LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

-- Conclusioni: l’origine e la natura delle società di mercato --

A conclusione di questo rapido excursus del testo di Pellicani, vorrei proporre una sintesi riepilogativa dei concetti in esso espressi.

Quanto al capitalismo, possiamo dire che secondo Pellicani esso è, nella sua essenza, il risultato del pieno dispiegamento della logica del mercato. Dove vi sono mercati quindi, vi è – almeno potenzialmente – anche capitalismo. Ma quali fattori fanno sì che dalla potenza si passi all’atto? Ovvero, quali ragioni o meccanismi fanno in modo che l’economia nel suo complesso si converta ai criteri e alle esigenze del mercato, determinando così la scomparsa o comunque un fortissimo ridimensionamento delle forme di produzione orientate al consumo da una parte e del dominio del pubblico (politico) sul privato (economico) dall’altra?

Perché ciò accada è necessario che i membri della classe che vive attraverso i commerci accumulino grandi quantità di capitale finanziario. Se ciò avviene difatti, anche il resto dell’economia verrà con ogni probabilità gradualmente conformata alla logica del mercato. Questo perché, attraverso le proprie ricchezze, i proprietari di grandi capitali finanziari avranno facilità ad acquisire fette sempre più consistenti della produzione sociale, convertendole poi a un tipo di produzione finalizzata agli scambi commerciali.

A proposito della genesi del capitalismo, Marx si chiedeva dove e come avesse avuto origine l’accumulazione di quelle ingenti somme di danaro che sole possono avviare la grande produzione capitalistica, da lui peraltro concettualmente distinta da quella delle libere città-stato medievali, a suo modo di vedere ancora fondamentalmente orientate – nonostante la natura già squisitamente commerciale della loro economia – al sostentamento materiale dei produttori, piuttosto che all’accumulazione di capitale finanziario.

È questa, nell’essenza, la tesi discontinuista di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro scritto, che vede la nascita del capitalismo come un fenomeno temporalmente coincidente con la nascita dei moderni stati nazionali, fondamentalmente distinto quindi (nonostante il riconoscimento di alcuni elementi di continuità con essa) dall’economia urbana medievale.

Molto diversa da quella marxista è la posizione di Pellicani. A ben vedere difatti – egli spiega – il problema dell’accumulazione originaria dovrebbe essere rovesciato rispetto al modo in cui lo aveva posto Marx: non ci si deve tanto chiedere difatti, come o perché una tale accumulazione abbia avuto luogo, bensì al contrario come e perché non abbia avuto luogo!

Infatti, se è vero che – come si è detto – i mercati portano in se stessi il germe della rivoluzione capitalistica, ovvero della conversione dell’economia sociale alla logica del libero mercato, e se è vero del pari che più o meno in tutte le società umane essi assolvono un compito socialmente indispensabile, il vero interrogativo riguarderà i fattori che hanno fatto sì che – con la sola eccezione (conosciuta) delle città-stato medievali o al limite dell’Atene classica – un tale passaggio o una tale conversione, pur tanto “naturali”, non siano mai avvenuti. Non si tratterà più quindi – quantomeno innanzitutto – di comprendere le dinamiche che hanno portato alla formazione del capitale originario, ma di comprendere al contrario quelle che l’hanno impedita. Non a caso, l’analisi positiva di Pellicani ha inizio non dalle civiltà occidentali (all’interno delle quali il capitalismo è sorto), ma da quelle dispotiche e asiatiche (in cui ciò non è avvenuto né, almeno secondo l’analisi dell’autore, sarebbe potuto avvenire). Egli parte dunque da ciò che è più lontano dall’oggetto specifico della sua indagine, per avvicinarvisi poi gradualmente e per differenza.

Per Pellicani insomma, comprendere la genesi del capitalismo significa innanzitutto definire quali fattori vi si siano opposti, onde poter poi comprendere meglio le ragioni per le quali – in contesti assolutamente eccezionali e in assenza evidentemente di tali fattori – ciò è potuto avvenire.

Richiamandosi a una lunga tradizione di pensiero, egli divide il proprio discorso in alcune sezioni: la prima riguardante gli stati dispotici orientali (oggetto, oltre che della speculazione di Marx, anche di quella di un altro celebre pensatore, Wittfogel, che approfondendo il discorso sul modo di produzione asiatico formulò il concetto di “civiltà idrauliche”); la seconda riguardante gli stati guidati da un’oligarchia politica (della quale, in Occidente, furono un chiaro esempio le città-stato greche e romane); la terza riguardante il periodo dell’anarchia feudale (che caratterizzò sia la storia europea medievale, sia – anche se in forma diversa – alcuni periodi della storia giapponese); la quarta riguardante infine il capitalismo (periodo successivo, per ragioni per lui ben definite, alla fase feudale).

Negli stati dispotici asiatici, spiega l’autore, l’accumulazione originaria non poté avere luogo perché l’economia di mercato era strettamente controllata dall’alto, ovvero dal Sovrano e dalle élite funzionariali a lui direttamente sottoposte.

Lo stesso chiaramente accadeva anche per i settori più specificamente produttivi dell’economia, di carattere prevalentemente agricolo. In Oriente, ad esempio, non si sviluppò mai il feudalesimo propriamente detto. E ciò dal momento che in realtà, in tali contesti, i feudatari furono sempre prima di tutto funzionari di stato: non cioè veri proprietari delle terre su cui esercitavano la propria autorità ma affidatari delle stesse per conto del sovrano, come tali tenuti a rispettarne le decisioni, nonché almeno teoricamente obbligati a versare l’intero surplus in esse prodotto nelle casse dello stato, impossibilitati quindi ad acquisirlo come proprietà personale.

Allo stesso modo, anche i mercanti furono almeno tendenzialmente controllati dall’alto e obbligati a rendere conto delle proprie attività e dei propri guadagni a funzionari di grado superiore.

In grazia del suo potere dispotico insomma (che negava l’idea stessa della proprietà privata e dell’autonomia in campo economico) il sovrano poteva, attraverso vasti e capillari apparati burocratici che ne costituivano la lunga mano, esercitare sui membri delle classi mercantili pressioni molto forti, impedendo così un libero dispiegamento di quella logica del profitto che pure, in qualche modo, già conoscevano. Infine – anche se, ovviamente, ciò accadeva solo in casi estremi – il re poteva decidere di requisire i proventi delle attività mercantili, qualora ritenesse che, data la loro eccezionalità e il potere sociale che poteva derivarne ai possessori, minacciassero in qualche modo la sua personale autorità.

Per tali ragioni, nei grandi stati dispotici extraeuropei, i mercati – pur esistendo e rivestendo anzi un ruolo economico e sociale di grande importanza – non poterono mai dare vita a quell’accumulazione di base che, sola, può determinare la graduale affermazione di un’economia di tipo capitalistico. In tali stati difatti non solo i mercati, ma più in generale l’economia, rimasero sempre fondamentalmente – dove più e dove meno – imbrigliati dalla politica, ovvero dalla sfera dei poteri pubblici e dalle prerogative dirigistiche del sovrano. In essi dunque, non avrebbe mai potuto sorgere una società integralmente basata sulla concorrenza privata, quale quella che del tutto eccezionalmente si sarebbe sviluppata in Europa a partire dal tardo medioevo.

Del resto, anche nel nostro continente, nel quale pure sin dai tempi più remoti esisté una forma di proprietà (specificamente occidentale ed europea) molto più garantita rispetto al Vicino oriente dalle ingerenze dei poteri pubblici, e in cui l’iniziativa economica fu perciò sin dall’inizio meno compressa e più libera di esprimersi, lo sviluppo di una società radicalmente aperta e privatistica, nella quale cioè la dimensione privata fosse in qualche modo preponderante o comunque su una posizione paritaria rispetto a quella pubblica, non fu un evento per nulla scontato e pacifico, bensì al contrario il prodotto accidentale di un’evoluzione lunghissima e tortuosa.

Veniamo dunque all’Europa. Una delle forme più arcaiche di organizzazione sociale e politica europea (peraltro, non esclusiva di tale storia) fu quella delle città-stato. Organismi basati sul dominio militare di una minoranza di proprietari terrieri armati, i cittadini, esse erano guidate da una ristretta élite nobiliare cui spettava in sostanza il compito di prendere decisioni riguardanti la vita dell’intera comunità. Nonostante queste disparità politiche tuttavia, in tali organizzazioni ogni cittadino a pieno titolo era proprietario di un lotto di terra che lo rendeva economicamente autosufficiente. La classe nobiliare dunque, pur godendo di vasti poteri decisionali, non aveva reali possibilità di asservimento economico sul resto della cittadinanza.

Proprio per questo, anche se si deve parlare di sistemi “oligarchici”, è bene sottolineare come essi fossero basati su gerarchie di carattere più politico che economico (e ciò anche se, ovviamente, i membri della nobiltà si distinguevano di solito dal resto della popolazione per una maggiore ricchezza). Se una classe di espropriati e sfruttati esisteva, essa era quella (del tutto subalterna) degli schiavi, individui privi di qualsiasi diritto, che componevano peraltro una fetta spesso maggioritaria della popolazione.

Ma l’interrogativo cui dobbiamo rispondere nell’ambito della nostra ricerca riguarda il perché anche in tali realtà, nelle quali pure sussistevano libertà e garanzie personali decisamente maggiori che nel Vicino Oriente, e in cui inoltre i mercati acquisirono spesso (come dimostra ad esempio la storia greca, peraltro non solo ateniese) un ruolo economico assolutamente non secondario, il capitalismo non riuscì mai a decollare.

I fattori all’origine di questa mancata trasformazione furono essenzialmente di due tipi, strettamente interconnessi tra loro: da una parte, vi fu il fatto che in tali organizzazioni (come del resto in tutte le società precapitalistiche) la dimensione politica o pubblica, nonostante le libertà di cui si è parlato, detenesse pur sempre una notevole capacità di influenzare e limitare la spinta individuale verso il profitto economico (e ciò – tra l’altro – dal momento che, in linea di nuovo con i caratteri tipici delle società agricole precapitalistiche, le attività di scambio e in genere affaristiche, fossero guardate con un fondo di sospetto e di riprovazione dalla popolazione).

Dall’altro lato, vi fu poi il fatto che, per vari ordini di ragioni, la produzione per il mercato rimase sempre decisamente minoritaria rispetto a quella per il consumo (a tale proposito, si deve osservare come, nel corso più o meno di tutta la storia antica, l’autosufficienza domestica o comunque cittadina rimase l’ideale economico di base). La debolezza delle attività commerciali conseguente a tale dato, fu il secondo fattore che rese difficile se non impossibile l’accumulazione dei grandi capitali necessari e indispensabili alla conversione capitalistica della società. Infine, non è superfluo osservare come una tale debolezza strutturale dei mercati rendesse agevole alla sfera politica esercitare su di essi il proprio controllo, con il risultato – una volta di più – di impedirne un pieno dispiegamento.

Solo con la nascita delle città-stato medievali, ovvero di organismi radicalmente separati e indipendenti dalle campagne e la cui economia era quindi, per forza di cose, pressoché esclusivamente basata sulle attività di mercato, una tale conflittualità ebbe termine. Essendo infatti la maggior parte dei membri delle città esponenti della classe mercantile, o comunque individui legati a filo doppio ai suoi interessi, un simile atteggiamento non solo non avrebbe più avuto alcun senso ma sarebbe stato addirittura in contraddizione con le aspirazioni materiali e ideali della cittadinanza, dalla quale peraltro provenivano elettivamente i membri delle istituzioni di governo.

Ma perché sorgessero organismi politici di questo tipo – nota Pellicani – era prima di tutto necessario che una nuova e particolare organizzazione, quella feudale, ponesse i presupposti politico-istituzionali necessari al suo sviluppo.

Le ragioni della nascita di questo strano tipo di organizzazione – dice l’autore – rimangono tuttora un mistero. A questo proposito egli, dimostrando di non voler nemmeno tentare di giustificare una tale anomalia storica, afferma che “nella parte occidentale [dell’Impero romano] lo Stato – per ragioni che permangono tuttora oscure, malgrado le innumerevoli ricerche – andò in pezzi, per lasciare il posto a un assetto se non unico, certo eccezionale” (pag. 158).

L’Impero romano non fu difatti né il primo né l’ultimo impero ad andare in frantumi e a ‘feudalizzarsi’ nel corso della storia, ma solo nel suo caso la frantumazione politica fu tanto radicale da dare vita a una società in pratica del tutto priva di strutture centralistiche, ovvero a un universo caratterizzato da una pressoché totale anarchia istituzionale, nonché – come inevitabile conseguenza di un tale assetto – da una profonda decadenza economica.

Il declino delle istituzioni statali infatti, si portò dietro quello delle infrastrutture necessarie ai traffici, e con esse quello dei traffici stessi. Di rimando, dal momento che lo stato si alimentava in gran parte attraverso le entrate fiscali provenienti da tali attività, il loro collasso finì per aggravare ulteriormente la sua situazione. Gradualmente, l’economia divenne sempre più rurale e – soprattutto – feudale, mentre le città rimasero quasi completamente tagliate fuori dalla vita economica e politica, divenendo realtà del tutto marginali e periferiche.

Eppure – sottolinea Pellicani – proprio l’isolamento in cui esse vennero a trovarsi costituì a lungo andare il principale punto a loro favore. Contrariamente infatti a quanto sosteneva Henri Pirenne (cfr. pag. 179), non fu la rinascita dei traffici a ‘fare’ le città, bensì le città a ‘fare’ la rinascita dei traffici, in conseguenza della fortissima autonomia di cui goderono a causa della divisione e dell’anarchia politiche dilaganti. Tale situazione permise difatti loro di sviluppare liberamente e in tutte le loro declinazioni (politiche, economiche e culturali) le potenzialità insite nelle attività di mercato, base naturale della loro vita economica.

Dalle città-stato del periodo medievale sorse dunque il capitalismo. In tali realtà – sottolinea l’autore – esso si sviluppò pienamente in tutti i suoi presupposti essenziali: dalla libera concorrenza all’accumulazione indefinita della ricchezza finanziaria, dal calcolo razionale del profitto alla ricerca di sempre nuovi sbocchi commerciali.

Né – egli sottolinea in polemica con vari autori, tra i quali gli stessi Marx e Weber – si può dire che gli stati nazionali abbiano creato il capitalismo, e ciò anche se sarebbe altrettanto assurdo negare la poderosa spinta in avanti che, attraverso le proprie strutture politiche e militari e sulla base dell’alleanza sistematica tra stato e borghesia di cui si è già parlato, essi diedero al suo sviluppo. Infatti, nonostante l’apporto positivo dato da tali strutture alla sua crescita e affermazione a livello mondiale, una tale forma di organizzazione economica era comunque sorta secoli prima nell’Italia tardo-medievale, all’interno di piccole e isolate società urbane nelle quali lo spirito imprenditoriale che un tempo era stato del mondo greco-romano aveva avuto modo di rinascere, supportato però per la prima volta da raffinati strumenti di calcolo e di pianificazione economica e da istituzioni e concezioni molto più favorevoli al suo sviluppo!

Ma, oltre al discorso puramente genetico, se ne impone un altro, di carattere più squisitamente valutativo. Pellicani non nasconde difatti di considerare quella capitalistica come la migliore forma di società possibile, quantomeno tra quelle finora esistite.

Il punto, mi pare, non sono i mercati in se stessi, bensì piuttosto i vari portati legati alla loro presenza. Ovviamente, tali portati o conseguenze non si trovano solo nelle società capitalistiche, ma più in generale in tutti i contesti nei quali un’economia di mercato si sia effettivamente sviluppata e, quantomeno in un certo grado, nella misura in cui ciò sia avvenuto. È ovvio tuttavia, come il capitalismo, dando a tale tipo di organizzazione economica un valore fondante per la società, porti al massimo livello le implicazioni legate alla loro presenza.

Tali implicazioni del resto, non sono di natura meramente economica, ma trasversali a tutti gli aspetti dell’esistenza sociale. Dal punto di vista economico, si ha la nascita della affluent society, ovvero di un mondo nel quale vari ordini di fattori (dalla concorrenza di mercato, che spinge a una sempre maggiore produttività e alla ricerca di sempre nuovi sbocchi commerciali, allo spirito antitradizonalista, che favorisce la ricerca e il progresso tecnico-scientifico) determinano un incremento della ricchezza prodotta e quindi del benessere sociale.

Un altro elemento a favore di questo tipo di società consiste nel fatto che, almeno in una certa misura, non precluda a nessun individuo la possibilità di affermazione personale, tanto nel campo economico quanto in tutti gli altri settori della vita sociale, quale che ne sia la classe di appartenenza. Più di altre società insomma, quella capitalistica è una società meritocratica, nella misura in cui la competizione e più in generale il rispetto della libertà individuale danno a tutti i cittadini l’opportunità (fatte salve alcune differenze di partenza, ovviamente non facili da superare…) di emergere e, soprattutto, di estrinsecare le proprie qualità e le proprie vocazioni personali, senza preclusioni legate a visioni predefinite e inamovibili delle cose.

A questo proposito, Pellicani parla di spinta eterogenetica riguardo al moderno mondo capitalista, in contrasto con le tendenze ortogenetiche che caratterizzano invece quello precapitalistico. Egli non nega infatti che anche al di fuori del primo siano presenti e in un certo grado incoraggiate la ricerca e lo spirito inventivo. Allo stesso tempo però, sottolinea come – in tali contesti, comunque fondamentalmente conservativi – tali attitudini siano più o meno sempre incanalate verso la tradizione o comunque riconciliate con essa, perdendo in tal modo le proprie originarie potenzialità di rivoluzionamento delle tradizioni stesse.

Del pari, non si può dire che la società asiatiche non siano meritocratiche. Anzi, l’autore sottolinea più volte nei suoi efficaci scorci storici, come in esse il merito personale prevalga spesso sulla stirpe. E ciò tra l’altro per una ragione ben precisa: il fatto che il sovrano non abbia interesse a che si formi un’aristocrazia funzionariale e militare stabile, capace cioè di tramandare di padre in figlio le proprie prerogative istituzionali, rischiando così di vedere limitati i propri poteri. Proprio per questo, laddove abbia forza sufficiente per farlo, egli preferisce fare in modo che vi sia un ricambio costante tra i membri delle élite funzionariali, ovvero che individui sempre nuovi ricoprano le cariche istituzionali dello stato, in particolare quelle più alte, impedendo così la nascita di dinastie di potere all’interno di esso. Non è dunque raro leggere che, nei grandi imperi asiatici, anche persone di bassissima estrazione sociale (oltre che, ovviamente, di grandi capacità personali) siano giunti fino ai ranghi più alti della scala sociale.

E tuttavia, di nuovo, un tale tipo di meritocrazia rimane pur sempre legata a una logica conservativa, ortogenetica. Essa mira cioè, a conservare il sistema piuttosto che a modificarlo, pur avendo come fine anche quello di migliorarne l’efficienza e di conservarne più salde possibile le fondamenta.

La moderna società occidentale, insomma, si distingue da tutte le altre per alcuni attributi essenziali, intrinsecamente buoni, quali la laicità, l’individualismo (ovvero la preminenza della dimensione personale e privata rispetto a quella comunitaria, e soprattutto l’emancipazione dei cittadini dalla sudditanza incondizionata dai poteri pubblici), il dinamismo, la spinta inesausta verso il superamento di ciò che è dato e la problematizzazione del reale.

Ma – ci fa notare giustamente Pellicani, proprio nelle ultime pagine del suo saggio – questa libertà può anche trasformarsi in un boomerang ritorcendosi contro i suoi stessi beneficiari, qualora essi perdano il senso della più elementare solidarietà umana e sociale.

È un po’ – mutatis mutandis – quel che accadde all’Impero romano, nel quale “nessuno a partire dal II secolo a.C., poté più avere il diritto di comandare perché era evaporata la fede comune e con essa ogni principio di legittimità. […] La lotta di classe si convertì in guerra di classe, che si concluse con l’instaurazione di uno “Stato ortopedico”, sempre più coattivo e sempre più burocratico […]” (pag. 300). Allo stesso modo, oggi, viviamo il paradosso per il quale “tutto diventa lecito perché tutto è in linea di principio discutibile (e in linea di fatto discusso) e il pluralismo dei valori, tipico della Modernità, può convertirsi in “anarchia” dei valori”. Anche oggi dunque, come già alcuni secoli fa, “la lotta di classe può convertirsi in guerra di classe se viene a mancare il consenso sui valori fondamentali” (pag. 354).

Il libro si conclude infine con una drammatica domanda: “Non è forse una civiltà basata sulla critica e sull’autocritica destinata a distruggere la fede in se stessa e nei suoi valori?” (pag. 355). Domanda che, a mio avviso, ricorda quella con cui si chiude un altro importante saggio, la Storia economica e sociale dell’Impero romano, scritto parecchi decenni prima dal grande storico russo Michail Rostovtzeff, il quale – riflettendo sul declino della civiltà romana – si chiedeva: “è possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradare il contenuto di essa e diluirne la qualità fino all’evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrare nelle masse?”.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014