LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(a.1.2) Il protestantesimo e la nascita dello “spirito del capitalismo” nella prima teoria di Weber

Dopo la critica della teoria economicistica di Marx della genesi del capitalismo, Pellicani passa ad analizzare e criticare quella “culturalista” elaborata ed espressa dal giovane Max Weber nel celebre saggio sulla genesi dello spirito del capitalismo dalla Riforma protestante.

Come preambolo a tale teoria però, Pellicani accenna anche alle idee di un altro grande sociologo tedesco, Werner Sombart, il quale, in polemica appunto con Weber, affermava essere il capitalismo innanzitutto il prodotto dell’inclinazione, da sempre caratterizzante le minoranze culturali, verso le attività affaristiche, l’innovazione e l’uso della razionalità (non solo economica…). In particolare, egli affermava che un apporto essenziale alla nascita del capitalismo europeo fosse stato dato dalle minoranze ebree.

Secondo Sombart, difatti, l’emarginazione e la marginalità di queste ultime, costituivano i fattori chiave per comprendere il prezioso ruolo di dinamizzazione che avevano svolto nella società europea all’alba del capitalismo.

La diversità culturale e religiosa degli ebrei e la loro estraneità alle tradizioni e alle usanze del mondo europeo cristiano infatti, li portarono secondo lui a sviluppare una spiccata attitudine verso la razionalità e le sue potenzialità di innovazione, ponendoli in contrasto con il pensiero tradizionale dominante tra gli altri membri della società. Al contempo, poi, in quanto “esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica, gli eretici [cioè, in questo contesto, gli ebrei] non potevano che estrinsecare tutta la loro forza vitale nell’economia. Soltanto questa offriva loro la possibilità di procurarsi quelle posizioni di rilievo nella comunità che lo Stato negava loro” (W. Sombart, citato a pag. 40).

La tesi di Sombart insomma, era che l’emarginazione politica e culturale delle minoranze porta con sé inevitabilmente una forte inclinazione verso l’arricchimento privato e la spinta innovativa, atteggiamenti fortemente limitati invece nel resto della società civile, troppo condizionata sia dalle idee della tradizione che, più in generale, dai vincoli politici e culturali della comunità di appartenenza.

Gli ebrei costituirono dunque, nel contesto europeo tardomedievale e rinascimentale, una delle scaturigini più profonde di quello spirito e di quelle pratiche capitalistiche che, più tardi, si estesero anche al resto della popolazione, divenendo l’elemento fondante dell’economia europea. (Per inciso, non mi pare fuori luogo osservare come questa tesi sia ampiamente convalidata anche dalla storia greca classica, laddove si pensi al ruolo davvero cruciale svolto dai meteci, gli stranieri residenti, nello sviluppo dei traffici e delle attività imprenditoriali di Atene: primo e unico esempio secondo Pellicani di società capitalista prima dell’era moderna).

Weber, dal canto suo, non negava assolutamente la validità di questa teoria. Piuttosto, egli osservava come essa non fosse sufficiente da sola a rendere conto della specificità del sistema capitalista. Ciò che distingueva questa forma di organizzazione economica da tutte le altre infatti, non era secondo lui l’impulso all’accumulazione della ricchezza (perseguibile, ovviamente, non solo attraverso i commerci, ma anche attraverso mezzi violenti come la rapina, le guerre di conquista, ecc.), né la presenza delle attività di mercato in quanto tali, né infine l’affermarsi di un’etica dell’innovazione e della ragione in opposizione a quella basata su tradizione e conservazione. Tali fattori o impulsi, osservava Weber, sono da sempre presenti nell’anima umana e quindi, anche se in forme e quantità differenti, in più o meno tutti i contesti storici e sociali.

Il sistema capitalista tuttavia, egli osservava, si distingueva da tutte le precedenti forme di organizzazione economica e sociale per la precisione e il rigore metodico attraverso cui l’imprenditore vi perseguiva i propri fini di guadagno. Ciò che avveniva non solo, come in molti altri contesti, attraverso i mercati, ma anche – cosa del tutto unica – attraverso un calcolo rigoroso e sistematico dei vantaggi e degli svantaggi di ogni azione economica. Non è perciò l’impulso al guadagno perseguito attraverso i mercati, il fattore qualificante e distintivo del capitalismo, bensì la veste sistematica ed estremamente razionale che tale impulso vi assume.

Se ciò è vero, per comprendere l’origine del capitalismo propriamente detto, bisogna chiedersi cosa abbia determinato nella mentalità, ovvero nell’etica e nello spirito, europei una trasformazione capace di giustificare una condotta di vita quale quella appena descritta.

Mentre dunque per Marx la causa della nascita del capitalismo doveva essere ricercata in fattori di natura materiale, per Weber al contrario essa andava cercata in fattori di ordine spirituale, ovvero nell’insorgere di un ethos del tutto nuovo rispetto al passato, la cui origine egli individuò, almeno nel saggio qui trattato, nell’affermazione e nell’apporto spirituale che le religioni protestanti, in particolare quella calvinista, diedero alla cultura e alla mentalità europee.

L’etica calvinista era infatti, secondo Weber, caratterizzata da due idee fondamentali: quella (condivisa peraltro da tutte le altre grandi confessioni riformate, prima di tutto da quella luterana) che la salvezza oltreterrena del singolo individuo fosse il risultato di una scelta che Dio aveva compiuto ab aeterno, dall’uomo quindi in nessun modo influenzabile; e quella (ad esso invece peculiare) che il successo professionale fosse il segno terreno di un’effettiva predilezione divina per la persona e quindi della sua salvezza eterna. La credenza in tali presupposti spingeva i fedeli a cercare di perseguire con fanatica devozione, l’obiettivo del successo personale, sottomettendosi a una disciplina diuturna e rigorossissima fondata sul calcolo razionale del profitto, condotto attraverso strumenti di pianificazione impensabili per le epoche precedenti.

Secondo il bilancio weberiano quindi, il Calvinismo fu, se non l’unica, quantomeno una delle scaturigini spirituali più profonde della società capitalistica moderna. (Una prova ulteriore della validità di una tale teoria, era a suo modo di vedere il fatto che essa giustificasse l’arretratezza economica dei paesi e delle famiglie di tradizione cattolica rispetto a quelli di tradizione protestante.)

Ma anche questa teoria, per quanto acuta e affascinante possa apparire, è secondo Pellicani essenzialmente errata!

Le critiche che egli le muove sono due: in primo luogo, egli dimostra come lo spirito e le pratiche economiche capitalistiche di cui parla Weber fossero sorti per la prima volta in Italia nel periodo della rinascita cittadina, cioè già a partire dal XII secolo: ben prima quindi della nascita e dell’affermazione della Riforma protestante; in secondo luogo – e soprattutto – egli critica in modo radicale l’interpretazione che Weber dà dell’etica calvinista. (A questo proposito, egli non nasconde il proprio disappunto per l’accettazione acritica da parte di molti storici e sociologi di teorie che, alla prova dei fatti, si dimostrano palesemente errate.)

Per quanto riguarda il primo punto, esso non dovrebbe richiedere ulteriori spiegazioni. Posto difatti che, come pensa l’autore, lo spirito capitalistico fosse sorto alcuni secoli prima dell’opera dei riformatori, non può non essere assurdo affermare che abbia trovato in quest’ultima il suo principale fattore di avviamento. Per ciò che riguarda invece il secondo punto, sono necessari alcuni chiarimenti.

Ciò che Pellicani si propone di dimostrare a tale riguardo, è come l’accostamento weberiano tra calvinismo e borghesia capitalistica sia in realtà del tutto fuori luogo tanto dal punto di vista politico (le élite calviniste appoggiandosi principalmente non alla tale classe, bensì al contrario ai ceti impoveriti dal suo sviluppo: la piccola borghesia cittadina e i ceti rurali), quanto dal punto di vista ideologico (data l’aperta ostilità dei teorici del calvinismo, peraltro chiaramente attestata dalle fonti attraverso cui Weber vorrebbe comprovare le sue tesi, verso il danaro – da essi spregiativamente chiamato mammona – e la sua accumulazione.)

E tuttavia Pellicani è molto lontano dallo scartare per intero la teoria weberiana. Egli pensa infatti che l’intuizione dell’esistenza di una relazione storica profonda tra protestantesimo e sviluppo capitalistico sia essenzialmente corretta. E ciò, anche se una tale relazione si basa su presupposti assolutamente differenti da quelli individuati da Weber. Nel descrivere la realtà di questa relazione egli fornisce peraltro ai lettori la prima dimostrazione concreta di quello che – come si è già detto – è l’assunto metodologico fondamentale del suo saggio, ovvero quello della dipendenza delle strutture economiche dai fattori politico-istituzionali.

Anziché concentrarsi sul messaggio spirituale di cui la Rivoluzione protestante si fece portatrice, Pellicani si sofferma difatti su quelle che furono le sue conseguenze a livello politico e istituzionale.

Posto che essa comportò la spaccatura politica del continente tra una zona settentrionale in cui presero sempre più piede le religioni riformate e una meridionale (composta soprattutto da Italia e Spagna) in cui si affermò la spietata reazione controriformistica della Chiesa cattolica, egli cerca di individuare innanzitutto quelli che furono i principali esiti della Riforma protestante. Essa, secondo lui, ebbe essenzialmente l’effetto di scardinare quel complesso di istituzioni e di credenze tipicamente medievali, che mantenevano la società europea in una dimensione ancora fondamentalmente chiusa e statica, impedendole perciò di svilupparsi in direzione del capitalismo.

La Riforma insomma, pur costituendo nei suoi contenuti una reazione ancora più forte del Cattolicesimo contro l’emergere di un’economia basata sul profitto e sul libero mercato, finì involontariamente per determinare, all’interno di quella parte della società europea in cui prese piede, una serie di cambiamenti politico-istituzionali che posero i presupposti dei suoi successivi sviluppi in senso moderno. Ciò poiché il suo esito principale fu quello di indebolire radicalmente la Chiesa cattolica sia da un punto di vista politico che da quello spirituale, ovvero sul piano del dominio sulle coscienze. (La spaccatura della popolazione tra cattolici e riformati tipica dei Paesi protestanti, ad esempio, pose per la prima volta nella storia europea la questione della libertà di coscienza mettendo in forse l’accettazione acritica di verità prima considerate inattaccabili).

E anche laddove, come nel caso del calvinismo e della sua variante puritana, le forze protestanti emergenti finivano per riaffermare a livello politico istanze di natura teocratica, ciò avveniva in ogni caso in contrasto e a scapito di altre e più antiche istanze di natura sostanzialmente analoga. In qualche modo quindi, questi due ‘fanatismi’ (quello cattolico e quello protestante) finivano per indebolirsi vicendevolmente, aprendo così una breccia all’interno della quale potevano agevolmente inserirsi attività e concezioni borghesi, di carattere spiccatamente razionalistico e umanistico.

Dopo l’analisi degli effetti della Riforma protestante, Pellicani passa a quelli della Controriforma. È chiaro che quest’ultima, nel ribadire su un piano sia ideologico che politico, i caratteri salienti dell’antica società medievale, ebbe come conseguenza a lungo termine quella di inibire, nelle zone in cui si affermò, lo sviluppo degli stati in direzione della modernità, ovvero verso il dinamismo economico, sociale e culturale. Pur non potendo infatti arrestare del tutto l’ascesa della borghesia mercantile, una tale controrivoluzione riuscì comunque a frenarla pesantemente in favore degli antichi poteri feudali e nobiliari e di concezioni politiche e culturali di ascendenza medievale.

L’esempio su cui Pellicani si sofferma maggiormente è quello della Spagna, in cui l’alleanza tra la Corona e la Chiesa cattolica, che tra l’altro riportò in vita l’Inquisizione medievale, riuscì a estirpare metodicamente “quel minimo vitale di libertà senza la quale una società non può produrre né pionieri intellettuali, né pionieri industriali, né ricerca scientifica, né slancio economico” (pag. 103) – senza la quale, insomma, non potrà mai sorgere una società aperta, quale quella che si stava sviluppando in altre zone dell’Europa.

Con l’analisi e la critica del saggio giovanile di Max Weber sul Protestantesimo (1905) si conclude quella che potremmo definire la pars denstruens dell’opera di Pellicani. Da qui in avanti avrà inizio la pars construens, ovvero “la soluzione dell’enigma”, la risposta alla domanda alla base del saggio.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014