo produttivo a emissioni zero, cioè non inquinante? A livello industriale no di sicuro. Infatti col termine di "emissione" non bisognerebbe intendere solo il rilascio nell'atmosfera di agenti chimici pericolosi (per es. un gas serra), ma qualunque scoria innaturale prodotta dalla fabbricazione di una merce, dal suo impiego e dal suo smaltimento quando sarà esausta.

Ricordiamo tutti quando gli scienziati ci dicevano che i gas CFC presenti nei refrigeratori, negli spray ecc. contribuivano ad ampliare il buco dell'ozono. E' cambiato forse qualcosa dopo che abbiamo acquistato frigoriferi e freezer di nuova generazione? In parte sì, ma non è sufficiente. Se fossimo davvero preoccupati di ammalarci di tumori cutanei e oculari, non vedremmo l'ora che il ghiaccio polare sparisca per poterne sfruttare i fondali, sicuramente ricchi di idrocarburi.


13 marzo


Un modello di sviluppo autonomo


Quando in Europa occidentale si cominciò a capire, al tempo dei Romani, che lo schiavismo non aveva più senso, in quanto non era più possibile allargare i confini dell'impero colonizzando nuove popolazioni, si istituì la figuro del colono, cioè di un lavoratore che, pur essendo dipendente da un padrone (in genere un agrario), fruiva di certe libertà e di un certo margine di autonomia.

Il colono poi divenne servo della gleba nel Medioevo, quando le popolazioni germaniche e asiatiche occuparono l'area occidentale del suddetto impero. E a sua volta il servo contadino fu trasformato in operaio salariato, giuridicamente libero, sotto il capitalismo.

Si passò da una condizione di soggezione o sottomissione a un'altra, senza soluzione di continuità. Non ci fu mai un momento in cui un lavoratore poteva dire d'essere completamente libero. Per esserlo, doveva comunque sfruttare qualcuno: per es. nel mondo artigiano il maestro sfruttava il garzone, in quello monetario il banchiere sfruttava l'impiegato, o l'usuraio sfruttava il debitore, in quello agricolo il latifondista sfruttava il contadino, in quello manifatturiero l'imprenditore sfruttava l'operaio, e così via.

In Europa non si riuscì mai a ritrovare quella libertà antecedente all'antagonismo sociale, ai conflitti di classe. Anche quando si realizzò il socialismo statale nell'Europa orientale, esisteva sempre una certa dipendenza (ideologica, politica, amministrativa...) da parte dei cittadini nei confronti di uno Stato padre e padrone, più che altro gestito da un partito e da un sindacato unici o prevalenti. Si rimandava a un futuro imprecisato la costruzione di una società completamente autogestita, priva della tutela paternalistica e autoritaria dello Stato.

Oggi facciamo la stessa cosa nei confronti della natura. Quando ci diciamo che dobbiamo progressivamente sostituire le fonti energetiche fossili (in via di esaurimento) e quelle nucleari (troppo pericolose) con quelle rinnovabili, restiamo sempre entro i limiti dell'industrializzazione che caratterizza ampiamente il nostro tempo.

Possiamo parlare quanto vogliamo di risorse idroelettriche, eoliche, solari... Ma, per mettere in piedi le strutture che sfruttano le fonti rinnovabili, occorrono conoscenze, mezzi e metodiche che non sono alla portata di tutti. Ancora oggi miliardi di persone sono prive di elettricità non tanto o non solo perché non sanno cosa sia la rivoluzione tecnico-scientifica (che ha portato per es. all'energia termodinamica), quanto soprattutto perché vivono in condizioni di subalternità rispetto ai poteri dominanti.

I Paesi più avanzati del mondo, paradossalmente, possono parlare di transizione ecologica proprio perché vivono sul piano economico una situazione privilegiata, frutto di un colonialismo iniziato mezzo millennio fa.

Noi occidentali guardiamo le cose solo dal nostro punto di vista, e siccome sappiamo che se altre grandi nazioni pretendono di raggiungere il nostro stesso benessere, le risorse energetiche non potranno bastare per tutti, le guerre per noi sono inevitabili.

In ogni caso, anche se non ci fossero delle guerre, il problema di come sfruttare per periodi lunghissimi, millenari, l'energia idrica, eolica e solare, da parte delle nazioni più arretrate, prive di capacità e competenze industriali, resterebbe insoluto. Dovrebbero per forza dipendere da qualcuno, anche solo per sostituire singoli componenti che si sono guastati o usurati, o per sostituire impianti o macchine obsoleti.

Questo per dire che dobbiamo smetterla di associare la parola "benessere" alla parola "industria". Dobbiamo piuttosto associarla alla parola "autonomia", che, a sua volta, presume la piena uguaglianza sociale tra i cittadini, e che implica la gestione condivisa delle risorse comuni, quelle naturali a disposizione e quelle prodotte dalla trasformazione umana di tali risorse.

Ogni Paese deve trovare da sé il proprio modello di sviluppo. Non deve sentirsi in soggezione nei confronti dei modelli altrui.


14 marzo


Un mondo paradossale


Oggi viviamo in città sempre più grandi, sempre più inquinate, usando tecnologie sempre più sofisticate, che quando le smettiamo o le sostituiamo, non sappiamo dove metterle, non sappiamo come impedire che guastino il nostro ambiente. Facciamo sempre meno figli e ci invecchiamo sempre di più. Non solo, ma tendiamo a deindustrializzarci, senza recuperare nulla del passato pre-borghese, preferendo invece puntare le nostre ultime carte soprattutto sui servizi e sulla finanza. Non c'è un vero futuro per l'Europa, tant'è che stiamo diventando troppo bellicisti: ci stiamo americanizzando.

Eppure a causa del nostro benessere, frutto di rapine secolari di risorse altrui, siamo costantemente oggetto del desiderio di riscatto di imponenti flussi migratori provenienti da tutto il Sud globale. Paradossalmente questi poveri vengono a vivere da noi sperando di diventare, prima o poi, benestanti come noi, senza rendersi conto che, già col loro lavoro, partecipano allo sfruttamento degli stessi Paesi d'origine da cui provengono, anche quando, con le loro rimesse, aiutano in qualche modo a sopravvivere i loro lontani parenti.

Tutti vogliono diventare come noi, invece di lottare per essere diversi. Nel passato le popolazioni nomadiche furono costrette a diventare stanziali. Ma tra le popolazioni stanziali c'è sempre stato chi disponeva di mezzi avanzati e chi no; anzi, chi disponeva di risorse naturali, spesso non le poteva utilizzare in autonomia a causa di una qualche forma di colonialismo subita da altre popolazioni. Ancora oggi è così, tant'è che per molti vivere un'esistenza un minimo dignitosa, significa diventare di nuovo nomadi per trovare una diversa stanzialità.

Viviamo in un mondo assurdo, che non fa percepire l'origine delle cose, e tanto meno l'origine dei problemi. Non è forse incredibile che i Paesi più ricchi di risorse naturali rendano più agiati i Paesi che ne sono privi? E' mai possibile che chi dispone di mezzi industriali, finanziari, bellici debba determinare il destino di Paesi che hanno soltanto risorse umane e naturali da sfruttare?

Se ci pensiamo, tutti i discorsi che vengono fatti oggi dai cultori del multipolarismo rappresentano il minimo indispensabile per poter sopravvivere in maniera dignitosa, senza dover sottostare ai diktat altrui. I multipolaristi non stanno offrendo al Sud globale le ricette socio-economiche su come realizzare uguaglianza e giustizia sociale. Stanno semplicemente parlando di autonomia nei confronti dell'occidente collettivo, che da secoli è abituato a vivere sulle spalle altrui.

L'autonomia gestionale delle proprie risorse dovrebbe essere la base di partenza per qualunque Stato al mondo. Invece per quelli del Sud globale è un obiettivo da perseguire, una finalità da realizzare.

Paradossalmente persino i Paesi occidentali non sono consapevoli di cosa voglia dire "autonomia gestionale". Infatti la fanno dipendere, al loro interno, da risorse che non dispongono. Il fatto stesso che siano sempre tentati a delocalizzare le loro imprese per risparmiare sui costi delle merci, lo dimostra.

A noi occidentali piace parlare di mondo integrato, globale, di interdipendenza tra le nazioni, di interconnessione tra le varie funzioni e ruoli. Ma queste cose le diciamo per far sentire gli altri importanti come noi. Cioè per illuderli. Nei fatti siamo noi a comandare, e siccome stiamo diventando una risicata minoranza, temiamo che qualcuno se ne accorga.


15 marzo


Un virus micidiale


Una delle cose più illusorie nello stile di vita americano è l'idea che la forza possa incutere timore. Utilizzano ancora la pena di morte nella convinzione, assolutamente ingiustificata in quanto smentita dalle statistiche, che possa dissuadere dal compiere crimini efferati.

Comminano pene detentive lunghissime per far capire che se anche lo Stato permette di fare quel che si vuole, di fronte a ogni sbaglio può usare una durezza spietata (salvo naturalmente nei confronti di chi dispone di mezzi ingenti con cui assicurarsi una difesa di successo).

Ma soprattutto usano armi sempre più letali, sofisticate, dagli effetti così devastanti da durare ben oltre la conclusione del conflitto: questo perché sono convinti che, così facendo, il nemico non solo si arrenderà più facilmente, ma ci penserà anche due volte prima di tornare alla carica.

Gli USA sono un Paese anti-pedagogico per definizione: non capiscono che si ottiene più sicurezza non dal terrore che incute paura ma dalla fiducia reciproca. Non capiscono che se ci si vuole porre come modello da imitare, non ci si può comportare come persone arroganti ma come persone democratiche, che sanno fare della pace un valore universale e che non fingono di credere nei valori e nelle esigenze altrui solo in via provvisoria, mostrando magnanimità e indulgenza con quell'insopportabile fare paternalistico che, all'occorrenza, viene smentito in quattro e quattr'otto.

La pace non può essere un valore che il più forte impone o concede al più debole, tenendolo sottomesso, poiché ciò infonde risentimento, frustrazione, alimenta la spirito di revanche, di vendetta, induce a compiere azioni estreme, unilaterali.

E' evidente che se gli USA hanno atteggiamenti così ipocriti e aggressivi in politica estera, è perché al loro interno vivono conflitti sociali molto acuti, parossistici, che naturalmente i media fanno passare per conflitti di natura etnica o razziale.

L'antagonismo tra chi possiede molto e chi poco o nulla è stellare. L'idea che tutti possano arricchirsi è un mito diffuso dai ricchi. Di fatto qualunque valore umano viene visto alla luce dell'interesse o della convenienza. Solo gli ingenui possono essere altruisti. E non può esserci pentimento o autocritica da parte di chi compie vergognosi abusi o è abituato a mentire. Un minimo di umanità forse può essere trovato nei detenuti nel braccio della morte, in attesa della loro esecuzione capitale, poiché sanno di non avere più niente da perdere.

Per poter accettare un mondo del genere, dominato dal principio latino homo homini lupus, è evidente che la società deve essere continuamente indotta a sognare. La cinematografia hollywoodiana, la pubblicità televisiva, le lotterie, i quiz e i giochi a premi, la sfrenata competizione sportiva, l'uso di qualunque tipo di droga e di licenza sessuale, musica e balli in tutte le loro forme...: tutto ciò è una grande fabbrica di sogni.

Ma anche l'idea che, armandosi, il comune cittadino si senta più sicuro, salvo poi assistere a stragi insensate proprio a causa di quelle armi in mano a squilibrati. Per non parlare della possibilità che si offre a qualunque cittadino di giocare in borsa, nella convinzione che arricchirsi sia la cosa più facile di questo mondo (una convinzione che si aveva in tutto il Paese anche poco prima del crollo del 1929 e del 2008).

E che dire dell'idea di indebitarsi fino al collo, ritenendo che nel Paese più ricco e potente al mondo solo uno sciocco possa fallire? Come se gli USA non fossero l'esempio più lampante di cosa vuol dire fallire quando meno te l'aspetti...

Questo è un Paese da smettere, che non ha alcun merito per continuare a esistere. Le uniche persone che avevano davvero qualcosa da insegnare all'umanità erano i nativi americani, ma li hanno in gran parte eliminati e molti sopravvissuti sono stati relegati nelle riserve (dove non pochi gestiscono casinò e giochi d'azzardo).

Oggi gli USA non hanno da insegnare niente a nessuno. Anzi vanno isolati dal resto dell'umanità. Sono diventati un virus micidiale, in grado d'infettare l'intera popolazione mondiale. Fare affari con gente dalla lingua biforcuta, che non mantiene le promesse, che tradisce i patti sottoscritti, che è abituata a mentire e a rubare, che non rispetta le esigenze altrui può portare a conseguenze catastrofiche per la propria sicurezza e incolumità.


16 marzo


Tornare a fare sogni tranquilli


Certo che se si comincia a guardare il nostro tempo dal punto di vista ecologico, i Paesi debitori nei confronti della natura non sono solo quelli occidentali, ma tutti quelli industrializzati, cioè inclusi quelli che oggi parlano di multipolarismo, contrapponendosi al globalismo di marca occidentale.

Ai Paesi del Sud del mondo dovrebbe importare poco da che parte stare. Tuttavia questo sarebbe un atteggiamento superficiale. Sappiamo tutti che i Paesi dei BRICS non sono in grado di garantire una vera tutela ambientale, ma sappiamo anche che, al momento, sono gli unici che possono offrire ai Paesi soggetti al colonialismo occidentale una vera sovranità nazionale, che includa anche gli aspetti socioeconomici e finanziari.

E' bene quindi che il Sud globale non faccia troppo lo schizzinoso e che si accontenti di fare un passo per volta. Anche perché è tutto da dimostrare che i Paesi oggetto di colonialismo da mezzo millennio abbiano oggi una esatta consapevolezza di come si dovrebbe vivere in un mondo che rispetta le esigenze riproduttive della natura.

E' passato così tanto tempo, i condizionamenti occidentali sono stati così forti che sarebbe ingenuo dare per scontato che il Sud globale abbia un'intelligenza ecologica superiore a quella di ogni altra area geografica del pianeta. Infatti se pretendono una piena sovranità nazionale solo per potersi industrializzare secondo i nostri stessi criteri di vita, il multipolarismo non sarà servito a niente. Anzi per la natura sarà il colpo del knock out.

Sotto questo aspetto è inutile lamentarsi che il benessere dell'occidente è stato ottenuto con una violenza inaudita nei confronti dei Paesi colonizzati. Se ci si vuole industrializzare come noi, se si vuole seguire il nostro stesso cammino "borghese", la natura continuerà ad essere saccheggiata e, prima o poi, le nazioni che avranno acquisito una vera sovranità nazionale si combatteranno tra loro, e la storia ricomincerà come prima, salvo qualche variante che ovviamente non possiamo sapere.

Se il genere umano vuol tornare a fare sogni tranquilli, bisogna che questo incubo lo risolva una volta per tutte.


Differenze tra globalismo e imperialismo


E' abbastanza curioso che oggi, in presenza di un capitalismo dominante a livello mondiale, si parli di anti-globalismo e in un certo si riesca nell'intento di superarlo grazie all'idea del multipolarismo portata avanti dai BRICS, quando, al tempo del socialismo statale di marca sovietica, si parlava di anti-imperialismo, senza mai riuscire a superarlo. Come mai questa situazione paradossale? Il motivo sta nel fatto che la crisi del capitalismo privato, tipico dell'occidente collettivo, oggi soffre di contraddizioni molto più acute, in quando il Sud del mondo è sempre più refrattario ad essere sfruttato sul piano socioeconomico.

Al tempo della guerra fredda il Terzo Mondo guardava con favore il socialismo statale del blocco sovietico, ma questo, al massimo, gli permise di emanciparsi sul piano politico, non economico. Anzi, sul piano economico l'introduzione di elementi del socialismo statale nelle economie del Terzo Mondo risultò, nel complesso, abbastanza fallimentare.

Quando poi nel 1991 l'URSS implose, la delusione del Terzo Mondo fu davvero grande, in quanto si temeva che la dipendenza neocoloniale dall'occidente collettivo sarebbe stata definitiva e peggiore di prima. Uno spiraglio di luce venne però da parte della Cina, che riuscì a penetrare nel Sud globale sul piano economico, senza avere alcuna pretesa di tipo coloniale.

Oggi lo spiraglio viene anche dalla Russia, capace di tener testa militarmente non solo all'Ucraina ma anche all'intero occidente collettivo, che con la sua guerra per procura e le sue disumane sanzioni ha mostrato i suoi grandi limiti.


17 marzo


Deodoranti e liquami


In questo momento una guerra mondiale sembra essere inevitabile per una serie di ragioni:

1) il capitalismo dei Paesi occidentali più avanzati vuole impadronirsi delle immense risorse energetiche della Federazione Russa;

2) lo stesso occidente collettivo non può tollerare la concorrenza industriale della Cina, che ormai, a livello commerciale, è presente in tutto il pianeta;

3) i Paesi petroliferi del Medioriente vogliono sfruttare in assoluta autonomia l'unica vera risorsa che potrebbe diffondere un elevato benessere a tutte le loro popolazioni (senza però considerare le ricadute ambientali di tale sfruttamento);

4) i Paesi del Sud globale vogliono sganciarsi in maniera definitiva da tutti i vincoli che li legano, come un cappio al collo, alle esigenze di sviluppo di quei Paesi industrializzati e neoliberisti che vogliono sfruttare le loro risorse.

Quando scoppiarono le ultime due guerre mondiali, le motivazioni erano soprattutto concentrate in pochi Paesi capitalisti. Quella volta, quando si parlava di "poli dell'imperialismo mondiale", s'intendevano l'Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone.

Oggi la situazione si è così incancrenita che un'eventuale guerra mondiale non sarebbe tale solo perché alcuni Stati la fanno scoppiare e altri la subiscono, ma proprio perché tutti vogliono regolare i conti coi loro nemici storici o con chi in questo momento sta seriamente minacciando la loro incolumità, la loro esistenza in vita.

E' difficile immaginare dove può arrivare la follia di chi ha dominato il mondo nell'ultimo mezzo millennio e vuole continuare a farlo, anche a costo, usando le armi nucleari, di rendere inabitabile l'intero pianeta, o abitabile solo in aree così ristrette da rendere inevitabile il ritorno a un sistema di vita primitivo o addirittura preistorico.

Pensiamo solo a un semplice dato: quando i conquistatori spagnoli approdarono nel continente americano, vi erano circa 70 milioni di persone; ebbene, dopo circa un secolo e mezzo la popolazione si era ridotta a 3,5 milioni. Armi da fuoco e malattie avevano provocato una strage di immense proporzioni, da cui i nativi non si sono più ripresi.8

Oggi in America Latina si parlano lingue coloniali; i nativi non sono a capo dei governi, salvo qualche eccezione; e le attività economiche dipendono strettamente dalle relazioni coi Paesi industrializzati del Nord globale.

E' da pochissimi anni che nel continente americano si assiste a un ruolo apicale, da parte dei nativi, nell'ambito dei governi in carica. Sicuramente meritano d'essere ricordati Evo Morales in Bolivia, il primo presidente indigeno a guidare il proprio Stato; Sonia Guajajara, ministra brasiliana dei Popoli indigeni; Debra Haaland, ministra dell'Interno nel governo di Biden, preposta alla gestione delle risorse naturali, del patrimonio forestale, dei parchi nazionali, dei programmi per le minoranze etniche...

Il che ovviamente non vuol dire che in Sudamerica non siano esistiti statisti di provenienza europea che hanno lottato contro l'imperialismo occidentale: si pensi a nomi molto famosi come Castro, Che Guevara, Chavez, Maduro, Ortega, Allende... Ma, se vogliamo essere sinceri, è come mettere un deodorante in una cisterna di liquami.


Effetti psicologici indesiderati


Uno degli effetti più drammatici e poco noti della transizione dal socialismo statale dei Paesi est-europei al capitalismo privato della UE è di tipo psicologico. E' la depressione acuta che colpisce le migranti che da noi vengono a fare le badanti e che riguarda anche i figli lasciati nelle rispettive patrie. Ci si riferisce soprattutto a Romania, Ucraina, Moldavia, Polonia e Albania. Oltre il 57% dei lavoratori domestici stranieri proviene dall'Europa dell'est. E circa il 90% di tutti questi lavoratori provenienti da tutto il mondo è di sesso femminile, non superano i 40 anni e risiedono soprattutto nelle grandi aree metropolitane.

A causa della prolungata lontananza dai propri figli e dalla propria terra d'origine, non si percepiscono più come "buone madri" e vivono una crisi d'identità. Non sanno più a quale famiglia e a quale parte dell'Europa appartengano.

Peraltro spesso lasciano un lavoro qualificato per venire a svolgere quelle mansioni che molte donne euroccidentali non sono più disposte a fare. In particolare è l'Italia il maggior Paese ospitante di badanti, tate e colf.

Non solo ma a volte capita che i figli abbandonati a casa tentano il suicidio.

Questo problema potrebbe trovare una qualche soluzione favorendo molto velocemente il ricongiungimento familiare, ma anche garantendo un'assistenza psicologica e una facile comunicazione audiovisiva tra queste madri e i figli che lasciano in patria.

In ogni caso va detto che da quando è stata avviata la suddetta transizione, i Paesi est-europei, che pur prima vivevano nelle ristrettezze, ora soffrono la miseria, salvo naturalmente pochi privilegiati.

Fonte: Slavia n. 4/2014


18 marzo


I destini della storia


Sembra che la funzione storica degli occidentali (prima europei, poi americani) sia stata quella di far perdere a tutte le popolazioni del mondo la loro verginità, cioè la loro innocenza.

Tutte quelle popolazioni che noi, con molta supponenza e, in fondo, disprezzo abbiamo definito "primitive", le abbiamo fatte uscire dalla preistoria dei rapporti naturali. Quando noi infatti parliamo di "storia", intendiamo qualcosa di violento, non soltanto l'uso della scrittura, il sorgere di città e mercati, e così via.

All'interno di determinate popolazioni "storiche" si formarono gruppi di persone rivali tra loro, con interessi contrapposti (per es. stanziali contro nomadi, agricoltori contro allevatori, agricoltori e allevatori contro cacciatori e raccoglitori, ecc.).

Chi vince, esercita un dominio e impone a chi perde di contribuire a conquistare i territori delle popolazioni limitrofe, in un processo che sembra non finire mai, in quanto gli imperi che pian piano si formavano (che all'inizio della storia erano di tipo schiavile), si allargavano di continuo, fino a quando non incontravano delle popolazioni più forti, più bellicose, in grado di resistere e di passare al contrattacco. Si pensi per es. all'espansione dell'impero persiano verso l'Europa: se non fosse stato fermato dai Greci, l'Europa non sarebbe stata dominata da uno schiavismo privato ma statale. E che dire dell'impero ottomano? Se non l'avessimo fermato a Lepanto e a Vienna, quanti di noi oggi sarebbero musulmani? E se i mongoli non fossero stati fermati in Polonia che lingue parleremmo?

Noi euroccidentali abbiamo creato l'impero schiavistico più potente del mondo, eliminando dal nostro continente qualunque traccia di "primitivismo".

Con l'arrivo delle popolazioni germaniche e asiatiche, che quelle tracce non le avevano perse, abbiamo trasformato lo schiavo privo di qualunque diritto in un servo della gleba con qualche diritto. E mentre nell'Europa orientale questa forma di lavoro servile si è mantenuta nel corso di molti secoli, noi euroccidentali invece siamo stati capaci di trasformare il contadino servo in operaio salariato, giuridicamente libero anche se socialmente simile allo schiavo, in quanto privo di tutto o quasi.

E con la nascita della civiltà borghese e del capitalismo industriale abbiamo indotto tutto il mondo a cambiare pelle, instaurando dei processi che dovevano apparire irreversibili.

Abbiamo fatto uscire l'umanità dall'infanzia, dall'adolescenza, usando maniere brutali, raggiri di parole e specchietti per le allodole. Tutti dovevano diventare come noi, seguendo un percorso prestabilito e molto accelerato, e dovevano stare sottomessi, perché chi "insegna" a stare nel mondo va rispettato.

Abbiamo creato un mondo a nostra immagine e somiglianza, noi europei, che pur vivevamo in un'area marginale del grande continente asiatico. Abbiamo conquistato l'intero continente africano e americano e australe e mediorientale e buona parte di quello asiatico con la forza delle nostre armi e con l'astuzia che ci caratterizza dai tempi di Ulisse.

Oggi assistiamo a un capovolgimento di fronte, a una transizione epocale. Interi popoli, a lungo sottomessi, si stanno ribellando. Lo fanno in Asia, in Africa, in America Latina, in Medioriente... Guardando la resistenza della Federazione Russa nei confronti di oltre 30 Paesi NATO, che conducono una guerra per procura in Ucraina, il Sud globale si sta persuadendo che vincere è possibile, cioè che l'occidente collettivo non è così forte come sembra. Il coraggio degli Houthi sta meravigliando il mondo intero.

Di sicuro ci si sta rendendo conto che l'ideologia occidentale non ha più alcuna credibilità, che la sua democrazia è falsa e il suo diritto è fittizio, puramente formale. Ci si sta preparando a uno scontro apocalittico, che segnerà i destini della storia dell'umanità per i prossimi secoli. Quando il gioco si fa duro, i duri smettono di giocare.


19 marzo


Diverse cronologie di crolli sistemici


Il fatto che il capitalismo privato occidentale stia crollando dopo la fine del socialismo statale di marca sovietica e cinese dovrebbe farci riflettere.

Si potrebbe infatti pensare che avrebbe dovuto essere il contrario, cioè là dove domina la politica (per quanto autoritaria sia) sull'economia, maggiore dovrebbe essere la resilienza alla propria implosione.

Invece così non è stato. In Cina la fine del maoismo (1976) ha innescato un processo mercantilistico che ha prodotto risultati impressionanti a livello mondiale. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che nel giro di mezzo secolo un Paese agricolo e, secondo i parametri occidentali, sottosviluppato, sarebbe potuto diventare la prima economia industrializzata del pianeta. Oggi il socialismo mercantile sembra che stia diventando un modello di sviluppo per l'intero Sud globale, intenzionato a uscire definitivamente dalle secche del globalismo neoliberista dell'occidente collettivo.

Quanto alla Russia, la svolta è avvenuta con Gorbaciov nel 1985, tradita da quello sciagurato anticomunista di Eltsin, e recuperata in corner dal pragmatico Putin, che, pur essendo lontano da qualunque ideologia socialista, ha saputo impedire al capitalismo privato degli oligarchi di disintegrare la Federazione Russa. E, nel fare questo, ha ripreso un certo nazionalismo a sfondo religioso e una vaga tradizione slavofila euroasiatica, che rimanda inevitabilmente al passato zarista.

In ogni caso nessuno dei due Paesi ha fatto pagare ad altri Paesi le conseguenze del fallimento della propria costruzione ideo-politica (prevalentemente focalizzata sull'industria pesante da parte della Russia, e sulle comuni agricole da parte della Cina).

Sì, ma perché il capitalismo occidentale sta iniziando a crollare solo adesso? Davvero un sistema dove l'economia domina la politica è più forte di un sistema dove esiste l'opposto? Davvero l'interesse materiale conta di più dell'ideologia politica?

Stalin e Mao avevano un potere immenso sul piano politico, che però non fu sufficiente per arginare la crescente crisi economica, che dopo la loro morte si palesò in tutta la sua drammaticità.

Oggi il progressivo declino dell'economia occidentale non riesce a essere scongiurato da nessuna dirigenza politica. Infatti gli statisti occidentali sono tutti delle mezze figure, marionette manovrate da poteri occulti, industriali e finanziari, che agiscono dietro le quinte. Questi poteri, piuttosto che arrendersi all'evidenza, stanno pensando di sostituire la democrazia formale con la dittatura reale del capitale. E la vogliono far pagare al mondo intero.

Non possono assolutamente sopportare l'idea che due potenze come la Cina (forte economicamente) e la Russia (forte militarmente) stiano convincendo il Sud globale a emanciparsi dal neocolonialismo occidentale sui piani economico-finanziario e militare, dopo averlo fatto su quello politico negli anni '60 e '70.

Perché è di questo che, in definitiva, bisogna parlare. Il capitalismo occidentale sta crollando perché non può sopportare una liberazione integrale di chi l'ha abituato da mezzo millennio a vivere di rendita, permettendogli di sfruttare risorse umane e naturali altrui.

La Russia e la Cina non hanno mai potuto farlo. L'autoritarismo era tutto interno alle loro nazioni. Il crollo non avrebbe avuto alcun motivo di scatenare una terza guerra mondiale. Anzi oggi son proprio queste due nazioni, ampiamente meritevoli per aver saputo fare i conti coi propri limiti strutturali, che possono impedire all'occidente di comportarsi in maniera irrazionale.


20 marzo


Obiettivi minimi e massimi


Un socialismo statale come quello sovietico-stalinista (industrializzato) e cinese-maoista (agricolo), o un socialismo mercantile (come quello attuale della Cina) sono autentiche contraddizioni in termini. Questo perché un socialismo davvero democratico deve superare le due principali entità oggi dominanti: lo Stato e il Mercato. Nel capitalismo attuale dell'occidente collettivo le multinazionali e i centri del potere finanziario vanno addirittura al di là degli Stati e delle organizzazioni del diritto internazionale, nel senso che non vogliono essere controllati da niente e da nessuno.

Il socialismo, di cui oggi dobbiamo porre le basi, dovrà essere autogestito dalle collettività locali, basato sulla proprietà comune dei mezzi produttivi e sulla democrazia diretta.

Il socialismo statale è fallito a causa delle proprie contraddizioni interne; quello odierno cinese fallirà in futuro, come fallirà il capitalismo statale, che in questo momento, in Russia, si oppone a quello privato di marca occidentale.

Perché diciamo questo? Siamo forse massimalisti? Pretendiamo solo il meglio?

Diciamo anzitutto una cosa: gli esseri umani non sono così stupidi da non vedere i problemi che loro stessi creano. Il fatto è purtroppo che occorrono secoli prima di trovare qualche soluzione. E quando si pensa d'averla trovata, ci si accorge che è molto relativa, temporanea, una specie di toppa su un vestito vecchio.

Lottiamo per migliorare le cose solo dopo averle devastate: non siamo capaci di prevenzione. E siccome interveniamo con la cura dopo aver lasciato trascorrere molto tempo, i risultati che otteniamo sono soltanto provvisori, anche se, nel momento in cui profondiamo il massimo impegno, ci sembrano definitivi, anzi "salvifici".

Siamo sempre affetti da visioni di tipo "mistico", anche quando siamo atei. Si pensi solo al culto della personalità attribuito a Stalin e a Mao, e agli orrori che abbiamo tollerato in nome di questo culto assurdo; per non parlare di quelli permessi in nome del culto idolatrico del denaro.

Siamo degli illusi cronici. Tuttavia, siccome bisogna evitare il nichilismo, che ci porterebbe sicuramente a peggiorare la qualità della vita, dobbiamo perorare anche quelle cause che ci appaiono minimaliste. Un proverbio dice: Piuttosto che niente è meglio piuttosto.

E così, in questo momento dobbiamo preferire il capitalismo asiatico di stato a quello privato occidentale; il socialismo mercantile al capitalismo statale. Dobbiamo preferire, nell'ambito del capitalismo, quello multipolare a quello unipolare. Al globalismo neoliberista dobbiamo preferire il sovranismo nazionale, perché garantisce maggiore autonomia ai singoli Stati. Personalmente preferisco anche a uno Stato centralizzato uno federato, poiché sono favorevole al decentramento delle responsabilità e delle funzioni, e sarei disposto a dare molti più poteri agli Enti Locali Territoriali. Così smetteremmo di dar sempre la colpa allo Stato per ogni cosa che non sappiamo fare.

E' forse questo il massimo che si può ottenere? No, è il minimo. Ma chi ragiona con l'aut-aut categorico: o tutto o niente, per me è un soggetto infantile, chiuso in se stesso, un astratto idealista che dalla vita non otterrà mai nulla di utile.

Lenin diceva che, pur di abbattere il capitalismo nel suo Paese, sarebbe stato disposto ad allearsi persino con la monarchia. Prendiamo esempio da lui, ch'era lontanissimo dall'assumere posizioni dogmatiche, tant'è che dopo aver compiuto la rivoluzione e vinto i controrivoluzionari, introdusse elementi parziali di capitalismo con la Nuova Politica Economica: quella NEP che lo stalinismo autoritario eliminò in men che non si dica.


21 marzo


Il bisogno di esperienze traumatiche


Alla fine degli anni '90 scriveva il docente statunitense Mike Davis: "Se oggi Marx fosse vivo sottolineerebbe il carattere allucinatorio della visione che ha galvanizzato le masse durante le cosiddette rivoluzioni del 1989. Il miraggio verso cui milioni di persone marciavano era la cornucopia del fordismo: cioè la società dei consumi di massa, con alti livelli di salari e di consumi, tuttora identificata con lo stile di vita americano (e del Nord Europa). La sola emancipazione raggiunta dagli sfortunati cittadini dell'ex blocco di Varsavia è un paleo-capitalismo sinistro, che combina tutti gli elementi più arretrati e più brutali del sottosviluppo (ivi compresa la rapina accelerata delle risorse naturali e delle foreste vergini da parte delle multinazionali), con gli aspetti più avanzati della criminalità organizzata mondiale".

Quelle pseudo-rivoluzioni erano in realtà dei colpi di stato organizzati con la partecipazione occidentale (l'ultimo riuscito fu quello del 2014 a Kiev).

La UE non vedeva l'ora di potersi allargare così facilmente e di acquisire i beni dell'Europa orientale. Uno dei prezzi più gravosi che faceva pagare a quelle ex-nazioni del socialismo statalizzato era l'ingresso nella NATO.

Quando si cercò di fare la stessa cosa in Ucraina (e in Bielorussia), l'intento, in realtà, era quello di smembrare la grande Federazione Russa, ricchissima di materie prime, colpendone i gangli vitali nell'area europea.

L'occidente collettivo ha fatto male però i suoi conti: la Russia s'è lasciata colonizzare negli anni '90, ma con Putin ha detto basta, ed è passata al contrattacco. Nessuno si aspettava che potesse farlo con una tale forza e velocità, anche se ovviamente la si temeva sul piano degli armamenti nucleari.

Oggi è difficile dire che la NATO si rassegnerà a perdere la guerra per procura scatenata contro la Russia in Ucraina. E' anzi più facile pensare che si stia preparando a uno scontro diretto vero e proprio. Uno scontro che inevitabilmente l'occidente perderà un'altra volta. Questo perché la storia sta prendendo una direzione precisa: il dominio incontrastato del capitalismo privato occidentale sull'intero pianeta è finito. Il prossimo futuro sarà nelle mani del capitalismo statale e del socialismo mercantile di marca asiatica, dove lo Stato gioca un ruolo significativo.

Tuttavia su un aspetto alla suddetta frase di Davis un rilievo va fatto. Il passaggio dal socialismo statale al capitalismo privato negli ex Paesi del blocco sovietico fu, in un certo senso, reso possibile da un importante ricambio generazionale. Non fu voluto da quanti avevano fatto la seconda guerra mondiale, ma dai loro figli. L'illusione di poter avere tutto e subito era tipica dei giovani, che non accettavano di vivere nelle ristrettezze e sotto il controllo politico-partitico dell'intera economia. Si poteva continuare a impedire con fare autoritario o paternalistico questa esigenza ribellistica? No, non si poteva. La repressione sovietica dell'Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968 avevano lasciato straschichi pesanti.

Si potevano persuadere le giovani generazioni mostrando che il benessere euroamericano veniva pagato dal malessere dei Paesi colonizzati dall'occidente? Non sarebbe servito a niente. Qualunque analisi critica mossa contro le contraddizioni strutturali del capitalismo veniva presa dai giovani come una forma di propaganda. I frutti dell'albero della cuccagna volevano mangiarli a tutti i costi. Ancora oggi chi ha compiuto i colpi di stato e le cosiddette "rivoluzioni colorate" degli anni '80 e '90, e che comincia ad avere una certa età, non è disposto ad ammettere d'aver fatto una scelta sbagliata. Anzi, insiste nel sostenere, nella maniera più assurda possibile, che se i suoi sogni non si sono realizzati secondo le proprie aspettative, è tutta colpa della Russia, che continua a minacciare il suo Paese, a impedire lo sviluppo della democrazia, a infrangere le regole internazionali.

Purtroppo siamo fatti così: per aprire gli occhi e vedere la realtà per quello che è e non per quello che sembra o che vorremmo che fosse, abbiamo bisogno di esperienze traumatiche.


22 marzo


Un obiettivo prioritario su tutto


Perché la democrazia rappresentativa non funziona più (e non solo in Italia)? Naturalmente mi riferisco anzitutto a quella di tipo parlamentare-nazionale, ma la sfiducia degli elettori si sta estendendo anche a livello locale-regionale.

Ormai va a votare solo la metà degli aventi diritto, esattamente come negli Stati Uniti. Quindi chi vince, riceve soltanto la metà della metà dei voti totali. Parlare di "democrazia rappresentativa", in questi termini, non ha più senso. Il "partito degli astensionisti" è, di fatto, quello ampiamente maggioritario su ogni altro singolo partito o coalizione.

Il motivo di questa débâcle è che la democrazia non coinvolge le masse, ma rappresenta soltanto gli interessi delle élites.

Il fondamento della rappresentanza parlamentare, sia essa nazionale o regionale, e cioè la democrazia economica (o l'uguaglianza sociale), ha smesso di esistere persino come obiettivo teorico. Sembra essere un miraggio irraggiungibile.

Quando si dice che in occidente l'economia domina la politica, s'intende che un interesse privato ha la meglio sul bene pubblico. Oggi addirittura in gran parte è la finanza che domina l'economia. E se la politica ufficiale si pone al servizio dell'interesse privato, è evidente che la popolazione si organizza al di fuori delle istituzioni.

Questa cosa è evidentissima a livello mediatico. Non ci vuol molto per capire che le informazioni più obiettive bisogna cercarle in determinati siti web o in piattaforme collettive come Telegram, Youtube... e in alcuni social dove la censura quasi non esiste.

Peraltro questo progressivo esautoramento di quella politica che, teoria, dovrebbe essere finalizzata alla tutela del bene pubblico, porta a una conseguenza molto pericolosa: gli Stati nazionali (per non parlare delle comunità locali) sono sempre di più nelle mani di organismi internazionali di tipo economico-finanziario, pubblici (come il FMI, la Banca Mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio, ecc.) e privati (come le multinazionali e i fondi d'investimento: Black Rock, Vanguard, State Street...).

La sovranità nazionale è soggetta a limiti impressionanti. Persino un'alleanza militare come la NATO, che dovrebbe sottostare ai poteri della politica, condiziona pesantemente le decisioni del parlamento europeo e dei singoli parlamenti nazionali.

Gli europei han creato una Unione che li priva di ogni autonomia decisionale, e in una misura assai maggiore rispetto a quanto facevano prima gli Stati nazionali.

La democrazia rappresentativa sta diventando sempre più fittizia, anzi inutile. La sua funzione è soltanto quella di favorire gli interessi dei poteri economico-finanziari, ovunque essi operino. Il mondo viene avvertito come qualcosa di "globale" (cioè d'interconnesso, interdipendente) solo nel senso che i poteri forti hanno il privilegio di poter agire, in ogni dove, senza controlli di sorta.

E' impensabile poter ripristinare una sovranità nazionale a livello statale, senza chiedersi come realizzare una vera democrazia economica, che comporti l'uguaglianza sociale, la tutela ambientale e che parta anzitutto dall'istanza locale-regionale.

I cittadini han bisogno di vedere da vicino come vengono realizzati i loro obiettivi primari. Cioè anche se ottenessero l'uscita dell'Italia dalla UE e dalla NATO, questo recupero della sovranità nazionale non potrebbe essere considerato sufficiente per ottenere, da parte delle istituzioni politiche, un forte consenso popolare.

I cittadini han bisogno di gestire in maniera collettiva le risorse locali, quelle del territorio in cui vivono, e han bisogno di prendere decisioni comuni su questa forma di autogestione, avvalendosi di tutti gli strumenti della democrazia diretta, che va esercitata con una certa frequenza. Non si può tergiversare su questo obiettivo, che è prioritario su tutto.


23 marzo


Saranno i deboli a volere la dittatura?


E' evidente che se l'occidente collettivo continua a crearsi dei nemici esterni, la democrazia tenderà progressivamente a scomparire.

Al tempo della guerra fredda i nemici n. 1 erano il cosiddetto "socialismo reale" e i partiti comunisti in generale, ovunque si trovassero. Quella fu una specie di guerra mondiale virtuale che l'occidente a guida americana condusse sul piano dell'intelligence, dei colpi di stato, degli omicidi eccellenti, degli opposti estremismi fomentati ad arte... Naturalmente si aumentarono a dismisura gli arsenali nucleari. Gli USA ampliarono notevolmente il numero delle basi militari in tutto il mondo e iniziarono a collocare nello spazio cosmico satelliti spionistici e di altro tipo (non a caso con Reagan si cominciò a parte di "scudo stellare").

Vinta quella guerra, l'occidente si creò un altro nemico: il terrorismo islamico. Bastò l'attacco autoprodotto alle Torri Gemelle per scatenare una guerra ventennale a vari Paesi mediorientali.

Quando improvvisamente l'occidente armato sino ai denti se ne andò dall'Afghanistan, si capì che il nuovo nemico era diventato la Russia di Putin, che, a differenza di quella di Eltsin, non accettava d'essere colonizzata. Il luogo dove dichiarare guerra era l'Ucraina, senza escludere tentativi di "rivoluzioni colorate" in Cecenia, Georgia, Kazakistan, Bielorussia... L'obiettivo era sempre quello: smembrare la Federazione Russa, anche a costo di trasformare un conflitto regionale in uno mondiale. Persino l'attuale conflitto israelo-palestinese serve allo scopo. E avrà la stessa funzione anche il prossimo, già preventivato, tra Cina e Taiwan.

Il capitalismo crea e distrugge a fasi alterne, perché questo è il modo migliore per autovalorizzarsi, altrimenti la caduta tendenziale del saggio di profitto diventa sempre più pericolosa. Il capitale costante, profuso nel macchinismo, ha bisogno di carne fresca tutti i giorni e in grandi quantità, come il Minotauro nel labirinto di Cnosso, e se non la trova diventa ancora più aggressivo.

L'occidente provoca di continuo, seminando terrore, ampliando gli eccidi di massa, costringendo le proprie stesse popolazioni al conformismo più totale, ad accettare le restrizioni più assurde, ad assumere abitudini che con la democrazia nulla hanno a che vedere. Si comporta così perché non è più in grado di garantire ciò che promette: i cittadini, per non diventare anti-capitalisti, non possono continuare a pretendere degli standard di benessere troppo alti. Solo pochissime persone possono aspirare a tale pretesa.

La stragrande maggioranza degli umani deve soffrire. E, a tale scopo, tutto può essere utilizzato, da una pandemia creata ad hoc a una guerra regionale, dagli obblighi a rispettare in tempi brevi taluni parametri ecologici all'erosione dei propri risparmi privati, fino alla trasformazione obbligata del denaro contante in valuta digitale.

Fino a ieri il capitale aveva sfruttato il Terzo Mondo per far diventare la propria classe operaia una sorta di classe media. Oggi invece è l'intera classe media che deve proletarizzarsi. Questo perché il Sud Globale sta alzando la testa e non senza l'aiuto della forza militare ed economica dei due principali avversari dell'occidente collettivo: Russia e Cina.

Le popolazioni occidentali vanno tenute sotto controllo, mandate a morire in vari teatri di guerra, ridotte di numero, usando virus artificiali e rendendo la sanità sempre più costosa. Soprattutto vanno private della possibilità di utilizzare liberamente le loro proprietà. "Non avrete nulla e sarete felici", questo il principale slogan al forum annuale di Davos.

Lo Stato sociale non esisterà più. Il "povero" sarà quello che non accetterà di subire condizioni di lavoro subumane per poter campare. E più i poveri s'ammazzeranno tra loro per un tozzo di pane, più il sistema dimostrerà che la dittatura è necessaria.

Si rovescerà la narrativa: la dittatura non verrà richiesta dai poteri forti, ma da quelli deboli, convinti, così facendo, che non si indeboliranno ancora di più. I dittatori verranno visti con atteggiamenti di tipo messianico.


Ucraina e Gaza non bastano


E' evidente che gli Stati Uniti si stanno preparando a una guerra con la Cina. Lo dimostra il fatto che hanno appena venduto a Taiwan un pacchetto di armi da 75 milioni di dollari che include un sistema noto come Link 16, che consente alle forze armate di Taiwan di condividere dati con tutto l'armamentario di altri Paesi, cioè di poter combattere a fianco di Stati Uniti, Giappone, Corea, Australia ecc. contro la Cina.

La Rand Corporation aveva già avvertito circa 10 anni fa che per prevalere nel mondo era necessario entrare in guerra con la Cina entro il 2025. L'ammiraglio Philip Davidson ha detto che la guerra sarà nel 2027. Che per il globalismo neoliberista sia assolutamente necessario farla non ci piove. La ricostituzione del fascismo e delle tendenze fasciste in tutto il mondo diventa inevitabile.

Ma perché l'economia cinese è temuta così tanto dall'occidente? Perché i prezzi delle proprie merci sono troppo bassi, sono il frutto di un costo del lavoro troppo competitivo. Anche quando i prodotti industriali non hanno una qualità paragonabile a quella occidentale, restano comunque appetibili per chi non dispone di molti mezzi. Il successo della Cina nei mercati del Sud globale è travolgente e sta intaccando anche quelli occidentali. Quel Sud che per mezzo millennio l'occidente ha voluto sfruttare, sottomettere, rapinare, impoverire, saccheggiare, ora sta volgendo il proprio sguardo altrove. Anche perché la Cina non vuole imporre ideologie di sorta: si rifà al diritto internazionale ideato dallo stesso occidente. Non sta esportando né la democrazia né il socialismo.

Peraltro il socialismo mercantile che attualmente sta sperimentando non è un'invenzione post-maoista. L'aveva già inaugurato Lenin con la Nuova Politica Economica.

In Russia non fu più ripristinato non tanto sul versante mercantilistico (ché anzi col decennio di Eltsin il sistema finì in bancarotta), quanto piuttosto sul versante del socialismo, poiché gli orrori causati da quello statale dello stalinismo erano stati troppo estesi e approfonditi.

Il pragmatico Putin puntò su una sorta di capitalismo statale, nel senso che lo Stato si aprì agli investimenti esteri, mantenendo però il controllo degli asset strategici della Federazione (energia e difesa in primis, ma anche i settori minerario, metallurgico, bancario). Ma in Russia l'industria leggera non è minimamente paragonabile a quella cinese.


*


In Romania la nuova base militare della NATO ospiterà 10.000 soldati. Sarà la più grande in Europa: quasi 3.000 ettari per 30 km di perimetro. Assieme all'accademia militare e alle due piste di atterraggio per i caccia, la base sarà dotata di sistemi Patriot, depositi e carri armati Leopard (ma anche scuole, asili, negozi e perfino un ospedale, in quanto vi saranno anche le famiglie dei militari). Spesa prevista 2,5 miliardi di euro. L'area è considerata tra le più strategiche dell'Est Europa, nelle vicinanze di Costanza, affacciata sul Mar Nero, a 400 km da Odessa.

Fonte: byoblu.com


24 marzo


La spada di Damocle


Che l'occidente non sia più abituato a guardare le cose nel loro insieme e quindi nella loro complessità, l'abbiamo visto in questi ultimi anni con esempli eclatanti. Durante la pandemia il mantra era "Chi non si vaccina, muore". Con la guerra russo-ucraina era ed è "C'è un aggredito e un aggressore". Ora in Palestina è "Israele ha diritto a difendersi" (e se i terroristi di Hamas si nascondono nelle strutture civili, nessuno può farci niente. Col che in pratica si tollera il genocidio).

Per quale motivo interpretiamo la realtà in maniera così schematica e unilaterale? E' molto semplice: in occidente viviamo come alienati. Cioè tutto è diviso e, nello stesso tempo, gerarchizzato. L'economia comanda la politica, la finanza comanda l'economia, il produttore comanda il consumatore, le istituzioni comandano i cittadini, i pochi che producono informazione comandano i tanti che la ricevono. E così via. O si sta coi poteri forti o si è molto deboli. E anche quando si sta coi forti, esiste sempre qualcuno ancora più forte.

L'occidente è la civiltà del capitale privato, che attraverso la libertà giuridica formale e il macchinismo, domina quasi l'intero pianeta. Le sue leggi sono irrazionali, poiché producono conflitti e divisioni di ogni sorta. Là dove esiste concorrenza, competizione, antagonismo, non può esserci pace per nessuno.

Ecco perché della realtà che ci circonda noi vediamo solo una piccola parte, come se vivessimo in una prigione con una minuscola finestrina. Ognuno di noi ha sulla testa una spada legata a un filo molto sottile, che può spezzarsi in qualunque momento. Nell'antichità si chiamava "spada di Damocle", ma aveva un significato moralistico. Il mito serviva per far capire alla gente comune che anche chi dispone di grandi poteri non può mai star sicuro. Oggi invece sono le grandi masse popolari che devono abituarsi a vivere nel caos, nell'incertezza, nella provvisorietà.

Quando è nata la rete Internet ci siamo illusi che con l'interazione utente si potesse superare l'enorme distanza che separa i poteri forti da quelli deboli. Abbiamo pensato che l'enorme conoscenza trasmessa dal web potesse porre un argine all'arroganza del potere.

Invece da quando il potere ha iniziato a impadronirsi di tutti i social network, trasformandoli in una nuova occasione di business e in uno strumento per condizionare i comportamenti delle masse, ci si chiede quali siano gli strumenti più idonei per uscire, in maniera collettiva, dalla gabbia del sistema.

Probabilmente le strade sono due:

- recuperare la fisicità dei rapporti umani (o comunque la virtualità deve servire a questa fisicità);

- riappropriarsi del territorio locale in tutti i suoi aspetti.

Sono due condizioni basiche, a partire dalle quali, alzando lo sguardo, si può cominciare a capire la realtà con maggiore cognizione di causa. Non è importante sapere tantissime cose: bastano quelle che servono per difendersi dalle ingerenze di chi vuole tenerci divisi, impotenti, ignari del nostro vero bene.


25 marzo


Non tutto il male viene per nuocere


Ogni guerra, piccola o grande che sia, è sempre una tragedia colossale. Tuttavia non ogni male viene per nuocere, nel senso che non dovremmo preoccuparci più di tanto se la civiltà occidentale, basata sul capitalismo privato, scomparirà in seguito a una guerra nucleare.

Quando ci diciamo che, con una guerra del genere, tutto il mondo scomparirà, stiamo ovviamente esagerando. Pensiamo, dall'alto del nostro egocentrismo, che senza di noi, nulla possa esistere.

In realtà il vero problema è cosa fare dopo. Supponendo che si vivrà in condizioni ambientali molto più difficili, ci si dovrebbe chiedere sin da adesso come si riuscirà a sopravvivere. Cioè i sopravvissuti dovranno porre le condizioni perché non si ripeta l'apocalisse. E non basterà certamente dirsi che dovremo essere più "buoni". Le condizioni dovranno essere strutturali, in grado di modificare la soggettività delle persone.

Uno degli esempi da seguire potrebbe essere quello di Pietro Laureano, architetto e urbanista, descritto nel suo libro La piramide rovesciata. Il suo modello è quello dell'oasi, un insediamento umano in una situazione geografica sfavorevole che utilizza risorse rare, disponibili localmente. L'obiettivo è quello di realizzare una nicchia ambientale fertile e autosostenibile.

L'alternativa non potrà certo essere il mondo industrializzato o il gigantismo delle grandi civiltà. Ci vogliono invece piccole comunità in stretto contatto con la natura. In questo il Sud globale parte favorito, a condizione naturalmente che si liberi del peso del colonialismo, vecchio e nuovo. E per poterlo fare, deve agire subito, senza aspettare che un evento esterno, come una guerra mondiale sfavorevole all'occidente, favorisca questa sua emancipazione.

Se gli esseri umani vogliono smettere d'essere aggressivi tra loro, devono anzitutto smettere d'esserlo nei confronti della natura. In genere si pensa che per avere un buon rapporto con la natura, bisogna prima superare i conflitti di classe, gli antagonismi sociali. In realtà non c'è una cosa da fare prima e una dopo.

L'essere umano è un ente di natura. Non ha alcun senso cercare di realizzare un socialismo davvero democratico, opposto a qualunque dinamica di tipo capitalistico, senza chiedersi, nello stesso momento, come rispettare le esigenze riproduttive della natura.

Se anche riuscissimo a creare una vera alternativa sociale, il risultato durerebbe pochissimo tempo, in assenza di un rapporto equilibrato con la natura. Una scelta economica, che non sia anche una scelta ecologica, non vale niente. Come non merita neppure d'essere presa in considerazione una scelta economica di tipo industriale, basata sulla produzione in serie delle merci, sulla loro vendita nei mercati e cose del genere.

Chi pensa che le fabbriche del futuro non avranno operai da sfruttare, ma solo macchine da far lavorare 24 ore al giorno, e nel contempo non si pone alcuna domanda ambientale sulla materia prima con cui far funzionare le macchine, né su come verranno smaltite o riciclate le merci prodotte dalle stesse macchine, sta facendo pensieri da filosofo, cioè del tutto astratti.

Noi dobbiamo accuratamente evitare l'obiettivo dell'efficacia in tempi immediati. I tempi della natura sono lenti, a volte molto lenti, ma sono quelli che c'impediscono la catastrofe nel lungo periodo.


26 marzo


L'umanizzazione della terra


L'indiana Vandana Shiva è una donna straordinariamente intelligente. Lascia pensare che in futuro sarà l'India ad avere la maggiore sensibilità per le questioni ambientali e per l'importanza delle comunità locali.

Nell'ambito del capitalismo vede una linea di continuità che sta distruggendo l'intero pianeta. Infatti, mentre nella sua prima fase il capitalismo era riuscito a imporsi, trasferendo i poteri decisionali dalle comunità locali agli Stati nazionali, oggi invece il trasferimento è avvenuto da questi Stati alle multinazionali e ai Fondi finanziari globali, che non hanno confini di sorta e che sono in grado d'influenzare tutti i Paesi del mondo.

Le multinazionali e i Fondi suddetti stanno facendo del mondo intero il giardino di casa loro, potendosi muovere in lungo e in largo senza alcun problema. Paradossalmente questo atteggiamento è simile a quello dell'uomo preistorico, che non aveva certo problemi di confini. Con una differenza fondamentale però: il primitivo spalancava gli occhi di fronte alla diversità dell'ambiente e lo rispettava con cura. Il capitalismo invece, in nome del profitto industriale, della rendita terriera e dell'interesse monetario, sfrutta, saccheggia e desertifica. Oggi tutto è ridotto a merce e ognuno di noi è un mero consumatore.

Storiche sono le battaglie giuridiche che la Shiva ha condotto per ottenere la revoca dei brevetti sul Neem (la pianta alla base del dentifricio indiano) e sul Basmati (un'importante varietà del riso indiano). Questo perché il globalismo neoliberista tende a privatizzare, tramite la politica dei brevetti, i beni comuni biologici e genetici. E gli Stati nazionali stanno diventando complici di questo gigantesco esproprio, che si può facilmente giustificare secondo la formula della "pubblica utilità".

Gli statisti sono diventati delle mezze figure proprio perché il vero potere sta altrove. E quanto più le popolazioni si opporranno a questi perversi disegni del capitale, tanto più la politica diverrà autoritaria.

La soluzione proposta da Shiva è inevitabile: le comunità locali devono tornare a impadronirsi dei territori in cui vivono; devono autoprodurre ciò di cui hanno bisogno. Comunità del genere devono per forza essere democratiche in ogni più piccolo aspetto della loro esistenza, altrimenti non resisteranno alle pressioni provenienti dall'esterno, da parte dei poteri forti. La stessa resistenza locale dovrà diventare la più alta scuola di democrazia a tutti i livelli.

Sul piano economico il concetto di "monocoltura" va assolutamente superato. Non si deve produrre per un mercato ma per soddisfare bisogni reali.

Prepariamoci a capire una cosa che sicuramente sconvolgerà le nostre esistenze: impadronirsi di nuovo dei terreni agricoli, in maniera collettiva e democratica, causerà un colpo mortale alle città. La vera guerra sarà tra l'umanizzazione della terra e l'alienazione urbana.


Dove sta la logica?


Si può capire che uno, come Erdoğan, incapace di intraprendere qualunque iniziativa militare contro Israele, dica frasi insensate come "Allah distrugga Netanyahu".

Ma si rimane un po' trasecolati quando Netanyahu gli risponde con le parole: "Israele osserva le leggi della guerra e non sarà soggetto a prediche morali da parte di Erdoğan, che sostiene assassini e stupratori dell'organizzazione terroristica di Hamas, nega il genocidio armeno e massacra i curdi nel suo stesso Paese".

Infatti, anche a prescindere dal fatto che l'organizzazione di Hamas potrebbe essere definita non terroristica ma resistenziale; anche a prescindere dal fatto che la sortita di Hamas del 7 ottobre scorso non aveva l'obiettivo di uccidere e stuprare ma di catturare ostaggi da scambiare con le migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane; anche dando per scontato che effettivamente il governo turco abbia compiuto il genocidio armeno e massacri i curdi da sempre; dunque a prescindere da tutto questo, che senso ha giustificare il proprio genocidio nei confronti della popolazione civile di Gaza?

Sulla base di quale logica umana o religiosa si può sostenere che siccome uno si comporta in maniera disumana, allora lo posso fare anch'io? Quali sono queste "leggi della guerra" che Israele si sente libera di rispettare, quando sta sterminando popolazioni civili (inclusi i bambini) del tutto disarmate?


Siamo a questi paradossi


Il governo di Kiev si lamenta di non ricevere aiuti militari idonei alla situazione contingente, ma poi dice che i russi hanno la capacità di modificare in tempo reale la risposta ai nuovi armamenti che arrivano in Ucraina.

Chiedono di potersi difendere con armi occidentali dai droni russi, ma poi ammettono che nei confronti dei missili ipersonici sono completamente impotenti.

Da un lato a Kiev si lamentano che non bastano le armi ma ci vogliono più uomini, dall'altro però si lamentano che non sanno dove trovarli.

L'Ucraina non è un Paese della NATO, però chiede alla NATO di entrare nel conflitto con le proprie truppe.

Chiedono ai Paesi occidentali decine di miliardi, sapendo in anticipo che non saranno in grado di restituirli.

Temono di non essere in grado di reggere per molto l'offensiva dei russi, e però rifiutano di avviare dei negoziati per salvare il salvabile.

Si autodefiniscono più democratici dei russi, e però si rifiutano di indire nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

L'Ucraina è gestita da un ex comico, lo sappiamo, ma qui tutti gli statisti occidentali recitano nella stessa commedia un ruolo da comici.


27 marzo


Due forme diverse di globalismo


In fondo la parola "globalismo", considerata astrattamente, poteva anche sembrare positiva. Con le nazioni borghesi si sono superati gli imperi feudali, ivi incluse le autonomie regionali dei magnati aristocratici, che campavano di rendite agrarie.

Artigiani, mercanti, imprenditori si sentivano più liberi all'interno di una nazione, in cui non esistevano invalicabili privilegi dovuti alla nascita, e dove quindi era più facile arricchirsi individualmente.

In uno Stato nazionale i cittadini, almeno teoricamente, sono tutti uguali, sottoposti a una medesima legge. Il mercato nazionale non conosce costose barriere interne (dazi doganali), e la moneta, essendo unica, permette di risparmiare sui costi delle transazioni. Anche i pesi e le misure hanno parametri univoci.

Mezzo millennio fa l'espressione "Stato nazionale" sembrava la soluzione ottimale per superare i limiti del feudalesimo. Tuttavia, essendo gestito da una borghesia scientista e sviluppista, coi suoi metodi capitalistici, questo Stato fu anche l'inizio di enormi sciagure.

Per es. il lavoro di una vasta manodopera salariata, espulsa dalla terra, fu sottoposto a un brutale sfruttamento nelle manifatture e nelle fabbriche. L'ambiente naturale cominciò a essere devastato. Quando il mercato fu saldamente in mano alla borghesia, si scoprì ch'era limitato da confini nazionali. Fu così che si avviò la conquista coloniale del pianeta, che comportò una forte rivalità tra le stesse nazioni borghesi.

Le due ultime guerre mondiali hanno segnato la crisi dei tradizionali Stati nazionali europei, a tutto vantaggio di un gigantesco Stato nazionale federato, che a livello di estensione geografica somigliava a un impero: gli Stati Uniti. Nessun Paese al mondo poteva competere con uno Stato capitalista del genere. Fu per questa ragione che gli Stati nazionali europei pensarono di aggregarsi, creando una Unione Europea.

Guardiamo le cose in astratto. Non era forse preferibile che le libertà godute dai cittadini a livello nazionale, ora potessero esserlo a livello sovranazionale? Chi avrebbe mai sospettato che all'interno della UE alcuni Stati (Germania e Francia in primis) volessero essere più "uguali" di altri?

Che brutta Europa abbiamo creato! I Paesi economicamente più forti o politicamente più potenti o militarmente più armati vogliono dominare tutti gli altri. Le lezioni geopolitiche di due guerre mondiali buttate nella pattumiera della storia!

E in mezzo a queste assurde rivalità interne, chi ne ha tratto maggior beneficio sono sempre stati gli USA, i quali per di più si vantano di non voler essere "imperialisti" come gli europei. Loro sono "globalisti", cioè pretendono di conquistare il mondo solo in virtù del consenso di massa, del consumismo, della dollarizzazione. La loro unica ideologia è il liberismo economico. Sul piano giuspolitico predicano valori acquisiti dagli europei: democrazia rappresentativa e diritti umani.

In astratto la parola "globalismo" sembrava essere più democratica o meno violenta della parola "imperialismo". Le multinazionali americane, i loro stessi istituti finanziari sapevano andare al di là di qualunque limite o differenza nazionale.

Peccato che al loro interno gli USA vivano dei conflitti sociali così acuti d'aver bisogno di scatenare, con una certa frequenza, delle guerre regionali come arma di distrazione di massa. Oggi addirittura stanno pensando a una guerra mondiale.

Il fatto d'avere una grande estensione territoriale, una significativa densità demografica, una produzione industriale di tutto rispetto, un consolidato dominio finanziario nel mondo e soprattutto un controllo dei mari attraverso la loro enorme flotta navale, non ha reso gli USA un Paese più sicuro di quelli europei.

L'idea di "mondo globalizzato" ch'essi vanno sbandierando, fa acqua da tutte le parti. Non nasce da un'effettiva uguaglianza di tutte le nazioni, ma da una insopportabile arroganza, che ora deve fare i conti con due nazioni (Russia e Cina), molti forti sul piano militare ed economico: due nazioni che si stanno muovendo a livello "globale" in maniera molto diversa. E il Sud del mondo se n'è accorto. L'ultima campana per il crollo occidentale sta per suonare.


28 marzo


Abbiamo smontato un giocattolo pericoloso


In Europa occidentale il socialismo (prima utopistico poi scientifico) nacque quando ormai la vita rurale era stata stravolta dalla penetrazione dei capitali.

Gli stessi socialisti, quando vedevano gli agricoltori lavorare la terra senza mezzi industriali, e non disposti a produrre monocolture per i mercati, li giudicavano arretrati. Se poi i contadini restavano legati a culture superate, come quelle religiose, era molto difficile che potessero avere rapporti con gli operai, tendenzialmente atei e comunisti.

Per i socialisti il target di riferimento era l'operaio della fabbrica, che in fondo era un ex-agricoltore, emancipatosi dalla religione, e privo di ogni bene che non fosse la sua stessa capacità lavorativa. Il socialismo pretendeva che il proletariato industriale non si limitasse a lavorare con mezzi meccanici sempre più perfezionati, ma che ne diventasse anche proprietario. La classe contadina doveva soltanto aiutare gli operai a compiere la rivoluzione politica contro gli imprenditori privati e lo Stato che li rappresentava.

Conclusa la rivoluzione, gli stessi contadini avrebbero ottenuto la terra in proprietà, gestendola in maniera collettiva e sulla base di strumenti produttivi avanzati. Zappa e vanga andavano appesi a un chiodo.

Cos'è che non ha funzionato in questo progetto? In Europa occidentale il proletariato industriale non è riuscito a compiere alcuna rivoluzione politica (l'unico tentativo, durato pochi mesi, è stato quello della Comune di Parigi).

Il fallimento della classe operaia e del socialismo rivoluzionario dipese da due fattori: 1) lo sfruttamento coloniale del Terzo Mondo assicurava in Europa occidentale alti salari; 2) con alti salari gli operai tendevano a imborghesirsi nello stile di vita, e ancora di più lo facevano i loro dirigenti intellettuali (politici e sindacali). Tutti tendevano a trasformarsi da rivoluzionari a riformisti. Il socialismo diventava un obiettivo di un futuro imprencisato, da realizzarsi quando sarebbe stato assurdo non farlo.

In Europa orientale invece le rivoluzioni politiche ebbero successo. Ma tutti gli enormi sacrifici compiuti andarono sprecati quando si fece coincidere "sociale" con "statale". In altre parole ci si illuse che statalizzando tutti i principali mezzi produttivi, i lavoratori si sentissero socialmente appagati. In realtà una proprietà collettiva, gestita dall'alto con direttive autoritarie, finiva col diventare una proprietà di nessuno. Moriva la responsabilità personale. Le inefficienze produttive si scaricavano sullo Stato, che alla fine doveva salvare anche le imprese più scarse.

L'originaria idea socialista, secondo cui lo Stato doveva progressivamente estinguersi, non era mai stata applicata. E lo Stato non era in grado di garantire un mercato significativo, né in qualità né in quantità. Anzi, per timore dell'aggressività dei Paesi capitalisti, le leve dello Stato erano state enormemente rafforzate. La centralizzazione dei poteri era diventata asfissiante.

Quale alternativa si oppose a questa deriva autoritaria e burocratica del socialismo statale? Il ritorno al capitalismo e, per di più, nella sua peggior forma: quella privata.

Al capitalismo occidentale non sembrava vero. Era il momento buono per impadronirsi di tutte le risorse degli ex-Paesi socialisti, ancora troppo deboli, sul piano mercantile, per opporre una solida resistenza.

Due soli grandi Paesi hanno resistito a questa marcia trionfale del capitalismo privato occidentale: Cina e Russia. La prima col suo socialismo mercantile; la seconda ha saputo porre un freno alle proprie oligarchie, ripristinando alcune fondamentali funzioni di controllo e di indirizzo degli apparati statali.

Detto questo, togliamoci dalla testa due illusioni: la prima è che sia imminente il crollo definitivo del capitalismo privato occidentale; la seconda è che una visione multipolare, sul piano geopolitico mondiale, sia per sé un incentivo a realizzare un socialismo davvero democratico.

Al momento abbiamo soltanto capito come le cose non possono funzionare. Ora dobbiamo capire se dal giocattolo unipolare che abbiamo smontato perché pericoloso, ci sono dei pezzi che possiamo riutilizzare per qualcosa di diverso, o se dobbiamo rivolgere il nostro sguardo in tutt'altra direzione.


29 marzo


Si può fare


Mi è sempre piaciuto lo storico Pier Paolo Poggio, perché lo ritengo molto equilibrato, obiettivo. Nei suoi migliori scritti aveva per es. capito che l'ecologia è più importante dell'economia. Lo dimostrò scrivendo vari articoli e saggi sulla vicenda dell'ACNA (Azienda Coloranti Nazionali e Affini) che operava nella Valle del fiume Bormida (località di Cengio, Cesano Maderno e Rho): una testimonianza eloquente del fallimento dell'idea di "progresso".

Quello fu un territorio soggetto a oltre un secolo d'inquinamento chimico pressoché ininterrotto. L'industria, nata nel 1929, veniva percepita come un deus ex-machina del benessere collettivo, per cui i controlli ambientali e sanitari erano scarsissimi, per non parlare dei sistemi di protezione dei lavoratori.

Ma già nel 1882 il comune di Cengio aveva autorizzato la costruzione di una fabbrica di dinamite (Barberi), mentre nel 1906 una nuova azienda di prodotti esplodenti (SIPE) forniva armi ai militari italiani impegnati nelle guerre del colonialismo africano. Venivano prodotti acido solforico, oleum e tritolo. L'acqua del fiume per irrigare era tossica, e così i pozzi per berla.

Quando arrivò l'ACNA la situazione peggiorò drasticamente. Nel 1938 l'azienda fu citata per danni ambientali, ma il processo andò avanti sino al 1962, quando i contadini sopravvissuti dopo la denuncia persero la causa e furono persino costretti a pagare le spese processuali! Non a caso nel 1960 il ministero dell'Agricoltura e delle foreste aveva rinnovato all'ACNA la concessione a utilizzare le acque del Bormida per 70 anni!

Nel 1974 vennero denunciati i dirigenti dell'ACNA, che quattro anni dopo saranno assolti.

Nel 1976, dopo il disastro di Seveso e la Legge Merli, la fabbrica di Cengio, arrivata a produrre il 65% del cloruro di alluminio a livello mondiale, cominciò quindi a scaricare i propri rifiuti di notte o a nasconderli nei terreni circostanti.

Nel 1982 furono vari Comuni a denunciare i dirigenti dell'ACNA, ma anche quella volta furono assolti. Di fronte ai primi casi di cancro alla vescica i sindacati, per la prima volta, si costituirono parte civile, ma l'azienda li convinse a ritirarsi dal processo, minacciando di chiudere i battenti.

Ci si cominciò a preoccupare veramente solo di fronte al moltiplicarsi delle malattie cancerogene e alle morti inesorabili. Prima di queste evidenze ci si fidava delle promesse, delle false assicurazioni. Si arrivò persino a dire, da parte di taluni magistrati, che l'ACNA aveva avuto un effetto benefico sulle acque del fiume, rendendole fertili! Affermazioni surreali, come quelle che sentiamo oggi da parte di quei media che giustificano il neonazismo di Kiev e di Tel Aviv.

Nel giro di pochi anni i vertici aziendali decisero di cessare la produzione dei coloranti, mantenendo invece quella dei pigmenti. Ma le malattie non diminuivano.

Ci sono volute innumerevoli e tenaci lotte popolari, contadine e operaie, per cambiare un po' la situazione. Il capitale non regala niente a nessuno, anzi, se lo si lascia fare, ruba e saccheggia, sfrutta e uccide, e soprattutto mente, sempre e comunque. Mente così tanto che il potere aziendale e politico, pur di mantenere la fabbrica in funzione, arrivò a trasformarla in un gigantesco inceneritore per recuperare i rifiuti (solfati) che la stessa fabbrica aveva prodotto. Pensava di rivenderli ad altre industrie. Praticamente si era passati da una forma d'inquinamento a un'altra, con l'aggiunta però di traffici criminali legati agli stessi rifiuti.

Nonostante questo la popolazione locale riuscì a organizzarsi come movimento molto combattivo, a dispetto delle posizioni opportunistiche e qualunquistiche dei partiti e dei sindacati, che tendevano a minimizzare il problema. Il ministero dell'Ambiente arrivò persino a dire che l'ACNA poteva dimostrare l'eco-compatibilità dell'industria chimica.

In realtà l'inquinamento è ancora presente, nonostante le molte bonifiche avviate a partire dal 1999, quanto l'azienda fu definitivamente chiusa. Ora si cerca di recuperare qualcosa delle più antiche tradizioni rurali (collinari e montane), al fine di realizzare uno sviluppo endogeno autosostenibile, conforme alle istanze ecologiste più solide. Ma non sarà facile.


30 marzo


L'asiatismo russo-cinese


Che cos'è l'asiatismo russo-cinese? In che cosa si differenzia dalla cultura borghese del capitalismo privato occidentale? Perché è destinato, in futuro, ad avere la meglio?

Non dobbiamo lasciarci impressionare più di tanto. Russia e Cina sono partite per ultime sulla strada del capitalismo: erano una sorta di "anello debole".

La prima a liberarsi del capitalismo privato è stata la Russia con la rivoluzione del 1917. La Cina è arrivata nel 1949, con la rivoluzione maoista.

Su cosa hanno potuto far leva per evitare d'essere colonizzate dall'occidente per centinaia di anni? Su due cose: le grandi tradizioni rurali pre-borghesi e l'ideologia del socialismo scientifico. In nome di questi due aspetti han compiuto le loro rivoluzioni. Anche l'India ha avuto grandi tradizioni contadine, ma è rimasta estranea all'ideologia di tipo socialista in senso moderno.

Le due suddette rivoluzioni comuniste han posto al centro degli interessi della società civile le funzioni onnicompresive dello Stato; funzioni talmente pervasive che i risultati sono stati disastrosi, cui s'è cercato di porre rimedio reintroducendo nella vita socioeconomica alcuni aspetti tipici del capitalismo, quelli legati all'iniziativa privata.

In Russia, abituati a essere "apocalittici" (come diceva il filosofo antibolscevico Nikolaj Berdjaev), con l'introduzione del neoliberismo più selvaggio, all'epoca di Eltsin, si rinunciò a qualunque ideologia socialista. In Cina invece si attenuarono i rigori anticapitalistici di tale ideologia, permettendo alla società d'imborghesirsi entro certi limiti.

Come noto, con Putin la Russia dovette fare marcia indietro, dopo aver perso per strada milioni di persone, ridotte letteralmente alla fame. Non è stata però ripristinata l'ideologia socialista, ma semplicemente si è cercato di porre la società sotto il controllo dello Stato, dando vita a una sorta di capitalismo statale, ideologicamente nazionalista e, per certi aspetti, persino confessionale.

Un'operazione del genere in occidente sarebbe possibile solo in pochi casi estremi: una sconfitta disastrosa in una guerra mondiale; un devastante crollo finanziario delle principali borse di titoli e valori, come nel 1929; una catastrofica conseguenza del cambiamento climatico.

Nel passato vi furono casi del genere (ovviamente non quelli ambientali, che sono specifici della contemporaneità). Gli Stati occidentali dovettero intervenire per impedire il sorgere di guerre civili o di rivoluzioni politiche comuniste o di forme incontrollate di criminalità.

Tuttavia se non vi sono casi così particolari, il capitalismo occidentale, contando sullo sfruttamento delle proprie colonie, resta tendenzialmente uguale a se stesso, cioè basato sull'imprenditoria privata, che beneficia della protezione di uno Stato classista.

In Europa occidentale, negli USA, in Canada ecc. non ha alcun senso rifarsi a tradizioni rurali pre-borghesi: sono scomparse da secoli. Il senso del "collettivismo" da noi si è perduto nella notte dei tempi. E' qualcosa che va costruito ex-novo, limando continuamente le asprezze di uno sfrenato individualismo, reso possibile dal suddetto colonialismo, che permette tassi elevati di benessere.

Queste sono preoccupazioni che non devono affrontare Russia e Cina col loro asiatismo, proprio perché sul piano politico sono solide, possono far progetti a lunga scadenza, non avendo molti problemi a realizzarli. Il loro tenore di vita, nel complesso, è sempre stato modesto, non avendo potuto beneficiare di sfruttamenti di risorse umane e naturali al di fuori della loro nazione.

Altri problemi, semmai, li ha l'occidente collettivo, alle prese con un Sud globale che vuole emanciparsi sotto tutti i punti di vista. Per quest'area del pianeta mezzo millennio di sfruttamento del lavoro, di rapina di risorse naturali, di devastazioni ambientali vengono considerati più che sufficienti.


Sono io, prendete me


In occasione di questa Pasqua mi sono chiesto: se il Cristo aveva il potere di scomparire dopo morto, perché non l'ha fatto subito dopo l'arresto sul Monte degli ulivi? Quante sofferenze inutili si sarebbe risparmiato?

Naturalmente un credente avrebbe pronta la risposta, che altrettanto naturalmente sarebbe sbagliata: "Gesù doveva morire per riscattare l'umanità peccatrice agli occhi di Dio". Lo direbbe pensando a un riscatto meramente morale o religioso, in quanto quello sociale lo rimanda all'aldilà.

Ma la risposta laica a quella domanda qual è? Se Gesù fosse scomparso misteriosamente mentre era ancora vivo, avrebbe dimostrato che non era esattamente un essere umano, ma una specie di extraterrestre dai poteri straordinari. Il che avrebbe alimentato l'idea bislacca di non resistere al male e di affidare a un'entità esterna, di natura divina, la risoluzione dei problemi cruciali dell'umanità, che naturalmente sarebbe avvenuta alla fine dei tempi.

Ora è evidente (al buon senso) che Gesù non era entrato a Gerusalemme per farsi ammazzare: sarebbe stato un pazzo masochista. Che non lo fosse non so se può bastare dire che ci andò con un folto stuolo di seguaci, poiché tutti loro avrebbero potuto essere plagiati da idee assurde, come lo furono i seguaci della setta di Jim Jones in Guyana. Però bisogna ammettere che se davvero voleva farsi giustiziare, poteva andarci da solo: non aveva bisogno di coinvolgere una moltitudine.

E' quindi più facile credere che aveva realisticamente paura d'essere eliminato, essendo da tempo un ricercato su cui pesava un mandato di cattura. Di qui l'esigenza di un certo consenso popolare che gli permettesse di sentirsi sufficientemente protetto. Tra l'altro se davvero voleva farsi arrestare, non si sarebbe rifugiato nel Getsemani dopo aver lasciato il Cenacolo con gli apostoli.

Ma allora cos'era andato a fare a Gerusalemme? Non poteva forse morire di vecchiaia, da profugo, in qualunque altra parte del Medioriente o in un Paese asiatico o africano? Non sarebbe certo stato il primo ebreo predicatore di qualche dottrina salvifica. Nessuno avrebbe potuto rimproverarlo di niente, visto che non si può chiedere a qualcuno di avere il coraggio di morire per un altro o per il proprio popolo. Chi non ricorda la celebre frase che don Abbondio disse al cardinale Borromeo nei Promessi sposi? "Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare".

Quindi è evidente ch'era andato di sua scelta e non per provocare a bella posta i poteri forti. La sua intenzione, e quella del suo movimento di adepti giudaico-galilaici, doveva per forza essere eversiva, destabilizzante. Sfruttando il periodo di maggiore affluenza nella capitale ebraica, a causa della solenne festa pasquale, i nazareni volevano rovesciare, con un'insurrezione popolare, i due fondamentali poteri costituiti: quello dei sadducei e sommi sacerdoti nel Tempio e quello dei Romani nella Fortezza Antonia.

Nel momento stesso in cui aveva deciso di entrare a Gerusalemme, doveva essere convinto ch'esisteva una buona possibilità per vincere entrambi i poteri, di cui il primo era del tutto collaborazionista del secondo. Un rivoluzionario non convinto di questa possibilità, è solo un avventuriero, un irresponsabile.

Dunque, se le cose stanno in questi termini, Gesù, nel Getsemani, non si consegnò affatto ai suoi aguzzini per adempiere a una fantomatica volontà paterna, ma semplicemente perché in quella maniera poté scongiurare la decimazione dei suoi discepoli, che non avrebbero potuto farcela contro la guarnigione romana di 600 militari messa dal tribuno in stato di allerta. Il tradimento di Giuda infatti aveva compromesso l'effetto sorpresa.

Nel IV vangelo è facile immaginarsi quella drammatica scena, che avvenne in un buio pesto, illuminato solo dalle torce delle guardie del Tempio.

- Chi cercate?

- Gesù Nazareno?

- Sono io, prendete me e lasciate andare i miei discepoli, altrimenti si difenderanno e molti di voi moriranno.

- Ci stiamo, fatti avanti.


31 marzo


Risorto o scomparso?


Per i cristiani la tomba vuota va interpretata come "resurrezione". Ma è una forzatura. Lo sarebbe anche se si escludesse il trafugamento della salma per far credere in un miracolo o, al contrario, per impedire il culto religioso (magari a sfondo politico) di quel luogo. Anche Che Guevara fu sepolto in un luogo segreto, ritrovato solo nel 1997, 30 anni dopo la sua morte, quando ormai si riteneva che la sua icona non avrebbe più avuto nulla di eversivo.

In realtà nessuno ha visto il momento in cui il corpo di Gesù è scomparso dalla tomba. Quando le donne andarono ad avvisare i discepoli, l'uscio del sepolcro era già aperto e dentro non c'era nessuno.

Se proprio Gesù voleva dimostrare ch'era un alieno, dotato di superpoteri, avrebbe dovuto trasformarsi alla presenza di qualche testimone, cioè avrebbe dovuto far credere che sulla croce era morto solo in apparenza. Cosa che però l'apostolo Giovanni esclude, poiché scrisse di aver visto il centurione che gli infilò nel costato la punta di una lancia per rompergli il cuore e verificare se era morto davvero.

Di fatto nella tomba trovarono solo il lenzuolo in cui avevano avvolto il cadavere, che molti identificano con la Sindone di Torino (rubata a Costantinopoli durante la IV crociata latina): un reperto molto particolare, di cui non pochi indizi lasciano presumere sia effettivamente antico di 2000 anni.

In ogni caso se quel reperto fosse autentico, tutti i vangeli andrebbero rivisti: quando mai infatti gli ebrei o i romani hanno trattato in una maniera così disumana un terapeuta assolutamente pacifico, uno che paga il tributo a Cesare e che chiede di pregare Dio in spirito e verità? Gli uni al massimo lapidavano i bestemmiatori; gli altri crocifiggevano gli schiavi ribelli, ma senza aver bisogno di torturarli così pesantemente.

Poi naturalmente i redattori evangelici si sono preoccupati di far credere che Gesù era riapparso ad alcuni apostoli. Ma l'han fatto perché evidentemente non tutti credevano alla tesi della "resurrezione". Solo che quando i vangeli furono approvati dalla Chiesa primitiva, la generazione coeva a Gesù era già scomparsa, per cui ci si poteva ricamare sopra qualunque pia leggenda.

La morale della favola in realtà era un'altra. Se si dà più importanza a quel che un uomo fa da morto che non da vivo, non solo non ci si assume il compito di proseguire il suo messaggio di liberazione, ma si inganna anche chi non ebbe la fortuna di essere un suo testimone oculare.





Aprile




1 aprile


I limiti dello stalinismo


In che cosa sbagliò lo stalinismo? Sicuramente nella fretta di ottenere tutto e subito.

Da che cosa nasceva questa esigenza? Dall'errata convinzione che se tale obiettivo non fosse stato conseguito, il capitalismo occidentale avrebbe dichiarato guerra alla Russia, vincendola.

Di qui la necessità di potenziare al massimo la coercizione statale, senza la quale sarebbe stata impossibile la collettivizzazione forzata nelle campagne e la costruzione delle grandi opere industriali, civili e militari.

Il prezzo che le popolazioni dell'URSS pagarono fu elevatissimo, anche perché qualunque opposizione a questa paura infondata e a questa fretta parossistica comportò milioni di morti, provocati da un terrore spietato.

Lo stalinismo, in soldoni, eliminò la generazione che aveva realizzato la rivoluzione bolscevica. E la sostituì con un'altra totalmente priva di spirito critico, abituata soltanto a obbedire.

La Germania decise di dichiarare guerra all'URSS dopo essersi resa conto che col terrorismo statale lo stalinismo aveva perso un vero consenso popolare. Hitler era convinto che la guerra sarebbe durata solo pochi mesi, cioè che i russi avrebbero accolto i nazisti come dei liberatori.

Sotto questo aspetto bisogna dire che non fu propriamente lo stalinismo a vincere il nazismo, ma fu l'eroismo, la resistenza indomita del popolo russo, o comunque dell'intera Federazione. Semmai lo stalinismo se ne prese il merito, e continuò col suo autoritarismo fino alla morte di Stalin. Anzi, se si esclude la breve parentesi di Krusciov, continuò fino a tutto il periodo della stagnazione.

L'idea di socialismo statale non fallì con Gorbaciov, ma era già fallita quando lo stalinismo volle por fine alla Nuova Politica Economica inaugurata da Lenin. La NEP non fu altro che una sorta di "socialismo mercantile", cioè un socialismo che tollerava entro certi limiti la presenza di un capitalismo privato.

L'idea di pianificare tutto dall'alto si rivelò fallimentare già nella prima metà degli anni '30. Nella seconda metà si scatenò il terrore statale per non voler ammettere questa sconfitta.

Oggi qualunque riproposizione del socialismo statalizzato è destinata a fallire. L'idea di socialismo va totalmente ripensata. Senza democrazia il socialismo muore. Ma la democrazia, per essere efficace, autentica, deve essere diretta. Una democrazia diretta sul piano politico implica necessariamente una gestione locale del territorio in cui le principali risorse appartengano all'intera popolazione che vi abita. In definitiva è anche il rapporto con la natura che va completamente rivisto.


2 aprile


In che senso globale e locale?


Solo dei teologi molto specialisti sanno che la parola "cattolico" viene usata anche dalla confessione ortodossa. Quest'ultima definisce "cattolico-romana" (o latina) la teologia professata dal papato e dai cattolici in senso lato, detti anche "papisti", a motivo di quella specie di "culto della personalità" che riservano a una persona ritenuta "infallibile", in grado di emettere giudizi validi ex-sese, cioè di per sé, o ex-cathedra, o ex consensu ecclesiae, a prescindere cioè da una decisione conciliare.

Ebbene la parola "cattolico" viene intesa dagli ortodossi in maniera opposta a quella dei cattolici. Originariamente la Chiesa primitiva la usava per indicare qualcosa di "completo", cioè un insieme che non ha bisogno d'altro.

Si era cattolici se esisteva una comunità locale che poteva officiare i propri sacramenti attorno alla figura di un vescovo riconosciuto da una tradizione ecclesiastica e quindi da altri vescovi locali. Al di sotto del vescovo c'erano il presbitero e il diacono, ma al di sopra non c'era nessuno.

Questa interpretazione della parola "cattolico" si è conservata nella confessione ortodossa, anche se i gradi della gerarchia sono cresciuti (arcivescovo, primate, metropolita). Ognuno però doveva ritenersi primus inter pares.

In altre parole gli ortodossi si sentono "cattolici" a partire da una "compiutezza" vissuta a livello di comunità locale. E' in virtù di questa "pienezza" locale che è possibile riconoscersi sul piano "universale".

Tra i cattolici invece l'universalità della loro Chiesa è data dal fatto che in tutto il mondo viene riconosciuta come persona-guida il pontefice.

Questo significa che i cattolici sono in comunione tra loro solo se obbediscono a tutto quanto il pontefice afferma. Non a caso il cattolicesimo si configura come una monarchia universale e assoluta. Non è una monarchia costituzionale, poiché l'operato del papa non è sottoposto ai limiti di una Legge fondamentale approvata da un'istanza collettiva. Persino il "Credo" dei cattolici si differenzia da quello ortodosso, poiché contiene un aspetto introdotto arbitrariamente dal papato: il Filioque.

Il cattolicesimo-romano non è neppure una monarchia parlamentare, poiché i sinodi vengono convocati per ratificare (a livello locale-regionale) decisioni già prese dal papa e dai cardinali (scelti da lui in via esclusiva e inappellabile). I concili servono per fare la stessa cosa a livello nazionale o internazionale, o per eleggere un nuovo papa.

Perché tutto questo discorso? Perché oggi se sostituiamo la parola "cattolico" con la parola "globalismo" otteniamo lo stesso risultato.

Il capitale vuole essere globale nel senso che vuole imporsi con la forza del denaro in tutto il mondo. Una volta, quando si parlava di "capitale", ci si riferiva a un determinato imprenditore o anche a un mercante o un banchiere. Oggi invece è tutto spersonalizzato. Il "dio" che comanda non ha un volto specifico. Non si sa mai bene chi combattere. Si sa soltanto che globalismo per il capitale vuol dire che le comunità locali non devono avere alcuna autonomia, cioè devono dipendere da qualcosa che è estraneo alla loro capacità di controllo. Queste comunità devono sentirsi parte di un "villaggio globale" non perché sperimentano un'analoga autonomia produttiva, ma perché sono tutte sottoposte a un medesimo condizionamento da parte dei poteri forti.


3 aprile


Sankara, visionario pragmatico


Modelli alternativi al sistema capitalistico ci sono, ma bisogna essere disposti a morire per realizzarli. Purtroppo. E il coraggio non lo si può comprare un tanto al chilo.

Ne sapeva qualcosa Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso ("Paese degli integri"), che per aver rivoluzionato tutto, finì ammazzato nel 1987, a 37 anni, da un commando militare, dopo soli quattro anni di governo. Persino il suo cadavere fu occultato.

Sankara fu il presidente dei contadini, poverissimi, rovinati da tradizioni feudali, dalla distruzione della natura, dalle pratiche colonialistiche, dalle assurde leggi dell'import-export che impongono monocolture, fertilizzanti ecc.

Riteneva scandaloso essere un presidente ricco in un Paese povero. La corruzione e gli abusi non li sopportava. Cercava per tutti un benessere basato sul principio che bisogna contare sulle proprie forze, senza dipendere da entità esterne, come per es. la Banca Mondiale o il FMI.

Era un fautore della democrazia diretta: si fidava di più delle organizzazioni di massa (contadini, lavoratori, donne, studenti...) che non dei piccoli partiti urbani ed elitari. Anzi, per lui il rapporto città/campagna andava rovesciato: non doveva essere la seconda al servizio della prima, ma il contrario.

Promosse un'importante politica dell'acqua con cui fermare il deserto, impedì il taglio della legna da ardere, pretese la riforestazione di tutti i villaggi, chiese di cercare forme semplici di energia alternativa con piccole dighe...

Il programma alimentare fu stravolto rispetto ai parametri capitalistici imposti dall'esterno: dopo aver posto l'agricoltura al centro dell'attenzione, l'obiettivo diventò quello dell'autoconsumo, obbligatorio per tutti. Anzi, prendendo esempio dalla battaglia di Gandhi per il khadi (tunica di cotone grezzo, tessuta a mano), Sankara chiese ai dirigenti apicali del Paese di indossare una stoffa artigianale locale per dare il buon esempio.

Preferendo basarsi sul lavoro di migliaia di volontari, fece costruire una ferrovia lunga 100 km, rifiutando i fondi della Banca Mondiale, che voleva invece un'autostrada. Quella fu l'occasione per valorizzare anche l'importanza del lavoro manuale.

In soli quattro anni fu raggiunto l'obiettivo dei due pasti quotidiani e dei dieci litri d'acqua al giorno per tutti. Niente carne, niente caffè, tabacco, né prodotti delle multinazionali.

Il Paese entrò in guerra contro le spese superflue, gli sprechi di energia, le auto blu ministeriali, i lussi di rappresentanza, e così via. Furono abolite la proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi, così come le scuole private per i figli abbienti e persino l'aria condizionata negli uffici pubblici.

Tutti gli stipendi dovevano avere un tetto massimo, e una loro quota doveva aiutare i contadini a rendere il Paese completamente autosufficiente sul piano alimentare. Il bilancio statale, in quattro anni, andò in pareggio.

Che cos'è che uccise Sankara? I suoi discorsi contro il debito estero e la sudditanza finanziaria ed economica nei confronti dell'occidente globalista. Secondo lui bisognava accettare solo l'aiuto che aiuta a fare velocemente a meno dell'aiuto. Chiedeva ai Paesi del Sud di aiutarsi tra loro, piuttosto che farsi la guerra per compiacere le strategie dell'occidente.

Fu eliminato, insieme a 12 suoi funzionari, forse perché aveva chiesto troppo in troppo poco tempo. L'ordine partì addirittura dal suo più fidato compagno di partito e ministro della Giustizia, Blaise Compaoré, che, con un golpe, lo sostituì dal 1987 al 2014, avviando una politica dittatoriale e neoliberista. Fu anche accusato di aver fomentato conflitti di varia natura in Sierra Leone, Liberia e Angola.

Naturalmente riportò il Paese dentro le maglie del FMI e della Banca Mondiale, diventando un sicuro alleato degli USA, oltre che della Francia.

La sollevazione delle masse popolari contro di lui si verificò solo nel 2014, e solo nel 2021 un tribunale militare lo accusò dell'omicidio di Sankara, condannandolo all'ergastolo l'anno dopo. Tuttavia Campaoré si era rifugiato in Costa d'Avorio, da dove chiese d'essere "perdonato".


4 aprile


L'ambientalismo ha ancora un futuro?


Anche se alcuni dicono che, senza lotta di classe, l'ecologia è solo giardinaggio, i Verdi li ho sempre stimati. Ho attribuito la loro scarsa rilevanza in Italia all'immaturità della politica. Nel senso che se si vuole essere ambientalisti sino in fondo, non si può non essere anti-capitalisti.

Il sistema purtroppo non offre molto alternative: se vuoi le comodità, devi accettare l'inquinamento. Detto altrimenti: puoi lottare quanto vuoi contro l'inquinamento, ma potrai farlo solo fino a un certo punto.

Il problema infatti non è solo quello di come smaltire i rifiuti, ma anche quello di come non produrli, o almeno di non farlo in maniera tale che la natura non sia in grado di riciclarli in tempi ragionevoli.

Questo perché una società industrializzata è inevitabilmente tossica. Lo è a prescindere dal fatto che le energie rinnovabili sono migliori di quelle fossili. Lo è nei quattro elementi fondamentali che costituiscono l'essenza della nostra vita, già individuati dagli antichi Greci: aria, acqua, prodotti della Terra e prodotti del fuoco.

Ricordo che all'inizio degli anni '90 molti della sinistra radicale italiana decisero di avviare un movimento politico coi Verdi. Si voleva andare al di là della pura e semplice contestazione operaia (la lotta tra capitale e lavoro); si voleva fare una critica al sistema nel suo insieme.

I Verdi tedeschi erano il modello da imitare. (A proposito di questi soggetti: che delusione vederli così accaniti anti-putiniani nella guerra russo-ucraina!).

Piaceva l'idea di condannare en bloc il fare prometeico dell'uomo borghese, che usava scienza e tecnica per sfruttare, senza ritegno, esseri umani e risorse naturali.

I fautori del moderno socialismo (utopistico e scientifico) giudicavano con commiserazione i tentativi, nella fase del proto-capitalismo, di bloccare lo sviluppo del sistema, distruggendo fisicamente le macchine delle fabbriche. Si diceva che il progresso non poteva essere fermato, e che l'industria poteva procurare benessere a tutti, a condizione ovviamente che i suoi prodotti fossero equamente distribuiti: cosa possibile solo socializzando la proprietà dei mezzi produttivi.

Neppure il cosiddetto "socialismo reale" ebbe mai ripensamenti in tale concezione scientista.

Oggi invece, se non si mette in discussione l'intero stile di vita, non si va da nessuna parte. Cioè è l'impresa in sé, a qualunque sistema politico appartenga, che va messa in discussione; sono i suoi prodotti industrializzati, seriali, finalizzati alla vendita nei mercati, che vanno ripensati; sono gli stoccaggi, gli imballaggi, i confezionamenti delle singole merci, i trasporti, le rimanenze invendute, la destinazione dei prodotti obsoleti, le conseguenze sulla salute umana e ambientale, per non parlare della asfissiante pubblicità, che lasciano disarmati, poiché sembrano problemi irrisolvibili, anzi, destinati a diventare sempre più macroscopici.

Ci si deve forse accontentare di un ambientalismo di maniera, di facciata? Ci si deve forse rassegnare al fatto che, per poter parlare di ecologia, bisogna rassegnarsi al rischio che diventi essa stessa un'occasione di business per i poteri forti?

Sembra che in occidente l'unica cosa che ci resta da fare sia quella di attendere che da parte degli Sud globale ci arrivi una protesta dal tono ultimativo: "Se volete il benessere, usate le vostre risorse non le nostre".

A questa protesta oggi poi, nei vari forum mondiali sulla tutela ambientale, se ne aggiungono altre: "Non fate pagare a noi le conseguenze della vostra industrializzazione; non chiedete a noi di essere ambientalisti, quando i primi a non esserlo siete voi".

Ormai insomma è chiaro che non c'è un'economia davvero "umana" senza ecologia davvero "naturale".


5 aprile


Ascoltare le ragioni altrui


A dispetto di quel che diceva Kant, se una cosa può essere pensata ma non può essere conosciuta, di sicuro la pensiamo male, o comunque non abbiamo alcuna certezza che la stiamo pensando adeguatamente o almeno in maniera sufficientemente corretta.

Se ci attenessimo a tale constatazione empirica, che nella sua essenza ha una certa logica, dovremmo evitare qualunque discorso di tipo mistico, religioso, metafisico. Quel che non è conoscibile, non ci serve, almeno non nel nostro tempo presente, anche se ne possiamo supporre in astratto, in via del tutto ipotetica, l'esistenza.

Se la filosofia parla del "noumeno", non merita d'essere studiata. La stessa teologia, che dà per scontata l'esistenza di qualcosa o di qualcuno, che invece andrebbe dimostrata, lascia il tempo che trova. Come minimo dovremmo dire che i temi teologici possono essere utilizzati se vengono tradotti in senso filosofico, ma i temi filosofici hanno senso se vengono tradotti in chiave politica (o almeno giuridica o economica).

I presupposti di qualunque conoscenza devono essere concretamente verificabili, anche perché devono contenere degli aspetti operativi. Cioè se esiste una "cosa in sé", una qualche oggettività che aiuta a comprendere determinati fenomeni, questa cosa deve poter essere conosciuta, e fino al punto in cui si possa distinguere un'interpretazione vera da una falsa, o un'interpretazione sufficientemente esaustiva da una lacunosa, superficiale o, peggio, tendenziosa.

Se tutte le interpretazioni fossero equivalenti, non ci sarebbe progresso né scienza, ma solo opinioni. Con questo naturalmente non si vuol sostenere che un'interpretazione oggettiva non debba subire, col passare del tempo, ulteriori precisazioni. Tuttavia una cosa è far diventare falso il vero, un'altra è attribuire al vero nuovi elementi che lo rendono ancora più convincente (o che comunque non scardinano l'oggettività che aveva quand'era stato formulato).

Esiste una verità assoluta? Possiamo anche rispondere affermativamente, ma siccome viviamo in un percorso evolutivo chiamato "storia del genere umano", l'assolutezza di tale verità ci sarà evidente soltanto quando tale processo sarà compiuto (concluso). Naturalmente, in attesa che ciò avvenga, è assurdo pensare che tutte le interpretazioni dei fenomeni si equivalgono.

Già adesso possiamo tranquillamente distinguere tra interpretazioni oggettive e soggettive della realtà, cioè tra interpretazioni pertinenti o congruenti di un certo fenomeno, e interpretazioni ambigue, fallaci, mistificanti. Chi pensa che tutto sia relativo, dovrebbe quanto meno chiedersi se non sia relativa anche questa sua convinzione.

Dunque la cosa più importante che dobbiamo fare è quella di cercare l'obiettività nell'interpretazione dei fenomeni, evitando di assumere posizioni assolutistiche, che non possono competerci, in quanto siamo immersi in un flusso di avvenimenti storici che c'impediscono di avere uno sguardo d'insieme totalizzante.

Se tutti ragionassimo in questi termini, saremmo più disposti ad ascoltare le ragioni altrui. Si sicuro saremmo molto meno fanatici, molto meno ideologici.


6 aprile


Non tergiversiamo sul plusvalore


Nel socialismo statalizzato lo sfruttamento della manodopera salariata (industrializzata o rurale o impiegata nei servizi) avveniva da parte dello Stato, unico proprietario dei principali mezzi produttivi. Da studiare invece sarebbe la variante autogestionaria dello Stato jugoslavo.

Nel socialismo mercantile (come quello attuale cinese, che si rifà ancora all'ideologia del socialismo scientifico), l'economia è mista: la terra appartiene allo Stato, così come molte aziende; un'altra parte è gestita da privati (esteri e nazionali), che sono comunque tenuti sotto controllo da parte del governo.

Il socialismo mercantile somiglia al capitalismo russo di stato, con la differenza che in quest'ultimo non è presente ufficialmente l'ideologia del socialismo scientifico, per cui si fanno certe concessioni a idee nazionalistiche, anche a sfondo religioso.

In tutti e tre i casi il plusvalore esiste, cioè quella parte di lavoro non pagata. Lo Stato però si preoccupa di trasformare una parte di questo plusvalore in servizi sociali, offerti a costi contenuti o anche irrisori.

La parte rimanente del plusvalore viene gestita sulla base della proiezione di potenza dello Stato, cioè in spese militari, in intelligence, in propaganda, in diplomazia, nel mantenere una classe dirigente di tipo politico, amministrativo, ecc.

Quindi, come si può capire facilmente, lo Stato non si regge in piedi sulla base della semplice imposizione fiscale, anche perché se si lavora alle dipendenze di uno Stato è facile che gli stipendi e i salari non siano particolarmente elevati. Lo Stato deve sostenere delle spese imparagonabili rispetto all'insieme di tutte le aziende gestite privatamente. Persino i grandi istituti finanziari, che dispongono di capitali equivalenti ai PIL di molte nazioni del capitalismo avanzato, chiedono agli Stati di poter pagare meno tasse possibili.

Tuttavia, se il plusvalore è un furto sotto il capitalismo privato, lo è anche nei tre casi suddetti. E' impossibile parlare di socialismo autenticamente democratico finché esiste plusvalore. E oggi purtroppo nessuno si pone questo problema. Non si vedono all'orizzonte soluzioni su come risolverlo. La nuova ideologia multipolare non dice nulla in merito.

Eppure i classici del socialismo scientifico avevano parlato chiaro. Comunismo vuol dire autogestione, cooperazione, primato del valore d'uso su quello di scambio, progressiva estinzione dello Stato a vantaggio della società civile che si auto-organizza, si auto-amministra.

Non si può tergiversare su questi obiettivi, se non vogliamo che i problemi dell'antagonismo sociale si ripresentino in altre forme e modi. Al massimo si può parlare di obiettivi minimi e massimi, di strategie di medio e di lungo termine, ma non si può fingere che il problema non esiste. Né si può continuare a sostenere - come fece lo stalinismo - che, finché il capitalismo esiste, il comunismo è irrealizzabile, e che anzi, quanto più il capitalismo diventa aggressivo, tanto più lo Stato va centralizzato.


7 aprile


Il mare tra il dire e il fare


Immaginiamo per un momento cosa potrebbe accadere in una società fortemente individualistica se scoppiasse una guerra atomica.

L'istinto di sopravvivenza ci renderebbe nemici irriducibili. I peggiori sentimenti che proviamo a prescindere da questo caso eccezionale, si moltiplicherebbero improvvisamente e a dismisura. Già li vediamo aumentare col progressivo impoverimento di talune classi sociali. Figuriamoci cosa potrebbe accadere alla miseria umana la presenza di un conflitto nucleare.

Chi dispone di mezzi vorrà tutelarsi in ogni maniera, salvando al massimo i propri beni e congiunti. Non ci si fiderebbe più di nessuno. Tutti andrebbero in giro armati. Ci si ucciderebbe per un nonnulla. La vita di chi ci è estraneo non avrebbe alcun valore. Mors tua vita mea, questo sarebbe il pensiero dominante.

I poteri forti lo sanno che ci comporteremmo così, e pagherebbero profumatamente le forze dell'ordine (pubbliche e/o private) per incuterci ancora più paura, per tenerci ancora più sottomessi, e per espropriarci, all'occorrenza, di tutti i nostri beni.

Probabilmente lo farebbero anche in presenza di una pandemia molta contagiosa, che loro stessi magari hanno causato per ridurre di molto la popolazione, nella convinzione, assurda, che meno siamo, meglio stiamo. I poteri forti si comporterebbero in maniera violenta, arrogante, anche se avvenisse un disastro ambientale di natura apocalittica.

E noi, restando divisi, l'un contro l'altro armati, saremmo ancora più deboli. Non riusciremmo a capire che quelli invece sono i momenti più favorevoli per rovesciare il sistema, cioè per unire le forze, per mostrare solidarietà umana verso chi soffre di più e per dirigere tutte le nostre potenzialità eversive verso chi è responsabile di questi disastri creati a bella posta, o nei confronti dei quali non si è fatto niente per impedirli.

Le ultime due guerre mondiali non sono forse scoppiate per questa ragione? Il potere (politico ed economico) non sapeva come risolvere le contraddizioni sociali sempre più acute, sempre più vaste, e pensò che il metodo migliore fosse quello di sterminare parte della propria popolazione, convincendola che la salvezza stava nel combattere un nemico esterno, di un'altra nazione, fonte di ogni male sociale.

Quando Lenin disse che la guerra imperialista andava trasformata in guerra civile, persino i suoi compagni di partito l'avevano preso per pazzo. Tutti infatti erano convinti che prima la Russia avrebbe dovuto vincere la guerra e solo dopo si sarebbe dovuta fare la rivoluzione. Infatti, se il Paese avesse perso la guerra, si sarebbe trovato in casa un nemico ancora più forte. Lenin rischiava di passare per un traditore, per un agente prussiano.

Invece lui pensò che se si fosse compiuta la rivoluzione mentre il Paese era in guerra, sarebbe stato più facile ottenere un forte consenso popolare contro il proprio governo, che mandava a morire un numero incalcolabile di soldati. Al momento di scendere a patti col nemico vittorioso (a quel tempo la Germania), si sarebbero concesse ampie porzioni del proprio territorio (Trattato di Brest-Litovsk).

Nel frattempo si sarebbe duramente repressa l'inevitabile controrivoluzione interna (quella dei Bianchi, pagati dagli imprenditori privati, dai latifondisti e soprattutto dai Paesi capitalisti).

Una volta sistemate le cose, ci si sarebbe organizzati per andare a riprendersi i territori ceduti in precedenza al nemico. Sembrava il progetto folle di un impenitente sognatore. Invece il caso volle che la Germania perse la guerra, e che fu piuttosto facile per i russi rompere il trattato di pace, anche se all'inizio degli anni '20 dovettero affrontare l'interventismo armato di molte nazioni straniere, i cui statisti e capitalisti erano terrorizzati all'idea che nei loro stessi Paesi potessero avvenire delle rivoluzioni comuniste. In quel caso però i sovietici non concessero nulla a nessuno e tutti i contingenti armati penetrati nel loro territorio furono sonoramente sconfitti.

Anzi, per un momento gli stessi russi sperarono che anche in Europa occidentale si facessero altre rivoluzioni del genere, ma dovettero presto disilludersi. Desiderare una rivoluzione e saperla organizzare sono due cose completamente diverse.


8 aprile


Manifesto contro la guerra


Ci vorrebbe in Italia un manifesto pubblico da condividere, da discutere, da proporre contro i poteri forti, come piattaforma per una battaglia politica di civiltà. Un manifesto contro la guerra, di lungo respiro, capace di porre le condizioni per una pace durevole, sufficientemente garantita. Questa potrebbe essere la bozza di partenza.

1- L'Italia s'impegna a diventare un Paese denuclearizzato non solo negli aspetti civili ma anche in quelli militari. Non ha intenzione di ricorrere, né adesso né in futuro, ad alcuna fonte di tipo nucleare, in quanto le ritiene tutte, soprattutto in caso di guerra, particolarmente pericolose. Anzi dichiara di sentirsi molto preoccupata se altri Paesi (vicini o lontani) non prenderanno un analogo impegno.

2- L'Italia assicura che in caso di guerra non ricorrerà mai ad armi di sterminio di alcun genere, in quanto dichiara sin da adesso di voler smantellare qualunque arma del genere in qualunque base militare, ed è fermamente intenzionata a vietare qualunque ricerca scientifica si possa fare in futuro per produrle. Questo perché teme profondamente che l'uso di tali armi possa avere effetti imprevedibili o imponderabili sulla popolazione. Non solo, ma rifiuta categoricamente che le conseguenze di una guerra del genere possano ricadere sulle generazioni che non l'hanno fatta. Si dichiara altresì disponibile a forme di controllo da parte di chi accetta la reciprocità.

3- L'Italia assicura a tutti i Paesi del mondo che rinuncerà per sempre a qualunque arma offensiva, in grado di colpire qualunque Paese confinante o non confinante. Le armi saranno utili solo a scopo difensivo e, in quanto tali, non verranno mai utilizzate per prime.

4- L'Italia non ospiterà mai sul proprio territorio delle basi militari straniere, a meno che non debba farlo per motivi di forza maggiore. In tal caso però la decisione dovrà essere presa da organismi politici di carattere nazionale, non militari. Tale decisione avrà una durata chiaramente prestabilita e non sarà rinnovata in maniera automatica, né la base militare potrà mai rivendicare alcun tipo di sovranità esclusiva (o extraterritoriale).

5- La difesa dell'intero territorio nazionale verrà affidata alla popolazione nel suo complesso, non a corpi specializzati. Tutti (salvo eccezioni documentate) devono sentirsi responsabili per la difesa della loro patria, a qualunque titolo ciò avvenga, nel rispetto della legislazione vigente. Pertanto tutti dovranno sottoporsi a periodiche esercitazioni militari o paramilitari o di supporto civile a una guerra difensiva. In condizioni di pace sarà vietato ai cittadini circolare armati, a meno che non siano espressamente autorizzati per motivi di sicurezza o per garantire l'incolumità di determinate persone, nei tempi e luoghi decisi all'occorrenza.

6- L'Italia s'impegna a non vendere armi a nessun Paese per nessun motivo e a non acquistarle da nessuno. Cioè si limiterà ad autoprodurle. Questo perché armi e distensione vengono considerate incompatibili. Si vuole disincentivare l'idea, a livello internazionale, che un qualunque conflitto possa essere risolto con le armi in mano.

7- Se l'Italia fosse comunque costretta, per qualche ragione oggettiva, a entrare in guerra, rispetterà rigorosamente tutte le convenzioni già approvate a livello internazionale. In particolare approverà la richiesta di istituire un tribunale per giudicare chi ha voluto scatenare la guerra o istigarla con varie provocazioni. Si dichiara disponibile a farlo anche per le situazioni pregresse, se le testimonianze e la documentazione vengono considerate sufficienti.

8- L'Italia ritiene che il modo migliore per risolvere i conflitti interstatali o regionali o internazionali sia la diplomazia onnilaterale, la trattativa a oltranza, il ricorso a organismi di pace internazionali, che svolgano funzioni di mediazione. I princìpi della non violenza e della sicurezza reciproca vanno posti come base di qualunque patteggiamento. In tal senso l'Italia ritiene sia profondamente sbagliato sostenere che la guerra è lo strumento per condurre la politica con altri mezzi. Non assumerà mai atteggiamenti rassegnati nei confronti di chi sostiene che per volere la pace bisogna prepararsi alla guerra o che la pace si ottiene soltanto in nome della deterrenza.

9- L'Italia si dichiara Paese neutrale per definizione. Non aderisce ad alcuna alleanza militare tra Stati: al massimo accetta alleanze pacifiche tre le rispettive popolazioni. Rifiuta di collocare basi militari ai confini con altri Stati. Rifiuta anche di usare l'arma della ritorsione nel caso in cui venga colpita per errore da un Paese estero: pretenderà solo un risarcimento dei danni. Si riserva di usare i propri servizi segreti e la propria diplomazia per scongiurare l'inizio di una guerra in qualunque parte del mondo, cioè per prevenire qualunque atteggiamento ostile o provocatorio.

10- L'Italia non rivendica alcun territorio al di fuori dei propri attuali confini ed è disposta a discutere sulle rivendicazioni che gli Stati confinanti possono fare nei confronti di territori storicamente contesi.

11- L'Italia non può assumere in politica estera dei princìpi difformi da quelli assunti in politica interna.

12- Il presente Manifesto va preso nella sua interezza. Viene escluso a priori che una qualunque sua parte sia più o meno vincolante di qualunque altra parte.


9 aprile


Ci piace sognare


Forse un giorno, in un futuro chissà quanto lontano, i nemici da combattere, che comportano un numero incalcolabile di morti, saranno oggetto di un tipo di narrativa che oggi vediamo solo nei film di fantascienza.

Qualche Stato, per avere il pretesto con cui dominare il mondo, parlerà di "invasione di alieni"; e, per simulare la loro presenza, comincerà a colpire le popolazioni usando armi cosmiche (satelliti, navicelle spaziali...). Infatti nella realtà odierna ci si ammazza per vincere il globalismo neoliberista e l'unipolarismo occidentale.

Agli inizi del 2000 gli USA, permettendo l'attacco alle Torri Gemelle, inventarono l'astrazione del terrorismo islamico internazionale, con cui poterono scatenare varie guerre regionali di non poco conto (Iraq, Siria, Afghanistan, Libia ecc.).

Con i passati colonialismi e imperialismi europei l'astrazione erano i popoli da civilizzare, privi di scienza e di tecnica, incapaci di sfruttare le loro risorse naturali, non avendo industria adeguata.

Donatella Di Cesare è convinta, nel suo libro Terrore e modernità (2017), che solo con l'astrazione del terrorismo la guerra è diventata davvero globale. Questo perché il nemico è diventato onnipresente e invisibile, pronto a sfruttare ogni luogo e mezzo per provocare morte e distruzione. Gli americani sono specializzati nel vedere nemici ovunque: di qui l'esigenza d'inventarsi supereroi, narrative fiabesche, spot che fanno sognare...

Se l'avesse scritto oggi, avrebbe detto che per l'occidente collettivo il nemico è chi si oppone al diritto internazionale, alla democrazia rappresentativa, alle regole comuni, cioè anzitutto Russia e Cina, ma anche non pochi Paesi mediorientali del Sud globale.

Quanto più il nemico diventa astratto, generico, tanto meno si è portati a fare differenza tra militari e civili, tra uso di mezzi bellici leciti e illeciti, tra obiettivi strategici e terroristici, tra attacco e difesa. Siamo tutti coinvolti, tutti rischiamo di morire. E in fondo bisogna dire che, se non facciamo niente per fermare i nostri statisti, siamo tutti responsabili, in forme e modi diversi, del destino che ci attende. Nessuno può dichiararsi innocente, estraneo ai fatti accaduti.

Inutile quindi stare a chiedersi, come Giobbe, seduto su una montagna di letame, che cosa abbiamo fatto di così grave per meritarci un castigo così grande. Una cosa di sicuro l'abbiamo fatta: non abbiamo reagito col dovuto coraggio di fronte alle ingiustizie che ci capitano sotto gli occhi. Abbiamo demandato ad altri la loro soluzione. Le abbiamo colpevolmente sottovalutate. Abbiamo creduto ingenuamente nel potere riparatore delle istituzioni, di quelle istituzioni che vivono di vita propria, sfuggendo completamente al nostro controllo.

Ci raccontano favole dalla culla alla tomba, perché sanno che a noi piace sognare.


10 aprile


Si può essere diversi


Per quanto strano possa sembrare, anche nel mondo greco-romano si parlava di un diritto naturale universalmente valido, che permetteva agli esseri umani di coesistere pacificamente, a prescindere dalle diversità etniche, politiche, culturali, ecc. Questo diritto era basato sulla ragione e quindi sulla parola, essendo gli umani degli esseri razionali e dialoganti.

Per es. gli stoici di epoca ellenistica erano i principali difensori del pacifismo e del cosmopolitisimo. I grandi giuristi dell'impero romano la pensavano nella stessa maniera. Cicerone, Ulpiano, Gaio... parlavano di "diritto naturale" come di qualcosa di molto diverso dal diritto civile, qualcosa in grado di creare una "società naturale".

Usavano gli stessi concetti, più o meno, che la borghesia cristiana userà alla fine del Medioevo per giustificare la nascita del capitalismo. Erano, esattamente come lo sono ancora oggi, dei concetti assolutamente astratti, privi di riscontri effettivi. Infatti nella realtà vigeva il diritto del più forte: si vis pacem, para bellum. Le esigenze "imperiali" dovevano prevalere su tutto. Al massimo si aggiungeva di non infierire sugli sconfitti, in quanto la guerra andava utilizzata solo come rimedio estremo, dopo aver chiesto la sottomissione tramite gli strumenti della diplomazia (ma anche della minaccia o intimidazione, del ricatto, ecc.).

Questa stranezza di sapere come vivere in pace, ma di attuare praticamente una politica guerrafondaia, può farci pensare che il genere umano, tra tutti i generi animali, sia nato con qualche difetto congenito, che lo rende troppo pericoloso per poter essere sopportato oltre un certo limite. La natura, per la sua stessa sopravvivenza, dovrebbe sbarazzarsi quanto prima di un soggetto così pericolosamente inaffidabile, che dice una cosa e ne fa un'altra.

Si badi che tale doppiezza la si ritrova anche in tutte le religioni nate in epoca schiavistica, feudale o borghese. Si salvano solo quelle più primitive, di tipo animistico-totemiche. Generalmente infatti le religioni si comportano in due modi di fronte alle esigenze di dominio mondiale: o le giustificano, pensando esse stesse di potersi espandere più facilmente; oppure le tollerano passivamente, assumendo atteggiamenti indifferenti. Nel migliore dei casi vi si oppongono, ma usando affermazioni puramente moralistiche.

Quando i nativi nordamericani incontrarono gli europei, li qualificarono, dopo poco tempo, come gente dalla lingua biforcuta, cioè ipocrita. Ci avevano facilmente capiti proprio perché tra loro la parola data era sacra e non doveva nascondere un secondo fine. Erano umanamente migliori di noi, e noi, per non sentirci giudicati da popolazioni ritenute "primitive", siamo stati costretti a procedere a una grande pulizia etnica. E per poterla fare ci siamo inventati su di loro le cose più turpi e bestiali, abbiamo escogitato gli inganni più perfidi.

D'altra parte, secondo i nostri criteri di vita, non avevamo scelta: gli indigeni non accettavano assolutamente di diventare i nostri schiavi. Erano nati liberi e volevano continuare a restarlo. Fummo costretti a importare dall'Africa milioni di africani per sostituirli. I cosiddetti "indiani" non erano come gli indios delle tre civiltà mesoamericane e andine, fondamentalmente schiavistiche, che comunque gli spagnoli ridussero a un nulla.

Perché i pellerossa fossero migliori di noi è presto detto: rifiutavano l'idea di poter privatizzare le risorse naturali e si accontentavano di ciò che la Terra poteva offrire. Erano la dimostrazione più eloquente che si poteva essere diversi.

Lo scrisse anche Cristoforo Colombo durante il suo primo viaggio, quanto sbarcò alle Bahamas. Incontrando i Lucayo, disse di loro: "E' un popolo affettuoso, privo di avidità e duttile. Al mondo non c'è gente o terra migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più dolci e delicate del mondo, e sono sempre sorridenti... Nei contatti con gli altri hanno ottimi costumi".

Poi però prese a sterminarli, poiché resistevano alla sottomissione e non l'aiutavano a soddisfare il motivo per cui aveva organizzato i suoi viaggi: trovare l'oro.


11 aprile


Non siamo nati sbagliati


E' da almeno 3000 anni, cioè dal tempo degli Etruschi che l'Italia conosce la pace solo come un momento tra due periodi di guerra. E' un incubo da cui dobbiamo uscire: quanto meno dobbiamo porre delle basi solide per le generazioni future.

Non possiamo dare per scontato che la specie umana sia, tra tutte quelle animali, riuscita molto male. In fondo la libertà di scelta, di cui tanto ci vantiamo, è sconosciuta agli animali, e noi non possiamo farne a meno, anche se ai poteri forti farebbe molto comodo.

Non credo (come invece Erasmo da Rotterdam) che l'origine della violenza sia stata la pratica della caccia e il sacrificio degli animali per scopi religiosi. Non credo che abbiamo cominciato ad ammazzarci per il costante venir meno della selvaggina (soprattutto i grandi mammiferi).

Non sono neppure convinto che la guerra sia un prodotto inevitabile dell'agricoltura e dell'allevamento. Finché vige l'uguaglianza sociale e di genere, la violenza non c'è, anche se emerge subito appena qualcuno comincia a parlare di proprietà privata.

Quando nascono attività militari per difendere tale anomala proprietà, e motivazioni economiche, politiche o religiose per giustificarla, potremmo dire che nasce l'antenata della nostra civiltà, che è classista e inevitabilmente maschilista.

Tutti gli antichi pensatori greci (salvo eccezioni) erano concordi nel considerare la guerra un elemento innato dell'uomo, proprio perché - secondo loro - l'amore della gloria, la paura e l'utile sono i nostri tre istinti principali. Ma una visione del genere era falsa: servì soltanto per giustificare l'interesse di chi voleva comandare. Come sono false quelle soluzioni che vedono nel sovrano o nello Stato il rimedio all'antagonismo sociale.

Quando Platone diceva che nel suo Stato ideale si soddisfano solo i bisogni essenziali per evitare la brama di ricchezza, stava semplicemente favorendo la costruzione di una dittatura. In sé non era una preoccupazione sbagliata, ma lo diventava subito se la si lasciava gestire a un'entità esterna, lo Stato, che i cittadini comuni non potevano controllare.

I cittadini non hanno bisogno, per vivere con più tranquillità, di più Stato e di meno mercato o di meno libertà di decisione. Non hanno bisogno di uno Stato padre e padrone per impedire a se stessi di fare scelte sbagliate. Non ha alcun senso far credere che il socialismo della miseria deve diventare uno stile di vita generalizzato per garantire a tutti una minima libertà personale: infatti sappiamo benissimo che chi vuole imporre un sistema del genere, vivrebbe in una condizione privilegiata (come per es. la nomenklatura di epoca sovietica).

Non a caso lo stesso Platone vedeva nella guerra contro altri Stati uno strumento molto efficace per evitare le guerre civili e i conflitti di classe e di ceto all'interno del suo Stato ideale.

E' semplicemente mostruoso pensare che la guerra sia qualcosa di naturale, in quanto attua il diritto del più forte a comandare sul più debole. Bisognerebbe mettere al bando tutte le opere letterarie che esaltano la guerra come soluzione di conflitti.

E' la proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi che va abolita. Il socialismo utopistico lo diceva ben prima di quello scientifico. Anzi, se andiamo indietro nel tempo, troviamo questa idea in tutte le opere di tipo utopico, da quella di Campanella a quella di Thomas More. Ma la troviamo anche nei movimenti pauperistici ereticali del Medioevo e persino nei movimenti monastici sorti con la crisi del mondo schiavistico pagano di epoca classica.

Il genio di Marx non si era inventato nulla. Aveva soltanto ripreso un'idea del passato, calandola in un contesto nuovo. Solo oggi però abbiamo capito che è illusorio pensare di realizzare l'uguaglianza sociale e quindi la libertà personale, limitandosi a nazionalizzare gli strumenti produttivi.

Un socialismo statale è una contraddizione in termini: confonde la proprietà "sociale" con la proprietà "statale". E un socialismo mercantile potrà anche ambire a una migliore efficienza rispetto al capitalismo privato di marca occidentale. Ma non può offrire maggiori garanzie di libertà solo perché permette un più facile arricchimento. Anche perché chi assapora l'odore dei soldi, prima o poi chiederà allo Stato di mettersi da parte o di porsi al suo servizio.


12 aprile


Cambiare anzitutto stile di vita


L'altra sera ho ascoltato con molto interesse la presentazione che Andrea Zhok ha fatto del suo ultimo libro, La profana inquisizione e il regno dell'anomia (Sul senso storico del "politicamente corretto" e della cultura woke).

Una persona davvero intelligente, che mi ha indotto a riflettere soprattutto sul seguente aspetto. Quando in una società si teme la differenza, perché si pensa che possa essere usata per compiere una discriminazione, allora vuol dire che i conflitti sociali sono molto acuti. Cos'è che ci fa vivere in un continuo sospetto reciproco se non un estremo individualismo?

Ma se è così, pensare di poter ridurre o addirittura eliminare le discriminazioni, combattendo tutte le possibili differenze, è quanto di più illusorio ci possa essere. Sarebbe come dire che, per impedire l'abuso della libertà, se ne deve impedire l'uso.

La cultura woke, la cancel culture, il politicamente corretto, l'ideologia gender e altri fenomeni del genere fanno un grosso favore ai poteri forti proprio mentre dicono di volerli combattere. Infatti vogliono superare le mistificazioni delle ideologie maschiliste, patriarcali, colonialiste, razziste, sessiste..., eliminando qualunque differenza, cioè riducendo la popolazione a un gregge senza volto, facilmente gestibile da chi ha le leve del potere.

Indubbiamente ha torto chi pensa di poter rispettare le differenze affermando anzitutto la propria identità. Chi si comporta così, rispetta la differenza solo in maniera formale, convenzionale, tant'è che alla prima criticità, si rivela per quello che è, e cioè una persona intollerante.

Infatti per una persona davvero democratica vale il principio opposto, quello per cui l'identità è data proprio dalla differenza. Chi sei tu, come individuo, classe sociale, gruppo etnico, popolo nazionale, lo puoi sapere soltanto mettendoti in relazione con altri individui, classi sociali ecc. E in questa relazione comprendi che differenza e discriminazione sono due cose molto diverse.

E' vero che qualunque differenza può essere oggetto di discriminazione, ma è anche vero che quando ciò avviene, è perché c'è qualcosa di sbagliato nell'identità, cioè nei valori di questa identità.

Ecco perché va anzitutto ripensato il proprio stile di vita, ovvero quei comportamenti che i poteri dominanti vogliono imporre alle popolazioni. Noi occidentali viviamo in società dove esistono gerarchie apparentemente insuperabili. Per es. la natura va dominata da scienza e tecnica, il capitale s'impone sul lavoro, l'uomo sulla donna, il forte sul debole... Convinzioni del genere permettono o tollerano la fruizione di privilegi che non hanno alcuna giustificazione.

Si danno per scontati dei processi, delle tendenze che non sono "naturali", ma semplicemente il frutto di un'evoluzione storica. Non è scritto nelle Tavole della legge che il valore di scambio debba prevalere su quello d'uso, o l'industria sull'artigianato, o il mercato sull'autoconsumo, o la democrazia delegata su quella diretta... Esempi come questi potrebbero essere fatti all'infinito. Si pensi solo al fatto che diamo per scontato che la scrittura sia più importante della parola, quando per milioni di anni abbiamo al massimo dipinto delle immagini sulla roccia.

Noi siamo schiavi di una narrativa istituzionale che ci impedisce di pensarla diversamente. Ecco perché diciamo che chiunque voglia abolire le differenze, per timore che possano essere usate in modo discriminatorio, inevitabilmente, anche contro le sue intenzioni, fa gli interessi del sistema dominante, che è tutto meno che democratico.


13 aprile


Capire i cinesi non è facile


Il moderno Partito Comunista Cinese si basa su un antico detto filosofico: "Solo quando il granaio è pieno, le persone imparano l'etichetta; solo quando le persone saranno ben nutrite e vestite conosceranno l'onore e la vergogna".

La crescita economica è dunque la base per la pace/sicurezza e per la civiltà (culturale, scientifica...). Tuttavia senza sicurezza non c'è prosperità/crescita, e senza entrambe non c'è alcuna civiltà (forza spirituale della nazione).

In particolare il governo cinese pensa di doversi indirizzare allo sviluppo del Sud Globale, per superare lo scambio ineguale imposto dal capitalismo occidentale.

La Cina non vuol imporre a nessuno Stato la propria civiltà, non s'intromette negli affari interni degli Stati e pretende che su questo vi sia reciprocità. Un esempio eclatante di questa strategia, di cui si è fatta artefice, è il riavvicinamento tra due nemici di lunga data: Iran e Arabia Saudita. Si può trovare un terreno comune nel rispetto della diversità, si può cercare l'armonia senza uniformità.

Dunque, se le tradizionali teorie occidentali sulle relazioni internazionali tendono a vedere il mondo dalla prospettiva della forza e della geopolitica (teorie come quella della "stabilità egemonica" e dello "scontro di civiltà" sono intrise di idee escludenti), viceversa la coesistenza pacifica, la cooperazione vantaggiosa per tutti, l'inclusività e la crescita condivisa fanno sempre parte della civiltà cinese.

Il materialismo storico-dialettico si innesta su una filosofia di vita che è già democratica e socialista di suo. Cioè il collettivismo cinese non è una conseguenza dell'adozione del marxismo-leninismo, ma il contrario: questa ideologia è stata adottata proprio perché la Cina ha tradizioni millenarie di tipo collettivistico.

Sinceramente parlando, però, ancora non ho capito se il socialismo con caratteristiche cinesi ha più familiarità con la suddetta ideologia e non piuttosto con la propria tradizione collettivistica, che si può ritrovare in tante tradizioni culturali, come p.es. quella confuciana, buddistica, taoista...

Detto questo, resta abbastanza curioso come, da un lato, si voglia restare legati a una specifica ideologia (il marxismo-leninismo), mentre, dall'altro, si auspichi una collaborazione tra Stati che prescinda totalmente da qualunque aspetto ideologico.

Sembra che per il PCC sia prioritario su ogni cosa l'obiettivo di garantire a ogni popolazione il minimo vitale, fino al benessere economico. Senza il raggiungimento di questo obiettivo, è inutile parlare di tutto il resto.

Ma come si può essere sicuri di questo automatismo? Chi l'ha detto che una popolazione, dopo aver raggiunto il benessere materiale, abbia voglia di approfondire gli aspetti immateriali della propria cultura e civiltà? Quando mai in occidente si è riusciti a tenere insieme l'arricchimento personale col perseguimento dell'interesse comune?

Quale segreto hanno i cinesi per riuscire a tenere unite due prassi così contrapposte? A voler essere davvero socialisti, bisognerebbe sostenere il contrario, e cioè che prima va cercata, come ideale condiviso, la proprietà comune, e solo dopo, all'intero di questo presupposto, uno deve ricercare il benessere personale.

Di fatto l'esperimento cinese consiste in questo: favorire il capitalismo sociale (all'interno della società civile), salvaguardando il socialismo del partito/stato e della sua ideologia marxista-leninista. Ma così facendo non ci si accorge che se si sviluppa troppo il capitalismo, tende a formarsi una classe sociale che non vuole una tradizione collettivistica e tanto meno un'ideologia che non si ponga al servizio degli interessi privati.


14 aprile


L'appetito vien mangiando


Sappiamo tutti cosa è stata la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" nel Portogallo della metà degli anni '70. Si eliminò una dittatura fascista durata 40 anni, in cui 40 famiglie dominavano l'intero settore privato del Paese. Si costruì uno Stato socialista, padrone di tutti i mezzi produttivi. Si passò da un estremo all'altro.

La svolta durò circa un decennio. Poi, come spesso succede in questi casi, una corrente revisionista all'interno del socialismo dominante, riuscì a far ridiventare capitalista il Paese, col pretesto che non si poteva restare isolati dal resto dell'Europa. Però si dovette attendere l'inizio degli anni '90 per abolire completamente il principio della proprietà statale dei mezzi produttivi, della terra, delle risorse naturali ecc.

Il Portogallo, un tempo grande Paese colonialista, diventò terra di conquista da parte delle grandi aziende capitalistiche del mondo, attratte da un costo del lavoro molto basso e da una fiscalizzazione molto favorevole.

Naturalmente lo Stato non ne trasse alcun beneficio. Anzi, siccome il debito pubblico era in costante crescita, Bruxelles chiese alla popolazione grandi sacrifici.

Tuttavia forse pochi sanno che fu soprattutto la Cina a conquistare il Portogallo. I cinesi puntarono decisamente sul settore energetico, senza il quale non c'è capitalismo che tenga.

Han fatto delle offerte che sarebbe stato folle rifiutare. D'altra parte i cinesi sono tra i più avanzati al mondo nel settore energetico. Non potevano lasciarsi sfuggire l'occasione di entrare nel mercato europeo.

All'inizio si sono accontentati di acquistare il 25% delle azioni dell'intera rete energetica portoghese, ma c'è da scommettere che anche nel loro Paese esiste un detto simile al nostro: l'appetito vien mangiando. Non a caso han cominciato a comprare anche assicurazioni, banche, cliniche private, ecc.

E' curioso però il fatto che la multinazionale China Three Gorges, a capo di tutte le operazioni energetiche, non è affatto privata ma statale. Dunque riusciamo a capire la differenza tra capitalismo privato e socialismo mercantile?


15 aprile


Perché il socialismo portoghese fallì?


Nel 1974 un movimento rivoluzionario guidato da forze militari destituì con un colpo di stato i vertici di un governo fascista durato oltre 40 anni, chiudendo altresì il rapporto colonialistico con alcuni Paesi africani (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, ecc.).

La cosiddetta "rivoluzione dei garofani" fece un errore dietro l'altro, e infatti in poco più di un decennio venne smantellata. Il principale fu quello di nazionalizzare tutte le imprese private, facendole gestire dallo Stato.

Perché questa decisione fu sbagliata?

1) Non è detto che nello Stato vi siano funzionari con competenze adeguate per farle funzionare;

2) non è detto che i precedenti manager, una volta cambiata la proprietà, accettino di continuare a svolgere le medesime mansioni sulla base di motivi ideologici;

3) non è detto che i nuovi funzionari statali, pur avendo le stesse competenze dei manager privati, abbiano le stesse motivazioni, visto che percepiscono stipendi di molto inferiori;

4) non è detto che, pur avendo analoghe competenze e stipendi adeguati, il fatto di continuare a produrre per un mercato, cioè di continuare a far parte di un sistema capitalistico mondiale, sia la soluzione migliore per realizzare un socialismo davvero democratico.

La fretta è cattiva consigliera. Ci vuole una graduale transizione, che tutta la popolazione sia in grado di assimilare.

Non può essere lo Stato a imporre alla società civile le forme e i modi per creare un'alternativa. Lo Stato deve mettere i cittadini nella condizione di decidere quali scelte operare in merito ai beni industriali e alle risorse naturali di cui finalmente possono disporre in libertà.

La terra, per es., fu giustamente tolta ai latifondisti e redistribuita ai contadini, ma tutto il resto fu nazionalizzato, incluse le aziende di cemento, della carta, dei fertilizzanti, del tabacco, della birra, del vetro, della pesca... Si poteva capire un atteggiamento del genere nei confronti di banche, assicurazioni, istituti finanziari, porti e aeroporti, ferrovie, compagnie petrolifere, ecc. Cioè nei confronti di centri nevralgici per qualunque Stato moderno.

Una cosa infatti è socializzare la proprietà dei "principali" mezzi produttivi, quelli imprescindibili per la sopravvivenza di una società civile; un'altra è nazionalizzare tutto.

Quando in nome di una rivoluzione politica si vuole cambiare radicalmente la gestione economica della società, non si può pensare che basti cambiare il proprietario dei mezzi produttivi. Bisogna porsi una, cento, mille domande su quale stile di vita si vuole puntare.

Già Aristotele diceva che è l'obiettivo che ci si pone a decidere come gli strumenti a disposizione devono essere usati. Con una rivoluzione politica compiuta dall'alto, lo Stato deve limitarsi a porre le condizioni affinché la società impari ad autogestirsi. Autogestione e cooperazione sono le parole chiave da promuovere a favore delle autonomie locali.

I cittadini devono imparare a responsabilizzarsi in prima persona. Le rivoluzioni politiche servono soltanto per metterli nelle condizioni di poterlo fare liberamente, senza i pesanti condizionamenti della gestione privata dei beni comuni.

L'altro errore non fu meno grave: mantenere stretti rapporti con l'Europa occidentale. Per non sentirsi isolati? Temendo di non riuscire a sopportare le inevitabili sanzioni, embarghi, boicottaggi? Ma da un nemico non ci si può aspettare un trattamento di favore.

Di fatto proprio quel rapporto comportò il progressivo smantellamento del socialismo statalizzato e la reintroduzione del capitalismo privato, nell'ambito di una gestione politica formalmente democratica dello Stato.


16 aprile


Un presidente vale l'altro


Ho l'impressione che ormai il vero problema non sia se scegliere il capitalismo o il socialismo, ma proprio in quale tipo di socialismo vogliamo riporre la nostra fiducia.

Infatti che il capitalismo privato di marca occidentale sia destinato a perdere il confronto (economico, finanziario e militare) col capitalismo statale o col socialismo mercantile di marca asiatica, non ci piove. Qualunque guerra noi occidentali si faccia, siamo destinati a perderla, poiché non abbiamo più a che fare con nazioni sprovvedute.

L'Asia sta sopravanzando molto in fretta sia gli USA che la UE. Non ha bisogno di ripercorrere tutto il nostro processo tecnico-scientifico: può partire dalle ultime acquisizioni e guardare molto più lontano di noi, come un nano sulle spalle di un gigante. E la Cina, con la sua popolazione e la sua superficie, è già un gigante di suo.

Da mezzo millennio il mondo è nelle nostre mani, ma non saremo ancora noi i protagonisti nei prossimi secoli. Come nella staffetta in atletica: chi sta dietro ci chiede il testimone, e noi dobbiamo darglielo, o con le buone o con le cattive.

Il che non vuol dire, di per sé, che il dopo sarà migliore del prima. L'idea di progresso non ha un contenuto magico: può anche comportare processi involutivi, o comunque caratterizzati da nuovi antagonismi, di diversa natura.

Di sicuro noi occidentali, se vogliamo sopravvivere, dobbiamo dimostrare che è possibile costruire un socialismo davvero democratico. E per farlo, dobbiamo prima spazzar via l'intera classe dirigente (sul piano politico, amministrativo, militare, industriale e finanziario). Un compito assolutamente al di là delle nostre forze.

Al momento quindi è meglio che ci prepariamo al peggio. Non è infatti possibile che un grande Paese come gli USA possa continuare a indebitarsi in una maniera così mostruosa, senza subire conseguenze significative.

Non ha alcun senso che il popolo americano continui a vivere al di sopra delle proprie capacità produttive, confidando unicamente nel potere del dollaro. Imporre determinate transazioni commerciali e finanziarie in questa valuta o attirare capitali da tutto il mondo in virtù dei propri elevati tassi d'interesse, non sono fattori che oggi possono scongiurare un altro 1929 o 2008 (che riguardò la finanza privata) o una bancarotta statale. Il debito pubblico è così astronomico che non può essere salvato da niente, neppure dalla guerra, e tanto meno dalla svalutazione della moneta. E' assurdo persino pensare di poter fermare l'inflazione in corso con tassi d'interesse sempre più elevati.

Quando i nodi verranno al pettine, ci saranno negli USA delle guerre civili, delle secessioni di Stati federali, delle dittature militari, nuove guerre regionali nel mondo, o perfino mondiali contro Cina, Russia, Iran, Corea del Nord e chissà chi. Alla fine il dollaro verrà sostituito dai metalli pregiati o persino dal baratto.

Se Trump riuscirà a vincere col consenso degli apparati, dovrà convincere gli americani che, senza di lui, il Paese è perduto. E probabilmente si servirà della carta "eversiva", quella che ha usato contro Biden, organizzando l'occupazione del Campidoglio nel gennaio 2021, quando con dei trucchi elettorali gli fu impedito il secondo mandato. Quella volta Trump fu estromesso perché non sufficientemente guerrafondaio in politica estera.

Ora invece deve garantire al 100% la guerra contro la Cina. E, per avere il potere che utilizzerà per vendicarsi dei democratici, possiamo star certi che farà quanto gli apparati gli chiederanno. In fondo già nel primo mandato aveva detto che il pericolo maggiore per gli americani non sono i russi ma i cinesi.


17 aprile


Un film già visto


Che gli statisti occidentali abbiano un debole per il nazifascismo lo si è visto nel 1938, in quella vergognosa Conferenza di Monaco, in cui si permise a Hitler di occupare i Sudeti (la Cecoslovacchia, benché alleata con Francia e Regno Unito, non fu neppure invitata a discutere).

A dir il vero la stessa Cecoslovacchia, per come era stata voluta dai Paesi vincitori della prima guerra mondiale, non aveva alcun senso: serviva solo per dar fastidio ai tedeschi. Tant'è nel 1993 la Boemia industriale e protestante si separò amichevolmente dalla Slovacchia rurale e cattolica. Non si sparò neppur un colpo. La UE e l'ONU accettarono senza discutere il dato di fatto. In fondo per gli interessi del capitalismo non cambiava nulla.

Non era come riconoscere la separazione della Transnistria dalla Moldavia o le due repubbliche di Donetsk e Luhansk dall'Ucraina, e le due mini repubbliche dell'Abcasia e Ossezia del Sud dalla Georgia. Quelle non verranno mai riconosciute né dall'ONU né dall'occidente collettivo, perché filorusse: un bell'esempio di doppiopesismo!

Il 1938 fu un vero spartiacque nella storia europea del XX sec. Si dimostrò al mondo intero che le grandi democrazie occidentali erano incapaci di opporsi alle dittature. Anzi ci si vantò d'aver scongiurato una guerra mondiale. Ci si fidò della promessa di Hitler che si sarebbe accontentato dei Sudeti germanofoni.

In realtà la Germania voleva tornare ai confini della Prussia del XIX sec., per cui riteneva scontata la riappropriazione del corridoio di Danzica. Solo che per Francia e Inghilterra i Sudeti erano una cosa (tutto sommato piuttosto insignificante), mentre il corridoio di Danzica aveva ben altra importanza. Si sentivano terrorizzate al pensiero che la Germania potesse tornare ad avere delle grandi ambizioni imperiali.

Anche la Polonia era stata creata per dar fastidio ai tedeschi: le era stato concesso un territorio enorme, pur essendo una potenza di infimo rango. Quando Hitler occupò la Polonia, la guerra in tutta Europa fu inevitabile: francesi e inglesi tornavano a sentirsi minacciati.

Poi naturalmente gli storici occidentali diedero tutta la colpa all'URSS per aver firmato, sulla testa dei polacchi, un patto di non belligeranza coi tedeschi (Molotov-Ribbentrop). Chissà perché si dimenticano sempre di aggiungere che contro i nazisti nessun Paese europeo volle sottoscrivere un'intesa militare coi russi. Tutti gli statisti avevano più paura dei comunisti che non dei nazisti. Anzi, speravano che le mire imperiali di Hitler si volgessero solo verso est.

L'idea di fondo che gli statisti europei avevano era quella di aspettare che la Germania attaccasse la Russia (Polonia e Cecoslovacchia avrebbe potuto concedere il transito delle truppe sotto la sorveglianza degli anglofrancesi). Dopodiché si sarebbe osservato passivamente lo svolgersi degli eventi. Se davvero per Hitler sarebbe stato così facile vincere l'URSS in pochi mesi, gli avrebbero proposto, in cambio di una non belligeranza, di avere un pezzo della Federazione, il cui territorio era troppo grande per poter essere occupato da un'unica nazione capitalistica. Identica cosa a est avrebbero fatto USA e Giappone. A tutto il capitalismo mondiale facevano gola le sterminate risorse naturali dell'URSS.

I fatti però si svolsero in maniera opposta a quella desiderata. I 27 milioni di morti subiti dalla Federazione non incisero affatto sul suo destino. Anzi furono l'Europa occidentale e il Giappone a sentirsi schiacciati sotto il peso dell'egemonia americana.

Oggi si sta ripetendo un film già visto. Il neonazismo della NATO, che ha iniziato contro la Russia una guerra per procura in Ucraina, ambisce a impadronirsi dei territori della Federazione. L'anticomunismo, ovviamente, non può essere la motivazione principale. Si sta semplicemente dicendo, nella maniera più demenziale possibile, che Putin ha intenzione di riprendersi i territori acquisiti da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale.

Questa volta però bisogna fare attenzione: una terza guerra mondiale contro la Russia potrebbe essere l'ultima che l'occidente è in grado di scatenare.


18 aprile


Non loro ma noi dovremmo scomparire


Perché gli Inuit sono destinati a scomparire? Perché col cambiamento climatico il ghiaccio tenderà a sciogliersi, e le terre dove loro vivono saranno sfruttate per motivi energetici. Già adesso è così.

Faranno la fine dei nativi nordamericani, con cui peraltro sono strettamente imparentati, oltre che coi Mongoli.

Vivono nel Grande Nord, tra Alaska, Canada, Siberia (Chukotka) e Norvegia, forse da 30-35.000 anni. All'inizio dell'attuale III millennio sono rimasti in circa 180.000, dislocati su un totale di 15.000 km di costa.

Una volta venivano chiamati Eschimesi, provenendo dall'Asia meridionale. Hanno già subìto la colonizzazione euroamericana e russa.

Sono animisti, cioè pensano che tutto sia vivo, anche le pietre. Una religione che in realtà è una filosofia di vita.

La base della loro alimentazione è la renna e qualunque specie ittica. Ma un tempo erano anche il mammuth e il bisonte.

Le condizioni ambientali in cui vivono sono ovviamente durissime. Tuttavia chi minaccia davvero la loro esistenza sono le imprese che cercano idrocarburi e metalli pregiati (oro, uranio, zinco, ecc.).

Un tempo ebbero a che fare con altre forme di colonizzazione, da parte di cacciatori in cerca di pellicce pregiate, balenieri, mercanti, persino missionari provenienti da ogni parte d'Europa.

La "mondializzazione" è sempre stata una tragedia assoluta per questa e altre popolazioni dell'Artico. In mezzo secolo li hanno costretti a vivere in centri urbani, a "civilizzarsi", a passare dall'età della pietra alle tecnologie avanzate, ma le conseguenze sono state catastrofiche, come sempre succede in questi casi.

Basta un piccolo esempio per capirlo. Gli occidentali hanno introdotto in questa popolazione l'uso dell'alcol e del tabacco. Senonché quando non si hanno gli enzimi per smaltirli, la loro tossicità è molto più pericolosa: può portare ad alterazioni psichiche.

Noi europei, poi, siamo persino arrivati all'assurdo di vietare il commercio di pelli di foca, per proteggere questo animale dall'estinzione, contribuendo così a far morire di fame proprio gli Inuit, che se ne servono per nutrirsi e commerciarne il grasso.

Per non scomparire del tutto, hanno iniziato a rivendicare i propri diritti. Si sono associati in varie organizzazioni, con cui difendono la loro cultura, i mezzi tradizionali di sussistenza, la protezione dell'ambiente naturale e animale.

La Conferenza Circumpolare Inuit, fondata nel 1977, è stata riconosciuta dall'ONU nel 1983. Ma l'importanza dell'ONU la conosciamo bene. Quello non è certo un organismo in grado di scongiurare le forme deviate e alienate dell'esistenza quotidiana di queste popolazioni, acquisite dopo essere venute a contatto con la nostra "civiltà".

Peraltro nel Consiglio Artico, istituito nel 1996, chi decide tutto non sono gli Inuit ma gli otto Stati artici: Canada, Stati Uniti, Norvegia, Finlandia, Svezia, Russia, Islanda e Danimarca.

Il destino degli Inuit sembra essere segnato. Certo, qualcuno s'integrerà nel nostro stile di vita, per diventare "come noi". Ma la gran parte di loro vivrà di sussidi e, come animali in uno zoo, smetteranno di riprodursi.


19 aprile


Il primo ecologista russo


Leone Tolstoj, forse il più grande romanziere d'Europa, fu ostracizzato da tutti i filo-zaristi (perché lui non sopportava le autocrazie), dai capitalisti industriali (perché secondo lui devastavano l'ambiente), dalla Chiesa ortodossa (perché voleva un regime di separazione tra Chiesa e Stato), dai bolscevichi (perché non sopportava il concetto di "violenza rivoluzionaria" né la subordinazione del contadino all'operaio), dai populisti (perché lo giudicavano un troglodita a livello di gestione dell'agricoltura).

Di sicuro però molti avevano capito che non era solo un grande romanziere, ma aveva anche una filosofia di vita da proporre all'umanità, indubbiamente non senza i difetti del patriarcato e dell'utopismo.

Pur essendo nobile di origine, viveva come un contadino con vanga e zappa. Non gli importavano neppure i diritti d'autore sulla sua produzione letteraria. Quando vide che il suo capolavoro, Guerra e pace, non riscosse alcun successo in Russia, preferì dedicarsi esclusivamente alle sue attività agricole.

Chiedeva agli americani di abolire la schiavitù, così come in Russia era stato fatto col servaggio.

Era nettamente contrario ai confini nazionali, poiché, secondo lui, i popoli, per rispettarsi reciprocamente, devono frequentarsi senza impedimenti di sorta.

Alle scuole chiedeva istruzione onnilaterale ma non educazione etica, e l'istruzione, per non essere astratta, doveva collegarsi alla cooperazione da sperimentarsi nella società.

Quando lottava contro la nascita delle grandi città, le ferrovie e il telegrafo, veniva considerato un reazionario.

Eppure fu il primo ecologista russo in grado di capire che lo sviluppo industriale sarebbe stato letale per l'ambiente.

Verso la metà degli anni '60, quando sembrava che la destalinizzazione kruscioviana avrebbe creato un futuro democratico in Russia, i danni ambientali provocati dall'industrializzazione di marca socialista-statale erano già stati enormi. L'uso indiscriminato delle terre vergini, delle foreste, dei fiumi, dei laghi, in nome della inesauribilità delle risorse naturali, aveva provocato danni che ancora oggi vengono ritenuti irreversibili (si pensi al disastro del lago d'Aral). Persino la proprietà di Tolstoj andò in rovina a causa dell'inquinamento.

Il suo messaggio però non cadde nel vuoto. Lo ereditò Gandhi, che coi princìpi toltostojani si liberò del colonialismo inglese.

Non fu certo un caso che uno dei primi documenti firmati da Gorbaciov e Rajiv Gandhi fu la Dichiarazione di Nuova Dehli (1986), un esempio eloquente di cosa voglia dire stabilire relazioni amichevoli tra due Stati sulla base di valori umani universali.

Tuttavia Lenin disse (con piena ragione) che la rivoluzione del 1905 fallì proprio perché non riuscì a superare i limiti dell'ideologia del grande romanziere russo.


20 aprile


Gli imperi non sono tutti uguali


In fondo, se ci pensiamo bene, oggi i Paesi favorevoli al multipolarismo stanno lottando contro il globalismo occidentale per affermare una sovranità nazionale non molto diversa da quella che hanno rivendicato i Paesi satelliti della ex URSS.

Al tempo della guerra fredda l'occidente collettivo sosteneva che questi Paesi satelliti avevano una democrazia a sovranità limitata. Come se invece tutti i Paesi occidentali, rispetto agli USA, fruissero di una piena indipendenza!

Vi erano due blocchi dominanti, che in definitiva erano due imperi, benché gli USA abbiano circa 800 basi militari in 80 nazioni, mentre l'attuale Russia non ne ha più di una decina (l'unico Paese a disporne, al di fuori dello spazio post-sovietico, è la Siria).

La differenza tra i due imperi stava nel fatto che uno era di tipo ideologico-politico (il socialismo statale), mentre l'altro è di tipo economico-finanziario (il capitalismo privato). Nel mondo occidentale, se si esclude l'epoca delle grandi rivoluzioni borghesi (olandese, inglese, americana e francese), l'ideologia ha sempre avuto un peso secondario, finalizzato alla soddisfazione di esigenze economiche.

I valori occidentali dominanti escludono la proprietà pubblica dei mezzi produttivi o, in ogni caso, la considerano subordinata a quella privata. La borghesia non ha mai avuto un particolare interesse per i diritti economici di tutte le classi sociali: al massimo ha riconosciuto dei diritti al ceto aristocratico, ma a condizione che sul piano politico lasciasse governare lo Stato alla stessa borghesia. Tutte le altre classi sociali si devono guadagnare i diritti con lacrime e sangue.

Le suddette rivoluzioni borghesi non solo non erano pienamente democratiche, ma non conoscevano neppure argomenti oggi ritenuti fondamentali come la tutela ambientale e l'uguaglianza di genere; anzi, nei confronti delle popolazioni non europee o non americane erano piuttosto razziste.

In tutte le Costituzioni occidentali la borghesia giudica impensabile una libertà senza proprietà privata dei mezzi produttivi, senza esercitare il controllo del mercato internazionale, senza uno Stato nazionale che la difenda militarmente, senza una moneta che funga da parametro universale per lo scambio degli equivalenti, e senza una legislazione che faccia da supporto vincolante alle transazioni economico-finanziarie.

Di fronte alla legge si è tutti formalmente uguali, ma nella realtà la vera uguaglianza sta solo tra i pochi proprietari dei mezzi produttivi. I quali, spesso, nella furibonda lotta per accaparrarsi quote sempre più rilevanti di mercato, tendono a trasformarsi in veri e propri monopolisti. Oggi l'occidente collettivo è composto da pochi giganteschi monopoli (dell'economia e della finanza), che rendono tantissimi Paesi a sovranità limitata.

Non vi è in occidente un'ideologia esplicita da seguire, se non quella astratta dei diritti umani universali e della democrazia rappresentativa parlamentare. Di sostanziale e di generalizzato vi è solo lo stile di vita basato sul consumismo, che crea la nostra "dipendenza": il consumatore deve lavorare per acquistare sostanze in un certo senso "dopanti", poiché non ne deve fare a meno.

Nei Paesi del socialismo statale questa forma di consumismo veniva interpretata da molti non come un segno di schiavitù ma di libertà. E non la si metteva mai in relazione con lo sfruttamento del Terzo Mondo.

Essendosi enormemente indebolita, dopo la propria implosione, la Russia ha accettato non solo l'affermazione autonoma delle ex-repubbliche sovietiche, ma anche il loro agognato ingresso nella UE e nella NATO. Probabilmente se Putin non avesse sostituito Eltsin, la Russia non avrebbe potuto far niente neppure nei confronti dell'Ucraina e della Bielorussia, e si sarebbe rassegnata a perdere anche Kaliningrad.

Chiediamoci però come si sarebbero comportati gli USA se l'Europa occidentale, il Giappone, la Corea del Sud, le Filippine, ecc. si fossero comportati in maniera speculare, cioè se si fossero staccati dal Paese egemone, per poter abbracciare il socialismo. Di sicuro il processo non sarebbe stato accettato senza reazioni spropositate (Vietnam docet).

Dunque qui abbiamo a che fare con due diversi concetti di "impero". Quello occidentale è sommamente aggressivo, poiché tende continuamente a espandersi a spese altrui e non ama affatto la stabilità internazionale e la sicurezza reciproca tra gli Stati, poiché al cospetto delle debolezze altrui tende subito ad approfittarne. Questo è un impero che va demolito quanto prima, soprattutto in ragione del fatto che è dotato di armi nucleari, e bisogna che l'intera umanità si assuma l'onere di farlo.


*


La bozza di risoluzione, presentata dall'Algeria al Consiglio di Sicurezza ONU, che raccomandava l'adesione piena della Palestina alle Nazioni Unite, ha ottenuto 12 voti a favore (Algeria, Russia, Cina, Francia, Guyana, Sierra Leone, Mozambico, Slovenia, Malta, Ecuador, Sud Corea, Giappone), 2 astensioni (Gran Bretagna e Svizzera) e il no degli USA.

Per essere ammessa all'ONU a pieno titolo la Palestina doveva ottenere una raccomandazione positiva del Consiglio di Sicurezza (con nove sì e nessun veto), quindi essere approvata dall'Assemblea Generale a maggioranza dei 2/3.


21 aprile


Nazionalismi da abolire


Non ho mai potuto sopportare il nazionalismo. L'ho sempre giudicato un'ideologia retorica e potenzialmente guerrafondaia (come minimo aggressiva).

Col diverso bisogna abituarsi a convivere, non con atteggiamenti di paternalistica tolleranza, ma proprio per imparare qualcosa di diverso. In fondo viviamo in un mondo così complesso e variegato che c'è sempre da imparare qualcosa.

Per me la nazione è il luogo in cui uno si trova a vivere per cause indipendenti dalla sua volontà, un luogo che potrebbe cambiare da un momento all'altro, per motivi più o meno seri, più o meno gravi.

Mi sento più nomade, più cosmopolita o più internazionalista. Se in questo momento dovessi andare a vivere in un altro posto, mi sforzerei di adeguarmi alle nuove condizioni di vita, senza provare nostalgia per ciò che ho lasciato.

Naturalmente cosmopolita e internazionalista hanno significati diversi. Il borghese, volendo fare affari con tutto il mondo, non può mostrare di avere preferenze per una particolare nazione, cioè per una particolare lingua, religione, alimentazione, usi e costumi. Semmai cerca protezione da parte del proprio Stato, se non riesce a guadagnare come vorrebbe.

Invece il proletariato deve essere internazionalista, poiché deve imparare ad aiutarsi a prescindere dalla nazione in cui vive. Cioè deve soprattutto evitare la trappola di combattere il proletariato straniero in nome della guerra a favore della propria nazione, secondo i desiderata della propria borghesia.

La borghesia infatti si è specializzata nel mandare a morire in guerra il proprio proletariato nazionale, quando non riesce a risolvere certe situazioni di grave crisi, e teme che le contraddizioni, se continuano ad acuirsi, potrebbero far scoppiare una guerra civile.

Non solo, ma anche in situazioni normali, non belligeranti, il proletariato, che lavora come schiavo salariato nelle fabbriche del capitale, diventa, che lo voglia o no, corresponsabile del colonialismo borghese fatto subire al Sud globale. Ci vuole una certa arte mistificatoria per ottenere un risultato così strabiliante.

Ecco, da questo punto di vista la borghesia è cosmopolitica proprio quando pensa di difendere i propri interessi di classe. Solo che per lo stesso motivo può diventare improvvisamente nazionalistica: questo succede quando per es. vuole dichiarare guerra a un'altra nazione borghese, oppure a un'altra nazione che ha abbracciato ideologie socialistiche o anticolonialistiche.

Le due guerre mondiali sono state disastrose per la classe del proletariato in tutte le nazioni, in quanto, salvo che in Russia, in nessuna nazione i dirigenti di sinistra sono stati capaci di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile. Il concetto di nazionalismo era talmente forte che i socialisti temevano di passare per traditori della patria, per approfittatori senza scrupoli.

La guerra civile veniva al massimo rimandata alla fine della guerra mondiale, e solo se la nazione aveva perso, oppure ottenuto una "vittoria mutilata", con cui veniva denunciata la mancanza di taluni compensi territoriali preventivati. Ma non si può certo dire che l'occupazione delle fabbriche in Italia nel primo dopoguerra, o la resistenza partigiana contro i nazifascisti, o la Repubblica di Weimar in Germania abbiano conseguito risultati davvero convincenti.

Generalmente, quando la nazione vinceva, gli statisti si limitavano a dire che le loro motivazioni erano state giuste; e le popolazioni, in cambio dei loro enormi sacrifici, si aspettavano dei risultati concreti, basati sulle promesse che all'inizio erano state fatte per convincerle ad arruolarsi.

Per molti secoli gli occidentali han cercato d'imporre il loro nazionalismo a tutto il mondo, ottenendo sempre esiti più o meno orribili. Le popolazioni preborghesi sono state schiacciate senza pietà, e il loro ambiente naturale è stato saccheggiato e devastato.

Conseguenza di ciò gli imponenti flussi migratori da parte del Sud colonizzato verso le metropoli occidentali. In questa maniera però il nazionalismo occidentale ha inevitabilmente perduto la sua identità originaria, la sua fisionomia culturale nativa.

Lottare contro questo processo di spersonalizzazione è assolutamente inutile. Noi l'abbiamo creato pretendendo un benessere esagerato in tempi brevi, e ora ne paghiamo le conseguenze.

Quando gli organi collegiali di una scuola italiana statale decidono di tenerla chiusa per un giorno, onde favorire una festività islamica, si vede che nelle classi gli studenti di quella religione costituiscono una presenza numericamente molto significativa. Opporsi a questo provvedimento, dicendo che la nostra cultura o tradizione è diversa o che non esiste reciprocità in un Paese islamico, significa vivere al di fuori della realtà. In questi casi si ha in mente un concetto di nazione paragonabile a quello di "etnia".

Insomma viviamo in un mondo talmente interconnesso che parlare di nazionalismo è semplicemente ridicolo. Abbiamo creato problemi così globali che solo stando tutti uniti potremo risolvere.


*


Zelensky straparla senza rendersi conto di quel che dice.

Si lamenta che l'occidente difende Israele anche se non fa parte della NATO e pretende di avere lo stesso sistema di difesa antimissile e i 60 miliardi di dollari promessi.

Non ha capito:

1- che l'attacco iraniano era solo dimostrativo e con le traiettorie dei mezzi concordate;

2- che l'Ucraina perderà la guerra comunque, perché non è solo questione di mezzi militari e finanziari ma anche di truppe e Kiev non ne ha a sufficienza;

3- che se la NATO intervenisse direttamente in Ucraina, la guerra sarebbe subito mondiale e in una guerra del genere le capitali europee non esisteranno più, inclusa Kiev;

4- che anche Israele ha perso la sua guerra.

Inoltre ha detto che l'Ucraina si difende da sola. In realtà da quando è iniziato il conflitto con la Russia non l'ha mai fatto.

Ha voluto semplicemente mettere le mani avanti: "se perderemo, sarà per colpa vostra". Errore: sarà solo per colpa tua, ché ti sei lasciato sedurre come un pivello.


22 aprile


L'inganno del PIL


Con gli indici settoriali e meramente quantitativi del prodotto interno lordo bisognerebbe smetterla.

Questa misurazione insensata, anzi truffaldina, del benessere materiale è stata escogitata dal Ministero del Commercio USA nel 1933, quindi pochi anni dopo la crisi borsistica del 1929.

In pratica la formula sommava i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica e le esportazioni nette. Vennero assurdamente escluse le attività umane non retribuite ma socialmente utili. Ancora oggi è così.

Negli stessi USA arrivarono a capire nel 1995 ch'era un indice del tutto astratto, incapace per es. di spiegare perché, a fronte di un aumento del PIL del 55%, il Paese aveva registrato nel periodo 1973-95 un decremento dei livelli salariali del 14%.

Scoprirono letteralmente l'acqua calda quando presero atto che il PIL non faceva distinzione tra attività che producono benessere e attività che lo riducono, e che neppure distingueva tra la quantità e la qualità della crescita economica.

Un Paese può subire tutti gli inquinamenti e i disastri naturali che vuole, può anche essere soggetto a una grande criminalità organizzata e può persino essere continuamente in guerra, ma il suo PIL resterà sempre un'altra cosa. Per es. attualmente, a causa del fatto che molti militari sono, da civili, degli esperti professionisti, in Israele il PIL è calato del 20%, ma possiamo scommettere che, finita la guerra, la ricostruzione di Gaza da parte degli israeliani farà risalire l'indice in brevissimo tempo. Anche perché il rialzo verrà messo in relazione a 1-2 anni prima, non ai decenni precedenti.

Oggi poi siamo al paradosso che l'Eurostat vorrebbe includere nel calcolo del PIL anche alcune attività illecite, quali il traffico di droga, la prostituzione e il contrabbando. Sarebbe una decisione davvero scriteriata, in quanto proprio l'attività criminale scoraggia i capitali stranieri a entrare in un Paese.

D'altra parte lo stesso PIL pro-capite non ha alcun senso, in quanto non mette il dato generale della ricchezza prodotta in rapporto coi criteri effettivi di distribuzione della stessa ricchezza. Il classico esempio è famoso: se tu mangi due polli e io niente, per la statistica ne mangiamo uno a testa. Basta vedere la situazione dell'India: il PIL è di gran lunga superiore a quello di USA e Cina, ma il 50% della popolazione beneficia di un misero 3% della ricchezza complessiva.

Questo poi senza considerare che non tutti i nostri bisogni sono quantificabili con precisione. Per es. una relazione sociale è un bisogno primario, ma non è certo misurabile economicamente. Il sociale e l'ecologico sono di gran lunga più importanti dell'economico per stabilire la qualità della vita. Tuttavia sotto il capitalismo i bisogni esistenziali non vengono conteggiati (al massimo lo è quello alimentare a causa dei prezzi di mercato), meno che mai lo sono quelli non solvibili, cioè quelli di chi non ha risorse monetarie o non le impiega per le mansioni che svolge. Quindi il volontariato (quasi 5 milioni in Italia) è escluso dal PIL, ma anche il lavoro domestico.

Abbiamo parlato dei bisogni alimentari, che possono essere facilmente conteggiati se il consumatore si rifornisce presso un centro commerciale (l'autoproduzione non fa testo). Anche altri servizi essenziali come le risorse idriche, elettriche, termiche, l'abitazione ecc. vengono regolati dalle dinamiche della domanda e dell'offerta. Tuttavia nessuno di questi servizi è un diritto assoluto, cioè incondizionato dalle disparità dovute alle condizioni economiche. Questo vuol dire che possono rientrare nei conteggi del PIL solo a discrezione dei poteri dominanti.

Non è un mistero per nessuno che la crescita economica italiana negli ultimi 20-30 anni è andata a beneficiare, in maniera sproporzionata, la fascia più ricca della popolazione, lasciando indietro il resto del Paese. Questa tendenza non è stata evidenziata dal PIL.

Forse il Benessere Equo e Sostenibile (un indice sviluppato dall'ISTAT e dal CNEL nel 2016) potrebbe essere uno strumento migliore per valutare i progressi di una nazione, ma va semplificato, per rendere meno complesso il meccanismo di calcolo.


Per favore non banalizziamo le cose


Sul monologo di Antonio Scurati censurato dalla RAI vorrei fare un breve commento.

Non è mai stato dimostrato che Mussolini fosse il mandante dell'omicidio di Matteotti. Un leader che prende il potere nell'ottobre del 1922 e che nel giugno del 1924 chiede di compiere un assassinio così eccellente, facilmente soggetto a una riprovazione internazionale, avrebbe dovuto avere capacità molto limitate. E sappiamo che questo va escluso a priori, se è vero che persino Lenin criticò i socialisti per essersi lasciati sfuggire una persona che avrebbe potuto compiere la rivoluzione proletaria.

In realtà dopo quel delitto Mussolini temeva enormemente che con un colpo di stato o una guerra civile il fascismo sarebbe morto nella culla.

E' evidente che il delitto è stato maturato in ambienti fascisti che lui non era ancora in grado di controllare. Dopodiché ha dovuto forzatamente assumersene la responsabilità morale. Anche la Meloni non è in grado di controllare tutto il neo-fascismo che la circonda, per cui certi suoi atteggiamenti di acquiescenza si possono capire.

Quanto al resto che dice Scurati, vorrei qui ricordare che non solo l'attuale governo ma l'intera Italia non ha mai fatto i conti col fascismo. Anzi non li ha fatti neppure la sinistra. Chi fu a favore dell'amnistia per quei fascisti che, pur avendo posizioni di potere, non si erano macchiati di delitti personali? Togliatti. Chi rinunciò a istituire un processo ai fascisti analogo a quello di Norimberga a carico dei nazisti? Togliatti. Chi approvò l'art. 11 della Costituzione che permetteva a una Chiesa filo-fascista di spadroneggiare come voleva? Sempre Togliatti.

In ogni caso prendersela soggettivamente con la Meloni quando la sua coalizione di governo è stata votata dagli italiani, non ha alcun senso. Lei non rappresenta solo se stessa, il suo passato ideologico, la sua formazione politica, ma rappresenta tutto un mondo culturalmente arretrato, politicamente retrivo, militarmente guerrafondaio. Anzi si potrebbe dire che sul piano economico il capitalismo privato che l'attuale governo difende a spada tratta, è del tutto inferiore al capitalismo statale difeso dal fascismo del ventennio.

Fonte: occhisulmondo.info


23 aprile


Tutta colpa della Serbia?


E' da un po' di tempo che si sta rivalutando la figura del serbo Slobodan Milošević. Anzi, ormai è evidente che le ragioni della disintegrazione della Jugoslavia vanno cercate in Europa occidentale, che si è servita della NATO per metterle in atto.

In nome dell'autodeterminazione dei popoli abbiamo permesso la fine di uno Stato socialista, dove peraltro esisteva l'autogestione operaia delle aziende (un caso più unico che raro, essendo in genere le aziende, nei Paesi socialisti, di proprietà statale). Da notare che la stessa autodeterminazione la neghiamo agli abitanti del Donbass, in quanto li vorremmo tutti filo-occidentali, non filo-russi.

Ancora oggi esistono analisti che attribuiscono ai Balcani l'origine di tutti i mali europei del '900. Gente dalla memoria corta. Basta vedere infatti che il conflitto tra francesi e tedeschi si è protratto per più di mille anni, senza poi dimenticare la guerra civile spagnola, la guerra tra inglesi e irlandesi, e così via.

Semmai anzi è stata la Serbia a giocare nel XIX sec., quando il declino dell'impero ottomano era evidente, un ruolo propulsivo ai fini della realizzazione di una grande nazione federale, in cui l'elemento islamico (che nel passato fu imposto dai turchi) smettesse di prevalere su quello cattolico e ortodosso.

Chi si oppose a questo disegno (per motivi politici) fu l'impero austro-ungarico, il quale, dopo l'unificazione tedesca nel 1871, si sentiva indotto a espandersi verso sud-est, nella speranza di arrivare a egemonizzare persino la Grecia. Infatti gli Asburgo tardo-feudali non volevano lasciarsi inglobare nella nuova nazione capitalistica nata grazie ai prussiani. D'altra parte neppure i serbi volevano lasciarsi fagocitare dall'espansionismo austro-ungarico.

Quella fu una delle cause scatenanti della prima guerra mondiale, che ancora oggi, con molta superficialità, i manuali scolastici attribuiscono all'eccidio di Sarajevo del principe ereditario Francesco Ferdinando.

Dopo la fine dell'impero asburgico le nazioni che si formarono sulle sue ceneri avevano delle Costituzioni chiaramente influenzate dalla Francia. In fondo l'Europa continentale, dopo la vittoria sugli inglesi nella guerra dei Cent'anni, è sempre stata considerata dai francesi un proprio "territorio di caccia". Gli inglesi, per avere delle colonie, dovevano rivolgersi altrove, così come gli olandesi, i belgi, gli italiani e gli stessi tedeschi.

Ancora oggi la grandeur demenziale di Macron aspira a risolvere militarmente il confronto tra europei e russi in Ucraina, come al tempo della guerra di Crimea del XIX sec. Si sono scordati i francesi che se nella seconda guerra mondiale i russi non avessero sconfitto i nazisti, mezza Francia, ancora oggi, sarebbe sotto il tallone dei tedeschi.

Tornando comunque alla ex Jugoslavia, oggi appare evidente che la sua disintegrazione fu voluta soprattutto dai tedeschi, proprio per ridurre al minimo l'influenza della Serbia, storicamente vicina agli interessi della Russia. Gli USA si accontentarono di installare una propria potente base militare nel Kosovo, giusto per far vedere che con la NATO non si scherza.


24 aprile


La Jugoslavia doveva morire


Il sito thegrayzone.com ha rivelato che, stando ad alcuni documenti declassificati del Ministero della Difesa britannico, vari funzionari a Londra complottarono per coinvolgere le truppe statunitensi in un piano segreto per occupare la Jugoslavia e rovesciare il presidente Milošević durante la guerra della NATO del 1999 contro il Paese.

Ancora oggi quella guerra viene definita dal mainstream occidentale come un intervento umanitario volto a prevenire un imminente genocidio della popolazione albanese del Kosovo. In realtà la guerra fu un'aggressione illegale e distruttiva, basata su menzogne e propaganda atroce, contro un Paese sovrano e multietnico. Belgrado era infatti impegnata in una battaglia contro l'Armata di Liberazione del Kosovo (KLA), un gruppo estremista legato ad Al Qaeda, sostenuto dai servizi segreti angloamericani (CIA e MI6).

Il KLA - finanziato dal traffico di droga e dal traffico di organi - cercava esplicitamente di massimizzare le vittime civili, al fine di convincere gli occidentali a intervenire. Solo nel maggio 2000 una commissione parlamentare britannica concluse che tutti i presunti abusi contro i cittadini albanesi da parte delle autorità jugoslave erano avvenuti dopo l'inizio dei bombardamenti della NATO. E solo nel settembre 2001 un tribunale dell'ONU a Pristina stabilì che le azioni di Belgrado in Kosovo non avevano alcuna natura genocidaria.

I caccia della NATO bombardarono per 78 giorni le infrastrutture civili, governative e 372 strutture industriali serbe, uccidendo oltre un migliaio di persone innocenti, inclusi i bambini, e distruggendo violentemente la vita quotidiana di milioni di persone (centinaia di migliaia rimasero senza lavoro). Fu bombardata anche l'ambasciata di Pechino a Belgrado, uccidendo tre giornalisti e ferendo dozzine di persone rifugiatesi all'interno.

La deliberata distruzione di impianti chimici ha inquinato suolo, aria e acqua nei Balcani con oltre 100 sostanze tossiche. Non a caso la Serbia oggi è leader mondiale nei tassi di cancro.

Da notare che il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia, quando indagò sul bombardamento a Belgrado della rete televisiva jugoslava RTS (in cui morirono 16 giornalisti e altri 16 rimasero feriti), giustificò il crimine sostenendo che l'azione serviva a interrompere la rete di comunicazione di Belgrado. Una giustificazione assurda, in quanto la RTS tornò in onda dopo appena tre ore.

Tony Blair e Bill Clinton furono i principali responsabili di questo eccidio. Lo dicono i documenti desecretati. In Italia c'era il governo D'Alema, di cui Mattarella era ministro alla Difesa.

Fu con quella guerra che la Russia ebbe chiara la percezione che la NATO avrebbe avuto intenzione di espandersi nell'Europa dell'est e di imporre a tutta l'Europa la volontà degli USA.

Quando dal Kosovo l'esercito serbo si ritirò, i combattenti fascisti dell'UCK procedettero a vessare se non a eliminare la popolazione rom e serba di quella regione (gli abitanti di Pristina passarono da 40.000 a soli 400 abitanti), sotto gli occhi "vigili" dei peacekeeper della NATO e dell'ONU.

Ancora oggi i politici nordamericani continuano a lodare i brutali leader dell'UCK. Nel 2010 l'allora vicepresidente Joe Biden definì l'indagato per crimini di guerra Hashim Thaci il "George Washington di Pristina".


25 aprile


Cosa festeggiamo oggi?


Lo sappiamo tutti che se Mussolini non fosse entrato in guerra, avremmo avuto il fascismo per almeno 40 anni, come in Spagna, e anche la monarchia. E il passaggio dal fascismo alla democrazia sarebbe stato indolore, come appunto in Spagna.

Perché il mezzo secolo di Democrazia cristiana non è forse stato un fascismo edulcorato dal moralismo cattolico e dal consumismo americano?

E il ventennio berlusconiano non è stato forse un fascismo oligarchico, che si è servito di un fascismo territoriale come quello dei leghisti?

La vogliamo capire che l'Italia è un Paese "fascista" dai tempi della teocrazia pontificia? Quei tempi in cui i papi organizzavano le crociate contro islamici, bizantini e slavi, e praticavano l'inquisizione contro i dissidenti interni?

L'Italia era "fascista" anche ai tempi della borghesia dei Comuni, delle Signorie e dei Principati. Infatti comandava una classe sociale che campava sfruttando il lavoro altrui (esattamente come gli aristocratici feudali), una classe profondamente razzista, che si era data una veste "democratica" solo sul piano formale e che diceva di professare ufficialmente il cattolicesimo.

Ancora oggi siamo fascisti. Il governo lo è in tutte le sue tre componenti.

Il fascismo, quando lo vediamo trasversale ai partiti, alle ideologie, alle concezioni etiche o filosofiche che abbiamo avuto in Italia, non vuol dire altro che dittatura, obbedienza, gerarchia, militarismo, discriminazione di genere, sfruttamento sociale, tendenze colonialistiche, diritto puramente formale, copertura giudiziaria di delitti eccellenti, poteri paralleli a quelli ufficiali, compromessi vergognosi, interessi esclusivi, verità inconfessabili, censura mediatica...

Poi ognuno può metterci dentro tutte le differenze relative che vuole: dallo Stato sociale alle privatizzazioni neoliberiste, dall'Europa unita alla sovranità nazionale, dalla NATO all'esercito europeo... La sostanza non cambia, tant'è che siamo ancora qui a dirci che la Russia ci minaccia, come lo facevamo al tempo degli zar. E lo dicono i partiti chiaramente di destra e quelli sedicenti di sinistra.

Il bello è che quando qualcuno dice che di questa ipocrisia non ne può più, ha in mente un repulisti generale che tanto somiglia ai metodi fascisti!


Gli aborigeni fanno ancora paura


Nell'ottobre 2023 gli australiani hanno votato un referendum voluto dal governo laburista che poneva tale quesito: "Approvi una proposta di legge che modifichi la Costituzione per riconoscere i primi popoli dell'Australia, istituendo una Voce aborigena e isolana dello Stretto di Torres?". La risposta è stata negativa.

Ma cosa c'è di così pericoloso nell'organismo chiamato "Voce degli Aborigeni e degli Isolani dello Stretto di Torres"?

In sostanza la maggioranza degli australiani non vuole che lo Stretto di Torres, con le sue isole, venga controllato dagli aborigeni.

The Voice sarebbe stato un organo meramente consultivo. Avrebbe fornito consulenza al Parlamento e al governo australiani su questioni che riguardano la vita delle popolazioni aborigene e delle isole dello Stretto di Torres (istruzione, sanità, edilizia abitativa, giustizia ecc.).

La Voce non avrebbe gestito il denaro, né avrebbe fornito servizi, né avrebbe avuto il potere di bloccare o porre il veto sulle linee politiche governative e sulle leggi parlamentari.

I membri sarebbero selezionati dalle varie comunità aborigene e isolane dello Stretto di Torres e avrebbero prestato servizio per un periodo di tempo determinato.

La Voce sarebbe stata soggetta a requisiti standard di governance e rendicontazione per garantire trasparenza e responsabilità. Inoltre non avrebbe conferito diritti a nessuno e non avrebbe cambiato o tolto i diritti a chi non fosse indigeno.

L'agenzia governativa National Indigenous Australians avrebbe continuato a esistere con funzioni diverse, quelle che servono per realizzare le politiche e i programmi del governo in carica.

Ebbene, nonostante tutto ciò, nonostante che la Voce sia - come è stato detto - "un movimento che va oltre la politica", gli aborigeni fanno ancora paura ai bianchi conservatori australiani, soprattutto quando non si limitano a rivendicare qualcosa a livello di "comunità locale".

E pensare che la Voce viene considerata molto moderata persino dagli stessi aborigeni del movimento sovranista Blak (BSM), per il quale il colonialismo razzista non è mai finito e la Costituzione va definita come "illegale".

Fonte: niaa.gov.au


26 aprile


La UE come la Jugoslavia?


La Jugoslavia diventò uno Stato nazionale indipendente solo nel XX sec., dopo aver combattuto contro turchi-ottomani, austro-ungarici, tedeschi-prussiani, nazi-fascisti. Il patriottismo si confuse col nazionalismo, cercando di superare le differenze etniche dovute a lingue, religioni (cristiano-ortodossi, cattolico-romani, islamici), usi e costumi.

La Jugoslavia nacque anche per un'altra ragione: Francia e Gran Bretagna volevano escludere il blocco tedesco (Germania e Austria) e la Russia dalla geopolitica del mare Adriatico. Se fosse dipeso esclusivamente dalle realtà etnico-nazionali, difficilmente sarebbe nato un unico Stato nazionale, meno che mai se configurato in maniera centralistica.

La causa scatenante della disintegrazione del Paese è stata la fine della guerra fredda, che ha indotto l'Europa occidentale a togliere di mezzo uno Stato socialista, considerato anomalo nel continente. Tito, ch'era un croato-sloveno di nascita, aveva saputo tenere unite tutte le etnie, ma dopo la sua morte, nel 1980, le cose iniziarono a degenerare.

La Jugoslavia sotto Tito era una dittatura? Forse. Di sicuro, a partire dal 1948, aveva smesso d'essere filo-sovietica, optando per il non-allineamento. La cultura circolava più liberamente che in altri Stati socialisti. Le librerie esponevano tranquillamente opere di autori stranieri. I teatri erano aperti alla sperimentazione estetica e alla critica sociale. La cosiddetta "onda nera" del cinema jugoslavo offriva una decisa resistenza al monolitismo politico. Ma soprattutto si favorì una inedita autogestione dei mezzi produttivi, sostenendo che lo Stato doveva progressivamente mettersi da parte, onde evitare il burocratismo tipico dei piani quinquennali di marca sovietica.

Tutto questo finì per colpa di quattro Stati: Germania, USA, Regno Unito e Francia, che riconobbero immediatamente l'illegale e unilaterale secessione di Slovenia, Croazia e, in seguito, della Bosnia (le quali avrebbero potuto ottenere la loro indipendenza in Parlamento, come successe per la Cecoslovacchia, invece che con una guerra). Volevano l'introduzione del capitalismo, e quindi la privatizzazione di tutti i mezzi produttivi.

Poi la stampa occidentale fece di tutto per dipingere i serbi come un popolo disumano. Tant'è che tra le vittime di etnia serba ci sono stati tantissimi civili, inclusi bambini, anziani e donne, in quantità notevolmente superiore che nei croati e nei musulmani.

Ora la domanda è: quello che è successo alla Jugoslavia potrebbe accadere all'Unione Europea, priva com'è di un vero governo politico, di un parlamento che conti qualcosa, di una Costituzione condivisa, di una politica fiscale comune e soprattutto di una politica estera indipendente da quella americana?


27 aprile


Cosa insegna l'esperienza della ex Jugoslavia?


Quando fu creata la nuova Jugoslavia repubblicana nel secondo dopoguerra, il modello era quello del socialismo statale di tipo sovietico.

Tito, il leader carismatico che, col suo forte esercito di partigiani, era riuscito a liberarsi da solo dei nazifascisti, pareva essere un uomo di Stalin.

Etnie e nazionalità venivano nettamente subordinate alle esigenze di uno Stato centralista; fu liquidato il sistema pluripartitico; furono confiscate le proprietà ecclesiastiche (soprattutto quelle cattoliche); fu nazionalizzata la proprietà privata della gran parte dei mezzi produttivi. La Jugoslavia fu considerata una potenza vincitrice, le cui rivendicazioni territoriali andavano soddisfatte.

Tuttavia già nel 1948 avvenne la rottura tra Mosca e Belgrado. Tito s'accorse subito che la Jugoslavia era un Paese troppo debole economicamente per poter funzionare come l'URSS; era anche troppo caratterizzato sul piano etnico-regionale perché si potesse imporre dall'alto il sistema socialista. Gli obiettivi prefissati erano troppo ambiziosi.

Il federalismo affermato in sede costituzionale rispecchiava le storiche divisioni nazionalistiche, che fruivano di una certa autonomia amministrativa, con tanto di diritto alla secessione. Prevalevano nettamente le identità serba e croata (anche sul piano linguistico), ma Tito, per impedire la nascita di tensioni etniche, cercò di valorizzare le minoranze slovene, macedoni e montenegrine.

Dopo la morte di Stalin, Krusciov ricucì lo strappo con Belgrado, ammettendo che potevano esserci vari modi per realizzare una società socialista. In particolare si convenne sull'idea di sperimentare dei consigli consultivi dei lavoratori, finalizzati a una forma autogestita dei mezzi produttivi, nell'ambito di un socialismo mercantile, che prevedesse anche una certa liberalizzazione dei prezzi e dei salari.

In sostanza si voleva porre una significativa differenza tra i termini "statale" e "sociale" (o "pubblico"). Il decentramento economico nel governo societario delle imprese implicava lo smantellamento progressivo del ruolo dirigenziale dello Stato (fatte salve, ovviamente, le funzioni militari). Inevitabilmente aumentava il ruolo delle varie repubbliche e, all'interno di queste, quello dei vari Comuni. Il federalismo regionale sembrava essere in grado di sostituire il centralismo statale. Non si era mai vista una cosa del genere nell'ambito del socialismo.

Purtroppo si cominciarono a fare errori di capitale importanza. Siccome l'autogestione permetteva un benessere sconosciuto ai Paesi del blocco sovietico, il desiderio di aumentarlo ancora di più fece il resto.

Le varie repubbliche iniziarono ad avvicinarsi all'occidente. Si firmarono accordi commerciali e militari, si chiesero prestiti finanziari, si istituirono rapporti con la sinistra non comunista. Forse non fu un errore costituire il movimento non allineato, ma era sicuramente illusorio pensare che tra socialismo e capitalismo potesse esserci una "terza via".

L'unità delle varie popolazioni cominciò a scricchiolare. Le ultime tre strutture centralizzate (Lega dei comunisti, esercito e polizia segreta) riuscirono a mantenere una unità forzosa solo fino a quando non morì Tito (1980). Ma di fronte ai crescenti problemi sociali ed economici si svilupparono forme estremistiche di potere, soprattutto tra serbi e croati.

Dunque cosa ci insegna l'esperienza della ex Jugoslavia?

1) L'unione di più etnie, divise per lingua, religione e tradizioni varie, non può essere qualcosa di artificioso imposto dall'alto o dall'esterno. O tutte vi concorrono liberamente, cercando soprattutto ciò che unisce, oppure è meglio restare divisi.

2) Una nazione non può essere tenuta unita da un leader eccezionale (come per es. Tito). Se ciò avviene è perché la democrazia non funziona. Qualunque culto della personalità andrebbe sapientemente impedito.

3) Se per fare una separazione di tipo etnico-nazionalista ci si appoggia a forze esterne (per es. occidentali), possiamo star certi che, a separazione ottenuta, queste stesse forze avranno un potere prevalente su tutto.

4) Uno Stato federalista è sempre da preferire a uno Stato centralista, in quanto agevola il processo di democratizzazione delle masse popolari, ma è evidente che ciò richiede un maggior impegno a rispettare le diversità e le esigenze di tutti gli attori coinvolti.


28 aprile


La guerra è orribile


La guerra è una cosa orribile, che solo delle persone orribili possono desiderare o amare.

Posso capire una guerra difensiva, ma contro chi scatena una guerra offensiva o contro chi trama per renderla inevitabile, tutto il mondo dovrebbe insorgere.

Posso capire chi si arruola in qualche forza armata per una passione personale, per una tradizione di famiglia, o perché convinto di svolgere un servizio da patriota, o perché proviene da ambienti marginali, deprivati, e ha bisogno di riscattarsi, non avendo alternative praticabili, sufficientemente credibili.

Ma il mercenario, che combatte individualmente solo per soldi, senza alcun ideale specifico, mi fa ribrezzo, soprattutto se dispone di altre chances per vivere. Né sopporto chi si arruola solo per fare carriera, per avere soldi facili e privilegi di ogni sorta e per andare in pensione il più presto possibile.

Il militare si ritiene un intoccabile per definizione, si esalta in nome della propria presunta inviolabilità. Non si fa venire molti scrupoli quando deve compiere azioni terroristiche o quando deve sottoporre a tortura qualcuno per qualsivoglia esigenza. Sa che verrà sempre protetto, sa che non subirà mai conseguenze come se fosse un civile.

Quando si fa la guerra, l'etica si riduce al minimo: o muori te o muoio io. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Col nemico non si fraternizza mai. La natura può essere devastata come vogliamo. In nome del nazionalismo tutto è lecito. I mass media staranno sempre dalla nostra parte.

I politici, i giornalisti e gli statisti che mandano a morire intere popolazioni, proprie e altrui, sono dei criminali che andrebbero giudicati da tribunali internazionali e severamente puniti. Andrebbero completamente privati dei loro beni e delle loro funzioni.

Gli Stati che scatenano guerre senza alcun mandato dell'ONU, dovrebbero essere espulsi da questo organismo, anche se fanno parte del Consiglio di Sicurezza. Anzi questo stesso Consiglio dovrebbe essere completamente rimpiazzato dall'Assemblea Generale di tutte le popolazioni del mondo. Il Consiglio dovrebbe avere soltanto una funzione esecutiva di delibere decise dalla suddetta Assemblea.

La guerra è una mostruosità, poiché coi mezzi bellici di oggi non si riesce più a fare differenza tra civile e militare, da adulto e bambino, tra uomo e donna. Si sparano colpi mortali a distanza di centinaia o migliaia di chilometri, senza vedere in faccia il nemico, nella vaga speranza di essere precisi al massimo possibile, per non incorrere nelle critiche pubbliche.

Ma forse più ancora pericolosa della guerra è l'ingiustizia sociale, sono i trattati pacifici non rispettati, sono i colpi di stato, le guerre civili che avvengono al cospetto dell'indifferenza del mondo, sono gli omicidi di persone eccellenti, cui si vuole impedire di governare... Tutte queste cose sono più piccole di una guerra vera e propria, eppure sul piano etico sono equivalenti. Istigare all'omicidio o compierlo, essere un killer o un mandante, dare un ordine infame o eseguirlo non sono differenze che la coscienza umana è tenuta a considerare come abissali.


29 aprile


La fine immeritata di Gorbaciov


Nel 2021 Rossano Pancaldi diede sulla rivista "Slavia" (n. 3) una sintesi impeccabile della Russia post-stalinista.

Confermò che la vera novità, dopo il periodo di stagnazione di Brežnev, Andropov e Černenko, fu costituita dalla dirigenza di Gorbaciov. Fu lui a capire che lo scollamento tra istituzioni e società stava portando il Paese al baratro e che i metodi stalinisti, nella sostanza, non erano mai stati superati.

Gorbaciov dovette affrontare problemi enormi, che il potere politico nascondeva in nome del proprio autoritarismo. Fu il primo ad avviare una vera democratizzazione del sistema politico, permettendo libere elezioni e il multipartitismo, sganciando le funzioni del Pcus da quelle dello Stato e dell'economia. Favorì ciò che i russi avevano conosciuto solo nel breve periodo di Lenin: la libertà del dissenso e la Nuova Politica Economica, che lo stalinismo aveva eliminato con molta fretta.

Gorbaciov non voleva affatto ripristinare il capitalismo, ma dare al socialismo una veste chiaramente democratica, autogestita dalla società, capace di rendere il sistema efficiente e trasparente.

Voleva una struttura economica mista, in cui la gestione pianificata dall'alto si misurasse con una gestione privata di taluni mezzi produttivi. Il libero mercato non doveva essere completamente abolito.

Per tenere questo suo progetto sociale nella giusta direzione, dovette combattere sia il vecchio conservatorismo (e successivamente si dispiacque di non averlo fatto con la dovuta autorevolezza), sia il nuovo radicalismo ultraliberistico. Gli stalinisti lo giudicavano troppo democratico; gli altri troppo poco.

Pose fine alla minaccia nucleare e alla guerra fredda, lasciando sconcertati gli americani, abituati ad avere dei nemici da combattere. Ritirò i soldati dall'Afghanistan, dall'Africa e da Cuba. Ridusse unilateralmente gli armamenti della Russia, le forze armate dei Paesi est-europei. Eliminò le armi chimiche. Chiuse i contenziosi ideologici con Cina e Jugoslavia. Permise la riunificazione delle due Germanie, chiedendo solo che la NATO non si espandesse a est (una promessa che al tempo di El'cin non fu mantenuta).

Si fidava più dei nemici esterni che di quelli interni. Sciolse persino il Patto di Varsavia, sperando che la NATO facesse altrettanto. Era un idealista molto ingenuo, ma il mondo intero lo vide come un potente faro ad alta luminosità. Chi non capì l'importanza storica della perestrojka e della glasnost, non capiva nulla di democrazia.

Permise il rientro dei dissidenti, aprì gli archivi storici e favorì la pubblicazione di opere un tempo vietate. Concesse le prime elezioni libere a suffragio universale per la carica della Presidenza dell'URSS, che furono vinte dal radicale El'cin, che da allora divenne il suo più acceso rivale.

A questo punto furono i neostalinisti a organizzare il golpe per potersi liberare di lui. Il pretesto era che l'URSS aveva smesso d'essere una grande potenza. Ben otto collaboratori molto vicini a lui lo tradirono.

Il colpo di stato militare fu sventato dalla resistenza dei democratici e dei radicali guidati da El'cin, il quale però, a partire da quel momento, cominciò a togliere a Gorbaciov tutti i poteri. Non solo, ma dichiarò illegale il Pcus e proibì i finanziamenti a tutti i partiti comunisti del mondo.

El'cin iniziò un processo di distacco delle Repubbliche dal potere centrale. Più di 20 milioni di russi si trovarono improvvisamente al di fuori dei confini della nuova Federazione Russa. E oggi sappiamo questo cosa può comportare quanto i Paesi che li ospitano cominciano a perseguitarli.

L'URSS era morta proprio per colpa di chi voleva conservarla con la forza. E di questo collasso approfittarono i radicali liberisti, cioè gli elementi peggiori del Paese, quelli più vicini alla nuova "dittatura borghese" di El'cin, quelli che permisero all'occidente d'impadronirsi di una inaspettata manna piovuta dal cielo. In fondo succede spesso così: quando non si riesce a ottenere qualcosa in maniera democratica, gli estremisti sfruttano le istanze popolari per volgerle a favore di gruppi che ambiscono ad avere tutti i privilegi e che non si preoccupano minimamente di mandare in miseria milioni di persone.

Il popolo ex-sovietico però fece un errore clamoroso: cominciò ad accusare del fallimento dell'URSS non solo El'cin ma anche Gorbaciov. E da allora non ha più smesso di farlo.


30 aprile


Una democrazia forte viene decisa dalla popolazione


Nell'immaginario collettivo del popolo russo ancora oggi domina una narrativa che, per certi aspetti, è mitologica.

1) Prima di Gorbaciov esisteva un Paese stabile, sviluppato e potente;

2) gli oligarchi, appoggiati da agenti dei servizi segreti stranieri hanno iniziato un percorso di riforme economiche e politiche che hanno portato il Paese alla catastrofe;

3) nel 1999-2000 sono salite al potere delle persone (la prima delle quali è Putin) che hanno riportato le cose alla normalità.

Quando si è abituati a obbedire, le idee vedono solo una parte dei problemi. Per es. l'agricoltura è sempre stata inefficiente nell'URSS stalinista e post-stalinista. La veloce urbanizzazione pretesa da uno stalinismo che sul piano industriale voleva competere coi Paesi avanzati del capitalismo, per dimostrare che non aveva paura di nessuno, non poteva essere soddisfatta da una agricoltura dove milioni di contadini, contrari alla forzata collettivizzazione, erano stati sterminati (per non parlare di quelli che avevano abbandonato la terra, preferendo trasformarsi in operai).

Agli inizi degli anni '60 l'URSS era economicamente isolata dal mondo, priva di un'industria leggera e con la popolazione che stava ore in attesa davanti ai negozi alimentari.

Nel 1965 e nel 1973, con le riforme Kosygin, si cercò di dare una maggiore indipendenza economica alle imprese, favorendo gli incentivi materiali, e una maggiore autonomia agli enti locali e regionali, ma, in definitiva, il regime preferì la stagnazione.

Quando arrivò al potere Gorbaciov, la situazione economica era già disperata. Tuttavia il vero problema è che non gli si diede il tempo di varare alcuna vera riforma economica. A differenza di El'cin, Gorbaciov non ebbe mai l'idea di stravolgere le basi collettivistiche del socialismo.

Solo dopo il 1991, con l'implosione dell'URSS, si avviò un processo accelerato di privatizzazione neoliberista che portò il Paese alla bancarotta: pochi oligarchi ultraricchi a fronte di milioni di persone alla fame.

Quando arrivò Putin a sistemare le cose, la popolazione finì col considerare El'cin una conseguenza inevitabile di Gorbaciov.

I russi non sono abituati alla democrazia. Han sempre bisogno di un leader autoritario, anche perché, non avendo mai avuto tradizioni di imprenditoria privata, non possono fare a meno di una certa protezione statale. Cosa che El'cin non era assolutamente in grado di garantire.

La liberalizzazione incontrollata dei prezzi, la privatizzazione selvaggia di tutto il settore industriale, svenduto a prezzi ridicoli, la corruzione dei governatori delle varie regioni, la crescente criminalità organizzata, il collasso del sistema finanziario federale, la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi imprenditori e la crisi finanziaria che colpì il Paese nel 1998 non furono una conseguenza della perestrojka, ma delle riforme di quello sciagurato di El'cin e del suo entourage, ostaggi in mano alla nascente oligarchia del settore energetico.

La Federazione Russa dovrebbe chiedersi sin da adesso quale sarà il suo destino dopo la fine del putinismo. In fondo il pragmatico Putin è riuscito a conciliare magistralmente le esigenze statali con quelle private, e in politica estera ha mostrato molto buon senso e accortezza.

Tuttavia l'economia di un grande Stato come la Russia non può dipendere dalle qualità soggettive del proprio Presidente. Né può basarsi sull'enorme abbondanza delle risorse energetiche. Prima o poi gli abitanti di questo gigantesco Paese dovranno tornare a capire che non c'è futuro senza socialismo, e che il vero socialismo, quello democratico, non può certo essere imposto dall'alto.

Gorbaciov era un debole? Forse, ma era anche la popolazione a non essere pronta per una democrazia forte.


Maggio




1 maggio


Il Cuore di Uluru


La "Dichiarazione del Cuore di Uluru", stilata dalle tribù aborigene e isolane dell'Australia nel 2017, ha qualcosa di struggente, che dovrebbe far capire non solo all'occidente razzista e colonialista, ma all'intero pianeta quanto sia relativo il progresso dell'umanità. (Uluru è il nome della grande pietra che i bianchi chiamano Ayers Rock, oggi gestita dagli aborigeni).

Infatti queste tribù si sentono ancora unite ai loro antenati, che secondo la scienza hanno più di 60.000 anni. Il legame è così forte che non possono rinunciare al mandato ricevuto di conservare la sovranità di quel continente.

La sovranità per loro è un concetto spirituale, che non può estinguersi né cedersi, in quanto esclude la proprietà privata. La terra è "madre natura", che ha generato tutti gli aborigeni. Il legame tra terra e popolazione è eterno, anche se il colonialismo britannico pretende da 200 anni di renderlo vano, irrilevante.

Infatti, se è vero che il colonialismo si è basato fino al 1992 sull'assurdo principio della "terra nullius" (secondo cui l'Australia per gli inglesi era una terra di nessuno, legittimamente occupabile), è anche vero che dopo quella data è stato restituito poco agli indigeni, che oggi rappresentano il 3,8% della popolazione australiana, per un totale di circa 984.000 persone, di cui il 33% sotto i 15 anni. Più della metà di questa popolazione risiede nelle città, spesso in condizioni terribili nelle periferie più degradate (lo dimostrano il tasso di suicidi e di mortalità infantile molto superiori a quelli del resto della popolazione).

Una delle peggiori tragedie per i giovani aborigeni continua ad essere la questione dei Morti in Custodia. Solo nel 2022-2023 ci sono stati 110 decessi: settanta in custodia carceraria e quaranta in custodia di polizia o in operazioni legate alla custodia. Le morti di aborigeni in custodia sono una questione politica e sociale in Australia. La questione divenne importante all'inizio degli anni '80, con gli attivisti aborigeni che fecero una campagna in seguito alla morte del sedicenne John Peter Pat nel 1983. Le successive morti in custodia, considerate sospette dalle famiglie del defunto, culminarono nella Commissione Reale sulle morti degli aborigeni in custodia, del 1987 (RCIADIC).

Gli esperti stimano che il numero degli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres fosse superiore a 770.000 al momento dell'invasione della prima flotta inglese nel 1788 (fu il capitano James Cook a rivendicare la terra australiana nel 1770). Nel 1900 gli aborigeni erano già scesi al minimo storico di circa 117.000 persone, con un calo dell'84%.

Gli indigeni denunciano di essere, fatte le debite proporzioni, le persone più incarcerate del pianeta, come se fossero criminali per nascita. I loro figli vengono allontanati dalle rispettive famiglie a un ritmo senza precedenti, per affidarli alle famiglie dei bianchi o ai collegi dei missionari. E i loro giovani languiscono nelle carceri in un numero osceno.

Si sentono impotenti e temono che, se le cose vanno avanti così, per loro non ci sarà alcun futuro.

Chiedono riforme costituzionali che possano garantire giustizia e autodeterminazione, ma i conservatori australiani non ne vogliono sapere. E gli aborigeni non sanno che farsene di leggi governative che possono essere smentite da un cambio di governo.

Le prime scuse da parte del governo per aver depredato gli aborigeni delle loro risorse risalgono al 2008. Ma la fine del razzismo, formalmente, avviene solo nel 2013.


La "Dichiarazione del Cuore di Uluru", stilata dalle tribù aborigene e isolane dell'Australia nel 2017, ha qualcosa di struggente, che dovrebbe far capire non solo all'occidente razzista e colonialista, ma all'intero pianeta quanto sia relativo il progresso dell'umanità. (Uluru è il nome della grande pietra che i bianchi chiamano Ayers Rock, oggi gestita dagli aborigeni).

Infatti queste tribù si sentono ancora unite ai loro antenati, che secondo la scienza hanno più di 60.000 anni. Il legame è così forte che non possono rinunciare al mandato ricevuto di conservare la sovranità di quel continente.

La sovranità per loro è un concetto spirituale, che non può estinguersi né cedersi, in quanto esclude la proprietà privata. La terra è "madre natura", che ha generato tutti gli aborigeni. Il legame tra terra e popolazione è eterno, anche se il colonialismo britannico pretende da 200 anni di renderlo vano, irrilevante.

Infatti, se è vero che il colonialismo si è basato fino al 1992 sull'assurdo principio della "terra nullius" (secondo cui l'Australia per gli inglesi era una terra di nessuno, legittimamente occupabile), è anche vero che dopo quella data è stato restituito molto poco agli indigeni, che oggi rappresentano il 3,8% della popolazione australiana, per un totale di circa 984.000 persone, di cui il 33% sotto i 15 anni. Più della metà di questa popolazione risiede nelle città, spesso in condizioni terribili nelle periferie più degradate (lo dimostrano il tasso di suicidi e di mortalità infantile molto superiori a quelli del resto della popolazione).

Gli esperti stimano che il numero degli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres fosse superiore a 770.000 al momento dell'invasione della prima flotta inglese nel 1788 (fu il capitano James Cook a rivendicare la terra australiana nel 1770). Nel 1900 gli aborigeni erano già scesi al minimo storico di circa 117.000 persone, con un calo dell'84%.

Gli indigeni denunciano di essere, fatte le debite proporzioni, le persone più incarcerate del pianeta, come se fossero criminali per nascita. I loro figli vengono allontanati dalle rispettive famiglie a un ritmo senza precedenti, per affidarli alle famiglie dei bianchi o ai collegi dei missionari. E i loro giovani languiscono nelle carceri in un numero osceno.

Si sentono impotenti e temono che, se le cose vanno avanti così, per loro non ci sarà alcun futuro.

Chiedono riforme costituzionali che possano garantire giustizia e autodeterminazione, ma i conservatori australiani non ne vogliono sapere. E gli aborigeni non sanno che farsene di leggi governative che possono essere smentite da un cambio di governo.

Le prime scuse da parte del governo per aver depredato gli aborigeni delle loro risorse risalgono al 2008. Ma la fine del razzismo, formalmente, avviene solo nel 2013.


2 maggio


Rimpiango il passato


In un mondo in cui l'occidente collettivo non si rassegna a uscire dalla storia in maniera pacifica, rimpiango fortemente il periodo di Gorbaciov, quando si parlava di valori universali, di casa comune europea, di interessi comuni, diversi da quelli di classe o nazionali, che pur sono non meno oggettivi.

Lui aveva ben chiaro che nelle condizioni di una minaccia nucleare, letale per l'intera umanità, o di una catastrofe ambientale di proporzioni planetarie, l'obiettivo principale doveva essere quello di salvaguardare la vita del genere umano, cercando intese o compromessi vantaggiosi per tutti.

Ricordo bene quando diceva che una politica che non tiene conto delle riflessioni sui destini dell'umanità, è una politica priva di etica.

Era forse un ingenuo? Un idealista? Un utopista? Forse. Ma chi non capisce l'importanza storica del suo messaggio, in virtù del quale milioni di persone poterono finalmente sentirsi libere, o almeno fiduciose in un mondo migliore, non capisce nulla di democrazia.

Nella sua autobiografia, Ogni cosa a suo tempo, Gorbaciov disse che la perestrojka (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza) non fecero soltanto uscire i Paesi del blocco sovietico dall'isolamento in cui si erano cacciati, ma stimolarono anche spinte progressiste in tutto il mondo. Si capì l'importanza della libertà di coscienza e di parola, nonché l'esigenza di un sistema economico misto.

In Russia si pose fine al monopolio del partito e dell'ideologia unici. Centinaia di migliaia di persone, ingiustamente condannate sotto lo stalinismo, furono riabilitate. Si rifiutò la politica di contrapposizione dei blocchi e la divisione del mondo in "noi" e "loro". Si dimostrò ch'era una contraddizione in termini parlare di "Stato di tutto il popolo", poiché un popolo, quando è padrone dei propri mezzi produttivi, non ha bisogno di alcuno Stato, essendo in grado di autogestirsi.

Mi chiedo che senso abbia incolpare Gorbaciov se l'occidente collettivo interpretò questa svolta democratica come una sconfitta dell'URSS, cioè come l'occasione buona per approfittare della sua debolezza.

L'implosione del socialismo statale non è stata fatta pagare ai Paesi capitalisti: non ci sono state guerre mondiali o anche solo regionali. L'occidente ha pensato che quella rivoluzione del pensiero e dei valori dovesse riguardare solo i Paesi socialisti e non anche se stesso.

Ricordo bene quando dicevamo che "noi" ci sentivamo già liberi; semmai erano "loro" che dovevano cambiare. E siccome pensavamo di aver "vinto" la guerra fredda, ci sentivamo autorizzati a imporre alla Russia il nostro stile di vita, trovando in quello sciagurato di El'cin e negli oligarchi, divenuti padroni delle risorse energetiche, i nostri partner privilegiati. Non ci sembrava vero di poter allargare il numero delle basi NATO verso est.

Per noi non si doveva tanto "democratizzare il socialismo", quanto piuttosto trasformarlo in un capitalismo privato a tutti gli effetti, e in tempi il più possibile accelerati. Dal 1991 (crollo dell'URSS) ad oggi abbiamo creduto d'essere invincibili, immortali, come certe figure mitologiche dell'antica Grecia.

Ora però, dopo non aver capito che quel messaggio di pace, democrazia e pluralismo non riguardava solo "loro" ma anche "noi", scopriamo improvvisamente che i nostri sogni ad occhi aperti si sono infranti. La Federazione Russa non accetta d'essere colonizzata dall'occidente, anzi, è pronta a sostenere un qualunque conflitto bellico con la NATO.

La Cina (ma sarebbe meglio dire l'Asia in generale) ha dimostrato d'essere più produttiva dell'intero occidente. Il capitalismo mondiale è sempre meno a guida americana; e sempre di meno sono i Paesi disposti a sopportarlo.

Stanno emergendo con forza dei centri di potere che noi occidentali avvertiamo come una minaccia alla nostra egemonia mondiale. E li accusiamo di voler violare i nostri "valori", quei valori che abbiamo imposto al mondo intero, facendo credere che fossero "universali".

Il crollo dell'occidente è in fondo il crollo di una gigantesca illusione, alimentata da mezzo millennio di soprusi. Quel che più mi meraviglia di noi occidentali è che quando ci infiliamo in un tunnel perverso, non siamo più in grado di uscirne.


3 maggio


Una politica serva dell'ideologia


Quando si leggono le analisi che taluni movimenti trotzkisti (eredi della Quarta Internazionale) fanno dell'attuale situazione in Ucraina, si resta abbastanza sconcertati.9 In nome del socialismo scientifico fanno una cosa che i classici del marxismo non avrebbero mai fatto: subordinare la politica all'ideologia. Perdono il senso della realtà, come certe sette religiose o i fanatici del globalismo neoliberista.

Vediamo le principali sviste:

1) Danno pochissima importanza al golpe di Maidan del 2014, che rovesciò un governo democraticamente eletto. Né vedono che il golpe fu guidato e finanziato dagli USA, con l'impegno fattivo delle forze neonaziste di Kiev, che hanno come loro "idolo" Stepan Bandera. I reggimenti Azov e Aidar furono armati e addestrati da militari americani e canadesi. Anzi l'intera NATO ha esercitato le forze ucraine per entrare in guerra contro la Russia.

2) Ignorano l'uccisione di oltre 60 sindacalisti a Odessa. Arseniy Yatsenyuk, il premier incaricato da Victoria Nuland dopo il colpo di stato, non solo sostenne l'assalto all'edificio del sindacato, ma bloccò ogni tentativo di avviare un'indagine sulla strage.

3) Non danno nessun peso alle discriminazioni e alla guerra civile che le popolazioni del Donbass hanno subìto dal 2014 fino all'inizio dell'intervento armato dei russi. Né fanno cenno ai due Accordi di Minsk, e tanto meno alle dichiarazioni choc della Merkel e di Hollande, che firmarono solo per dare tempo agli ucraini di armarsi.

4) Affermano che l'Ucraina ha il diritto all'autodeterminazione, senza capire che se Mosca poteva accettare l'ingresso del Paese nella UE, non poteva assolutamente accettare che entrasse anche nella NATO. La stessa Dottrina Monroe degli USA sostiene che qualsiasi intervento o posizionamento di armi da parte di potenze straniere vicino ai suoi confini viene giudicato come un atto potenzialmente ostile.

5) Sembrano non sapere, proprio come gli statisti europei, che la Russia da anni ricerca un patto di sicurezza nazionale con gli Stati Uniti e la NATO, senza averlo mai ottenuto.

6) Fingono di non sapere che il governo di Zelensky è nettamente antioperaio, essendo del tutto favorevole agli oligarchi. La stessa UE, prima della guerra, lo considerava particolarmente corrotto.

7) Equiparano assurdamente Russia e USA sul piano imperialistico, quando se c'è un Paese circondato da basi militari americane è proprio la Russia (ora si trovano anche in Svezia e Finlandia).

8) Incredibilmente non hanno capito che questa non è una guerra tra Russia e Ucraina, ma tra Occidente collettivo e Russia, e quindi è una guerra per procura, che può anche trasformarsi in una guerra nucleare, nel caso in cui si verifichi una disfatta dell'esercito ucraino. Questa non è una guerra di aggressione da parte della Russia, ma di protezione di una minoranza russofona perseguitata e di difesa del proprio territorio dai missili della NATO.

9) Chiedono che la Russia fermi la guerra e lasci l'Ucraina anche senza un accordo negoziato. In questa maniera però la guerra non finirebbe mai. Non finirebbe neppure se la Russia si tenesse il Donbass e il resto del Paese passasse sotto la NATO.

10) Sono convinti, nella maniera più ridicola possibile, che se l'Ucraina vince la guerra, la classe operaia caccerà gli oligarchi e i fascisti e la NATO dal Paese. Si è visto infatti cosa ha fatto la classe operaia ucraina del 2014 ad oggi... Chi le impedisce di rovesciare la giunta fascista che comanda a Kiev? Non fa una rivoluzione perché teme che se ne approfitti la Russia o non la fa perché accecata da un assurdo nazionalismo russofobico? Putin ci ha messo 8 anni prima d'intervenire in soccorso delle due minuscole repubbliche di Donetsk e Luhansk, e a volte si pente di averci messo così tanto tempo.


4 maggio


Verità ed evidenza


Che la verità non stia nell'evidenza è cosa arcinota agli studiosi. Lo stesso Marx diceva che se le leggi del capitale fossero facilmente comprensibili, non avrebbe speso metà della sua vita a cercare di decifrarle.

Quando scrisse i tre volumi del Capitale (due dei quali pubblicati dall'amico Engels), Marx era convinto d'aver compreso non solo l'essenza del capitalismo, ma tante di quelle sue particolari leggi ch'era in grado di anticipare l'evoluzione del sistema.

Eppure proprio sotto i suoi occhi stava avvenendo la trasformazione del capitalismo da concorrenziale a monopolistico, e nell'ambito di quest'ultimo gli aspetti finanziari stavano diventando più importanti di quelli industriali. Ci vorranno altri eminenti economisti per colmare la lacuna.

Lo stesso Marx, dopo aver pubblicato il primo volume del Capitale, si rese conto, di fronte alle critiche che gli provenivano dai populisti russi, ch'era sbagliato considerare inevitabile la transizione dal feudalesimo al capitalismo. In Russia, in nome della comune agricola emancipata dal servaggio, si poteva passare direttamente al socialismo. Così dicevano i populisti. Lui ne convenne, precisando però una condizione, che in Europa occidentale il proletariato industriale fosse riuscito a compiere una vittoriosa rivoluzione.

I fatti però gli diedero torto: in Russia si passò al socialismo pur in presenza del capitalismo europeo. E tale rivoluzione non fu compiuta anzitutto dai contadini, ma da un proletariato industriale, guidato da un partito urbanizzato, disposto a venire incontro alle rivendicazioni degli strati rurali più marginali (quegli strati che il marxismo occidentale non prese mai in seria considerazione).

Solo alla fine della sua vita, quando si dedicò agli studi etnografici, Marx capì una cosa del tutto ignorata dal marxismo successivo, e cioè che il valore d'uso andava considerato nettamente più importante del valore di scambio. Il valore d'uso rendeva gli aspetti economici molto più facilmente comprensibili e gestibili. Ma a quel punto avrebbe dovuto riscrivere il Capitale e ormai era tardi.

Su un'altra cosa di arrovellò per molti anni, senza venirne a capo con chiarezza cristallina. Per quale motivo il capitalismo era nato nell'Europa occidentale quando in quella bizantina le ricchezze erano spropositate (restandolo persino per un migliaio di anni)? Le stesse civiltà islamiche e indo-buddistiche conoscevano dei livelli di commercio superiori a quelli dell'Europa feudale. Evidentemente a queste culture mancava quel quid che invece aveva quella cattolico-romana e che avrà all'ennesima potenza quella protestantica (specie nella variante calvinistica).

Marx capì soltanto che il capitalismo europeo aveva trovato nel protestantesimo il supporto ideologico più favorevole. Ma siccome riteneva la cultura una mera sovrastruttura dell'economia, gli sfuggirono due cose: 1) che il capitalismo (come concezione di vita) era nato in realtà nell'Italia comunale del Mille, ch'era di religione cattolica; 2) che la cultura è in grado d'influenzare notevolmente i processi economici, seppure con una certa lentezza.

Non a caso dopo il Mille fu l'Europa latina o comunque cattolica a scatenare continue crociate contro l'islam e l'Europa orientale, bizantina e slava. Questo colonialismo ante-litteram, precedente a quello inaugurato dai viaggi di Colombo, favorì enormemente lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale.

Tuttavia solo verso la metà del XX sec. gli studiosi marxisti del Terzo Mondo (sulla scia della Luxemburg) arrivarono a dire che senza il moderno colonialismo borghese, difficilmente si sarebbe sviluppato in così poco tempo e in una maniera così imponente l'industrializzazione euro-occidentale.

Nel Capitale invece Marx considerava il colonialismo come un effetto collaterale, addirittura secondario, del capitalismo, in quanto tutte le leggi fondamentali del capitale prescindevano da qualunque pratica colonialistica.

Ricordo che negli anni '70 eminenti economisti marxisti, come Samir Amin, Andrè Gunder Frank e Hosea Jaffe, si arrabbiavano parecchio quando i marxisti occidentali sostenevano che il Terzo Mondo, prima di passare al socialismo, doveva compiere la rivoluzione industriale, in virtù della quale avrebbe potuto nascere un proletariato rivoluzionario. Responsabile di questo schema mentale molto deterministico e artificioso fu lo stesso Engels nell'ultimo periodo della sua vita.

Insomma l'importanza del marxismo è stata indubbiamente quella d'aver fatto capire che nell'ambito del capitalismo non c'è niente di "naturale", e che la politica degli statisti deve rispondere a direttive provenienti dal mondo industriale e finanziario, che di etico e di democratico possiede solo le parole con cui ingannare l'opinione pubblica.

Appare quindi chiaro che la strada dell'emancipazione umana è ancora molto lunga. E senza intelligenza delle cose, non c'è evidenza che tenga. Basti pensare che a tutt'oggi l'1% della popolazione del pianeta detiene il 50% della ricchezza mondiale. Basterebbe questo a far scoppiare una guerra mondiale. Invece l'argomento non è neanche all'ordine del giorno.


5 maggio


La via africana al socialismo


E' probabile che la via africana al socialismo non dovrà far fronte ai limiti del socialismo statalizzato, che tanto pesarono sui destini dei Paesi dell'ex blocco sovietico. Per capire le cose, non c'è bisogno di ripetere gli errori che altri han già fatto.

Sarebbe però un errore pensare che l'Africa non avrà a che fare col socialismo statalizzato perché al momento è meno attrezzata sul piano industriale. Non ha più senso pensare che là dove l'industria è molto sviluppata e si vuole inaugurare una transizione socialista, il ruolo dirigistico dello Stato dovrà essere inevitabilmente prioritario su tutto.

Sinceramente parlando, spero che quando gli Stati abbracceranno il socialismo, i politici abbiano sufficiente intelligenza per promuovere l'autogestione collettiva dei mezzi produttivi, a prescindere dal livello tecnologico di questi ultimi. Che l'industria sia molto, poco o per nulla sviluppata, ciò non dovrebbe incidere minimamente sulle decisioni da prendere relativamente alla gestione sociale dei beni comuni, quelli fondamentali alla sopravvivenza di una società.

Per me una società civile o una nazione non è che un insieme di comunità locali o regionali. Al di sopra di una nazione non dovrebbe esserci lo Stato. Al massimo, a fianco di una nazione possono essercene altre, con differenti usi e consumi. Ma sarebbe bene lottare anche per superare i confini che separano una nazione dall'altra.

Quando le comunità locali o regionali hanno problemi in comune da risolvere o situazioni conflittuali da dirimere, non dovrebbero avere bisogno di costituire uno Stato permanente, burocratico, con un parlamento e un esercito propri, e con una capitale da cui tutto dipende.

Se ci sono problemi comuni, di tipo economico, ambientale o militare, si possono creare istituzioni ad hoc, rappresentative di tutte le comunità locali o regionali, e aventi un tempo limitato, quello appunto necessario a risolvere il problema.

In tal senso penso che l'Africa, una volta liberatasi completamente dal giogo del colonialismo, avrà meno difficoltà a realizzare la transizione socialista. Questo perché è più abituata a vivere l'esperienza della comunità locale. Lo dimostra anche il fatto che quando vengono a vivere da noi, si meravigliano molto del nostro individualismo e della freddezza dei nostri rapporti.

L'Africa non ha nulla da imparare dall'occidente capitalistico. Anzi, deve fare in fretta a disimparare ciò che ha già appreso, altrimenti le sue tradizioni collettivistiche moriranno per sempre.

Prendiamo l'esempio della Tanzania. Quando nel 1961 si liberò del colonialismo inglese (che aveva sostituito quello tedesco), la prima cosa che fece il presidente Nyerere fu di distribuire la terra a tutta la popolazione.

Siccome si rendeva conto che se avesse chiesto aiuti finanziari all'occidente, il Paese sarebbe stato facilmente ricattato, puntò decisamente verso l'autarchia. Dovevano essere i villaggi a gestire in maniera equa e condivisa tutte le risorse locali. Lo Stato sarebbe intervenuto solo per eliminare le sperequazioni tra i vari villaggi.

Nyerere diceva che lo Stato era socialista non perché aveva importato dall'estero l'ideologia comunista, ma perché le comunità di villaggio, molto tempo prima del colonialismo europeo, erano sempre state "socialiste". Lo erano state in maniera "naturale".

Ecco nei confronti di questo pre-capitalismo dovremmo nutrire ancora qualche speranza.


6 maggio


Due mantra a confronto


Quando gli economisti occidentali criticano le tradizionali economie di sussistenza, presenti nel Sud globale, viene un gran nervoso. Lo sanno benissimo che è proprio grazie a quelle strutture se non avvengono imponenti flussi migratori verso i Paesi occidentali, quei flussi che cerchiamo di ostacolare in tutti i modi.

Eppure non possono fare a meno di giudicare quelle strutture ancestrali coi termini più dispregiativi: rozze, primitive, preistoriche ecc. Devono per forza fare gli interessi del capitale, il padrone che li paga per dire falsità.

L'abbiamo visto coi nostri occhi: già negli anni '90 il processo di indebitamento del Sud globale aveva iniziato ad assumere una dimensione mostruosa, a testimonianza che, senza quella economica, l'indipendenza politica vale ben poco.

Era già un debito chiaramente inesigibile, che i Paesi capitalisti, attraverso la Banca Mondiale e il FMI, utilizzavano per tenere sottomesso il Sud globale. Venivano poste condizioni che a dir usuraie è poco.

Il bello è che, da un lato, l'occidente chiede d'essere sempre più dipendenti dalle esigenze dei mercati internazionali; dall'altro però, in forza degli interessi che bisogna pagare sui prestiti, rallenta proprio i processi di trasformazione verso l'economia di mercato, salvo che per pochi privilegiati. Impone monocolture, ma poi chi le gestisce sono le multinazionali.

Il capitale distrugge l'autonomia gestionale dell'autoconsumo, che è un fenomeno collettivo, e fa entrare nei mercati internazionali dei Paesi che han debiti fino al collo, trasformando le tradizionali comunità in luoghi di povertà cronica, da cui si cerca di scappare, individualmente, il più presto possibile.

Il Sud globale è un paradiso per le nostre multinazionali, che pagano pochissime tasse (rispetto ai loro introiti), e si appropriano bellamente di risorse naturali e di manodopera sottocosto. E se qualche statista illuminato minaccia di nazionalizzare industrie o risorse, deve guardarsi le spalle, poiché quelle sono aziende senza scrupoli, che non ci mettono molto a sponsorizzare omicidi eccellenti o colpi di stato, eventualmente utilizzando l'immancabile base militare straniera del Paese da cui provengono.

Il mantra che il capitale vuole realizzare a livello mondiale è "meno Stato, più mercato". I Paesi che sono riusciti a togliersi il cappio al collo, nel migliore dei casi riescono a sostituirlo con questo: "più Stato nel mercato". Il che vuol dire che i segni del nodo scorsoio sulla pelle non vanno più via.

Infatti i mercati restano, poiché senza di quelli non ci sono le comodità, il benessere materiale ecc. ecc. La proprietà e la gestione collettiva di tutti i mezzi produttivi è di là da venire. L'autoconsumo è pura utopia.

Si può soltanto sperare che lo Stato riesca a controllare i potentati economici, obbligandoli a tener presente il pubblico interesse. Questo primato (relativo) della politica sull'economia è ben visibile nei Paesi dei BRICS. E' il massimo cui oggi si possa desiderare, se si vuole un minimo di democrazia.


7 maggio


Basta con le nostalgie per ciò che va superato


Rita di Leo (storica ed economista) non la capisco. E' ancora nostalgica della vecchia URSS. L'ha scritto in una miriade di pubblicazioni.

Non esclude la buona fede di Gorbaciov, ma lo riteneva totalmente incapace, in quanto delegittimò il potere del Pcus. Ma questo è un errore.

L'URSS era uno Stato gestito da un monopartitismo, col pensiero unico dell'ideologia marx-leninista (usata secondo criteri stalinistici) e con istituzioni talmente intrecciate tra Pcus e Stato che l'indebolimento dell'uno provocava automaticamente quello dell'altro.

Non può esserci democrazia senza pluralismo. La verità non può mai essere imposta. E poi non è assolutamente vero che senza una verità ufficiale si finisce nel relativismo dei valori, e si fa un favore al capitalismo.

Qui bisogna convincersi di una cosa di fondamentale importanza, e che la di Leo non ha capito: il popolo è più importante dello Stato. Concetti come Stato nazionale, Stato politico, integrità territoriale gestita dallo Stato non dovrebbero contare nulla rispetto al diritto all'autodeterminazione che possono rivendicare le varie popolazioni (etnie, nazionalità, realtà regionali...) che costituiscono la nazione nel suo insieme.

Se nel mondo intero, e nello stesso ONU, fosse chiaro che i popoli sono superiori agli Stati, non sarebbero mai scoppiate guerre come quella in Ucraina, in Cecenia, in Georgia e così via. Quando una determinata fetta di popolazione rivendica, in maniera ragionata, una propria autonomia, gliela si deve concedere senza tante discussioni.

Lo Stato è uno strumento potente ma senza volto. Chiunque si impadronisce delle sue istituzioni, può compiere abusi eccezionali e farla franca. Ufficialmente è responsabile di tutto, ma non è mai colpevole di nulla.

I classici del marxismo erano stati molto chiari su questo: lo Stato può servire contro l'inevitabile controrivoluzione interna e l'interventismo bellicista degli Stati esteri, ma, una volta consolidata la situazione, ha il compito di estinguersi progressivamente, permettendo alla società civile di autoamministrarsi.

La polemica che a più riprese i comunisti han condotto con l'anarchismo pescava nel vero: una società non può aspirare all'autogestione se prima non si è fatta la rivoluzione, e questa non è possibile senza una direzione centralizzata delle operazioni e senza occupare i gangli vitali dello Stato.

Tuttavia, una volta conseguito con successo l'obiettivo, bisogna iniziare a smantellare ciò che deresponsabilizza la popolazione, ciò che la fa dipendere da decisioni che piovono dall'alto.

Uno Stato democratico è una contraddizione in termini, come lo è lo Stato di diritto o lo Stato di tutto il popolo. Qualunque forma di Stato (monarchica o repubblicana, ereditaria o costituzionale, presidenziale o parlamentare) va considerata come un prodotto storico dell'ultimo mezzo millennio. Non ha niente di "naturale".

L'essere umano non è fatto per sottostare al potere dei grandi Moloch o Leviatani. Fa soltanto ridere che un Paese imperialista come gli USA, fondato sul genocidio dei nativi, accusi la Russia di volersi espandere in Europa. Questo perché, da quando è nata (mille anni fa), la Russia non ha mai avuto intenzione di farlo. Il che non vuol dire che non sia uno Stato "imperiale", ma semplicemente che nessun Paese occidentale è in grado a dare lezioni di democrazia.

Questa mania imperiale fa parte di una "storia delle civiltà" che va decisamente superata. Il concetto stesso di "civiltà" è un obbrobrio. Con esso infatti gli storici si riferiscono ai primi imperi schiavistici, bollando di "primitivismo" tutto il pregresso.

Su questo voglio essere sincero ma categorico: la democrazia (quella sociale, non soltanto quella politica) non sta nel multipolarismo in sé, e neppure nel multipartitismo. La democrazia sta nella possibilità che una comunità locale ha di gestire in maniera condivisa e integrale le risorse del territorio in cui vive. Il che non esclude la democrazia delegata, ma la subordina nettamente a quella diretta.

Se lo Stato favorisce questo decentramento delle funzioni, merita d'essere rispettato, altrimenti è inutile farsi illusioni: si passerà da una forma di dittatura a un'altra.


8 maggio


La storia si ripete


Oggi ci troviamo a vivere una situazione geopolitica che, per alcuni versi, somiglia a quella degli anni '60. E' passato tanto tempo, ma sembra che i problemi fondamentali siano sempre gli stessi.

Infatti quando una cinquantina di Paesi si riunirono a Nuova Delhi nel 1961, il Consiglio mondiale per la pace disse chiaramente che il disarmo generale e completo e la liquidazione del colonialismo non erano argomenti separabili. Ad un certo punto si aggiunse un terzo argomento inscindibile dagli altri due: la sicurezza per tutti i popoli europei, orientali e occidentali.

Stessa cosa si ripeté nei numerosi e successivi incontri internazionali in altre città del mondo. Si aveva il terrore della proliferazione delle armi nucleari, anche perché Giappone e Germania ovest stavano per riceverle dagli USA in funzione antisovietica.

Inoltre era impossibile non ascoltare le voci anti-colonialiste contro il Portogallo, provenienti da Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, ecc. Per non parlare di quelle che chiedevano una liberazione nazionale dal colonialismo britannico, spagnolo, francese...

A quel tempo l'imperialismo americano dominava alla grande (come per es. dimostrava la guerra in Vietnam), e i test nucleari erano innumerevoli. Molti Paesi africani e asiatici respinsero con fermezza la menzogna secondo cui la lotta per il disarmo generale avrebbe portato al disarmo dei popoli che combattevano per la loro indipendenza politica. Era la prima volta che Paesi del genere si esprimevano in maniera collettiva, con un sentire unanime a favore della pace e della decolonizzazione.

Anzi si chiedeva che si formassero da subito delle zone completamente denuclearizzate in diverse regioni del pianeta. Si chiedeva anche la chiusura delle basi militari in territori stranieri (oggi, tanto per fare un esempio, gli USA ne hanno più di 800 dislocate in 80 nazioni!).

Gli USA furono accusati di genocidio in Vietnam, poiché usavano armi chimiche, e si disprezzava profondamente che sostenessero i sionisti d'Israele, del tutto avversi all'idea di riconoscere ai palestinesi un proprio Stato autonomo.

Nel 1968 l'opinione pubblica mondiale indusse a sottoscrivere il trattato di non proliferazione delle armi nucleari, e bloccò per qualche anno i bombardamenti americani sul Vietnam (che furono ripresi nel 1972, per arrivare poi alla sconfitta definitiva degli USA nel 1975).

La differenza principale rispetto a quegli anni lontani è che oggi le provocazioni e le tensioni occidentali a favore di una guerra mondiale sono altissime, mentre le manifestazioni internazionali a favore della pace sono ridotte al lumicino.

Sembra di assistere a un occidente invecchiato, le cui popolazioni, troppo abituate a veder sconfitti i propri ideali democratici, hanno assunto un atteggiamento rassegnato nei confronti dei propri statisti guerrafondai, che, con fare irrazionale, vogliono portare l'intera umanità alla catastrofe. Abbiamo bisogno di una nuova generazione...


9 maggio


Dormire sonni tranquilli


Nel 1988, all'ONU, Gorbaciov fece capire che l'idea della disconnessione tra Paesi sviluppati e sottosviluppati era un'illusione: al massimo si doveva rivedere completamente la politica del debito. L'URSS era pronta a una moratoria fino a 100 anni degli interessi, e in alcuni casi limitati persino a cancellare il debito del tutto. Lo disse, ovviamente, non perché fosse favorevole alla dipendenza neocoloniale, ma perché vedeva i processi mondiali strettamente interconnessi.

Fatto sta che i grandi economisti marxisti, che rappresentavano gli interessi del Terzo mondo (come per es. Samir Amin, Andre Gunder Frank e Hosea Jaffe), ci rimasero male, benché fossero consapevoli che se anche qualche Paese del Terzo mondo fosse riuscito a sganciarsi completamente dall'imperialismo occidentale, nessun marxista aveva chiaro in testa come costruire un'alternativa socialista.

In fondo il marxismo era un'ideologia occidentale, che aveva beneficiato di varie aggiunte e precisazioni da parte del leninismo, un'altra ideologia che potremmo definire semi-occidentale, in quanto la Russia presenta molti elementi di asiatismo che da molto tempo la moderna Europa occidentale ha rimosso.

Si era lontanissimi dal capire che nelle strutture pre-capitalistiche del Terzo mondo c'era più "socialismo" che in quello "reale" del blocco sovietico o in quello rurale del maoismo. Si era ancora abbacinati dall'idea che senza un forte progresso tecnico-scientifico, si sarebbe realizzato soltanto un "socialismo della miseria".

Oggi per fortuna questo marxismo non esiste più, e là dove i Paesi del Sud globale spediscono a casa i vecchi e i nuovi colonizzatori, non vanno a cercare al di fuori dei loro Paesi le soluzioni ai nuovi problemi che devono affrontare.

Anche se poi questa cosa è vera solo fino a un certo punto. Infatti molto dipende da quanto sono lungimiranti i nuovi politici che vanno al potere. Non è un caso raro che i Paesi del Sud globale, che compiono rivoluzioni popolari o colpi di stato contro le giunte di governo colluse con gli occidentali, vanno a cercare in Russia un appoggio militare, mentre alla Cina chiedono un sostegno economico che non li faccia ripiombare nella dipendenza di un tempo.

Tuttavia bisogna che il Sud globale stia molto attento. Il multipolarismo, preso in sé e per sé, non può essere considerato la panacea di tutti i suoi mali. Negli anni '70 neppure il cosiddetto "socialismo reale" costituì un grande vantaggio economico per il Terzo mondo. Era sicuramente un contraltare significativo all'imperialismo occidentale, ma sarebbe ipocrita affermare ch'esso, nei Paesi del Terzo mondo che avevano abbracciato le idee del socialismo industrializzato, seppe porre le basi per un cambiamento davvero democratico della struttura economica.

Le idee possono essere le più progressiste del mondo, ma se non tengono conto della situazione reale, cioè se si cerca d'imporle dall'alto, a un certo punto si rivelano per quello che sono: una forma di ingiustificata prevaricazione.

Negli anni '70 era l'URSS a fungere da modello economico di riferimento per il Terzo mondo. Oggi è la Cina. Il che non implica che il Sud globale abbia davvero da guadagnarci. Quando si allacciano rapporti d'affari con le superpotenze, non si può mai essere sicuri di niente.

Nessun mette in dubbio che l'atteggiamento cinese nei confronti del Sud globale sia un passo avanti rispetto al capitalismo privato di marca occidentale e al socialismo statale di marca sovietica, ma sarebbe illusorio pensare che, coi suoi enormi investimenti finanziari a fini produttivi, la Cina non si aspetti un ritorno significativo per la sua proiezione di potenza nel mondo.

Siamo onesti: dobbiamo ammettere che la Cina ha tutti i numeri (persino sul piano ideologico) per sostituirsi progressivamente all'intero occidente collettivo nella gestione del pianeta. Ma una transizione del genere non può farci dormire sonni tranquilli.


10 maggio


Da privato a statale


Ormai lo si è capito a sufficienza. Con queste guerre in Ucraina, a Gaza e domani a Taiwan non stiamo assistendo al crollo del capitalismo, come sistema economico produttivo, ma soltanto a una sua trasformazione, da privato a statale.

Si tratta di una transizione di livello mondiale, che non può essere condotta dall'occidente collettivo, poiché il potere che da mezzo millennio noi esercitiamo è basato sull'individualismo più o meno sfrenato.

L'impetuoso sviluppo tecnico-scientifico, applicato ai processi economici, che in occidente ha richiesto eccezionali mutamenti di mentalità, di valori e stili di vita, non può più essere portato avanti da Paesi dove l'antagonismo sociale, i conflitti di classe, l'ossessionante competizione e l'odio reciproco non ci danno tregua, ci sfiancano come pugili all'angolo di un ring.

Noi occidentali abbiamo dato tutto quello che potevamo dare. Solo che invece di consegnare l'eredità in maniera tranquilla, auspicando un uso migliore dei nostri beni, pretendiamo che ce la vengano a prendere con la forza. "Se volete ereditare il nostro patrimonio, dovete guadagnarvelo sui campi di battaglia, a suon di bombe, di morti ammazzati (qualunque sia la loro età, sesso, funzione...), e naturalmente a prezzo di inquinamenti ambientali che lasceranno il segno per i secoli a venire.

La campana a morto sta suonando gli ultimi rintocchi, ma, per quanto strano possa sembrare, il religioso che tira la corda non rappresenta il socialismo. Infatti anche il socialismo statale è morto. Forse l'ultimo a resistere è quello della Corea del Nord, che però senza gli aiuti di Russia e Cina sarebbe già imploso.

Oggi nessuna persona di senno ha nostalgia di quei passati regimi oppressivi, che peraltro erano più brutali nei confronti dei loro cittadini che non all'esterno.

Bisogna tuttavia dire, spezzando una lancia a favore di quei regimi, che la presenza costante dello Stato costituisce comunque una garanzia per la tutela dei diritti sociali (casa, lavoro, istruzione, sanità...).

Oggi dal socialismo statale (sovietico o maoista che fosse) si è passati a un capitalismo statale e/o a un socialismo mercantile, ma chi avrebbe il coraggio di sostenere che, nell'ambito di questa transizione, i diritti umani vengono conculcati più di prima? Solo una persona in malafede o profondamente ignorante potrebbe non ammettere che i diritti (soprattutto quelli sociali) sono molto più calpestati in quei Paesi capitalisti che han ridotto al minimo le funzioni dello Stato o le hanno completamente subordinate alle esigenze del capitale.

L'occidente ha fatto di tutto per vincere la guerra fredda, ma dopo la fine di quella guerra sono emersi, inaspettatamente, dei Paesi nemici che vogliono superarlo sul suo stesso terreno, quello dello sviluppo industriale, commerciale, finanziario e militare, poggiante su una solida base tecno-scientifica.

Questa competizione si sa già come andrà a finire. Non c'è alcun bisogno di scommetterci sopra.


11 maggio


L'evoluzione dei tempi


Quel che di buono non ha fatto l'occidente colonialista in Africa in mezzo millennio, lo sta facendo la Cina da pochi anni.

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, sicuramente la Russia di Putin e Lavrov ha valorizzato come non mai l'intero continente africano sul piano politico, invitandolo a liberarsi, una volta per tutte, del neocolonialismo occidentale, ad aderire ai BRICS, ad abbandonare l'uso del dollaro, ad accettare l'idea del multipolarismo e soprattutto a non aver paura dell'arroganza degli europei e degli americani.

Siamo lontanissimi dai tradizionali approcci occidentali, basati su rapporti di subalternità, su interferenze di ordine politico (che si spingono fino all'imposizione di determinate élites collaborazioniste), su scambi economici ineguali, su ricatti finanziari, sullo sfruttamento ad libitum delle risorse naturali e della forza-lavoro sotto costo, e così via.

Tuttavia è anche la Cina che dai tempi di Ciu En Lai (anni '60) evita di comportarsi nel continente africano come un padrone colonialista. Fu proprio quello statista a dire che l'aiuto cinese non avrebbe mai violato la sovranità dei Paesi beneficiari, né chiesto privilegi o posto condizioni. Nel caso in cui avesse concesso aiuti finanziari, l'avrebbe fatto a tassi d'interesse molto bassi, e in ogni caso gli aiuti avrebbero dovuto favorire l'autosufficienza economica del Paese beneficiario.

Infatti Ciu En Lai assicurava che la tecnologia cinese permetteva di realizzare progetti con bassi investimenti e risultati rapidi. Non solo, ma i segreti di tale tecnologia potevano essere facilmente appresi dai tecnici dei Paesi beneficiari, i quali tecnici avrebbero visto coi loro occhi che gli esperti cinesi, loro colleghi, non avrebbero mai avuto un tenore di vita superiore.

Era difficile per gli statisti africani, anche se legati al colonialismo occidentale, non accettare condizioni così favorevoli, che peraltro furono confermate nei decenni successivi. Quando nel 1996 il presidente Jiang Zemin visitò l'Africa, ribadì la non interferenza negli affari interni, anzi si allargò nel sostenere la lotta delle nazioni africane per l'indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale. Promise addirittura che sui prestiti finanziari non ci sarebbero stati interessi di sorta, anzi alcuni debiti in sospeso furono cancellati.

Questo per dire che non è a partire dall'attuale presidente Xi Jinping che la Cina sta aiutando l'Africa a svilupparsi economicamente. Vi è un'impressionante linea di continuità che sembra rispecchiare una filosofia di fondo.

Peraltro nella stessa Cina gli statisti capirono subito, una volta abbracciate le idee di tipo capitalistico (cioè dopo la fine del maoismo), che nessuna economia pianificata avrebbe avuto successo senza garantire il decentramento delle funzioni e l'autosufficienza regionale.

Quando i manager cinesi individuarono quei nuclei industriali da acquistare a prezzi convenienti dai Paesi avanzati dell'occidente, li trasferirono, rimontandoli con le necessarie varianti, vicino non solo alle fonti di produzione delle materie prime, ma anche ai consumatori. Gli stessi appartamenti degli operai e i relativi centri di servizi dovevano essere edificati intorno ai luoghi di lavoro.

Lo Stato doveva soprattutto preoccuparsi di collegare, con una viabilità efficiente, la fascia costiera più produttiva all'entroterra. E' stato così che in 40 anni ben 800 milioni di persone son potuti uscire dalla povertà.

Chi non capisce che il socialismo di mercato ha una marcia in più rispetto al nostro capitalismo privato, non capisce l'evoluzione dei tempi. Il che naturalmente non vuol dire che la presenza cinese in Africa non stia creando nuovi problemi. Ma questo è un altro discorso.


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L'Assemblea Generale dell'ONU ha approvato una risoluzione che riconosce la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.

Il testo ha ottenuto 143 voti a favore, 9 contrari (Usa, Israele, Palau, Nauru, Micronesia, Papua Nuova Guinea, Ungheria, Argentina, Repubblica Ceca) e 25 astensioni (Italia, Albania, Bulgaria, Austria, Canada, Croazia, Fiji, Finlandia, Georgia, Germania, Lettonia, Lituania, Isole Marshall, Olanda, Macedonia del Nord, Moldavia, Paraguay, Romania, Vanuatu, Malawi, Principato di Monaco, Ucraina, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera). Tra i contrari non capisco i due Stati europei, anche se nel complesso si capisce bene da che parte sta l'occidente.

L'Italia si è astenuta perché ritiene che la soluzione dei due Stati può essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti tra le parti: l'ONU non serve a niente. Cosa ci sta a fare l'ambasciatore Maurizio Massari all'ONU non si sa.


12 maggio


Presenza cinese in Africa


A leggere "Nigrizia" bisogna ammettere che la presenza cinese in Africa non è tutta rose e fiori.

Per es. in Senegal gli armatori cinesi (20%) e quelli europei (29%) controllano il settore del pesce attraverso i loro pescherecci a strascico, mandando in rovina i pescatori artigianali autoctoni, che si vedono costretti ad abbandonare il mestiere e tentare la traversata nell'Oceano Atlantico verso le Isole Canarie. Non solo, ma le reti dei pescherecci raschiano i fondali, sollevando il carbonio stoccato nei pozzi naturali oceanici e trasformandolo in anidride carbonica. E, quel che è peggio, tonnellate di piccoli pesci, che prima facevano parte dell'alimentazione media dei senegalesi, vengono adesso catturati per essere ridotti in mangime da vendere soprattutto in Europa per nutrire bestiame o pesci d'allevamento, oppure per essere utilizzati nell'industria della cosmesi.

Altro esempio. Akinwumi Adesina, presidente della Banca africana di sviluppo, ha sostenuto che è troppo svantaggioso per l'Africa garantire, con le proprie risorse naturali, il rimborso dei prestiti finanziari che riceve come aiuto allo sviluppo. Questo perché è impossibile definire adeguatamente il valore reale delle risorse del sottosuolo non ancora commercializzate. Tale valore potrebbe essere di molto superiore ai crediti dei finanziatori. Non solo, ma i finanziatori (tra cui la Cina), essendo governi, multinazionali o grandi banche commerciali, hanno un potere contrattuale imparagonabile rispetto a quello dei governi destinatari dei prestiti, soprattutto se questi governi sono a corto di liquidità. Per non parlare del fatto che talune nazioni africane, avendo a disposizione ingenti quantità di materie rare (si pensi al litio), ritenute oggi strategiche per la transizione ecologica, sono ancora più indotte ad accettare crediti del genere.

Altro esempio ancora. E' recente l'aumento delle società di sicurezza e dei contractors cinesi per proteggere gli investimenti del proprio Paese in Africa, soprattutto a causa dei problemi dovuti al terrorismo, all'instabilità politica e alla pirateria. I loro principali clienti sono agenzie governative, imprese statali, compagnie di trasporti, di logistica, società legate al petrolio e al gas.

Naturalmente i Paesi occidentali ne hanno subito approfittato per accusare la Cina di violare uno dei suoi princìpi politici fondamentali nei rapporti commerciali con l'estero: quello di non interferenza negli affari interni degli altri Paesi. Un principio che in mezzo millennio di colonialismo l'occidente non ha mai e poi mai rispettato.

Last but non least. Da 15 anni la Cina è il principale partner commerciale dell'Africa. Tuttavia la Cina esporta nel continente molto più di quanto importa: 173 miliardi di dollari contro 64 miliardi di dollari. Gli analisti prevedono che ci vorrà tempo e sforzi a lungo termine per trovare un equilibrio commerciale.


13 maggio


Gertler, il capitalista irresponsabile


Il sito africa-express.info mi piace perché non ha peli sulla lingua. Infatti spiega nel dettaglio perché Israele ha cercato col Paese africano più corrotto del continente, la Repubblica Democratica del Congo, dei rapporti commerciali molto stretti.

I due rispettivi presidenti, Netanyahu e Tshisekedi, han deciso di aprire le reciproche ambasciate.

Il Congo ha bisogno di sicurezza militare (compresa quella informatica), agricoltura e infrastrutture.

La sicurezza è relativa all'eliminazione del gruppo armato filo-ISIS di origine ugandese, chiamato Allied Democratic Forces, che dal 1995 opera per lo più nella parte orientale del Paese. Per ottenerla Tshisekedi, al potere dal 2019, non si è fatto scrupolo di appoggiare pienamente i sionisti contro i palestinesi.

Ma in cambio cosa vuole Israele? Il petrolio. Per averlo si è servito del multimiliardario Dan Gertler, a favore del quale aveva intercesso personalmente Yossi Cohen, ex direttore del Mossad, che per ben tre volte aveva voluto incontrare Tshisekedi e l'ex-presidente Laurent Désiré Kabila nel 2001, cui Gertler aveva prestato 20 milioni di dollari perché prendesse il potere politico.

Gertler infatti è sotto sanzione del Tesoro americano per corruzione ad alto livello in Congo, riguardante non solo il petrolio ma anche oro, diamanti, rame e cobalto. Il Congo ha perso più di 1,36 miliardi di dollari a causa degli "affari opachi e corrotti" di Gertler. La rivista "Forbes" l'aveva definito come "Il volto emergente del capitalismo irresponsabile in Africa".

Ciononostante Gertler è riuscito a trovare in Tshisekedi il suo più strenuo protettore, anche agli occhi di Biden. Naturalmente lui ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in corruzioni, tant'è che si vanta di non essere mai stato perseguito penalmente. Anzi è stato lui a intraprendere diverse azioni legali contro attivisti anticorruzione, informatori, giornalisti e gruppi della società civile, soprattutto in relazione al caso della società svizzera Glencore, condannata a pagare 180 milioni di dollari al governo di Kinshasa per atti di corruzione dal 2008 al 2017, il periodo in cui lavorava proprio con Gertler.

Non solo, ma quando due informatori, Gradi Koko Lobanga e Navy Malela, impiegati presso Afriland First Bank di Kinshasa, rivelarono atti di riciclaggio di denaro a beneficio di Gertler, al processo che ne seguì furono condannati a morte in contumacia!


14 maggio


La malattia infantile dell'eurocentrismo


Sotto Putin i rapporti tra UE e Russia sono sempre stati difficili. Non è vero che prima della guerra in Ucraina filavano liscio come l'olio.

Certo, sul piano energetico gli europei avevano solo da guadagnarci: il gas era di ottima qualità e poco costoso. Ma gli europei sono ipocriti ed egoisti, per cui preferivano Gorbaciov sul piano militare e geopolitico, e Eltsin su quello economico-finanziario. Così potevano ridimensionare e spolpare la Russia.

L'idea di Putin di creare un capitalismo statale non piaceva per niente a Bruxelles, che preferiva un capitalismo privato come al tempo di Eltsin, che aveva ridotto a un nulla il potere delle istituzioni e del Pcus.

Putin non era contrario all'idea di mercato, ma la voleva regolamentata dallo Stato, soprattutto nel settore chiave dell'energia, ma anche in quello degli armamenti.

La Russia non voleva farsi inglobare nella UE, come invece avevano fatto gli altri Paesi dell'ex blocco sovietico, che praticamente iniziavano a essere saccheggiati dal capitalismo occidentale e sottomessi dalla NATO.

Infatti, pur di tenere la Russia sub conditione, la accusavano di non rispettare i diritti umani e di non permettere che il settore energetico venisse gestito da privati.

Tutti questi problemi la Russia non li aveva né con la Cina (o l'India) né con l'Africa. Putin sentiva di non avere alcun debito di riconoscenza nei confronti della UE, proprio perché i russi si erano liberati da soli dal peso di un regime oppressivo come quello socialistico-statale.

I russi non riuscivano a capire perché gli statisti europei, pur ricevendo dalla Russia tutti i favori possibili, nel rispetto delle diverse tradizioni e culture, continuassero ad avere un atteggiamento così altezzoso, così arrogante.

Per fortuna che le relazioni della Russia con altri Stati asiatici e africani erano ottime. In cambio dell'acquisto di prodotti russi, Putin era persino disposto a cancellare completamente il debito di taluni Paesi africani e a eliminare le tariffe doganali a tutte le merci provenienti dal continente. Si offrivano anche borse di studio per gli studenti africani che volevano laurearsi o specializzarsi in Russia. Si vendevano armi ad alta tecnologia, superando la concorrenza occidentale.

Con l'Algeria, addirittura, i rapporti tecnici e commerciali per la valorizzazione del settore energetico erano così stretti che la Russia non disdegnava l'idea di creare una "Opec del gas", se qualche altro Paese produttore dell'Africa o del Medioriente si fosse associato.

Gli ultimi due governi italiani, dopo aver sanzionato in tutte le maniere la Russia a causa della guerra in Ucraina, sono andati a cercare in Algeria un'alternativa al gas russo, senza sapere che tutta la tecnologia energetica di questo Paese dipende proprio dalla Russia. Si può essere più sprovveduti e incompetenti di così?

Gli statisti europei sono ancora convinti che il "regno di Putin" costituisca una specie di "parentesi" nelle relazioni commerciali tra UE e Russia. Siamo così eurocentrici che ancora non abbiamo capito d'essere noi ad aver più bisogno della Russia che non il contrario.

Ora, per scongiurare la catastrofe militare dell'Ucraina, come intendiamo regolarci? Siamo disposti a intraprendere una guerra nucleare per impedire che si infranga il mito di un'Europa unita in nome del capitale privato? Davvero vogliamo concedere pieni poteri agli statisti europei, che fino adesso (salvo eccezioni) si sono comportati nella maniera più assurda possibile?

Pur di non veder crollare la NATO nella sua guerra antirussa per procura, siamo forse intenzionati ad accettare l'idea apocalittica che le capitali europee vengano rase al suolo dai bombardamenti atomici della Russia? Lo sappiamo che la Bielorussia ha già decine di missili nucleari puntati sulle nostre teste?

Abbiamo capito che la strategia militare di Putin non è più quella del "secondo colpo", formulata durante la stagnazione di Brežnev, ma è quella della immediata risposta nucleare, nel caso in cui la Russia percepisca di subire una "minaccia esistenziale" alla propria sicurezza? Soprattutto questa cosa l'ha capita la Finlandia, che ha 1.300 km di confine con la Russia, ora che fa parte della NATO?

Riusciamo a convincerci che i russi non sono abituati a usare toni aggressivi o minacciosi nelle relazioni diplomatiche per far valere le loro ragioni? E che quando dicono d'essere preoccupati per lo svolgimento di taluni fatti a loro molto sfavorevoli, indipendenti dalla loro volontà, poi sanno prendere adeguate contromisure?


15 maggio


Un'esistenza paradossale


Se fosse possibile scegliere tra democrazia senza Stato o Stato senza democrazia, sarebbe facile scegliere. Infatti una qualunque presenza statale è sempre una forma di dittatura, più o meno violenta, a seconda del livello delle contraddizioni esistenti.

Il problema però è che se si cerca di ridurre al minimo le funzioni dello Stato, come per es. nella Russia degli anni '90, la democrazia diventa debolissima.

Il motivo sta nel fatto che, esistendo nel mondo un sistema capitalistico che, grazie ai mercati, rende possibile, a chi dispone di capitali e mezzi produttivi, un arricchimento relativamente veloce e abnorme, l'inevitabile tendenza è quella di trasformare la democrazia in un'oligarchia. Il governo non è più quello dei funzionari di partito e dei dipendenti dello Stato, ma quello degli imprenditori privati, degli affaristi senza scrupoli.

Dal tempo delle antiche civiltà schiavistiche, poi trasformatesi in civiltà feudali, e queste in civiltà borghesi, sono sempre esistite idee ed esperienze di tipo comunistico o collettivistico. Ma tutto quello che si è opposto ai sistemi antagonistici dominanti è inesorabilmente fallito.

Non esisteva forse il socialismo in quelle esperienze comunitarie di Qumran frequentate dal Battista e da Gesù Cristo? Eppure è stato spazzato via dalle legioni romane.

E che dire delle esperienze monastiche del cristianesimo primitivo? Non si praticava forse l'autoconsumo? Eppure la tentazione di trasformarsi in potentati feudali, in grado di sfruttare il lavoro dei contadini, fu ad un certo punto irresistibile.

Esperienze di questo genere sono proseguite fino alla collettivizzazione forzata dei contadini sotto lo stalinismo e il maoismo, con risultati catastrofici sotto ogni punto di vista.

Cambiavano soltanto le forme rispetto alle esperienze precedenti: infatti la presenza di uno Stato forte garantiva a questi esperimenti una vastissima estensione territoriale, che comportava un enorme coinvolgimento di persone. Sotto questo aspetto sembra che le idee del comunismo siano destinate a fallire a prescindere da qualunque fattore territoriale o demografico.

Abbiamo iniziato ad abbandonare il comunismo primordiale a partire dalla nascita dello schiavismo, 6.000 anni fa (ma alcuni storici dicono a partire dalla nascita dell'agricoltura, 10.000 anni fa), e da allora non siamo stati più capaci di tornare indietro. Abbiamo modificato solo le modalità dello sfruttamento, dell'ingiustizia sociale, ma la sostanza è rimasta uguale.

Le ultime comunità primitive, nascoste in luoghi remoti del pianeta, non costituiscono per nessuno un modello da imitare, anche perché la popolazione del pianeta è diventata così numerosa e gli scambi commerciali così intensi che si ritiene impossibile soddisfare tutte le esigenze senza l'aiuto dell'industria.

Tuttavia i grandi limiti del macchinismo sono sotto i nostri occhi. Senza un intento di tipo sociale l'industria arricchisce solo il suo proprietario e fa restare nella povertà il lavoratore. Non solo, ma anche quando proprietario e lavoratore coincidono nella stessa persona, chi ci rimette è comunque la natura, che tende a desertificarsi.

La natura torna a sentirsi a suo agio solo quando la presenza umana scompare. Non è normale una cosa del genere, anche perché il reintegro delle proprie funzioni richiede tempi lunghissimi (anzi, spesso i deserti che vediamo crescere sul pianeta appaiono irreversibili). Questo vuol dire che nei suoi confronti abbiamo un atteggiamento completamente sbagliato, da rivedere alla radice.


16 maggio


Pronti a realizzare gli Stati Uniti d'Europa?


Noi europei non siamo in grado di capire la Russia: troppo superficiali, troppo ignoranti della sua storia, che è incredibilmente complessa. Un Paese così grande non è uno Stato e neppure una nazione: è un impero.

Anche noi abbiamo avuto degli imperi: romano, carolingio, ispanico, lusitano, inglese, francese, prussiano, austro-ungarico. Ma noi europei ci siamo sfiancati nel gestire tutti questi imperi. Le continue guerre interne tra imperi o per distruggere dall'esterno questi imperi (si pensi per es. alle rivendicazioni dei popoli colonizzati) ci hanno enormemente indeboliti, soprattutto dopo le ultime guerre mondiali, che hanno visto la progressiva, inarrestabile, ascesa degli Stati Uniti, un prodotto europeo sfuggito al nostro controllo, come tanti altri prodotti.

L'impero russo ha indubbiamente perso molti territori guadagnati con la seconda guerra mondiale, ma nel complesso è rimasto quello che era al tempo degli zar, dopo la liberazione dal giogo tataro-mongolo.

E' impossibile per noi europei, così individualisti, capire i motivi di questa longevità, di questa compattezza. Dai tempi di Napoleone (ma anche prima, coi teutonici, i polacchi, gli svedesi...) abbiamo cercato di sottomettere le popolazioni slave, ma tutti i nostri tentativi falliti hanno comportato, in virtù del contrattacco russo, la fine di chi aveva avuto l'ardire di provarci.

Questo ci porta a pensare che se anche la NATO sganciasse delle atomiche sulle grandi città russe, tutte le nostre capitali scomparirebbero dalla faccia della Terra, incluse le grandi città americane. Non è un rischio che possiamo correre.

Noi non sappiamo cosa tenga unita la Russia. I cittadini comuni sanno soltanto che non ha alcun senso dichiararle guerra. In questo momento persino i nostri statisti sono convinti che al massimo possiamo fare una guerra per procura, che duri il più possibile, nella speranza che quell'impero di destabilizzi al proprio interno.

Se fossimo un minimo accorti, dovremmo dire: la Russia è per metà europea, ha molte caratteristiche in cui possiamo riconoscerci; siccome è piena di risorse naturali, sarebbe meglio per noi europei cercare di ottenerle alle condizioni più vantaggiose.

Perché non lo facciamo? Il motivo è molto semplice: siamo succubi di una narrativa americana per la quale i nostri principali nemici sono la Russia e la Cina (come fino a qualche anno fa pensavamo fossero gli islamici). Chi si oppone a questo raggiro, finisce col cedere alle minacce e ai ricatti, anzi rischia d'essere eliminato, o, quanto meno, il suo Paese non viene più finanziato.

Noi occidentali non solo ci vantiamo d'essere democratici, ma, pur di definire autocratico il regime putiniano, siamo disposti a ridurre di molto il nostro benessere, le nostre prospettive di sviluppo. Naturalmente sempre a vantaggio del bulletto e furbetto americano, che peraltro sa benissimo quanto sia devastante per tutti, anche per se stesso, una guerra nucleare.

Per queste ragioni si ha la netta impressione che sia la UE sia gli USA stiano sfruttando la propaganda che vede nella Russia un nemico implacabile soltanto per il solito, banale motivo: risolvere problemi di credibilità interna.

Il capitalismo privato occidentale si trova in gravissime difficoltà economiche nei confronti del socialismo mercantile cinese. La concorrenza dei prodotti cinesi è troppo forte: sta mandando in rovina tutte le nostre imprese, industriali e commerciali, anche quelle più tecnologicamente evolute.

Abbiamo insegnato ai cinesi a diventare capitalisti come noi, e ora non sappiamo come fare per ridimensionare le loro ambizioni planetarie. Ci serve qualcosa per scatenare una guerra contro di loro. I nostri statisti hanno bisogno di una popolazione che si convinca di questa necessità. La Russia rappresenta soltanto il primo tassello di un'operazione molto più complessa. Possiamo anche lasciar perdere l'Ucraina, ma solo a condizione di trovare un'alternativa che la sostituisca più o meno immediatamente (come per es. Taiwan o la Corea del Nord). In fondo quando improvvisamente ce ne andammo dall'Afghanistan, lo facemmo solo per concentrare le nostre forze in Ucraina.

La guerra per procura contro la Russia deve solo darci il tempo di armarci a dovere, di ripristinare la leva obbligatoria, di trasformare buona parte delle nazioni in economie di guerra, e soprattutto di imporre dei regimi politici autoritari. Le popolazioni non devono fare altro che stare sottomesse e credere che queste trasformazioni vengono fatte per il loro bene e per la costruzione degli Stati Uniti d'Europa.


17 maggio


La democrazia è un'altra cosa


E' molto ingenuo pensare che dopo il crollo di un regime dittatoriale la democrazia riesca a trionfare in quattro e quattr'otto. E' persino illusorio credere che chi sostiene un regime il cui bene comune venga gestito dallo Stato, possa vantare un livello di moralità superiore a quello di chi invece è abituato a vivere nelle cosiddette società neoliberiste, in cui l'interesse privato è il parametro per tutti i valori umani.

Cioè quando si è abituati a vivere in una dittatura, più o meno esplicita, è normale vedere l'etica sottomessa completamente alla politica. Sicché non ha senso pensare che, finita la dittatura, si possa passare, d'emblée, a una fase in cui i valori umani giochino un ruolo di primo piano. Si resta inevitabilmente influenzati da un pregresso collettivo, che ha coinvolto l'intera società civile. E quanto più la dittatura è stata longeva, tanto peggio sarà.

Guardiamo l'esempio italiano. Il fascismo durò un ventennio, il doppio di quello nazista e la metà di quello ispanico-portoghese. Sono periodi non brevi. E non erano regimi dittatoriali di facciata, ma effettivi.

Quando quello italiano fu eliminato, la popolazione smise d'essere fascista solo perché gli USA avevano introdotto nel Paese l'idea del consumismo di massa (a partire dagli elettrodomestici), che comprendeva anche ogni forma di svago e divertimento.

L'attività economica negli anni '50 era basata sul carrierismo, sulla corruzione, sulla competizione senza scrupoli.

Chi teneva le redini della politica era una Democrazia Cristiana collusa con la Chiesa, prona ai diktat americani e favorevole a uno Stato centralizzato come al tempo di Mussolini, uno Stato che solo all'apparenza mostrava una politica indipendente dall'economia.

Per scalfire il potere della DC ci volle la contestazione operaio-studentesca nata nel 1968 e durata un decennio. Solo negli anni '70 si avviò una forte critica al sistema capitalistico e ai suoi valori (cristiano)borghesi. Quel che non si era potuto fare al tempo del capitalismo statale di marca fascista, lo si fece al tempo del capitalismo privato di marca democristiana (che pur inizialmente conservò alcuni aspetti dello Stato sociale per accontentare i troppo numerosi militanti dell'area socialcomunista). Con la suddetta contestazione si ampliarono notevolmente i diritti sociali, civili, politici, anche se il sistema, di fatto, rimase capitalistico, anzi, negli anni '80 (quelli del riflusso) il Welfare State cominciò a essere demolito.

Si badi che un processo analogo è avvenuto anche nei Paesi dell'ex blocco sovietico. Il fatto che in quei Paesi la dittatura fosse più favorevole al proletariato, non cambia nulla. Quelli erano Paesi privi di solide tradizioni borghesi. Le dittature non potevano essere strettamente legate ai grandi monopoli privati. I comunisti poterono facilmente nazionalizzare tutto perché non c'era niente di così forte, sul piano economico e finanziario, per potersi opporre a questo esproprio.

Tuttavia quando il socialismo statale crollò, la corruzione dominò sovrana in tutti i settori della società. Gli oligarchi si formarono negli anni '90, e così la criminalità organizzata. Paradossalmente tutto ciò avvenne in nome di una presunta democrazia. Cioè il potere voleva far credere che il passaggio dalla dittatura comunista al liberismo borghese fosse un passo avanti in direzione di tutti i valori democratici.

Se la Russia non avesse avuto Putin, sarebbe stata un'altra Ucraina. Ma è assurdo pensare che con Putin si sia realizzata la democrazia. Semplicemente si è trasformato l'immorale capitalismo privato, promosso da quello sciagurato di Eltsin, in una sorta di capitalismo controllato dallo Stato, quindi in qualcosa che ha ridimensionato di molto il potere degli oligarchi e della criminalità organizzata.

E' giusto che si consideri Putin una sorta di "salvatore della patria", ma la democrazia è un'altra cosa.


18 maggio


Le condizioni del crollo


Vivendo noi tutti in società più o meno conflittuali, dove l'individualismo, l'alienazione, l'antagonismo sociale sono la regola, non è proprio il caso di mettersi a fare i puristi quando si esaminano i fatti.

Dobbiamo per forza darci un qualche margine di tolleranza verso certi atteggiamenti che giudichiamo equivoci, ambigui o amorali. Persino papa Bergoglio, che certamente non rappresenta la Chiesa più democratica del mondo, scandalizzò i credenti moralisti quando disse: "Chi sono io per giudicare gli omosessuali?".

Con ciò non vogliamo dire che, quando si fa geopolitica, bisogna per forza essere cinici, indifferenti ai valori. Sappiamo bene che in queste società, così difficili da vivere, pretendere il massimo dell'etica o della democrazia è da ingenui, anzi da ipocriti.

Prendiamo ad es. la guerra per procura che l'occidente collettivo conduce contro la Russia in Ucraina. E' ridicolo mettersi dalla parte di Putin come se fossimo in una partita di calcio. L'attuale regime politico che hanno i russi non è certo quanto di meglio si possa desiderare. Mostrava già profonde contraddizioni al tempo del socialismo statale, figuriamoci oggi, in cui lo Stato gestisce il capitalismo.

Sono forse uscite dalla bocca di Putin parole a favore di un socialismo democratico? No, eppure chi pensa che le ragioni del regime oligarchico e neonazistico di Kiev meritino d'essere considerate migliori di quelle degli abitanti del Donbass, è semplicemente una persona ottusa o in malafede, o del tutto ignara dei fatti storici.

Nel Donbass o in Transnistria vi sono ancora molti nostalgici della vecchia URSS. Putin avrebbe potuto lasciarli cuocere nel loro brodo ideologico, ma di fronte alle persecuzioni che quelle popolazioni hanno patito dai tempi del golpe detto di "Euromaidan", ampiamente sostenuto dagli americani, ha ritenuto che l'indifferenza sarebbe stata una forma di vergognosa complicità.

Non pochi testi su Putin lo descrivono come una persone che, per certi versi, sarebbe meglio non avere come amico, ma in questa guerra, mettendolo a confronto con Zelensky e con gli statisti occidentali che sostengono la dittatura di Kiev, non si possono avere molti dubbi su da quale parte stare.

Certo, non siamo convinti che il destino dell'umanità sarebbe migliore se personaggi impresentabili come Biden, Blinken, Macron, Scholz, von der Leyen, Borrell, Trudeau, Draghi, Meloni e tanti altri si facessero da parte. Sappiamo bene che sono solo marionette gestite da poteri molto meno visibili, che potrebbero sostituirle con altre in qualunque momento.

Tuttavia l'aria sarebbe meno pesante, e noi ascolteremmo più volentieri il suono di parole che oggi non esistono più, come per es. negoziato, trattativa, intesa, diplomazia, buon vicinato, cessate il fuoco, pace...

Convinto d'essere il migliore dei mondi possibile, il capitalismo privato occidentale, piuttosto che assumere un atteggiamento relativistico, preferisce porre le condizioni per un suo crollo rovinoso.


19 maggio


Tentazioni europeistiche


La cultura russa è forse la più contraddittoria del mondo. Mi riferisco anche alla mentalità, allo stile di vita, ai modi che hanno di reagire alle situazioni critiche. Passano facilmente da un estremo all'altro.

Gli occidentali sono più coerenti. Dal sorgere dei Comuni medievali in Italia hanno optato per una civiltà di tipo borghese, e da allora non sono più tornati indietro. Se qualche volta hanno avuti dei dubbi (in seguito per es. a catastrofiche situazioni belliche), bisogna dire che, nel complesso, i ripensamenti non hanno mai comportato un rovesciamento del sistema dominante, che anzi è sempre stato riconfermato con più convinzione, usando mezzi e metodi sempre nuovi.

Da un millennio la civiltà occidentale è in evoluzione. Ha ereditato molte cose dallo schiavismo greco-romano: si pensi che il primo Codice civile moderno risale a Napoleone! Ma, a partire dal Mille, ha aggiunto di suo due aspetti senza precedenti: l'ideologia cristiano-borghese nelle sue due varianti fondamentali: cattolicesimo e protestantesimo, e il capitalismo come sistema economico (prima commerciale, poi manifatturiero, infine industriale).

Come noto, il capitalismo è strettamente correlato alla rivoluzione tecnico-scientifica e al diritto formale. Con quest'ultimo abbiamo inventato una condizione paradossale d'esistenza: si può essere giuridicamente liberi e socialmente schiavi. I figli "cristiani" di Dio sono liberi di natura: al massimo soffrono per qualche colpa che hanno commesso o perché devono superare delle prove. Chi invece non è "cristiano", va sottomesso finché non si converte.

Con lo scientismo seicentesco (quello anzitutto astronomico), abbiamo addirittura detronizzato Dio e posto l'uomo al centro dell'universo, padrone assoluto anche della natura.

I russi sono in parte affascinati dal laicismo e dal benessere euroccidentale, ma in un altro luogo della loro coscienza rifiutano il nostro atteggiamento individualistico, così amorale. Solo gli oligarchi lo apprezzano.

Perché non riescono ad essere "coerenti" come noi? Se prendiamo lo stalinismo, è impossibile non ammettere che vi erano elementi in comune col nazifascismo. Eppure aveva qualcosa di "collettivistico" (da ricercarsi nel sentire, nelle abitudini della popolazione), che in Europa occidentale non si trova più da un pezzo.

Gli anni '90 sono stati disastrosi per la Russia, ma proprio perché si era voluto imitare, con quanta più fretta possibile, lo stile di vita occidentale: cosa che inevitabilmente comportava molto cinismo, se non addirittura molta spietatezza.

Poi con Putin s'è fatta improvvisamente marcia indietro. E non perché Putin fosse un visionario della politica come il democratico Gorbaciov, ma soltanto perché aveva capito che senza un governo forte, la società si sbanda, s'indebolisce al cospetto dei suoi nemici stranieri.

Avendo piena consapevolezza delle sue risorse naturali, la Russia non vuole essere derubata in casa propria; non sopporta imposizioni dall'esterno (almeno non oltre un certo limite); ha iniziato, con Putin, a indispettirsi parecchio di fronte alle continue minacce della NATO; non ama il dissenso interno, poiché alla libertà preferisce la sicurezza e la stabilità; guarda sempre con ammirazione l'uomo forte che la dirige.

Un Paese del genere può essere paziente quanto vuole, ma se volesse abbattere il regime di Kiev, usando la propria forza militare a livelli molto più alti, nessuno potrebbe impedirglielo. Ecco perché sarebbe bene che il governo di Zelensky chiedesse di trattare la pace il più presto possibile. Possiamo anzi star certi che i russi vincerebbero la guerra anche se la NATO s'impegnasse direttamente con tutte le sue truppe.

E allora cosa c'è che non va in questo gigantesco Paese? C'è che il suo destino sembra essere segnato: vincere tutte le guerre e perdere ogni volta la pace.

I russi non devono diventare come noi, ma devono essere più coerenti col meglio delle loro tradizioni. Devono acquisire una democrazia reale, che da noi è solo fittizia. In tal senso Putin non è l'uomo giusto. Il fatto stesso che sia al potere da un quarto di secolo non depone a suo favore.

D'altra parte non è possibile aspirare a un post-putinismo ancora più autoritario di quello attuale, anche se le minacce provenienti dall'occidente collettivo non lasciano molta scelta a un Paese che dal 1917 ad oggi ha sempre sofferto il problema dell'accerchiamento. Bisogna però che i russi spezzino le catene che li costringono a non essere quel che dovrebbero essere. E' il loro asiatismo che deve superare le tentazioni europeistiche.


20 maggio


Destinati in un vortice comune


Una cosa va detta in modo chiaro e tondo: se il dollaro tiene, nonostante il mostruoso debito pubblico americano, è perché molti Paesi del mondo si sentono attratti dagli alti tassi d'interesse posti dalla FED.

Infatti non ci sarebbe alcun motivo di sostenere un Paese sempre più guerrafondaio e che, per i suoi altissimi livelli di criticità sociale, potrebbe rischiare ogni giorno un default economico, se non addirittura una guerra civile. Un Paese che emette banconote senza preoccuparsi minimamente che abbiano un sottostante nella produzione economica, e che è stato il principale responsabile delle più gravi crisi finanziarie, speculative e borsistiche del mondo, a partire da quella del 1929 (peraltro totalmente inaspettata dagli investitori), non dovrebbe essere considerato un Paese affidabile.

Eppure l'evidenza smentisce questa semplice constatazione. In tal senso è giusto parlare di "occidente collettivo". Se gli USA finiscono in bancarotta, l'intero occidente sarà travolto nel vortice. I risparmi di milioni di persone verranno bruciati, poiché oggi non c'è banca, assicurazione, istituto finanziario che non investa negli USA una parte significativa dei risparmi dei cittadini, e senza che loro neppure lo sappiano.

Subiranno contraccolpi mortali tutti i Paesi che credono nel potere della finanza, nel sogno assurdo del guadagno facile. Non sarà possibile attribuire tutte le responsabilità del crollo finanziario occidentale a un unico Stato, per quanto pretenda di essere la locomotiva di tutti gli altri. Dovranno per forza essere "collettive", poiché in un mondo globalizzato non può essere diversamente.

Così come oggi appare storicamente chiaro che non possiamo attribuire alla sola Germania lo scatenamento della seconda guerra mondiale: è infatti appurato che il nazismo era sostenuto dalla finanza statunitense in funzione anti-sovietica (e anche anti-europea). Gli USA non hanno mai avvertito i Paesi vincitori della prima guerra mondiale come dei "partner", ma solo come dei pericolosi concorrenti economici. L'URSS ovviamente veniva temuta per altre ragioni.

Chi pensa che l'Europa unita sia una "creatura americana", è completamente fuori strada. Non c'era bisogno di aspettare il sabotaggio del Nordstream per capirlo. Un continente unito, con una moneta forte, fa molta più paura rispetto a varie nazioni autonome, che marciano separate tra loro e che anzi tra loro si sentono rivali.

Ricordiamo che gli USA hanno sostenuto caldamente la BREXIT e che usano la NATO per tenere sottomessa l'intera UE. In tal senso avevano assolutamente bisogno che i legami economici della UE con Russia e Cina fossero gravemente compromessi, poiché il benessere degli europei era strettamente legato, per motivi diversi, a questi due grandi mercati.

Non era ammissibile per gli USA (la maggior potenza militare e finanziaria del mondo) confrontarsi con un'economia europea più stabile della loro, con molti meno problemi sociali, con una popolazione più estesa della loro, con una produzione industriale sofisticata... All'Europa bisognava farle capire che non si può essere partner alla pari con gli USA. La guerra per procura in Ucraina è servita allo scopo.

Ora, per tornare alla situazione antebellica, è difficile dire quanto tempo ci vorrà. Tutti gli statisti europei sembrano sul libro-paga degli americani. Fanno e dicono cose contro gli interessi degli europei. Ci fanno sentire sudditi di un impero che ci detesta e che ci ricatta con lo spauracchio di nemici completamente inventati: il terrorismo islamico, la minaccia di un'invasione russa, l'espansione commerciale della Cina.

Gli stessi europei, che giustamente si chiedono che senso abbia restare dentro una UE con un atteggiamento così servile, non si rendono conto che, favorendo la divisione, saranno ancora più deboli.


21 maggio


Verità e bugie sull'ARMIR


Nel n. 4/2018 di "Slavia" lo storico Giorgio Scotoni ha scritto un saggio sulla storiografia italiana, tedesca e russa dedicata alla disfatta dell'ARMIR (Armata italiana in Russia) nel 1942-43.

Purtroppo ancora oggi solo agli storici russi interessa ricostruire l'obiettività dei fatti; quelli italo-tedeschi tendono a inventarsi le cose o a valorizzare la memorialistica dei sopravvissuti. Dei diari di questi ultimi, quelli tedeschi, in genere, non sono stati capaci di metabolizzare la sconfitta militare, mentre in quelli degli italiani rarissimamente si fa un'apologia della dittatura fascista.

Tuttavia il nostro Stato Maggiore post-bellico ha continuato a vedere in cattiva luce per molto tempo le memorie antifasciste dei veterani di guerra, come per es. dimostrano i casi del capitano Giuseppe Lamberti (pluridecorato) e del maggiore Giusto Tolloy, condannati, rispettivamente, nel 1948 e 1958 per propaganda antipatriottica, vilipendio e diffamazione delle forze armate (di quest'ultimo avevano orrore del libro Con l'armata italiana in Russia).

Esaminando gli archivi russi alcuni stereotipi vengono facilmente smontati.

1) La Wehrmacht non ha perso la battaglia di Stalingrado per colpa dell'inefficienza dell'Armata italiana - come sostengono gli storici tedeschi -, ma, al contrario, l'ARMIR fu sconfitta facilmente dall'Armata Rossa perché venne completamente abbandonata a se stessa dal comando hitleriano, la cui tattica in Russia fu sempre quella di risparmiare le proprie truppe a spese di quelle alleate.

2) Non è vero - come sostengono gli storici tedeschi - che i militari italiani erano entrati in Russia allo scopo di compiere una guerra di sterminio a carico dei civili, esattamente come facevano i nazisti. Al massimo saccheggiavano le città russe occupate. Semmai guerre di sterminio le hanno condotte in Etiopia, Libia e Jugoslavia.

3) Non basta dire - come ha sempre sostenuto la storiografia fascista e quella del nostro Stato Maggiore fino agli anni '70 - che le 10 divisioni dell'ARMIR furono travolte dall'attacco dei carri armati sovietici perché l'estensione del fronte assegnato dal comando tedesco era troppo ampio; e perché le divisioni tedesche si ritirarono sui fianchi, permettendo ai russi di circondare gli italiani. Il vero motivo della disfatta stava nella totale sottovalutazione delle forze nemiche. Un errore, questo, che, se ci pensiamo, ha di nuovo ripetuto oggi la NATO e l'intero occidente nella guerra per procura condotta in Ucraina.

4) Solo negli anni '70 la storiografia italiana poté sostenere che la campagna di Russia non fu voluta dal solo Mussolini, ma anche dall'intera dirigenza fascista e dallo Stato Maggiore generale. Fu per colpa di questa campagna che le esigenze delle truppe italiane in Africa rimasero inascoltate.

5) Su un dato la storiografia sovietica ha confermato i riscontri del nostro Stato Maggiore: i morti e dispersi italiani furono quasi 85.000. Sarebbe interessante chiedersi quanti militari saremmo oggi disposti a perdere per entrare direttamente in guerra contro la Russia di Putin.


22 maggio


Disposti a tutto


Ci fu una certa differenza tra la rivoluzione inglese del XVII sec. e quella americana del secolo dopo.

Al tempo di Cromwell si sarebbe potuta sviluppare più facilmente una significativa democrazia se fossero state ascoltate le istanze di quei gruppi di militari (Livellatori e Sterratori) provenienti dai ceti più marginali. Ma Cromwell volle imporre la propria dittatura, e dopo la sua morte la borghesia rivoluzionaria dovette scendere a patti con l'aristocrazia retriva. Simbolo artificioso di questo accordo fu l'anglicanesimo, un mix di cattolicesimo sul piano dei riti e di calvinismo su quello dell'etica.

Negli USA invece la democrazia si espresse come lotta di liberazione nazionale contro il colonialismo britannico. A questa lotta parteciparono tutti, borghesi e proletari. E quando arrivarono a mettere per iscritto i princìpi di questa rivoluzione (Dichiarazione d'Indipendenza), la democrazia fu più avanzata di quella inglese, anche se non prevedeva né l'uguaglianza sociale né la fine dello schiavismo (al massimo l'uguaglianza era giuspolitica e solo per gli anglosassoni). Gli stessi leader rivoluzionari usavano i negri nelle loro piantagioni. E in genere i coloni non si facevano molti scrupoli nell'eliminare i nativi.

Ci vorrà un secolo prima che, in virtù di una guerra civile, il nord industrializzato (bisognoso di manodopera salariata nelle proprie industrie) eliminasse lo schiavismo del sud. Ma ci vorranno le due guerre mondiali e le successive guerre anticomuniste in Corea e in Vietnam prima di capire che se gli afroamericani si conformavano al 100% allo stile di vita dei bianchi, sarebbe stato stupido non sfruttare le loro risorse intellettuali e soprattutto la loro manovalanza nelle forze armate.

Con ciò ovviamente non si vuol dire che gli USA fossero esenti da ideologie razziste. Si può semmai dire che, mentre nel Regno Unito il razzismo era un prodotto dell'aristocrazia feudale, trasmesso alla classe borghese, che lo praticava soprattutto nelle colonie conquistate; negli USA invece il razzismo veniva usato per non far vedere che l'antagonismo sociale aveva radici economiche, cioè una natura di classe. Di qui la netta avversione verso qualunque idea di tipo socialistico che sostenesse il contrario.

Oltre a ciò bisogna dire che gli americani non si preoccupavano d'imporre una particolare ideologia nelle colonie che occupavano. Il loro stretto calvinismo li portava ad accentuare di più gli aspetti commerciali, finanziari, consumistici. Profitto, interesse e rendita: questi i tre principali criteri di vita sociale dell'americanismo.

Poi c'è la questione dell'individualismo, che negli USA è sfrenato. Non a caso tutti i cittadini sono armati. Cosa impensabile nel Regno Unito, dove persino gli agenti hanno al massimo un piccolo sfollagente.

I valori fondamentali della società americana li vediamo nella loro cinematografia: fare soldi a tutti i costi, raggirare in qualche modo lo Stato e vendicarsi delle offese subite, senza aspettare le lungaggini della giustizia. Il cittadino è, come in tutti i Paesi occidentali, formalmente libero, ma se si mette contro i poteri forti, deve avere una montagna di soldi per difendersi.

Le istanze collettive sono poche: le lobbies (dove, per farvi parte, non conta certo il sangue blu, ma solo il conto corrente); la criminalità organizzata (dove la parentela ha un certo peso); il sindacato (che tutela le categorie sociali più forti); gli ambienti militari (dove, in cambio della licenza di uccidere e laute prebende, i vertici chiedono l'omertà più assoluta); le comunità religiose (che fanatizzano gli adepti, li privano delle loro risorse e li usano per fare quattrini); gli istituti di beneficenza (sempre alla ricerca di finanziamenti privati con cui sostenere anzitutto se stessi); il sistema scolastico (dove il settore pubblico è riservato alle classi marginali e dove insegnare qualcosa è un'impresa titanica). Non parliamo dei partiti politici, poiché nessuno dei due dominanti è indipendente dal mondo economico, finanziario e militare. I cittadini lo sanno e la metà non va neppure a votare.

Fino agli anni '50 si pensava che le varie religioni (per lo più protestanti) avrebbero potuto costituire un freno a questa vergognosa oligarchia. Oggi, piuttosto che rinunciare al proprio dominio mondiale, le élites del Deep State sono disposte a tutto.


23 maggio


L'homo novus siberiano


Chi pensa che la Russia non sia mai stata un Paese colonialista, si sbaglia di grosso.

La prima spedizione armata dalla Moscovia zarista verso la Siberia, allora occupata dai tartari, fu del 1581: facevano gola le preziose pellicce degli animali artici. Protagonisti assoluti furono i cosacchi, con le loro armi da fuoco. Da allora in poi, sfruttando la debolezza delle popolazioni nomadi autoctone, non ci si sarebbe più fermati.

Dopo aver occupato l'intera fascia settentrionale dell'Asia, si arrivò persino in Alaska, che fu poi venduta nel 1867 agli statunitensi per una cifra che non corrispondeva affatto al suo valore reale e che copriva appena le spese della colonizzazione (non a caso ancora oggi viene rivendicata da alcuni politici russi).

Esploratori, missionari, commercianti e militari svolgevano le stesse mansioni dei loro colleghi occidentali, cercando di evitare i metodi brutali e senza imporre il servaggio.

Anzi, diciamo che fino alla metà del XIX sec. la Siberia era vista più che altro come una colonia punitiva per criminali comuni e politici, oltre che come rifugio per gruppi dissidenti o per contadini che volevano sottrarsi al servaggio o per banditi che volevano sfuggire alla legge. In un secolo e mezzo oltre un milione di persone vi furono deportate dagli zar.

Solo gli intellettuali populisti e slavofili, avversi a quelli occidentalisti, ritenevano che, a causa della cultura siberiana, la Russia fosse un insieme di euro-asiatismo che l'Europa occidentale non avrebbe potuto capire.

Le popolazioni nord-siberiane, a differenza di quelle islamiche dell'Asia centrale, erano di fede animistica, non conoscevano la scrittura ed erano povere di miti. Vivevano prevalentemente di caccia, pesca e raccolta. L'agricoltura era una risorsa secondaria e solo a sud della frontiera del permafrost. Di gran lunga preferivano l'allevamento di renne.

Il governo zarista voleva che molti contadini, facilitati dalla ferrovia transiberiana (1892-1904), si trasferissero là per mettere a frutto le enormi terre vergini (cosa che inizialmente fecero secondo le modalità di coltivazione degli autoctoni). In tal modo avrebbero anche potuto versare allo Stato il conguaglio per il proprio riscatto dalla servitù della gleba, abolita nel 1861. Ancora oggi la Transiberiana è la ferrovia più lunga della Terra (9.288,2 km): in nove giorni attraversa 14 regioni e 100 popoli diversi.

Nello stesso periodo gli statunitensi compivano un genocidio nei confronti delle tribù native americane. C'è da dire però che, mentre negli USA le terre tolte ai nativi venivano privatizzate dai "conquistatori", in Siberia invece restavano di proprietà statale e venivano concesse in usufrutto solo a comunità rurali. Peraltro le distanze e le ricchezze, praticamente illimitate, rendevano in Russia del tutto inutile lo sterminio delle popolazioni locali, le quali anzi, essendo molte esperte a sopravvivere con nulla, tornavano comodo ai colonizzatori. Non ci fu uno sterminio degli indigeni neppure quando si scoprirono i metalli pregiati.

Solo nel periodo 1905-11 lo Stato iniziò a concedere delle privatizzazioni agricole, con l'obiettivo di ottenere maggiori introiti fiscali e consensi politici. Ma per non rovinare i contadini dell'area europea dalla concorrenza dei prodotti siberiani, lo zarismo fu costretto a imporre severi dazi sul grano. Tuttavia ormai l'autocrazia dei Romanov stava per essere sostituita dalla democrazia borghese.

Ovviamente non a tutti piacevano queste migrazioni siberiane: non ai nobili agrari, che vedevano privarsi di abbondante manodopera sottocosto; né alle comuni agricole, che si trovavano a pagare allo Stato un carico fiscale maggiore sulla terra ottenuta in usufrutto (la quota era infatti rapportata all'estensione non al numero dei lavoratori).

Nel periodo 1898-1913 le migrazioni coinvolsero circa 5 milioni di persone. Nel 1914 la Siberia aveva in tutto 10 milioni di abitanti, a fronte di meno di un milione di indigeni. Era quindi diventata un'altra cosa.

La Siberia non dava solo vantaggi economici ma anche strategici: il governo infatti non voleva farsi cogliere impreparato nella corsa al Pacifico che stavano intraprendendo USA, Cina e Giappone (quest'ultimo addirittura aveva sconfitto la Russia nel 1905, offrendo l'occasione per la prima rivoluzione russa antizarista).

Fu comunque lo stalinismo a utilizzare la Siberia come una colonia interna da sviluppare in maniera esclusivamente industriale.

Le 30 etnie indigene erano diventate un'infima minoranza rispetto a russi, ucraini, bielorussi, tedeschi, polacchi, estoni e lituani, giunti qui per lavorare. Nel 1937 fu imposto l'alfabeto cirillico a tutte le lingue dell'URSS. A partire del 1957 ogni insegnante poteva essere arrestato se continuava a parlare la lingua indigena al di fuori della scuola. Il governo costrinse molti nomadi a diventare sedentari.

Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, i nazisti sottovalutarono completamente l'importanza della Siberia, di cui ben 10 divisioni arrivarono a Berlino. Anche i giapponesi rimasero spiazzati: vedendo che le forze sovietiche era due volte superiori alle loro, non gli restava che scendere a trattative. Forse anche per questo gli USA si affrettarono a bombardare a tappeto Tokyo, Hiroshima e Nagasaki.


24 maggio


Non possiamo fare a meno del socialismo


Se ci pensiamo, da quando è nato il moderno socialismo (utopistico e scientifico, poi statale e oggi mercantile), tutte le guerre han dovuto fare i conti con questa ideologia.

Esiste una qualche forma di "socialismo" persino nelle dittature occidentali. Che cos'è stato il fascismo italiano se non un socialismo di destra, quello della piccola borghesia, favorevole alla statalizzazione di vari aspetti dell'economia sociale? Questo naturalmente a prescindere dal fatto che il fascismo è stato anche il protettore degli interessi del grande capitale industriale e agrario.

E il nazismo non è forse stato un socialismo nazionalistico contro quello internazionalistico dei classici del marxismo? Non aveva forse molti aspetti tipici del capitalismo statale? Quel capitalismo che oggi, nella sua specificità asiatica, si sta contrapponendo al capitalismo privato occidentale...

E quante dittature iberiche e sudamericane possedevano componenti di tipo socialistico desunti dal cattolicesimo romano? La Chiesa non si è forse sempre vantata (peraltro illusoriamente) di possedere una "terza via" tra socialismo statale e capitalismo privato?

Le stesse dittature socialistico-statali (sovietica, cinese, ecc.) non hanno forse sfruttato, deformandole, le concezioni collettivistiche che si avevano in Asia nel passato? E che dire del continente africano? Prima d'essere colonizzato dagli europei, non aveva forse caratteristiche tipiche del comunismo primordiale, quello che si viveva nelle grandi foreste? Anche quando in certi imperi africani s'impose lo schiavismo (primo fra tutti quello egizio), non è forse vero che questo schiavismo s'impose nella sua forma statalizzata? Esattamente come nelle tre civiltà andine o assiro-babilonesi. Una forma assai diversa da quella privata del mondo greco-romano.

Guardiamo il genocidio compiuto dagli europei nel Nordamerica: i nativi non vivevano forse un'esperienza di vita di tipo socialistico? E gli aborigeni in Australia? Da un pezzo è assodato che tutte le civiltà schiavistiche della storia, siano esse statali o private, nacquero in contrapposizione al comunismo primitivo.

Ma guardiamo anche l'americanismo di tipo capitalistico. Forzando un po' le cose, potremmo dire che è una forma di democrazia sociale basata sul consumismo di massa, sulla rappresentanza parlamentare nazionale, sul diritto formalmente uguale per tutti. La rivoluzione americana non concesse nulla all'aristocrazia di sangue, quella tardo-feudale tipica degli inglesi, dei tedeschi, ecc.

Il mondo intero sembra vagare nel vuoto, alla ricerca di uno stile di vita che deve necessariamente fare i conti con le esigenze del socialismo. Per quanti sforzi facciamo, non riusciamo a trovare il modello più giusto, in grado di durare nel tempo.

Abbiamo inventato un socialismo industriale, statale, mercantile, autoritario..., ma tutti i tentativi sono falliti. I sostenitori del capitalismo (e anche di qualunque religione) ne hanno sempre approfittato per dire che su questa Terra non è possibile tornare ad essere naturali, cioè davvero umani. Si compiacciono nel volerci far credere che il socialismo non è un sistema economico democratico. Pretendono di presentare il capitalismo come più consono alla natura umana, in quanto l'uguaglianza è data dal mercato, dai valori umani universali espressi nel diritto internazionale. Non sanno che per il capitalismo privato occidentale sta per suonare l'ultima campana.

Il vero problema tuttavia è che tanti pensano di poter risolvere i grandi limiti di questo sistema con altre forme di capitalismo, più collettivistiche, più statalizzate. Stiamo per entrare in una nuova grande illusione. Chissà per quanto tempo il pianeta ci permetterà di sperimentare tutte queste precarie, anzi fittizie transizioni verso il vero bene comune.


25 maggio


Che cos'è lo stalinismo?


Mi si rimprovera di non sapere cos'è lo stalinismo. Mi si dice che Stalin non ha mai elaborato una propria ideologia politica. Mi si obbliga a ribadire che cosa non si dovrebbe fare per costruire un socialismo democratico. Lo dico in tre punti.

1) Statalizzare tutto è un errore madornale. Lo Stato deve fare in modo che la società civile sia in grado di autogestirsi, altrimenti l'autoritarismo del partito unico identificato con lo Stato dirigista, il burocratismo delle pianificazioni quinquennali calate dall'alto, l'inevitabile inefficienza produttiva causata dall'assenza di un mercato, l'artificioso volontarismo per superare la deresponsabilizzazione di chi è abituato a obbedire per rispettare la gerarchia, il paternalismo come arma di distrazione di massa, la corruzione endemica delle classi superiori (selezionate col metodo della cooptazione e non del merito), l'ideologizzazione di tutte le decisioni politiche, la subordinazione del diritto alla politica, l'imposizione del pensiero unico e quindi l'assenza della libertà di coscienza, i metodi inquisitoriali basati sul sospetto e sulla presunzione di colpevolezza, il culto della personalità (conseguente al fatto che si preferiva la fedeltà alla capacità), l'eliminazione fisica dell'avversario politico o ideologico, la concezione del sindacato come "cinghia di trasmissione" del sistema dominante, la deportazione di intere popolazioni da un luogo a un altro dello Stato, l'imposizione del nazionalismo "grande russo" a tutte le altre nazionalità o regioni, l'inaccessibilità degli archivi e altre "perle" tipiche dello stalinismo non finiranno mai.

2) E' un errore sostenere che quanto più si sviluppa il capitalismo, tanto più il socialismo deve diventare autoritario, per cui l'idea dei classici relativa all'estinzione progressiva dello Stato è possibile realizzarla solo in assenza del capitalismo.

3) L'industrializzazione forzata, la scelta di optare per l'industria pesante, a detrimento di quella leggera, ma anche la collettivizzazione forzata delle campagne, eliminando la classe dei contadini agiati, furono errori che causarono disastri epocali in termini di perdite umane e devastazioni ambientali.

4) Non fu lo stalinismo a vincere il nazismo. Stalin non fu affatto un grande stratega militare; anzi, per colpa sua l'URSS ebbe un numero spropositato di vittime, da cui non si è più ripresa. Fu il popolo sovietico a vincere la guerra. Furono i generali dello Stato Maggiore sopravvissuti alle terribili purghe degli anni '30.


26 maggio


Che cosa intendo per socialismo democratico?


Quando parlo di socialismo democratico non intendo affatto riferirmi alla socialdemocrazia borghese. Una volta chiarito che non esiste socialismo senza democrazia, e viceversa, bisogna ragionare sul significato dei singoli termini.

Non intendo mai mettere in discussione che un mercato debba esistere. Semplicemente nego che sia il mercato a stabilire che cosa sia o non sia democratico. Come d'altra parte nego che sia lo Stato a stabilire quando si possa o non si possa parlare di socialismo.

Stato e mercato, per come si sono sviluppati nel socialismo statale e nel capitalismo mercantile, sono due entità che vanno abolite. Quanto più o meno velocemente non sta a me dirlo: io posso solo dire che sono due fonti di alienazione, oltre che di devastazione ambientale.

La democrazia in cui non credo è quella rappresentativa parlamentare nazionale. Per me la democrazia vera è una sola: quella diretta e locale. E' diretta proprio perché locale; è può essere rappresentativa solo a condizione che l'eletto venga votato da singoli elettori locali.

Questa è l'unica democrazia che dovrebbe essere permanente, quella in cui o non esiste alcuna differenza tra eletto ed elettore, oppure l'elettore controlla sempre l'eletto. In questo secondo caso non è importante il numero dei mandati. L'importante è il controllo e quindi la possibilità di revocare il mandato in qualunque momento.

L'eletto è sempre responsabile della volontà dell'elettore, per cui deve rendicontare periodicamente ciò che fa. Deve giustificare sempre le proprie decisioni.

Se per una qualche ragione si è costretti a convocare un'assemblea che vada oltre il livello locale, deve essere preventivamente chiarito che si tratta di qualcosa di temporaneo. In tal caso l'eletto deve rappresentare direttamente, nel suo insieme, la volontà della comunità locale che gli ha conferito il mandato, cioè non può assumere alcuna iniziativa di carattere personale.

Quando non ci sarà più bisogno di una democrazia rappresentativa, e ci si baserà soltanto su una democrazia diretta, allora vorrà dire che la comunità locale sarà così piccola che tutti si sentiranno protagonisti in prima persona.

Per quanto riguarda il socialismo è tassativa la gestione comune dei fondamentali mezzi produttivi che garantiscono l'esistenza di una comunità locale. La proprietà privata di tali mezzi non ha senso. Al massimo può esistere una proprietà privata o personale di mezzi accessori, integrativi, comunque non fondamentali.

Quindi socialismo vuol dire autogestione o cogestione di attività comuni. Se non si vuole dipendere dal mercato per ciò che di sostanziale assicura la sopravvivenza della comunità locale, è inevitabile il ricorso all'autoconsumo, cioè all'autoproduzione di ciò che si consuma. Il mercato può servire per scambiare le eccedenze, o per acquistare prodotti ritenuti importanti ma non indispensabili. E lo scambio sarebbe bene che avvenisse tramite il baratto. Questo perché la moneta favorisce l'accumulazione indefinita, illimitata.

E' mai esistito un socialismo del genere? Sì e per milioni di anni. Abbiamo cominciato a distruggerlo circa 6.000 anni fa, quando abbiamo fatto nascere le società schiavistiche, che, col tempo, sono diventate delle vere e proprie "civiltà". Da allora abbiamo soltanto configurato in varie forme lo schiavismo, sia esso di tipo privato o statale, ma, nella sostanza, l'abbiamo sempre riconfermato.


27 maggio


Come interpretare la realtà?


Quando devo cercare di capire un evento o un fatto storico preferisco mille volte un'analisi metodologica fondamentalmente corretta, che pur nei particolari presenta vari errori, rispetto a quell'analisi che, pur dicendo molte cose vere nei particolari, è viziata da un'impostazione di metodo completamente sbagliata.

In tal senso, tanto per fare un esempio, consiglio tranquillamente di cestinare tutta quella esegesi confessionale dei vangeli, che preferisce parlare di "redentore" invece di "liberatore" o di "resurrezione" invece di "insurrezione", e di mille altre corbellerie.

Tuttavia trovare un'analisi metodologicamente corretta non è così facile. Siamo sempre incredibilmente condizionati dall'ambiente in cui viviamo, dalle esigenze o dagli interessi che maturiamo in questi ambienti.

Prendiamo, ad es., l'attuale conflitto tra Russia e Ucraina. Se si è studiato il pregresso storico, che va almeno dal 2014 ad oggi, non dovrebbe essere difficile capire che le responsabilità della giunta golpista di Kiev sono infinitamente superiori alla decisione di compiere, da parte della Russia, un'operazione militare speciale.

Se si ha chiaro che nessun evento o fatto storico può essere interpretato soltanto in chiave etica, in quanto esistono altri fattori di tipo economico, politico ecc., che vanno presi in attenta considerazione, tutto diventa molto più semplice da capire.

Solo una persona molto ingenua o sprovveduta riuscirebbe a non vedere che dietro questo conflitto vi è un intento imperialistico da parte degli euro-americani ai danni della Russia. Le basi NATO attorno a questo Paese si sono moltiplicate sin dal 1999.

Il capitalismo privato occidentale è da almeno 25-30 anni che vive una fase di profonde contraddizioni. Il modo che ha di affrontarle è irrazionale, poiché ne fa pagare le conseguenze, internamente, ai ceti sociali più deboli, ed esternamente agli Stati che non possono competere sul piano militare.

Ora però sta incontrando delle resistenze inaspettate a livello mondiale. Naturalmente mi riferisco a quelle russa, cinese e iraniana, ma anche a quelle di taluni Paesi del Sud globale. L'occidente capitalistico patisce di più queste resistenze geograficamente esterne che non quelle socialmente interne ai propri confini. Il mondo sta cambiando e piuttosto velocemente, e chi, fino a ieri, era abituato a dominarlo, non riesce a ridimensionarsi.

Sarebbe bene tuttavia non farsi prendere da facili entusiasmi. Il capitalismo statale russo, il socialismo mercantile cinese, la repubblica islamica iraniana non possono essere considerate delle vere "alternative" al dramma che stiamo vivendo.

Per 70 anni abbiamo creduto che il socialismo statale (industriale, come quello sovietico, o agricolo, come quello cinese) fosse un'alternativa al capitalismo occidentale. C'eravamo sbagliati. Si sbaglia sempre quando si cercano soluzioni al di fuori del nostro vissuto e non ci s'impegna in prima persona a modificarlo.


28 maggio


La parentela tra russi e ucraini


Chi è che non ha letto Taras Bul'ba di Gogol' (1809-52)? Il libro è sicuramente conosciuto in occidente anche perché, a partire dal 1909, ispirò vari film (l'ultimo è del 2009). Il più famoso dei quali è quello del regista John L. Thompson, col mitico Yul Brinner (1962).

Gogol' era uno scrittore ucraino che in lingua russa narrava, in quel libro, l'epopea dei cosacchi, di cui ancora oggi gli ucraini vanno fieri, benché già al tempo della zarina Caterina II (1729-96) fossero cooptati entro lo Stato zarista, ottenendo in cambio della loro lealtà, gli stessi benefici spettanti alla nobiltà russa.

I cavalieri cosacchi, coraggiosi, spericolati, non soggetti agli obblighi feudali, dapprima nomadi, poi organizzati in comunità militari, nel XVI sec. dovettero affrontare l'occupazione polacco-lituana dell'Ucraina e quella dei tatari-mongoli a est.

Al tempo degli zar gli ucraini, se non parlavano russo, non fornivano élites allo Stato centrale, tant'è che per la burocrazia della "Piccola-Russia", dedita quasi esclusivamente all'agricoltura e con poca cultura, lo zarismo si affidava a russi, polacchi o tedeschi.

Gogol' proveniva da una famiglia aristocratica di derivazione cosacca. Per imparare bene la scrittura russa, si era trasferito a Pietroburgo, ove diventò un "classico" della letteratura. Sapeva bene che l'ucraino scritto non aveva le sfumature del russo, e che al massimo poteva servire per argomenti minori, come per es. il folklore, le canzoni, le commedie teatrali. La lingua ucraina è sempre stata considerata dai russi una specie di dialetto.

Gogol' diede un contributo decisivo alla fratellanza dei due popoli, tant'è che gli ucraini (piccolo-russi) non sono mai stati considerati un gruppo etnico come quello finnico o i baltici. Al pari dei bielorussi, agli ucraini veniva riconosciuta la nazionalità russa senza discussione, anche perché erano di religione ortodossa e di provenienza slava. Al massimo erano gli intellettuali ucraini che mal sopportavano l'autocrazia zarista e che volevano passare dal concetto di "popolo" a quello di "nazione" consapevole della propria specificità (cosa che accadrà verso la metà del XIX sec.).

Nel concreto le parentele russo-ucraine son sempre state enormi. Anzi son proprio queste parentele che spiegano il motivo per cui, nell'attuale conflitto, la Russia di Putin si stia comportando in maniera così accorta. Se il governo di Kiev non fosse completamente manipolato dalla politica occidentale e dal militarismo della NATO, l'operazione speciale sarebbe finita da un pezzo.

Ucraini e bielorussi sono sempre stati considerati dai russi come due figli: non erano neppure obbligati ad avere i passaporti interni, imposti dallo zarismo nel 1895. Certo è che, dovendo scegliere a chi dare la preferenza, i russi optavano per gli ucraini, ma non perché le loro terre producevano il grano migliore del mondo. Il vero motivo stava nel fatto che l'Ucraina rappresentava (soprattutto per gli slavofili romantici) un passato rurale più genuino, con tradizioni più autentiche, che in Russia, a causa dell'occidentalizzazione voluta da Pietro il Grande, si stavano perdendo.

L'attuale governo di Kiev non si rende conto che l'aver esercitato un autoritarismo neonazista, l'aver imposto la russofobia a tutta la società, l'aver adottato stili di vita occidentali (che tanto hanno favorito lo strapotere degli oligarchi), l'aver diffuso l'idea di poter facilmente vincere una superpotenza come quella russa... sono tutti aspetti che col tempo porteranno la popolazione a preferire la stabilità garantita da Mosca.


29 maggio


Quand'è che l'Ucraina passò sotto la Russia?


Verso la metà del XVII sec. gli ucraini si erano stancati della dominazione polacco-lituana, per cui chiesero aiuto ai russi. Anche la Bielorussia era finita in mano polacca.

A dir il vero gli ucraini erano divisi in due grandi categorie: da un lato gli agrari feudali, che avevano accettato completamente i polacchi, inclusa la loro religione; dall'altro la gran massa dei contadini, ostili sia al servaggio dei locali magnati ucraini che alla conversione forzata al cattolicesimo.

Solo i cosacchi sapevano tener testa ai polacchi, anche grazie a un'alleanza coi tatari presenti in Crimea, dipendenti dall'impero ottomano. In particolare si distinse il cosacco Bogdan Khmelnitsky, che ricevette da Oliver Cromwell un messaggio di congratulazioni per aver "flagellato" la nobiltà polacca e "sterminato il pretume romano".

Tuttavia ormai si era capito che senza l'unione con la Russia, sarebbe stato impossibile liberarsi definitivamente dei polacco-lituani.

E così nel 1653 Mosca approvò l'annessione dell'Ucraina allo Stato russo e dichiarò guerra alla Polonia. Ai cosacchi furono riconosciuti ampi diritti e privilegi.

La guerra contro la Polonia (che durò fino al 1667) coinvolse altri due Stati che temevano l'espansionismo russo: Svezia e impero ottomano. Dei due fu il primo a impegnare maggiormente i russi.

La Svezia infatti approfittò del momento per occupare gran parte della Polonia, fortemente indebolita dalla guerra in corso.

Mosca, avendo capito che la Svezia era il nuovo astro nascente, e avendo intenzione di aprirsi un accesso al Mar Baltico, le dichiarò guerra (1656-58), dopo aver firmato un armistizio con la Polonia, cui concesse, dell'Ucraina, solo i territori di Galizia e Volinia, con l'importante città di Leopoli.

Tuttavia la Polonia si riprese velocemente: cacciò gli svedesi dal proprio territorio e dichiarò guerra ai russi per ottenere il possesso dell'intera Ucraina.

Nel 1667 i due Stati conclusero un armistizio: Kiev e l'area orientale del fiume Dnepr passarono ai russi, mentre l'area occidentale e la Bielorussia tornarono ai polacchi.

Come mai Mosca non riuscì a sferrare il definitivo knock-out alla Polonia? Fu, come spesso capita ai russi, per beghe interne. Infatti, il governo, cercando di reperire mezzi finanziari per la conduzione della guerra, aveva coniato monete di rame con valore nominale uguale a quelle d'argento, ma in quantità tale ch'esse si erano fortemente deprezzate. Oltre a ciò pretendeva che le tasse venissero pagate con l'argento, mentre i salari ai funzionari e agli operai venivano dati in rame.

Di fronte all'insostenibile inflazione i contadini insorsero, anche perché mal sopportavano il giogo dei feudatari. Tuttavia nel 1662 la rivolta fu repressa nel sangue.

Bisognerà aspettare lo zar Pietro I (1672-1725) per vedere gli svedesi, dopo 21 anni di guerra, ridotti al lumicino, e quindi non più in grado di controllare in via esclusiva il litorale baltico (la Russia si era anche presa Estonia e Lettonia).

E bisognerà aspettare la zarina Caterina II (1729-96) per vedere gli ottomani ridimensionarsi di parecchio nel sud dell'Ucraina e per vedere soprattutto scomparire la Polonia dalle carte geografiche, essendo fatta oggetto di spartizione tra Russia, Prussia e Austria (1796-1918).

Tuttavia proprio con entrambi gli imperatori russi il servaggio dei contadini raggiunse vette assolutamente vergognose.


30 maggio


L'origine dell'odio russo-ucraino


Una delle cause storiche che scatenò l'inimicizia tra russi e ucraini fu l'eliminazione zarista della Confraternita cirillo-metodiana, fondata a Kiev nel 1846, a capo della quale i due intellettuali più importanti erano Nikolaj Kostomarov (1817-85), figlio naturale di un agrario russo e una domestica ucraina, politicamente moderato; e Taras Ševčenko (1814-61), ex servo della gleba, politicamente radicale.

Furono loro due a elaborare compiutamente l'idea di una "nazionalità ucraina", che i contadini, assai poco alfabetizzati, acquisirono soltanto a cavallo dei secoli XIX e XX.

Quanto a Cirillo e Metodio, teologi ortodossi di Tessalonica nel IX sec., è noto che furono i primi evangelizzatori degli slavi, nonché gli artefici di quell'alfabeto cirillico in uso ancora oggi in varie nazioni est-europee.

Cosa diceva di così sconvolgente la suddetta Confraternita da determinare l'immediato scioglimento da parte dello zar Nicola I nel 1847?

Ecco i punti salienti:

1- liberazione delle nazionalità slave dalle dominazioni straniere (in riferimento a quelle sottoposte agli imperi ottomano e austro-ungarico);

2- organizzazioni degli slavi in "società politiche" indipendenti, legate da un vincolo federale, nell'ambito di uno Stato repubblicano, di cui Kiev sarebbe stata la capitale (contro il centralismo autocratico zarista);

3- abolizione di qualunque tipo di servaggio (cosa che in Russia avvenne solo nel 1861 e in maniera piuttosto truffaldina);

4- soppressione di ogni privilegio e prerogativa di ceto (cioè gli ideali democratici della rivoluzione francese dovevano surclassare quelli aristocratici della nobiltà agro-feudale);

5- piena libertà e tolleranza in campo religioso;

6- utilizzo di un'unica lingua slava per le celebrazioni di tutti i culti religiosi (lo slavo, sotto tutti i punti di vista culturali, andava considerato come una sintesi tra il latino e il germanico, nonché come una prosecuzione del greco);

7- assoluta libertà di pensiero, educazione e stampa;

8- insegnamento di tutti i dialetti e di tutte le letterature slave.

Di tutti questi punti programmatici il potere zarista, divenuto sempre più conservatore, già al tempo del Congresso di Vienna (1814), non ne accettò neppure uno.

Ci volle la sconfitta della guerra di Crimea (1853-56), che la Russia subì per opera della coalizione di varie potenze europee, per permettere all'ucrainofilismo una nuova stagione, sempre grazie a Kostomarov, il cui pensiero slavofilo e panslavista non era però in grado di darsi alcuno strumento adeguato per realizzare gli ideali della suddetta Confraternita.

Il fatto stesso che gli intellettuali ucraini ritenessero se stessi come l'anello di congiunzione fra i Grandi-Russi e le popolazioni slave occidentali era quanto di più velleitario si potesse pensare. Non è da escludere che l'odierno neonazismo della giunta di Kiev sia anche una forma di reazione alle frustrazioni subite in passato.

Non a caso l'estremista Ševčenko, pur di dar sfogo alla propria russofobia, cercò la collaborazione della Polonia, antica dominatrice degli stessi ucraini. Paradossalmente però, siccome lui proveniva da ambienti marginali ed era stato perseguitato dallo zarismo, la storiografia sovietica lo vide come un internazionalista ante-litteram, ovviamente non senza prima aver sminuito completamente il suo lato patriottico-nazionalistico.


31 maggio


Chi comanda e chi obbedisce


Per giustificare l'operazione speciale militare in Ucraina, Putin, nel febbraio 2022, se la prese non solo con la NATO e il neonazismo dei golpisti di Kiev, ma anche con Lenin, per il fatto - secondo lui - d'aver spartito in modo sbagliato i territori dell'URSS, avendo concesso troppa libertà e autonomia ai gruppi etnici.

Sembrava un'affermazione vicina alle tesi staliniste, per quanto lo stesso Stalin volle inglobare nell'Ucraina due territori assai poco "ucraini": la Galizia e la Volinia.

Che poi quello ucraino è un gruppo etnico per modo di dire: parla una lingua considerata dai russi un dialetto; professa la stessa religione ortodossa, sebbene il patriarcato di Kiev sia in rotta con quello di Mosca sin dal 2018; inoltre gli ucraini sono slavi come i russi e i bielorussi.

In un certo senso non dovrebbe neppure esistere uno "Stato ucraino" e neppure una "nazione". Al massimo può esistere un "popolo", che però è diviso in varie componenti o minoranze, di cui quella russofona è indubbiamente la più significativa, anche se i nazionalisti e neonazisti di Kiev si rifiutano di riconoscerla. Nel XIX sec. i russi consideravano l'Ucraina come un proprio "giardino di casa", un territorio di periferia. Cercare di differenziarsi da questo popolo, sul piano politico o istituzionale, non avrebbe avuto senso.

Se dipendesse da Putin e da altri come lui, probabilmente l'Ucraina verrebbe smembrata tra le varie nazioni che ne rivendicano i territori di confine, ove sono presenti le relative minoranze etniche. Per es. l'Ungheria potrebbe inglobare i 156.000 magiari della Transcarpazia; la Polonia potrebbe riprendersi Galizia e Volinia, ove i polacchi sono circa 265.000; gli oltre 150.000 rumeni e gli oltre 250.000 moldavi potrebbero ottenere la Bessarabia; anche i 276.000 bielorussi potrebbero rivendicare qualcosa. Ma ci sono altre minoranze significative non confinanti con le proprie nazioni di riferimento: per es. i 274.000 bulgari. Naturalmente ci si basa sui dati dell'ultimo censimento ucraino del 2001.

Così com'è adesso, l'Ucraina cesserebbe d'esistere: resterebbe qualcosa sulla riva occidentale del Dnepr. In tal senso è da escludere a priori che, in sede di negoziato, Kiev potrà mai pretendere di riottenere i territori acquisiti dalla Federazione Russa. Sarà già molto se riuscirà a conservare Odessa e a impedire che la Transnistria venga ricongiunta col Donbass.

E' bene guardare la realtà in faccia. Cosa han fatto gli europei con la Jugoslavia? Non hanno forse separato un insieme nei suoi singoli elementi, penalizzando soprattutto la Serbia, cui si è tolto il Kosovo, collocando qui una potente base NATO? Perché mai dovremmo scandalizzarci se la Russia facesse la stessa cosa con l'Ucraina?

La differenza tra Ucraina e Jugoslavia sta soltanto nel fatto che la prima confina con la Russia, e questa non vuole basi militari (potenzialmente nucleari) che la minaccino.

Se per far finire questa guerra in corso, la Russia dovrà riconoscere alle nazioni confinanti con l'Ucraina dei territori estranei alle tradizioni slavo-ortodosse, non credo che verranno poste delle tassative questioni pregiudiziali. Ma se nei territori che i russi o i russofoni non andranno a gestire direttamente, la NATO penserà di allestire delle proprie basi, allora questa guerra è destinata a trascinarsi per molto tempo, con conseguenze molto spiacevoli per tutti.

La stessa Finlandia, che ha 1.300 km di confine con la Russia, non dovrà meravigliarsi, ora che ha accettato di entrare nella NATO, se un giorno scoprirà di non esistere più né come Stato né come nazione. Quando si vive in un condominio, non si può abusare della pazienza dei propri vicini di casa.

Sia come sia, questa guerra russo-ucraina ha dimostrato una cosa molto evidente: l'occidente non riesce ad accettare il principio dell'unità nella diversità. Qualcuno deve sempre comandare e gli altri devono sempre obbedire.



Giugno




1 giugno


Il valore d'uso di Antonov


Nel 1988 un docente russo di Scienze tecniche e dirigente dell'Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali dell'Accademia delle Scienze, Mikhail Antonov, criticava quello che per lui era il fondamentale difetto della perestrojka di Gorbaciov, l'economicismo, dicendo delle cose che, per la loro originalità, mi lasciarono stupefatto.

Gli stalinisti lo strumentalizzarono, ma non colsero l'importanza delle sue parole, che avevano ben altra valenza. Si chiedeva infatti se davvero la scienza economica fosse lo strumento più idoneo per superare i limiti in cui si trovava, a quel tempo, la società sovietica. Anzi lui riteneva che la scienza in sé potesse fare ben poco di fronte a problemi di natura sociale, spirituale e morale.

Questo perché la scienza moderna, specie quella economica, impone una certa gerarchizzazione del sapere, tra gli strati superiori che sanno e gli strati inferiori che non sanno. Chi sta in alto impartisce ordini di carattere generale, senza preoccuparsi delle esigenze e delle effettive capacità di chi sta in basso; e chi sta in basso non riesce assolutamente ad avere una visione d'insieme dell'intera società.

L'esito inevitabile di questa discrepanza tra direttive teoriche e realizzazioni pratiche era che, nel socialismo statale, ci si ingannava a vicenda. L'intellighenzia e la nomenklatura dipingevano di rosa il cosiddetto "socialismo reale", nella convinzione che le storture del particolare si sarebbero facilmente risolte col tempo. Invece quelle storture, sommandosi una sull'altra, avevano prodotto una situazione insostenibile.

Ma perché la scienza economica del socialismo statalizzato non riusciva a vedere i problemi reali della società civile? Il motivo principale - secondo Antonov - è che non si parlava mai del valore d'uso. Cosa che neanche faceva il principale economista della perestrojka, Abel Aganbeghjan.

La scienza economica, sia di tipo socialista o capitalista, si limita a vedere l'essere umano come un semplice lavoratore che produce e consuma. La differenza tra i due sistemi economici sta nel fatto che nel socialismo lo Stato si preoccupa di garantire al cittadino più diritti sociali (istruzione, sanità ecc.).

Il cittadino non viene mai visto nella sua interezza, cioè come soggetto che ha bisogno di cose che nessuno Stato può dare, e che qualunque imprenditoria privata (tipica del capitalismo) offre in maniera sbagliata, semplicemente per acquisire un profitto.

Il valore d'uso implica invece l'autoproduzione e l'autoconsumo di una società che non ha bisogno né dello Stato paternalistico (che diventa autoritario quando le cose non procedono secondo uno schema precostituito), né del mercato borghese, in cui il produttore impone al consumatore le sue leggi arbitrarie e i suoi prodotti insindacabili.

Il valore d'uso (tipico delle società pre-schiavistiche) implica una comunità d'intenti, un sentire comune, che va ben oltre gli aspetti meramente economici. Infatti è un valore deciso dall'uso non dallo scambio, cioè dalle tradizioni, dalle esigenze effettive del collettivo che usa determinati beni. L'individuo non è un numero, un componente privo di personalità.

Nella comunità esiste un'etica che spiega all'economia come e cosa deve produrre. Non servono i piani quinquennali calati dall'alto. Né si ha il dovere di lasciarsi sballottare dalle fluttuazioni anarcoidi dei mercati internazionali. L'unica vera proprietà che uno deve curare è, insieme, quella personale e sociale del collettivo cui appartiene, non è quella statale (in senso astratto e impersonale), né quella privata (in senso edonistico e individualistico).

Gli uomini non hanno bisogno né di un'economia regolata dallo Stato, né di un'economia che, illusoriamente, si autoregola attraverso il mercato, dove le crisi, i fallimenti, la disoccupazione sono all'ordine del giorno.

Noi abbiamo bisogno di un'economia regolata dall'autogoverno della società, in cui le esigenze riproduttive della natura sono il primo aspetto da porre sotto osservazione con la massima attenzione.

La qualità della vita non può essere determinata dall'aumento quantitativo dei beni che assicurano un certo benessere materiale. La vita deve diventare un'esperienza in cui il bisogno viene condiviso: un bisogno insieme materiale e immateriale.


2 giugno


Mostrare i denti serve?


Faccio alquanto fatica ad accettare i discorsi di chi sostiene che siamo precipitati nell'attuale caos mondiale a causa dell'implosione dell'URSS, che avrebbe ancor più alimentato le proiezioni di potenza degli USA e dell'occidente in generale.

Indubbiamente è vero che nel decennio degli anni '90 la NATO si è scatenata nell'allargarsi verso l'Europa dell'est. E' anche vero che in quel periodo il dominio internazionale del petrodollaro ha conosciuto le vette più alte; e che il Terzo Mondo si è sentito destabilizzato, dopo aver confidato nella potenza dell'URSS ai fini della propria decolonizzazione.

Ma ci siamo dimenticati che la guerra fredda era una specie di guerra mondiale e che non sono stati pochi i casi in cui avrebbe potuto scoppiare per davvero: il più grave fu quello di Cuba al tempo di Kennedy e Krusciov, ma anche quello dei missili Cruise e Pershing 2 in Europa non fu da meno.

Possiamo forse dire con certezza che una guerra mondiale vera e propria non avvenne solo perché dominava l'equilibrio del terrore? Che sicurezza ci può essere quando si vive nella paura quotidiana? E in ogni caso era giusto che l'umanità vivesse nell'angoscia di pensare che il filo della spada di Damocle poteva spezzarsi da un momento all'altro?

Non abbiamo forse tratto un sospiro di sollievo quando Gorbaciov indusse gli USA a firmare dei trattati a favore della pace nel mondo? quei trattati che poi gli stessi USA hanno rinnegato uno dopo l'altro?

Certo, Gorbaciov fece delle concessioni militari unilaterali. Permise l'abbattimento del muro di Berlino. Ritirò il contingente armato dall'Afghanistan, lasciando il Paese nelle mani dei talebani... Forse queste e altre cose potevano apparire eccessive, tipiche di un ingenuo idealista, di un visionario della politica. Ma diedero speranza. Fecero capire che la pace nel mondo era possibile.

Ora invece dobbiamo sentire qualcuno che rivendica i tempi in cui l'URSS faceva paura agli USA. E' questo che vogliamo? Illuderci di avere più sicurezza assumendo atteggiamenti da bulli?

L'URSS non è implosa per colpa di una guerra nucleare contro l'occidente, ma in forza delle proprie contraddizioni interne. Non è crollata perché Gorbaciov voleva rendere più democratico il socialismo. Questa è una tesi filo-stalinista.

Col suo pacifismo a oltranza Gorbaciov dava fastidio all'occidente bellicista. L'URSS sarebbe stata comunque attaccata, poiché è nella natura del capitalismo espandersi a spese altrui. E quando non vi riesce, diventa sommamente aggressivo. A chi vogliamo dar la colpa di questa aggressività? Forse a chi lotta a favore della pace e della democrazia? Cioè a chi non esibisce i denti con fare minaccioso?

Noi non dobbiamo volere più democrazia che porti più capitalismo, ma perché porti più socialismo. Non ci basta un capitalismo di stato, e neppure un socialismo mercantile. Lo Stato deve essere gestito dai lavoratori e i lavoratori devono arrivare ad essere così democratici da poter fare a meno di qualunque Stato.


3 giugno


Anche per noi una lezione utile?


A volte mi chiedo cosa potrebbe accadere a un gigantesco Paese come la Russia, la cui esistenza è legata a una enorme disponibilità di risorse energetiche, se il resto del mondo accettasse una transizione green, in cui gli idrocarburi fossero destinati progressivamente a scomparire.

La Russia non ha un'industria leggera (manifatturiera) come quella cinese. Se prescindesse dall'export del fossile, cosa le resterebbe? Il legname proveniente dalle foreste? Le sconfinate distese di terra da coltivare a cereali? Qualche prodotto metallurgico? Non lo sanno i russi che chi produce materie prime è sempre più debole di chi le trasforma? Inoltre chi ha voglia di sopportare le gelide temperature siberiane? Se fosse così facile, a quest'ora la Russia, visto le grandi risorse che ha, sarebbe il Paese più popolato del mondo.

In ogni caso la Russia non deve illudersi d'essere un Paese militarmente invincibile. Semmai deve contare sul fatto che ad ogni sconfitta bellica, è stata capace di riprendersi magnificamente.

Per es. la dura invasione tataro-mongola (1237-1480) le ha insegnato che, restando divisi, si perde sempre.

La Guerra del Nord (1700-21) contro la Svezia segnò l'ascesa della Russia come grande potenza europea, ma i russi non dimenticarono che un piccolo Paese come quello era stato capace di invaderli.

L'invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812 portò alla distruzione totale di Mosca, anche se la ritirata francese fu assolutamente disastrosa per la loro armata, tanto da segnare la fine dello stesso imperatore.

Durante la Guerra di Crimea (1853-56) la Russia fu invasa da un'alleanza di potenze europee, tra cui Francia, Gran Bretagna, Impero Ottomano e Sardegna. L'accesso al Mediterraneo le fu precluso. Tuttavia lo zarismo capì che doveva concedere la fine del servaggio.

La sconfitta col Giappone nel 1905 indusse la popolazione, con la rivoluzione dello stesso anno, a dare una prima spallata allo zarismo.

Si potrebbe andare avanti per un bel po'. Ma qui ci si vuole limitare a porre una semplice domanda: tutte le sconfitte della Russia sono forse un indizio della sua intrinseca debolezza? Questo per dire che, pur essendosi ripresa bene dopo ogni sconfitta, nulla lascia pensare che non possa essere vinta un'altra volta.

Tuttavia mi chiedo: chi siamo noi europei per considerarci migliori dei russi? Per caso non è che anche noi abbiamo bisogno di una lezione coi fiocchi per ripensare alla radice la nostra esistenza così misera sul piano dei valori?


4 giugno


Un esempio di follia bellica


A dimostrazione che l'occidente non è così forte militarmente come sembra, basterà ricordare, a titolo esemplificativo, la disfatta di Gallipoli dall'aprile 1915 al gennaio 1916, in piena guerra mondiale.

Il piano originale era quello voluto dal Primo Lord dell'Ammiragliato britannico, Winston Churchill: colpire gli imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano) su un nuovo fronte nell'Europa sud-orientale, cioè conquistare la penisola di Gallipoli, nello stretto dei Dardanelli, e aprire la strada alla Royal Navy per portare sotto attacco la capitale turca Costantinopoli (oggi Istanbul), costringendo gli ottomani alla resa. Inoltre Churchill era convinto che in questa maniera si sarebbero garantiti gli interessi petroliferi del suo Paese in Medio Oriente; e che gli Stati balcanici indecisi, tra cui Bulgaria e Grecia, si sarebbero uniti agli Alleati. Non aveva dubbi che la vittoria sarebbe stata rapida, in quanto riteneva gli ottomani debolissimi.

All'inizio del 1915 gli Alleati (Impero britannico, Francia, Impero russo, cui poi si aggiunsero Italia, Giappone e USA) erano in una situazione di stallo con la Germania sul fronte occidentale, mentre l'esercito russo era in difficoltà su quello orientale, ma contava di prendere lo Stretto dei Dardanelli e la stessa Costantinopoli se gli inglesi l'avessero aiutato.

La Forza di spedizione mediterranea comprendeva 16 navi da guerra con oltre 70.000 unità di varie nazionalità: inglesi, francesi, India britannica, Australia, Terranova e Nuova Zelanda.

La strategia dei Dardanelli iniziò con un tentativo di forzare gli stretti con la sola potenza navale. Ma i primi bombardamenti dei forti costieri fallirono: tre corazzate alleate furono perse a causa delle mine marittime turche e altre tre furono gravemente danneggiate. Gli alti ufficiali alleati decisero che il successo nei Dardanelli richiedeva uno sbarco anfibio di 3 divisioni su 6 spiagge diverse della piccola penisola ottomana di Gallipoli (inadatta a una lunga campagna, in quanto il terreno era roccioso, con poca vegetazione e ripidi burroni). Poi ne inviarono altre 11.

Dopo 8 mesi il disastro fu totale, a causa della inefficace organizzazione (scarse informazioni sul campo di battaglia, carte geografiche non aggiornate, mancato coordinamento tra tutte le truppe); ma soprattutto a causa della inaspettata resistenza dei reparti ottomani, addestrati da ufficiali tedeschi e collocati in posizione più elevata rispetto a quella degli alleati. In particolare il corpo di spedizione australiano e neozelandese subì perdite spaventose, prima che tutti i soldati fossero evacuati.

Delle 213.000 vittime britanniche stimate, 145.000 erano dovute a malattie. I combattenti sopravvissuti ricordarono i terribili problemi legati al caldo intenso: corpi insepolti in putrefazione (non si potevano recuperare senza rischiare nuove vittime), enormi sciami di mosche, grande infestazione di pidocchi, diffusa dissenteria (e le latrine erano un bersaglio privilegiato per i cecchini), grave mancanza d'acqua potabile e razioni alimentari insufficienti e spesso immangiabili. Durante l'inverno del 1915 in trincea ci si congelava a causa delle uniformi troppo leggere. Le vittime totali della campagna (incluse quelle ottomane) furono più di mezzo milione.

Di tutte le varie parti del mondo in cui furono schierate le forze britanniche e del Commonwealth durante la prima guerra mondiale, Gallipoli fu ricordata dai veterani come una delle peggiori in assoluto.

In quell'occasione emerse il valore militare del giovane colonnello Mustafa Kemal, che dopo la fine della guerra sarà il principale artefice della Turchia moderna, passato alla storia col nome di Atatürk.

Australia e Nuova Zelanda approfittarono di quell'episodio per rivendicare maggiore indipendenza dall'impero britannico.

Churchill si dovette dimettere e fu sostituito da quello sciagurato di lord Balfour che permise ai sionisti di costituire un loro "focolare" in Palestina, fonte di gravi sciagure per le popolazioni islamiche native.

Il film che narra, in maniera romanzata, la vicenda è "Gli Anni Spezzati", di Peter Weir, che volle far capire l'assurdità della guerra.


5 giugno


Il valore d'uso tra memoria e desiderio


Nel 1975 l'editore Jaca Book pubblicò un dibattito, dal titolo Quale 1984, avvenuto tra i grandi economisti marxisti del Terzo mondo: Samir Amin, Hosea Jaffe e Gunder Frank.

Quello fu un anno particolare, poiché per la prima volta, di fronte all'embargo petrolifero dei Paesi arabi, l'occidente si accorse che la propria ricchezza poggiava su basi fragili. Oggi sembra che tutti i nodi siano venuti al pettine.

Ebbene, tra i vari argomenti discussi uno mi colpì in modo particolare: la questione del valore d'uso. Si arrivò a dire che, mentre tutte le formazioni sociali precapitalistiche avevano un metodo globale di organizzare l'utilizzo dei valori d'uso, in quanto avevano una loro identità culturale, il capitalismo invece impone il valore di scambio proprio per distruggere ogni cultura, ogni civiltà.

Nelle società feudali i contadini lottavano per una partecipazione egualitaria al consumo dei valori d'uso. Esisteva nella loro memoria una tradizione comunitaria che la rendita feudale cercava di sminuire, di depotenziare.

Oggi questa memoria in occidente non esiste più. La merce, l'elemento più tipico del valore di scambio, esprime soltanto un'alienazione generalizzata: tutto è diviso, a partire dal lavoro e dai mezzi produttivi. Al massimo, quando, nel corso della storia, il proletariato industriale o la piccola borghesia lottano per la loro sopravvivenza o addirittura per rovesciare il sistema, vediamo emergere un semplice desiderio di collettivismo, una vaga istanza di giustizia sociale.

Oggi anche questo desiderio sembra essersi spento in occidente. Quando lo vediamo riaffiorare, non è in casa nostra, ma in Africa, in Asia, in America latina, cioè nei luoghi dove le popolazioni si vogliono liberare di noi, del nostro neoliberismo globalista, della nostra egemonia imperialistica.

Noi occidentali siamo sulla difensiva, poiché non vogliamo perdere i privilegi acquisiti. Nel resto del mondo sembra essere rimasta un'esigenza egualitaria che poggia su tradizioni più o meno collettivistiche, quelle tradizioni che noi, là dove abbiamo voluto dominare, non siamo stati capaci, per fortuna, di distruggere completamente.

Bisogna tuttavia che la si smetta di pensare che il socialismo democratico debba necessariamente comportare un dominio assoluto sulla natura, per poter scongiurare la prospettiva di un'uguaglianza nella miseria materiale.

Negli anni '70 le teorie socialiste non volevano rinunciare assolutamente ai successi della rivoluzione tecnico-scientifica. Oggi invece dobbiamo ripensare tutto. E' la natura stessa, che abbiamo flagellato come un Cristo condannato alla croce, che ce lo impone.


6 giugno


Non basteranno gli Orazi e i Curiazi


Solo degli statisti e analisti viziati da pregiudizi russofobici e da interessi guerrafondai non riescono ad accettare l'evidenza che la Federazione Russa è il più grande Paese europeo.

Infatti non solo la sua parte più economicamente sviluppata e densamente abitata si trova in Europa, ma bisogna anche ammettere - se non si vuole apparire completamente a digiuno di storia - che negli ultimi tre secoli (cioè a partire dallo zar Pietro I il Grande) la politica, l'economia, la scienza, la cultura e la diplomazia di questo enorme Paese sono state collegate soprattutto con la sua parte europea.

Dagli Urali all'oceano Pacifico, cioè in Siberia, Estremo Oriente e Asia centrale, è stata diffusa la cultura europea. Questo processo lo si può vedere in maniera positiva o negativa: di fatto nessuno può metterlo in dubbio.

Basterebbe mettere a confronto la Russia con la Turchia. In entrambi i casi la parte minore (in senso geografico), dei loro territori si trova in Europa, mentre la parte maggiore è in Asia. Tuttavia, mentre nel caso della Russia si è sempre trattato di un progressivo allargamento dell'Europa da occidente verso oriente; nel caso invece della Turchia il processo è stato inverso: la sua parte europea, che a noi occidentali appare più democratica, è stata completamente islamizzata, tanto che il governo turco non vuole neppure sentir parlare di Chiesa ortodossa, di cultura bizantina o di influenza del mondo greco.

La Turchia rappresenta davvero un caso singolare: della millenaria e avanzata civiltà bizantina, che si sviluppò nel suo territorio, non è rimasto praticamente nulla che abbia un peso significativo sulla situazione odierna. Ancora oggi questo Paese nutre manie espansionistiche come quando si chiamava "impero ottomano".

D'altra parte l'Europa, gli USA e la Russia non sono state da meno. Indubbiamente gli USA dal secondo dopoguerra ad oggi han dominato il mondo. Ma questa loro proiezione di potenza gli deriva dall'Europa occidentale, che l'ha esercitata per un tempo infinitamente superiore (come minimo dalla scoperta/conquista dell'America). Ciò ha influenzato la stessa Russia nell'atteggiamento assunto nei confronti della sua area asiatica.

Gli USA han sempre avvertito gli europei come rivali e i russi come nemici: gli uni andavano dominati, gli altri combattuti. Purtroppo la stessa Europa occidentale si è lasciata enormemente condizionare dalla postura sommamente aggressiva degli USA, che han fatto di tutto, approfittando dell'implosione dell'URSS, per inglobare tutti i Paesi dell'Europa orientale.

Se ci pensiamo, le ambizioni imperialistiche dell'occidente non sono mai finite. Solo adesso si comincia a vedere un significativo sbandamento o ridimensionamento generalizzato in forza di due fattori oggettivi: la superiorità militare della Russia e quella economico-produttiva della Cina (cui probabilmente si aggiungerà, in un futuro non troppo lontano, quella dell'India).

L'idea di un mondo multipolare, che gli occidentali la condividano o no, è un dato di fatto incontrovertibile. Si tratta solo di capire se si vorrà prenderne atto in maniera pacifica o se si cercherà di ostacolarne la realizzazione ricorrendo a una guerra nucleare.

In questo secondo caso è inutile illudersi che in uno scontro sanguinoso di tipo "esistenziale" ci si limiti a usare, come fossimo dei gentlemen, delle armi meramente convenzionali. Se vogliamo davvero farci del male, non potremo farlo coi guanti bianchi.

Non siamo al tempo degli Orazi e Curiazi. La guerra è destinata a diventare "totale", in cui non si farà differenza tra civili e militari, tra uomini, donne, bambini o anziani. Non ci saranno scontri simbolici o esemplificativi cui poter ricorrere. Il nemico dovrà essere sconfitto così pesantemente da non aver modo di riprendersi per un tempo molto lungo.

Lo stiamo vedendo in questi mesi nella Striscia di Gaza: lì non è solo Israele che combatte, ma l'intero occidente. Anzi prepariamoci a vedere una brutalità ancora più grande nella guerra contro la Russia condotta in Ucraina.

La nostra egemonia economica del mondo non è supportata solo dalla potenza finanziaria, ma anche da quella militare. In questo momento è impensabile per gli statisti occidentali scendere a trattative da una posizione di perdenti. Se la NATO dovesse risultare sconfitta, sia in una guerra per procura che in una diretta, le conseguenze per l'occidente collettivo sarebbero catastrofiche.


7 giugno


Il pendolo di Foucault


Più che le persone contano i processi, soprattutto quelli economici. Una volta il nemico era facilmente identificabile; oggi è invisibile. Ci si accorge del male che fa quando è troppo tardi per difendersi.

In tutto l'occidente, e quindi anche in Italia, il processo si è avviato alla fine degli anni '70, quando si è cominciato a smantellare il ruolo dello Stato in campo economico-produttivo.

Forse non è così strano che oggi l'occidente collettivo subisca dei colpi demolitori da parte di quegli Stati che preferiscono un'economia mista, evitando di cedere alle lusinghe del neoliberismo.

La cosa più singolare è stata che dopo il crollo della Borsa di Wall Street del 1929, e dopo che l'occidente aveva capito ch'era meglio affidarsi alle teorie keynesiane, in cui il ruolo dello Stato era centrale, negli anni '70 si cominciò di nuovo a esaltare il liberismo, cioè quella stessa sciagura che aveva portato al fallimento del 1929. Come se fossimo sotto il pendolo di Foucault.

Persino i premi Nobel dell'economia venivano dati solo a esponenti del neoliberismo: Friedrich von Hayek, Milton Friedman, George Stigler, ecc. Le dottrine dalla Scuola di Chicago erano il vangelo per tutti.

Ricordiamo facilmente i leader mondiali della deregulation ad libitum: Margaret Thatcher (1979-90) e Ronald Reagan (1981-89).

Quando poi implose l'URSS, sembrava che il neoliberismo occidentale non avesse più ostacoli da superare.

In Italia nel biennio 1992-93 vi fu un vero e proprio cambio di sistema. Si cominciò a dire che le imprese statali (IRI, ENI, ENEL, INA, IMI ecc.) andavano assolutamente privatizzate, trasformate in società per azioni.

Le motivazioni per farlo erano naturalmente false, ma tutti vi credettero: il settore pubblico è inefficiente e troppo costoso, i servizi che offre sono insoddisfacenti, ecc.

Invece era proprio quel settore che correggeva i fallimenti del mercato, che garantiva gli investimenti più utili alla collettività, il contenimento della disoccupazione, la riduzione delle sperequazioni regionali... E teneva sotto controllo le spinte lobbistiche che condizionavano la formazione delle leggi parlamentari.

Oggi inevitabilmente un'altra catastrofe incombe sull'occidente. Che sia provocata da una guerra mondiale o da un altro clamoroso crack finanziario non fa molta differenza. Importante è sapere che il pendolo sta oscillando da un'altra parte. E questa volta è il resto dell'umanità a volerlo.

L'occidente collettivo sembra aver superato tutti i propri modelli economici. Sembra che non ci sia nient'altro a disposizione dopo gli anni di privatizzazioni e neoliberismo. Il capitalismo di stato in Cina e Russia sta sovraperformando il capitalismo di mercato nella maggior parte dei settori economici, anche sotto le pressioni della guerra, come s'è visto nel conflitto russo-ucraino. Il Sud Globale, per ottime ragioni, non si fida più dell'imperialismo occidentale e ciò sta cambiando l'equazione geopolitica complessiva.

Il mondo non può essere privatizzato. E' assurdo che la politica economica debba essere schiavizzata dall'economia politica. O che la precondizione che gli Stati devono accettare, per essere ammessi all'assistenza finanziaria delle banche mondiali, sia la rinuncia alla loro autonomia.


8 giugno


Sfida all'O.K. Corral


Se ci pensiamo il golpe neonazista del 2014 a Kiev somiglia al tentativo del generale Francisco Franco di rovesciare il governo democratico-repubblicano spagnolo nel 1936. Tutti sapevano che se i fascisti non fossero stati aiutati dall'esterno, non ce l'avrebbero mai fatta. Ecco perché Germania e Italia intervennero apertamente nella guerra civile.

In Ucraina invece è stata l'intera NATO a sostenere in varie maniere i golpisti, in quanto la Russia nel 2022 aveva deciso d'intervenire militarmente a fianco dei russofoni perseguitati nel Donbass.

La differenza sta in questo: nel 1936 tutti i governi delle potenze occidentali non mossero un dito per far cessare l'aggressione italo-tedesca. Oggi invece nell'ambito della UE solo l'Ungheria s'è mostrata refrattaria a dichiararsi ostile alla Russia. Ad essa si è aggiunta la Slovacchia, il cui premier Fico ha rischiato però d'essere ammazzato.

Nel 1937 gli USA si mostrarono particolarmente ipocriti, in quanto, decretando l'embargo sull'export delle armi, mettevano in grande difficoltà il legittimo governo spagnolo, che non aveva sufficienti armi e munizioni, mentre Germania e Italia non avevano problemi del genere. Non solo, ma gli USA erano in grado di rifornire i Paesi nazifascisti di tutte le materie prime strategiche che servivano per bombardare la Spagna.

Ma perché i Paesi occidentali odiavano così tanto i repubblicani spagnoli e proteggevano i fascisti al seguito di Franco? Semplicemente perché si pensava che questa guerra sarebbe stata per la Germania la prova generale prima ch'essa dichiarasse guerra alla Russia bolscevica. Cioè sarebbe stata l'ultima guerra in Europa, in maniera tale che le due maggiori potenze, Regno Unito e Francia, avrebbero conservati integri i propri imperi dalle mire espansionistiche dei tedeschi.

Lo stesso Hitler diceva che il suo compito in quel momento era di far credere che la Germania sarebbe stata l'ultimo baluardo contro il "diluvio rosso". S'inventò anche la fake news secondo cui l'aiuto che la Russia di Stalin stava prestando ai repubblicani spagnoli sarebbe stata l'anticamera per occupare la Francia.

Sempre nel 1937 nessuna potenza occidentale disse una sola parola quando i nipponici iniziarono a invadere la Cina. Tutti infatti erano convinti che il Giappone costituiva un ottimo cane da guardia contro l'URSS. Sconfisse definitivamente i russi nella battaglia di Mukden all'inizio del 1905 e partecipò alla guerra d'intervento in Siberia nel 1918-22, dove però venne sconfitto.

Non a caso nel biennio 1936-37 si formò l'asse Roma-Berlino e l'asse Roma-Berlino-Tokyo. Due alleanze che non si ponevano solo contro il comunismo mondiale, ma, in Europa, anche contro l'Austria, la Cecoslovacchia (per la questione dei Sudeti) e la Polonia (per la questione della Prussia orientale).

Gli statisti occidentali conoscevano benissimo le intenzioni dei nazisti, e si guardarono bene dall'ostacolarle, anche se temevano che occupando la Polonia la Germania sarebbe diventata un Paese troppo potente in Europa.

Oggi la Russia non è più comunista, ma le sue risorse fanno gola lo stesso; e siccome non esistono più gli imperi coloniali di un tempo, è l'occidente collettivo che si sta muovendo per una sfida mortale come quella all'O.K. Corral, che ispirò numerosi film western.


9 giugno


Dal capitalismo statale al socialismo


Poco prima che Lenin venisse colpito da un ictus, Arthur Ransome (1884-1967), giornalista del "Manchester Guardian", volle intervistarlo. Ransome aveva sposato la segretaria personale di Trotsky e forse per questo i servizi segreti britannici non smisero mai di sospettare che fosse una spia sovietica.

Nell'intervista tutte le sue domande erano incentrate su un unico argomento un po' subdolo: "voi comunisti avete dato possibilità di arricchirsi con la NEP, ma così facendo come farete a tenere in piedi i vostri ideali?".

Si riferiva alla figura del cosiddetto "nepman", cioè colui che, approfittando della Nuova Politica Economica, inaugurata da Lenin, si sentiva libero di commerciare come e quando gli pareva, seppur entro determinati limiti. Una situazione molto simile a quella che si sta verificando oggi nel socialismo mercantile della Cina.

Lenin, naturalmente, era troppo furbo per cadere nel tranello del giornalista, e così gli rispose:

1- la piccola borghesia (in particolare gli agricoltori, che a quel tempo erano l'80% dei lavoratori) non costituisce una minaccia per lo Stato, perché, pur potendo acquistare o vendere beni di consumo, tutta la terra appartiene allo Stato, che la dà in usufrutto alle aziende cooperative che la vogliono lavorare e che non sfruttano il lavoro altrui [da notare che tali aziende venivano aiutate anche con macchinari, sementi ecc.];

2- la NEP ha sostituito le requisizioni forzate del periodo della guerra civile (comunismo di guerra) con un'imposta in natura (generalmente grano); versata l'imposta, è possibile vendere sul mercato libero le proprie eccedenze;

3- il grosso della produzione, quella industriale, è suddivisa tra appaltatori privati [proprietà statale ma gestione da parte di un affittuario privato] e funzionari statali veri e propri;

4- la Russia può arrivare al socialismo anche attraverso il capitalismo statale, visto che lo Stato è in mano alla classe operaia [naturalmente in quel periodo esistevano anche i ricchi agrari, i piccoli industriali e i commercianti privati che impiegavano lavoro salariato];

5- tutto il commercio estero è in mano allo Stato (così come le finanze e i trasporti), per cui il nepman non può interferire sui prezzi, i quali vengono basati prevalentemente sul grano, una parte del quale si trova nelle mani dello Stato in forma d'imposta.

In sostanza Lenin era favorevole a un'economia mista, in cui il calcolo economico avesse la sua importanza. Non si nascondeva il rischio che, a forza di arricchirsi, i produttori potessero un giorno dire basta al socialismo. Tuttavia, per scongiurare tale evenienza, doveva essere - secondo lui - il socialismo a dimostrare ch'era più efficiente o conveniente del capitalismo privato.

Stalin invece non amava i rischi e non volle sapere di questa economia mista, preferendo nettamente un socialismo completamente statalizzato. Naturalmente nella Russia attuale, ove domina il capitalismo statale, non si parla per nulla di socialismo, in quanto lo Stato non appartiene alla classe operaia.


10 giugno


Asia e Africa sempre più unite


La Cina non è l'unico paese asiatico ad espandere il proprio commercio con l'Africa. Per es. c'è anche la Corea del Sud, che vuole imitare la Cina, di gran lunga il principale partner commerciale dell'Africa in termini di volume totale (siamo quasi a 300 miliardi di dollari).

Questi Paesi asiatici importano principalmente materie prime (soprattutto combustibili) ed esportano manufatti. C'è però una differenza sostanziale. Il deficit commerciale dell'Africa nei confronti della Cina nel 2022 era pari a 47 miliardi di dollari, mentre quello con l'India era solo di 4,5 miliardi di dollari e quello con la Corea del Sud ancora meno: 1,7 miliardi di dollari. Da notare che l'India ha già superato gli USA nel volume di scambi bilaterali coi Paesi africani.

In ogni caso sono deficit pericolosi per il continente africano (tipici di chi esporta materie prime e importa prodotti finiti), che non aiutano a realizzare la propria indipendenza economica.

Già adesso la Cina tende a ridurre i prestiti per lo sviluppo in un contesto di debito sempre più insostenibile per l'Africa. Li ha ridotti anche perché la ripresa cinese in seguito alla pandemia è stata fragile (rispetto ai loro standard naturalmente), e i problemi legati al settore immobiliare sono stati inaspettatamente gravi, al punto che i cinesi preferiscono oggi rivolgersi a beni più sicuri del mattone, come per es. l'oro. Non a caso il governo cinese sta ridimensionando la sua iniziativa internazionale sulle infrastrutture "Belt and Road", favorendo progetti più piccoli.

Una situazione del genere può favorire la concorrenza di India e Sud Corea, anche se la Cina è in grado di garantire importanti sgravi tariffari a molti Paesi africani; anzi ultimamente l'accesso senza dazi è stato fornito a ben sei Paesi (Angola, Gambia, Congo, Madagascar, Mali e Mauritania) per promuovere il loro export agricolo e riequilibrare il commercio. Una cosa che nessun Paese dell'occidente collettivo s'è mai sognato di fare. A noi piace sottomettere, o con le armi o con la tecnologia o coi capitali. E' stato così che abbiamo cercato di imporre la nostra cultura a tutto il mondo.


11 giugno


Deciderà tutto il chip sottocutaneo


L'Italia è come una prostituta che, invecchiando, abbassa le tariffe. Anzi peggio. Siamo come quelle prostitute che s'illudono, vendendo il proprio corpo, di non vendere anche la propria anima.

Mi riferisco al fatto che non abbiamo più alcuna autonomia decisionale: siamo diventati un Paese a sovranità limitata, come quelli che per noi una volta erano i Paesi satelliti dell'URSS.

Non siamo dominati soltanto dalla NATO, dal dollaro americano, dalla BCE, dalla Commissione Europea, ma anche dagli istituti di credito internazionali. Siamo sempre più succubi della finanza mondiale, che ci induce a rinunciare allo Stato sociale, a privatizzare il bene pubblico, a subordinare la politica all'economia produttiva e questa alla finanza.

Siamo un popolo di ingenui, che pensa di poter resistere a questi colpi demolitori grazie al risparmio privato (che in effetti è enorme), allo spirito di sacrificio, al senso di solidarietà umana e ad altri valori che stanno progressivamente scomparendo.

Potenti società finanziarie mondiali si sentono sempre più autorizzate a interferire nella nostra politica interna ed estera. Per es. nel 2013 la banca d'affari statunitense, J.P. Morgan, proponeva agli Stati della UE di riscrivere le "Costituzioni antifasciste". Questo perché le vedeva troppo influenzate da idee socialiste, che impedivano l'applicazione di rigide misure di austerity.

Nel 2016 l'agenzia di rating Fitch, con sedi a New York e Londra, si permetteva di dire che le riforme economiche e costituzionali volute dal governo Renzi andavano nella giusta direzione. Ancora oggi queste agenzie si arrogano il diritto-dovere di dare punteggi sulla nostra capacità di attuare le direttive neoliberiste.

Tempo fa si pensava che queste ingerenze riguardassero soltanto i Paesi del Terzo mondo, con le loro élites facilmente corruttibili dal capitalismo occidentale. Oggi invece si rivolgono anche alle democrazie più avanzate.

Nel 2015, sempre il governo Renzi, tramite un semplice decreto-legge, obbligò le banche popolari, con attivi oltre una certa soglia, a trasformarsi in società per azioni, esponendo le banche minori all'ingordigia delle grandi lobby bancarie internazionali. L'Italia è sempre più in vendita agli stranieri, che comprano i nostri beni per due spiccioli.

La gestione scriteriata della pandemia da Covid, cronologicamente successiva al disastro borsistico globale del 2008, i cui effetti si pensa siano stati risolti stampando banconote come se le banche centrali fossero delle tipografie; e ora il taglio netto dei rapporti commerciali con la Russia: questi sono tutti fattori che non solo ci stanno portando alla de-industrializzazione e a una crescente recessione, ma non ci offrono neppure alcuna alternativa alla crisi sempre più strutturale del capitalismo privato occidentale. L'economia peggiora in maniera inesorabile e nessuno sa come proporre qualcosa di alternativo.

Ha senso smettere di fare figli o andare a vivere all'estero dove la tassazione sulle pensioni è minima e il carovita è accettabile? Ha senso chiedere ai giovani di emigrare dove possono fare fortuna? O pensare di poter sopravvivere puntando sui servizi, noi che siamo quasi totalmente privi di materie prime?

L'Italia sta lentamente morendo: lo si vede anche dal punto di vista demografico: siamo un Paese di anziani, senza un vero ricambio generazionale. Siamo pronti a farci controllare anche nella nostra vita privata. Siamo in attesa che ci mettano un chip sottocutaneo, il quale avrà lo scopo di dirci come dobbiamo comportarci.


12 giugno


Franchi e Longobardi


La rivolta ungherese del 1956, la primavera di Praga del 1968, gli scioperi polacchi del 1980, la caduta del muro di Berlino e il colpo di stato in Romania nel 1989 avevano un unico fattore che li univa: l'anticomunismo, nella versione del socialismo statale realizzato in URSS.

Ce la siamo presa tanto coi russi, ma in fondo son stati loro i primi a tentare un'esperienza concreta e duratura del socialismo moderno. Quando si criticano i risultati di questo inedito esperimento un minimo di indulgenza dovremmo averla.

Avevano diritto quei Paesi a ribellarsi? E' il popolo che decide quando è ora di rivendicare dei diritti e quando è necessario distinguerli dai privilegi, cioè quando è necessario opporsi a dei falsi diritti, a delle istanze sbagliate.

Quando un popolo rivendica determinati obiettivi politici dovrebbe evitare qualunque supporto esterno, sia esso finanziario o militare, a meno che la sua stessa esistenza non sia compromessa. O comunque gli Stati esteri dovrebbero astenersi dal fare pressioni che condizionano le vicende dei popoli, anche se in un mondo interconnesso come il nostro, ciò è praticamente impossibile.

Tra le nazioni citate sopra, qualcuna è riuscita a realizzare un socialismo davvero democratico? Nessuna. Tutte sono passate dal socialismo statale al capitalismo privato, lasciandosi saccheggiare dai capitalismi privati più forti di loro, quelli occidentali.

L'unico Paese che sia riuscito a porre un freno agli orrori del neoliberismo è stata la Russia di Putin, che ha creato un capitalismo controllato dallo Stato. E' questo Paese che, da solo, si sta opponendo ai capitalismi privati dell'occidente collettivo e degli ex Paesi del Comecon. Una certa riconoscenza dovremmo averla, qualunque sia il nostro giudizio su Putin e sulla attuale Russia.

Dunque, ragionando col senno del poi, chiediamoci: sarebbe stato meglio impedire con la forza dei carri armati questa drammatica involuzione capitalistica di mezza Europa, che sicuramente ha danneggiato parecchio un'infinità di persone? Forse, ma di sicuro non sarebbe stata una soluzione democratica.

I popoli non possono essere eterodiretti, come fossero dei soggetti incapaci di intendere e volere. Devono sperimentare sulla loro pelle le conseguenze della libertà di scelta. Dal 1956 ad oggi hanno capito una cosa molto evidente: il capitalismo non guarda passivamente i processi che avvengono attorno a sé. Là dove si creano tensioni tra popolazioni e istituzioni, ne approfitta subito per destabilizzare ulteriormente la situazione e rovesciare i governi in carica. Gli basta parteggiare per qualcuno dell'opposizione, strumentalizzando le sue rivendicazioni.

Checché ne pensi la scienza, il vuoto assoluto non esiste. Se apri la finestra per cacciare la polvere di casa, devi aspettarti che dalla porta entri qualcos'altro.

Ecco perché il popolo va continuamente messo sull'avviso circa i pericoli che può correre usando male il suo libero arbitrio. Ma perché il popolo si convinca che le istituzioni hanno ragione, deve poter fruire di un effettivo potere decisionale. Se avverte le istituzioni come estranee, come lontane da sé, non farà nulla per difenderle, si affiderà a potenze straniere, nell'illusione che siano migliori.

Già il Manzoni lo diceva: davvero pensate che i Franchi di Carlo Magno siano migliori dei Longobardi di Desiderio?


13 giugno


Tre contro due e due contro tre


Chi pensa che il socialismo democratico sia qualcosa di simile al socialismo umanistico o etico di Alexander Dubček (1921-92) o del movimento Charta 77, è fuori strada.

Il socialismo cecoslovacco ha sempre avuto un limite di fondo: subordinare la politica all'etica. Un socialismo armato contro il capitalismo occidentale sarebbe stata una cosa impensabile, in quanto la non-violenza veniva considerata un dogma. Il che, evidentemente, contro il socialismo statale di marca sovietica appariva rivoluzionario.

Con questo non si vuol sostenere che l'etica debba essere subordinata alla politica, come voleva lo stalinismo, ma anche il fondatore della scienza della politica: Niccolò Machiavelli.

E' sufficiente capire che quando si vuol cercare un'etica alternativa a quella borghese, bisogna, ad un certo punto, mettere in conto che l'opposizione deve diventare politica per essere davvero efficace; e un'opposizione politica che non si sa difendere militarmente, non vale niente. Lenin docet.

L'etica borghese non è semplicemente qualcosa di "morale". Formalmente appare democratica in tutti i suoi aspetti; affine, per certi versi, alle idee del cristianesimo; si avvale di tutte le espressioni migliori del diritto; è sostenuta da montagne di testi religiosi, filosofici, psico-pedagogici e sociologici; ha una storia lunga un millennio.

Tuttavia, nella realtà dei fatti, abbiamo a che fare con qualcosa di violento, di disumano, qualcosa che, se non riesce a ottenere una supremazia di tipo economico o finanziario, diventa feroce, non si fa scrupolo di niente. Chi non riesce a cogliere questa fondamentale ipocrisia nell'etica borghese o la minimizza, e si limita a contrastarla con le sole parole o il buon esempio, la disponibilità a subire qualunque sofferenza, fino al martirio, verrà sempre sconfitto. L'impero romano non ha accettato il cristianesimo restando stupito della sua resilienza dopo tre secoli di persecuzioni, ma perché aveva capito che un sistema sociale basato sullo schiavismo non poteva più reggersi in piedi.

La politica è l'acquisizione di uno spazio in cui esercitare l'etica, ma la politica non è solo idee e diplomazia: può essere anche rivoluzione armata, guerra civile... La scelta di armarsi dipende dal comportamento del nemico. Se ci sono margini di manovra in cui la piena libertà viene assicurata, non c'è bisogno di ricorrere alla forza.

E' importante far capire all'avversario che in casa propria non si vogliono interferenze o comunque ingerenze non richieste. Uno Stato non può essere dominato da un altro Stato, in nessuna maniera. L'indipendenza politica è un requisito fondamentale per affermare la libertà d'azione.

Tuttavia, se si pensa che basti l'indipendenza politica per realizzare il socialismo democratico, non si esce dall'ambito delle illusioni. Infatti ci vuole anche la giustizia sociale, cioè il superamento dei conflitti di ceto e di classe. Questo per dire che se anche uno Stato vincesse una guerra contro un altro Stato, resterebbe sempre da compiere il passo successivo, che potrebbe essere ancora più doloroso.

Guerra civile vuol dire che chi si oppone alla giustizia sociale, alla proprietà comune dei fondamentali mezzi produttivi, all'autogestione del bene comune, alla democrazia diretta, all'uguaglianza di genere, alla tutela delle esigenze riproduttive della natura, e a tutto quello che dà concretezza a un'etica davvero umana e naturale, va considerato un "nemico in casa".

Persino i vangeli erano stati chiari su questo: "d'ora in avanti, se vi sono cinque persone in una casa, saranno divise tre contro due e due contro tre" (Lc 12,52s.).


14 giugno


Meglio sarà per tutti


Étienne Balibar diceva che nell'Europa moderna sono esistite due grandi forme di razzismo: uno interno (l'antisemitismo) e l'altro esterno (il colonialismo).

Io invece ho l'impressione che le forme di razzismo, invece di diminuire, stiano aumentando. Il fatto stesso che non si voglia negoziare in alcuna maniera con la Russia di Putin, lascia pensare che si sia in presenza di una elevata russofobia, quindi di una certa forma di razzismo. Lo dico a prescindere dalle questioni economiche o geopolitiche.

Infatti non è normale che quando Putin propone delle trattative per risolvere il conflitto ucraino, si pensi, in maniera automatica, che stia mentendo o che stia facendo un'ammissione di debolezza, di fronte alla quale noi dobbiamo sentirci autorizzati ad approfittarne.

Razzismo vuol dire che con una determinata popolazione non si vuole avere nulla a che fare. In tal senso diventa inevitabile usare metodi sempre più violenti, discriminatori, offensivi. E non si esclude il ricorso alla guerra, neppure a quella nucleare.

Certamente noi occidentali possiamo chiedere a Putin di fare differenza tra governi e popoli, ma negli Stati contemporanei i governi si confrontano coi governi. Se una popolazione occidentale non riesce a far prevalere la propria narrativa su quella del proprio governo, cosa deve pensare il governo di Putin? Per quale motivo dovrebbe fare concessioni ai governi occidentali, mostrando d'essere indulgente nei confronti delle loro rispettive popolazioni? Cioè per quale ragione lui sarebbe tenuto a fare una differenza sostanziale tra governo e popolazione occidentali, quando i primi a non farla nei confronti della Russia siamo proprio noi? La vogliamo capire che in una guerra mondiale (tanto più se nucleare) nessuno potrà esibire un titolo di merito particolare per essere risparmiato? Le carneficine ai danni dei civili non le abbiamo forse già viste nella seconda guerra mondiale? E non continuiamo a vederle in ciò che fa Israele a Gaza?

Razzismo vuol dire che una determinata popolazione deve o scomparire o sottomettersi alla popolazione dominante, che rivendica una cultura o una civiltà superiore, sotto tutti i punti di vista. Razzismo vuol dire non riconoscere al diverso alcuna qualità, alcun diritto, alcuna prerogativa.

E' dal tempo della civiltà greco-romana che noi occidentali mostriamo un comportamento del genere, e da allora l'abbiamo soltanto modificato in relazione alle ideologie prevalenti, cui abbiamo prestato il nostro assenso: paganesimo, cristianesimo e laicismo.

In questi giorni lo vediamo nel rapporto violento che gli israeliani usano nei confronti dei palestinesi. I sionisti sembrano una creatura del razzismo euroamericano, al punto che chi li equipara ai nazisti hitleriani, non sbaglia. Non provengono dalla stessa ideologia, ma vogliono imporre la propria usando stessi mezzi e metodi disumani.

I palestinesi sembrano dover subire un destino non molto diverso da quello delle popolazioni che l'occidente ha voluto colonizzare.

Quando dopo l'attentato alle Torri Gemelle gli USA lanciarono l'idea di combattere il terrorismo internazionale, l'occidente diventò palesemente razzista nei confronti del mondo islamico.

Oggi siamo razzisti nei confronti dei russi, poiché la nostra limitata e interessata narrativa li vede come "invasori" di un Paese democratico, pacifico, europeista, sotto la nostra tutela.

Domani saremo razzisti nei confronti dei cinesi, poiché consideriamo Taiwan un nostro protettorato.

Insomma abbiamo un razzismo inconscio, che lasciamo emergere quando ci fa comodo, quando lo riteniamo utile all'affermazione della nostra identità.

Non so che civiltà verrà fuori dopo la nostra: forse, in un mondo multipolare, sarà più di una. So solo che la nostra è un flagello per l'intera umanità, e prima scompare, meglio sarà per tutti.


15 giugno


La fine dell'Europa


Un'Europa che dopo due devastanti guerre mondiali, ne cerca una terza, non merita d'esistere. Anche perché, se si esclude il Giappone, entrambe sono nate nel nostro continente.

Un nuovo conflitto nel perimetro europeo, che inevitabilmente sarà nucleare, poiché la Federazione Russa non può certo essere paragonata alla ex Jugoslavia, sancirebbe la fine della democrazia rappresentativa (nazionale ed europea). Infatti verrebbe scatenata da governi privi di un mandato popolare, essendo evidente che in questo momento nessun popolo vuole una guerra, tanto meno se nucleare.

Come minimo i governi in carica, se davvero pretendono di definirsi democratici, dovrebbero sottoporre a referendum la decisione di dichiarare guerra alla Russia.

La democrazia politica occidentale si sta rivelando per quello che è: la maschera con cui si vuole esercitare una dittatura. E' la dittatura dei poteri forti, che vivono sulle spalle altrui.

Nel Medioevo questi poteri erano i proprietari delle terre, che volevano vivere di rendita, sfruttando il lavoro dei contadini. Oggi sono i proprietari di industrie e capitali. Pretendono il massimo della libertà per sé e il minimo dell'uguaglianza per gli altri, come se esistesse una correlazione inversamente proporzionale tra i due termini: quanto più la vera libertà riguarda pochissimi privilegiati, tanto più viene negata l'uguaglianza reale di tutte le persone.

Non è fallita solo la democrazia parlamentare, che nel lessico politico europeo ha fatto chiaramente il suo esordio durante la rivoluzione borghese in Inghilterra, ma è finito anche il costituzionalismo. Infatti l'esigenza di una guerra, e quindi la rinuncia a una qualunque forma di trattativa, vanifica in un attimo tutti i princìpi della Legge fondamentale, tutti i suoi valori.

Sotto questo aspetto è assolutamente insensato pensare che l'elezione diretta del capo dello Stato rappresenti un maggior tasso di democrazia. Se per questo, c'era più democrazia nelle antiche póleis greche, dove le leggi e le decisioni politiche erano approvate direttamente dai cittadini riuniti in assemblea, per quanto ne fossero esclusi donne, schiavi e stranieri.

La prima guerra mondiale fu voluta da imperi tardo-feudali (austro-ungarico, prussiano, russo e ottomano), che non riuscivano a reggere il confronto col capitalismo avanzato degli Stati nazionali centralizzati.

La seconda fu voluta da quelle nazioni dittatoriali, nazi-fasciste (come Germania, Italia e Giappone...) che avevano bisogno di recuperare il tempo perduto sulla strada della colonizzazione del pianeta, già intrapresa da altri Paesi capitalisti (Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia, USA ecc.).

La terza sta per essere scatenata dall'occidente collettivo, che non può più gestire in maniera arbitraria il mondo intero.

Saranno i numeri a schiacciarci, quelli, enormi, delle popolazioni asiatiche, che, col passar del tempo, sono cresciute anche sul piano economico-finanziario e militare. Abbiamo voluto sfruttarle delocalizzando le nostre attività produttive, usando la loro manodopera sottocosto e le loro materie prime a buon mercato, i loro grandi mercati. Oggi ci stanno facendo capire che hanno imparato in fretta e non nutrono più alcun complesso d'inferiorità.


Conclusione




I


A volte penso che scrivere libri del genere, nettamente anti-sistema, non serva a nulla.

Infatti proprio mentre lo faccio, ho bisogno di elementi che inquinano la natura: l'elettricità, la plastica e altri componenti non riciclabili che fanno funzionare il computer, destinato, prima o poi, a una discarica. Ma poi a quale discarica? Locale, regionale, nazionale, internazionale? Gran parte dei nostri rifiuti finiscono in Germania, Francia, Austria e Ungheria.

Non solo, ma c'è sempre qualcuno che, con strumenti molto più potenti dei miei, controlla quanto scrivo, affinché ogni parola sia conforme alla policy di Facebook, e così facendo non s'accorge di arrecare gravi danni all'ambiente, senza poi considerare che la sua stessa psicologia si guasta irrimediabilmente a forza di provare il gusto di censurare la produzione letteraria altrui.

Ma non è finita. Questo libro, quando qualcuno lo compra in formato cartaceo, contribuisce ad ammazzare qualche albero. Dopodiché il libro verrà spedito da uno o più corrieri che sicuramente, coi loro mezzi di trasporto, contribuiranno ad ammorbare l'aria che respiriamo, facendo salire le probabilità di una qualche nostra grave malattia. E così via.

Siamo immersi in una situazione paradossale, da cui sembra impossibile uscire. Siamo nati nudi dal ventre di nostra madre, ma non siamo assolutamente in grado di tornare nudi alla terra. Quando esaleremo l'ultimo respiro, ci saremo portati dietro tante di quelle cose superflue che avranno sicuramente danneggiato la salute di qualcuno o di qualcosa, e che continueranno a farlo per chissà quanto tempo.

Ci piace ammirare i resti delle civiltà che ci hanno preceduto e non riusciamo a vedere che le migliori, dal punto di vista della natura, sono state proprio quelle che non hanno lasciato tracce della loro permanenza.

Questo libro parla del crollo della civiltà occidentale, ma con un briciolo di senno si può capire facilmente che qui è il termine stesso di "civiltà" che va totalmente ripensato.


II


Se manca la possibilità di uno scambio culturale, scientifico, commerciale..., è finita. Le persone si chiudono in se stesse, e così i popoli, gli Stati. Diventiamo tutti autistici, ci impoveriamo eticamente, spiritualmente, intellettualmente. Persino l'innovazione tecnico-scientifica subisce un danno, come quando i fratelli Wright litigarono tutta la vita con Glenn Curtiss per la questione del brevetto sui rispettivi velivoli appena inventati.

Se non accettiamo il dissenso, le opinioni divergenti, le "eresie", facciamo morire la democrazia, il pluralismo. Cominciamo a vivere nel sospetto reciproco, nella paura di perdere qualcosa.

Più che la guerra, è questa la vera tragedia dell'umanità nel nostro maledetto presente. Dopo ogni guerra, infatti, viene la pace: si commemorano i morti, si assistono i feriti e i mutilati, si ricostruiscono gli edifici distrutti. Ma dopo l'odio per chi non è come noi, che cosa viene? Di che cosa abbiamo bisogno per cambiare mentalità, se neppure una guerra è sufficiente? Con quanta commiserazione penseranno a noi le future generazioni?

Mi sembra già di sentirle dire: "Avevano tutto, il meglio del progresso tecnologico, ma non servì a nulla. Erano schiavi dei loro pregiudizi e morirono in una disperata solitudine".

Ecco, vorrei poter dire con Andrej Sinjavskij (1925-97) che "la parola non è un atto, ma soltanto parola e che l'autore non s'identifica col protagonista". Ma lui era solo un grande illuso. La realtà infatti è proprio questa, che le nostre parole sono pietre che ci condannano, e che dietro i protagonisti della nostra narrativa ci sono soltanto autori senza volto.


III


Ancora non abbiamo capito che, se vogliamo sopravvivere, e se vogliamo farlo in maniera umana e naturale, dobbiamo rinunciare a tutto ciò che caratterizza la modernità.

Non solo lo Stato (centralizzato o federato) va abolito, ma anche il mercato, e non solo il mercato (libero o controllato), ma anche il progresso tecnico-scientifico. Noi dobbiamo ripensare tutto, perché tutto quello che abbiamo creato, da quando siamo usciti dal Medioevo, non ha risolto in maniera convincente i due fondamentali problemi del feudalesimo: la rendita pretesa dai proprietari terrieri e il clericalismo preteso dagli intellettuali.

Questi due gravi problemi sono stati semplicemente trasformati in altri problemi, non meno gravi, anzi, considerando il nostro livello di tecnologia, infinitamente più gravi. Ci siamo illusi che fosse sufficiente il progresso tecnico-scientifico per ovviare alle conseguenze nefaste dell'antagonismo sociale. Ci siamo illusi che facendo il mercante, il banchiere, l'imprenditore, l'investitore, l'usuraio, il cambiavalute... saremmo stati più liberi del latifondista, più emancipati del contadino.

Se nel Medioevo l'antagonismo era dovuto alla differenza sostanziale tra feudatario e servo della gleba; nell'epoca moderna è dovuto alla differenza tra imprenditore e operaio, tra possidente di capitali e nullatenente, tra possessore di mezzi produttivi e finanziari e possessore di forza-lavoro, fisica e intellettuale, tra professionisti di una conoscenza specializzata e sprovveduti.

Abbiamo ritenuto che la città rendesse più liberi della campagna, ma è stato un errore. Abbiamo ritenuto che la democrazia rappresentativa nazionale fosse migliore degli imperi feudali, delle aristocrazie laiche ed ecclesiastiche. Come se la democrazia formale fosse di per sé migliore della dittatura reale.

Abbiamo pensato che fosse giusto dominare la natura con la tecnologia, ma è stato un altro errore.

Ci siamo dati delle strutture istituzionali (politiche, burocratiche, militari, spionistiche, mediatiche...) che invece di aumentare la libertà, l'hanno diminuita. Sono tutte superfetazioni che non garantiscono affatto l'uguaglianza, ma solo il controllo della popolazione, il conformismo di massa, la narrativa dei poteri dominanti.

Da quando sono nate le cosiddette "civiltà", siamo passati da una forma di schiavismo a un'altra. Non c'è stato alcun vero progresso, ma solo una diversificazione delle forme. E queste forme sono diventate sempre più difficili da gestire, sempre più pericolose, per la nostra esistenza e per quella della natura. E in ogni caso, anche quando avevamo la percezione di un positivo mutamento della realtà, il prezzo di questo mutamento è stato pagato da popolazioni più deboli di noi sul piano militare.

Non abbiamo ancora capito una cosa di fondamentale importanza: l'essere umano è un ente di natura. Cioè deve vivere in maniera conforme alle esigenze riproduttive della natura. E' un errore madornale non sentirsi obbligati a rispettare tali esigenze. Noi dobbiamo vivere entro i limiti che la natura ci impone. La nostra "umanità" non può autodefinirsi in maniera indipendente dalla "naturalità".

Noi pagheremo duramente le conseguenze della nostra insipienza, della nostra tracotanza. Come è già successo in passato. Le aree desertificate del pianeta aumenteranno a dismisura, non solo perché continuiamo a sfruttare le risorse naturali come se non ci fosse un domani; non solo perché, sulla base di questo selvaggio sfruttamento, il clima si sta pericolosamente modificando, ma anche perché l'uso del nucleare, l'uso delle sostanze chimiche, biologiche e batteriologiche comportano effetti incontrollabili, assolutamente devastanti.

Il senso della storia sta unicamente in questo, nel cercare di capire tutte le forme incompatibili con la natura umana.


IV


Un giorno dovremo chiederci perché le aspettative di un mondo migliore sono di gran lunga superiori alle realizzazioni concrete. E la risposta non potrà certo limitarsi a una semplice constatazione.

Infatti, dopo aver criticato i mezzi e i metodi impiegati con cui si sono affrontati i problemi, dovremo indicare a noi stessi delle alternative immediatamente praticabili. Questo perché quando si dice che la prassi è il criterio della verità, non ci si può consolare dietro una mera affermazione teorica. Bisogna prendere sul serio questa discrepanza tra teoria e prassi, mettendosi in gioco in prima persona.

E' assolutamente necessario assumersi dei rischi, che possono essere anche molto elevati, poiché qui lo scontro è tra forze opposte, oggettivamente inconciliabili, di cui quella egemone vuole la morte dell'altra o comunque la sua soggezione, il suo silenzio.

Tuttavia, per essere un minimo sicuri di non stare vaneggiando, di non compiere una battaglia contro i mulini a vento, occorrono, quanto meno, due condizioni fondamentali: 1) aggregarsi con qualcuno che avverte le stesse istanze di liberazione, discutendo al massimo sui mezzi e metodi per realizzarle; 2) partire dai bisogni locali, tentando di risolvere problemi concreti e offrendo alla propria azione un respiro più ampio solo col passare del tempo.

Si può partire dal livello locale per giungere poi, progressivamente, a quello nazionale. Ma, una volta poste le condizioni per risolvere in maniera fattiva, realistica il problema dell'antagonismo sul piano nazionale, bisogna tornare al livello locale, poiché questo è l'unico che garantisce una vera concretezza sociale al nostro agire quotidiano. L'ambito locale resta sempre la nostra cartina di tornasole, il nostro termometro.

La politica va concepita, in ultima istanza, come uno strumento al servizio della vivibilità naturale a livello locale. Si può fare una battaglia e persino una guerra (civile o interstatale) in ambito nazionale, ma poi il seme che ci alimenta (materialmente e spiritualmente) va piantato sul terreno sotto casa nostra.

Chi pensa che una soluzione del genere sia di tipo campanilistico, provinciale, corporativo, non ha capito niente della vita, proprio perché pone la politica (e quindi lo Stato, con tutte le sue istituzioni coercitive) al di sopra di tutto.

Certo, è importante vincere gli antagonismi irriducibili, ma ancora di più è il bisogno di vivere una relazione sociale umana all'interno dei limiti riproduttivi che la natura ci impone.



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Attualità:

Il crollo occidentale (Diario del 2024)

La Shoah palestinese (novembre 2023-febbraio 2024)

La catastrofe (luglio-ottobre 2023)

La resa (marzo-giugno 2023)

La linea rossa (dicembre 2022-marzo 2023)

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Dal feudalesimo all'umanesimo. Quadro storico-culturale di una transizione

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Herbis non verbis. Introduzione alla fitoterapia

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La svolta di Giotto. La nascita borghese dell'arte moderna

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Pazìnzia e distèin in Walter Galli

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Grammatica e Scrittura. Dalle astrazioni dei manuali scolastici alla scrittura creativa

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Ideologia della chiesa latina

l'impossibile Nietzsche

Da Cartesio a Rousseau

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Le ragioni della laicità

Che cos'è la coscienza? Pagine di diario

Che cos'è la verità? Pagine di diario

Scienza e Natura. Per un'apologia della materia

Spazio e Tempo: nei filosofi e nella vita quotidiana

La scienza nel Seicento

Linguaggio e comunicazione

Interviste e Dialoghi

Antropologia:

La scienza del colonialismo. Critica dell'antropologia culturale

Ribaltare i miti: miti e fiabe destrutturati

Economia:

Esegeti di Marx

Maledetto capitale

Marx economista

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Etica ed economia. Per una teoria dell'umanesimo laico

Le teorie economiche di Giuseppe Mazzini

Politica:

Lenin e la guerra imperialista

L'idealista Gorbaciov. Le forme del socialismo democratico

Il grande Lenin

Cinico Engels. Oltre l'Anti-Dühring

L'aquila Rosa. Critica della Luxemburg

Società ecologica e democrazia diretta

Stato di diritto e ideologia della violenza

Democrazia socialista e terzomondiale

La dittatura della democrazia. Come uscire dal sistema

Dialogo a distanza sui massimi sistemi

Diritto:

Siae contro Homolaicus

Diritto laico

Psicologia:

Psicologia generale

La colpa originaria. Analisi della caduta

In principio era il due

Sesso e amore

Didattica:

Per una riforma della scuola

Zetesis. Dalle conoscenze e abilità alle competenze nella didattica della storia

Ateismo:

Cristo in Facebook

Diario su Cristo

Studi laici sull'Antico Testamento

L'Apocalisse di Giovanni

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Contro Luca. Moralismo e opportunismo nel terzo vangelo

Metodologia dell'esegesi laica. Per una quarta ricerca

Protagonisti dell'esegesi laica. Per una quarta ricerca

Ombra delle cose future. Esegesi laica delle lettere paoline

Umano e Politico. Biografia demistificata del Cristo

Le diatribe del Cristo. Veri e falsi problemi nei vangeli

Ateo e sovversivo. I lati oscuri della mistificazione cristologica

Risorto o Scomparso? Dal giudizio di fatto a quello di valore

Cristianesimo primitivo. Dalle origini alla svolta costantiniana

Guarigioni e Parabole: fatti improbabili e parole ambigue

Gli apostoli traditori. Sviluppi del Cristo impolitico



Indice


Premessa 5

Febbraio 6

1 febbraio 6

Filosofia della rottamazione 6

2 febbraio 7

Preoccupante il caso Salis 7

6 febbraio 8

I conflitti d'interesse di Sgarbi 9

8 febbraio 10

Mito infranto di PoltroneSofà 10

10 febbraio 10

Parole in libertà su Sanremo 10

11 febbraio 12

Ma come siamo messi in Italia? 12

A Gaza continua il macello 13

12 febbraio 14

Le prime parole nell'universo 14

13 febbraio 16

Chi ci obbliga alla guerra? 16

14 febbraio 16

Non mettiamo il naso nelle questioni sensibili 16

Restituire il maltolto 18

E poi dicono che noi non siamo in guerra 18

15 febbraio 18

Perché non dimettersi? 18

Fase 2 a Gaza 19

16 febbraio 19

Meglio tardi che mai 19

Il limite della tollerabilità 20

17 febbraio 21

Sono stato frainteso 21

A passi veloci 22

18 febbraio 22

Essere democratici stando dalla parte dei cantanti 22

19 febbraio 24

Dilemmi e figuracce 24

20 febbraio 25

Mesi per un parere inutile 25

Partire dalla non interferenza militare 25

Ucraini e armi chimiche 27

21 febbraio 27

La crisi dell'occidente collettivo 27

22 febbraio 29

Le alternative previste dall'occidente collettivo 29

Nove lezioni russo-ucraine 30

23 febbraio 49

Croce su Marx va cestinato 49

Una guerra contro i bambini non s'era mai vista 52

L'ONU non cerca la verità 53

La resa dei conti nel Ramadan 53

Quel maledetto uranio impoverito 54

24 febbraio 55

Due Paesi chiaramente a favore del nazismo 55

Un'alternativa a tutto 56

25 febbraio 57

Il nostro rapporto con la natura 58

26 febbraio 60

Non è solo un problema di quantità 60

27 febbraio 63

Risorse e popolazione 63

28 febbraio 64

Il capitalismo umano e naturale 64

29 febbraio 66

Non facciamoci illusioni sull'ecologia 66

Lanciare sassi 68

Dalla UE è meglio uscire 68

Marzo 70

1 marzo 70

Problemi ambientali e mercati mondiali 70

2 marzo 71

I diritti della natura 71

Articoli sulla natura nella Costituzione dell'Ecuador 74

3 marzo 74

E' ancora lungo il cammino 74

La cacciata dei mercanti dal Tempio è falsa 76

4 marzo 77

Processi lunghi e dolorosi 77

5 marzo 78

L'ambientalismo vero e falso 78

L'aborto è un diritto assoluto? 81

6 marzo 83

Un nuovo Sud globale 83

7 marzo 84

Facce di bronzo e cuori di pietra 85

8 marzo 86

Le ragioni di un successo mondiale 86

9 marzo 89

Destinati al collasso 89

10 marzo 90

Dalla rivoluzione neolitica ad oggi 90

11 marzo 92

In che senso un nuovo modello di sviluppo? 93

12 marzo 94

La quantità anzitutto 94

13 marzo 95

Un modello di sviluppo autonomo 95

14 marzo 97

Un mondo paradossale 97

15 marzo 98

Un virus micidiale 98

16 marzo 100

Tornare a fare sogni tranquilli 100

Differenze tra globalismo e imperialismo 101

17 marzo 101

Deodoranti e liquami 101

Effetti psicologici indesiderati 103

18 marzo 104

I destini della storia 104

19 marzo 105

Diverse cronologie di crolli sistemici 105

20 marzo 107

Obiettivi minimi e massimi 107

21 marzo 108

Il bisogno di esperienze traumatiche 108

22 marzo 110

Un obiettivo prioritario su tutto 110

23 marzo 111

Saranno i deboli a volere la dittatura? 111

Ucraina e Gaza non bastano 113

24 marzo 114

La spada di Damocle 114

25 marzo 115

Non tutto il male viene per nuocere 115

26 marzo 116

L'umanizzazione della terra 117

Dove sta la logica? 118

Siamo a questi paradossi 118

27 marzo 119

Due forme diverse di globalismo 119

28 marzo 120

Abbiamo smontato un giocattolo pericoloso 120

29 marzo 122

Si può fare 122

30 marzo 124

L'asiatismo russo-cinese 124

Sono io, prendete me 125

31 marzo 127

Risorto o scomparso? 127

Aprile 129

1 aprile 129

I limiti dello stalinismo 129

2 aprile 130

In che senso globale e locale? 130

3 aprile 131

Sankara, visionario pragmatico 131

4 aprile 133

L'ambientalismo ha ancora un futuro? 133

5 aprile 134

Ascoltare le ragioni altrui 134

6 aprile 136

Non tergiversiamo sul plusvalore 136

7 aprile 137

Il mare tra il dire e il fare 137

8 aprile 138

Manifesto contro la guerra 138

9 aprile 140

Ci piace sognare 140

10 aprile 142

Si può essere diversi 142

11 aprile 143

Non siamo nati sbagliati 143

12 aprile 145

Cambiare anzitutto stile di vita 145

13 aprile 146

Capire i cinesi non è facile 146

14 aprile 148

L'appetito vien mangiando 148

15 aprile 149

Perché il socialismo portoghese fallì? 149

16 aprile 150

Un presidente vale l'altro 150

17 aprile 152

Un film già visto 152

18 aprile 153

Non loro ma noi dovremmo scomparire 153

19 aprile 155

Il primo ecologista russo 155

20 aprile 156

Gli imperi non sono tutti uguali 156

21 aprile 158

Nazionalismi da abolire 158

22 aprile 160

L'inganno del PIL 160

Per favore non banalizziamo le cose 162

23 aprile 163

Tutta colpa della Serbia? 163

24 aprile 164

La Jugoslavia doveva morire 164

25 aprile 166

Cosa festeggiamo oggi? 166

Gli aborigeni fanno ancora paura 167

26 aprile 168

La UE come la Jugoslavia? 168

27 aprile 169

Cosa insegna l'esperienza della ex Jugoslavia? 169

28 aprile 170

La guerra è orribile 170

29 aprile 172

La fine immeritata di Gorbaciov 172

30 aprile 173

Una democrazia forte viene decisa dalla popolazione 173

Maggio 176

1 maggio 176

Il Cuore di Uluru 176

2 maggio 178

Rimpiango il passato 178

3 maggio 180

Una politica serva dell'ideologia 180

4 maggio 181

Verità ed evidenza 181

5 maggio 183

La via africana al socialismo 183

6 maggio 185

Due mantra a confronto 185

7 maggio 186

Basta con le nostalgie per ciò che va superato 186

8 maggio 188

La storia si ripete 188

9 maggio 189

Dormire sonni tranquilli 189

10 maggio 190

Da privato a statale 191

11 maggio 192

L'evoluzione dei tempi 192

12 maggio 194

Presenza cinese in Africa 194

13 maggio 195

Gertler, il capitalista irresponsabile 195

14 maggio 196

La malattia infantile dell'eurocentrismo 196

15 maggio 198

Un'esistenza paradossale 198

16 maggio 199

Pronti a realizzare gli Stati Uniti d'Europa? 199

17 maggio 201

La democrazia è un'altra cosa 201

18 maggio 202

Le condizioni del crollo 202

19 maggio 204

Tentazioni europeistiche 204

20 maggio 205

Destinati in un vortice comune 205

21 maggio 207

Verità e bugie sull'ARMIR 207

22 maggio 208

Disposti a tutto 208

23 maggio 210

L'homo novus siberiano 210

24 maggio 212

Non possiamo fare a meno del socialismo 212

25 maggio 213

Che cos'è lo stalinismo? 213

26 maggio 214

Che cosa intendo per socialismo democratico? 214

27 maggio 216

Come interpretare la realtà? 216

28 maggio 217

La parentela tra russi e ucraini 217

29 maggio 218

Quand'è che l'Ucraina passò sotto la Russia? 218

30 maggio 220

L'origine dell'odio russo-ucraino 220

31 maggio 221

Chi comanda e chi obbedisce 221

Giugno 224

1 giugno 224

Il valore d'uso di Antonov 224

2 giugno 225

Mostrare i denti serve? 225

3 giugno 227

Anche per noi una lezione utile? 227

4 giugno 228

Un esempio di follia bellica 228

5 giugno 229

Il valore d'uso tra memoria e desiderio 229

6 giugno 230

Non basteranno gli Orazi e i Curiazi 230

7 giugno 232

Il pendolo di Foucault 232

8 giugno 233

Sfida all'O.K. Corral 233

9 giugno 235

Dal capitalismo statale al socialismo 235

10 giugno 236

Asia e Africa sempre più unite 236

11 giugno 237

Deciderà tutto il chip sottocutaneo 237

12 giugno 238

Franchi e Longobardi 238

13 giugno 240

Tre contro due e due contro tre 240

14 giugno 241

Meglio sarà per tutti 241

15 giugno 243

La fine dell'Europa 243

Conclusione 245

Bibliografia su Amazon 250



1 Da notare però che la Salis ha dei precedenti in Italia: ben quattro condanne definitive per un totale di un anno e 9 mesi. Anzi è stata denunciata 29 volte per vari reati "eversivi".

2 Il video è qui: www.lastampa.it/politica/2024/01/29/video/sgarbi_report_minacce-14029496/

3 In teoria il vetro e l'alluminio dei pannelli solari potrebbero essere riciclati, ma sotto il capitalismo privato, se non è conveniente, non lo fa nessuno.

4 A dir il vero si stima che la sua estensione oscilli tra i 700.000 kmq fino a più di 10 milioni di kmq, cioè da un'area più grande della Penisola iberica a un'area più estesa degli Stati Uniti: aumenta di 10 volte ogni decennio a partire dal 1945. Oltre il 90% della sua massa è costituita da oggetti che non si sono ancora frammentati in microplastiche.

5 Solo dalla UE ogni anno vengono esportati circa 20 milioni di container contenenti vecchi apparecchi elettronici, rottami metallici e materie plastiche che contengono materiali tossici molto pericolosi per la salute umana e ambientale. Ogni anno centinaia di vecchie navi mercantili e petroliere vengono inviate dai Paesi sviluppati verso India, Bangladesh e altri Paesi asiatici per la demolizione.

6 Queste tre risorse energetiche costituiscono l'85% di quelle che si usano nel mondo.

7 Se erano agricoltori, lo erano in maniera rudimentale, usando una zappetta di legno e osso (o pietra). Veniva più che altro praticata dalle donne, che conoscevano erbe e frutti del territorio locale. D'altra parte non avendo animali addomesticati (il cavallo neppure lo conoscevano) e praticando soprattutto il nomadismo, era impossibile usare un aratro. Peraltro nella mitologia dei nativi era vietato ferire la madre terra con una "lama" che andasse in profondità.

8 Tuttavia secondo il censimento del 2020 gli indiani nordamericani, compresi i meticci, sono circa 9,7 milioni, cui vanno aggiunti i quasi due milioni di quelli residenti in Canada. Peraltro è solo il 20% della popolazione nativa che vive nelle riserve.

9 Ci si riferisce soprattutto alla Lega Internazionale dei Lavoratori della Quarta Internazionale e al Comitato di Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale.


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