Vico trova nel latino antico il principio della sua filosofia?

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Vico trova nel latino antico il principio della sua filosofia

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Giuseppe Bailone

Nel 1710, Vico scrive la sua prima opera sistematica, in cui espone i frutti delle sue riflessioni degli ultimi anni sulla scienza e sui suoi fondamenti.

L’opera ha un lungo titolo che ne sintetizza il progetto: De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (Sull’antica sapienza degli Italici da trarre dalle espressioni originarie della lingua latina).

Vico è convinto di aver trovato il principio per costruire un nuovo sistema filosofico, da articolare in tre parti. Progetta, infatti, altri due libri, uno sulla fisica e l’altro sulla morale, che poi, però, non scrive.

“Mentre meditavo sulle origini della lingua latina, mi accorsi – esordisce nel proemio – che la fonte di molti vocaboli è così dotta da non sembrare derivata dal comune uso di una popolazione, bensì da qualche riposta dottrina”.

E più avanti: “Avendo notato che la lingua latina è ricca di locuzioni dotte” mentre “la storia attesta che fino a Pirro gli antichi Romani si dedicarono soltanto all’agricoltura e alla guerra, pensavo che essi avessero ricavato quelle locuzioni da un’altra nazione evoluta, utilizzandole senza saperlo”.1

I Latini, pensa Vico, “parlarono lingua di filosofi senza esser filosofi”, perché nella loro lingua è confluita la sapienza degli Ioni, tra i quali “fiorì la setta filosofica italica (i Pitagorici), di straordinaria dottrina”, e degli Etruschi che furono “dottissimi in metafisica” e pervennero “alla conoscenza della geometria prima dei Greci”.

Vico imposta la sua ricerca sull’esempio di Platone che, nel Cratilo, “cercò, per analoga via, di giungere all’antica sapienza dei Greci”.2

In una Napoli sensibile alle novità che vengono dalla Francia cartesiana, Vico dice che è nell’antico mondo italico che si trova una vera miniera d’oro per i filosofi che s’interrogano sul sapere, sui suoi fondamenti e sulla sua validità. Il problema della nuova scienza, da più di un secolo al centro delle discussioni dotte, può trovare il suo filo d’Arianna nella sapienza implicita nelle parole latine e nei loro rapporti.

Vico è convinto di essere entrato in un territorio inesplorato, di aver avviato un’impresa “mai tentata finora, ma degna forse di essere annoverata tra gli obiettivi di Francesco Bacone”. Si tratta, però, di un’impresa, in qualche modo, già “tentata”, esattamente un secolo prima, proprio da Bacone: questi, infatti, convinto che gli antichi avessero consegnato ai miti profonde verità da riscoprire, aveva pubblicato nel 1609 il De sapientia veterum.3 Vico e Bacone praticano entrambi, in modo originale, il principio rinascimentale del rinnovamento come ritorno ai principi: vanno in cerca di un’antica sapienza nascosta e trovano il nuovo nei miti o nella lingua della remota antichità.

Vico, nell’antica lingua latina trova il principio fondamentale della sua filosofia.

“In latino – scrive in apertura del primo capitolo – verum e factum sono termini reciproci, cioè, per dirla alla maniera delle scuole, si convertono; e in quella lingua intelligere equivale a «leggere perfettamente», «conoscere apertamente». Si diceva invece cogitare nel senso in cui noi adesso diciamo «pensare» e «andar raccogliendo»”.

Per Vico tutto ciò significa che si può veramente conoscere solo ciò che si fa. Pertanto solo Dio conosce propriamente la natura, perché ne è l’artefice; l’uomo può pensarla, cioè osservarne le manifestazioni, “andar raccogliendo” elementi esterni e farsene un’idea empirica con dati morti, come quelli della dissezione anatomica.

“Dio conosce ogni cosa perché contiene in sé gli elementi coi quali compone tutte le cose; l’uomo, invece, si sforza di conoscere le cose dividendole in parti. E così la scienza umana sembra essere quasi un’anatomia delle opere della natura. Inoltre, per portare un esempio che faccia chiarezza, la scienza umana ha diviso l’uomo in corpo e animo, l’animo in intelletto e volontà, e dal corpo ha tratto o, come si dice, astratto la figura e il moto; da questi, come da tutte le altre cose, ha messo fuori l’ente e l’uno. E la metafisica considera l’ente, l’aritmetica l’uno e la sua moltiplicazione, la geometria la figura e la misura, la meccanica il moto dalla periferia, la fisica il moto dal centro, la medicina il corpo, la logica la ragione, la morale la volontà. Ma succede in questa sorta di anatomia la stessa cosa che succede alla normale anatomia del corpo umano, nella quale i medici, anche quelli più acuti hanno non poche incertezze sulla posizione, sulla struttura e sulla funzione delle parti. Lo scopo è di non far alterare dopo la morte – cosicché non se ne possa più indagare la funzione – la posizione e la struttura del corpo vivente, modificata dalla condensazione dei liquidi, dalla cessazione di ogni forma di moto e dalla stessa operazione dell’autopsia. Infatti, questi concetti di ente, unità, figura, moto, corpo, intelletto, volontà altro sono in Dio, nel quale costituiscono l’unità, e altra cosa sono nell’uomo, nel quale sono divisi: mentre in Dio vivono, nell’uomo invece periscono”.4

Periscono perché, dice Vico, dividere è diminuire, ridurre, corrompere.

Anche di questa sua convinzione, Vico trova conferma nella lingua latina: “Infatti il verbo minuere significa allo stesso tempo “diminuzione” e “divisione”, come a dire che le cose che dividiamo non sono più quelle che erano quando erano unite, ma sono ridotte, mutate, corrotte”.5

L’uomo, però, invece di prendere atto dei suoi limiti conoscitivi cerca di rovesciarli in risorse.

“L’uomo, nell’atto d’indagare la natura delle cose, si accorge alla fine di non poterle toccare in nessun modo, perché non ha in sé gli elementi che producono l’esistenza delle cose composte. Ed anche perché questo dipende dalla limitatezza della sua mente; infatti tutte le cose sono fuori di lui. A questo punto volge questo difetto della sua mente in vantaggio, e mediante quella che chiamano «astrazione» si finge due cose: il punto che può essere disegnato, e l’uno, che può essere moltiplicato. E si tratta certo di due finzioni: il punto, infatti, nel momento in cui lo disegni non è più un punto e l’uno, quando lo moltiplichi, non è più uno. Per di più, l’uomo si è arrogato il diritto di procedere da questi all’infinito: così si concede di condurre linee all’infinito e di moltiplicare l’uno indefinitamente. E in questo modo si è creato come un mondo di forme e di numeri, che comprende in sé l’universo”.6

In fisica l’uomo non può “definire le cose secondo verità”, come solo Dio può.

“Allora definisce i nomi e, così come Dio, senza alcun sostrato e come dal nulla crea, come fossero cose, il punto, la linea, la superficie. Con il nome di punto intende qualcosa che sia privo di parti; con la parola linea il prolungamento del punto, mancante di lunghezza, larghezza e profondità; con il termine superficie l’incontro di due linee diverse in un solo punto, ossia lunghezza e larghezza prive di profondità. In tal modo, allorché all’uomo viene negata la possibilità di cogliere gli elementi delle cose, dai quali le cose stesse ricevono esistenza, egli si finge elementi di parole, dai quali scaturiscono idee che non generano alcuna controversia. E questo lo riconobbero acutamente i sapienti autori latini; infatti, sappiamo che i Romani usavano in maniera indifferente le espressioni quaestio nominis e quaestio definitionis, e non si convincevano di aver trovato una definizione se non quando la parola che veniva fuori era in grado di suscitarne l’idea nella maggioranza degli uomini”.7

Per Vico la matematica più che avvicinare la conoscenza umana a quella divina, come pensava Galileo, ne segnala la radicale distanza.

Dio definisce le cose secondo verità, l’uomo definisce i nomi.

Questa interpretazione nominalistica della matematica non vanifica del tutto la fondazione metafisica che ha accompagnato la nascita della scienza, ma la ridimensiona: con la matematica l’uomo non entra nella verità delle cose, ne resta fuori, ma il successo delle operazioni che, grazie ad essa, compie sulle cose, segnala il suo avvicinamento alla loro verità.

Il vero è quel che l’uomo fa, con successo, sulla natura e con la natura.

La matematica è una finzione umana che fa, per così dire, da protesi all’uomo e gli consente, con le diverse tecniche, costruite grazie ad essa, e con la fisica sperimentale, di entrare un po’ dentro la realtà: quello, infatti, che con l’esperimento, si riesce a riprodurre della realtà naturale diventa, per il principio dell’identità di vero e fatto, vero.

“L’umana curiosità, mentre investigava sul vero a lei negato dalla natura, partorì due scienze utilissime all’umanità, l’aritmetica e la geometria. E da questa generò la meccanica, madre di tutte le arti necessarie al genere umano. Dal momento, quindi, che la scienza umana è nata da una imperfezione della nostra mente, […] sono certissime quelle scienze che si affrancano dal loro limite originario e diventano, con il fare, simili alla scienza divina, in quanto in esse vero e fatto si convertono”.8

Operando sulla natura con le sue finzioni, l’uomo avvicina il suo sapere al sapere divino: costringendo la natura a rifarsi, a scoprire certi suoi processi, si avvicina all’attività creativa divina. La fisica sperimentale perde così la sua fondazione metafisica sul principio galileiano della natura scritta in caratteri matematici, diventati finzioni umane, ma ne guadagna un’altra sul nuovo principio vichiano dell’identità di vero e fatto.

E, davanti al principio dell’identità di vero e fatto, anche il principio cartesiano dell’evidenza cade e l’ordine delle scienze cambia.

“L’idea chiara e distinta che noi abbiamo della nostra mente non può essere criterio non solo delle altre verità ma neanche della stessa mente, perché nell’atto di conoscersi la mente non si fa e, non facendosi, ignora il genere e il modo in cui si conosce. E poiché la scienza umana nasce dall’astrazione, questo è il motivo per il quale le scienze sono tanto meno certe quanto più sono immerse nella materia corporea. Così la meccanica è meno certa della geometria e dell’aritmetica, perché si occupa del moto ma con l’aiuto delle macchine; la fisica meno certa della meccanica, in quanto quest’ultima considera il moto esterno della circonferenza, la fisica invece il moto interno del centro; la morale meno certa della fisica, perché la fisica esamina i moti interni dei corpi che derivano dalla natura, che è certa, mentre la morale scruta i moti degli animi, che sono profondamente interni e che provengono in massima parte dal desiderio, che è infinito. E perciò in fisica vengono apprezzate le teorie nelle quali si verifica una somiglianza con quel che facciamo, e fra tutte vengono ritenute eccellenti e raccolgono il maggior consenso quelle idee sulle cose naturali che vengono confortate da esperimenti con i quali riusciamo a fare qualcosa di simile a quel che fa la natura”.9

Guidato dal criterio di verità recuperato dall’antica lingua latina, Vico distingue la scienza dalla coscienza e si misura con “il primo vero” di Cartesio.

“La certezza di pensare è coscienza e non scienza”.

A questa “volgare cognizione” è arrivato anche il Sosia di Plauto, ironizza Vico. “Non è dunque una verità così rara e ricercata da richiedere, per essere trovata, la riflessione di un così grande filosofo. Conoscere significa infatti possedere il genere o la forma con la quale una cosa viene ad essere; mentre invece abbiamo solo coscienza delle cose delle quali non siamo in grado di dimostrare il genere o la forma”.10

Cartesio, pertanto, non ha sconfitto lo scetticismo.

Lo scettico, infatti, nega che “dalla coscienza di pensare si acquisti la conoscenza dell’ente. Infatti, egli sostiene che la scienza è conoscenza delle cause dalle quali le cose scaturiscono. Ma io che penso sono mente e corpo, e se il pensiero è causa del mio essere, il pensiero è anche causa del mio corpo. Eppure ci sono corpi che non pensano. E intanto io penso proprio perché sono fatto di corpo e di mente, cosicché corpo e mente uniti sono causa del mio pensiero; infatti, se fossi solo corpo non penserei (cogitarem), se fossi solo mente non intenderei (intelligerem). Senza dubbio il pensare non è la causa del mio essere mente, ma solo il sintomo. Infatti, l’indizio (techmerium, che significa “segno”, “traccia” di un passaggio, “sintomo” nel lessico medico) non è la causa, e qualunque scettico prudente non potrà negare la certezza degli indizi, ma solo quella delle cause”.11

Solo l’antica sapienza italica sedimentata nel latino vince lo scetticismo.

“Pare evidente che l’unica via percorribile per riuscire a sconfiggere lo scetticismo consista nello stabilire che il criterio di verità di una cosa stia nell’averla fatta. Gli scettici, infatti, sostengono di conoscere l’apparenza delle cose e d’ignorare la loro reale essenza. Ammettono gli effetti e concedono che debbano quindi avere delle cause; ma negano di avere conoscenza di queste cause perché ignorano i generi o le forme dalle quali le cose vengono generate. Gli argomenti che adducono si possono così rigirare contro di loro”.12 Si tratta, infatti, di argomenti che si prestano perfettamente a dar forza al principio dell’identità di vero e fatto.

Dio comprende ogni cosa perché ne è il creatore e la scienza divina è regola di quella umana: noi conosciamo veramente solo quelle cose che facciamo. Facendo le cose, imitiamo la creatività divina e la sua conoscenza, ma con i pesanti limiti dovuti alla nostra condizione.

Se il punto è il principio in base al quale l’uomo costruisce la geometria e l’uno è il principio della costruzione dell’aritmetica, Vico pensa che analoga funzione la svolga il conato per la fisica. Con l’importante differenza che, mentre gli enti matematici sono finzioni umane e, in quanto tali, sue creature, il conato, altra finzione umana, non consente di conoscere la natura, opera divina, in se stessa, ma solo nel suo aspetto quantitativo. Esso, infatti, in quanto punto in movimento e in quanto numerabile nei suoi effetti di movimento, genera una geometria fisica assoggettabile al calcolo matematico. Questa suscita nell’uomo l’idea che la natura sia scritta in caratteri matematici, ma il conato, principio del moto, è suscitato da Dio.

“La natura è moto, di questo moto il conato è l’indefinita virtù del movimento che Dio, mente infinita in sé immobile, suscita. Le opere della natura giungono a compimento grazie al moto e nel conato trovano origine: cosicché la genesi delle cose segue il moto, il moto segue il conato e il conato Dio”.13

La fisica si ferma al fenomeno di una realtà che rimanda a Dio.

Anche il rigore razionale della matematica, che tanto affascina Cartesio, segnala la sua natura squisitamente umana.

“Conoscere distintamente – scrive Vico – più che una virtù è un difetto. Difatti significa conoscere i confini delle cose. La mente divina vede le cose al sole della sua verità, il che equivale a dire che, nel vedere una cosa, conosce insieme alla cosa che vede tutte le infinite altre. La mente umana, quando conosce distintamente una cosa, la vede come di notte alla luce di una lampada: mentre vede quelle cose, esclude dalla sua vista gli oggetti che la circondano”.14

Vico ricava dall’antica lingua latina, con procedimenti filologici spesso disinvolti, molti elementi che poi sviluppa nella sua filosofia. Tra questi merita particolare attenzione la distinzione tra le parole “animo” e “anima”.

A partire da un verso di Lucrezio, «anima vivamus, animo sentiamus», Vico distingue l’animo, solo umano, dall’anima, propria di tutti gli esseri viventi.

Ricorda che, “quando i Latini discutevano sull’immortalità, parlavano di animi, non di anime”. E aggiunge: “L’origine di questa espressione sta forse nel fatto che gli autori avevano osservato che i moti dell’animo sono liberi e dipendono dal nostro arbitrio, quando invece il moto dell’anima non può essere generato che dalla macchina del corpo, che è corruttibile. E giacché l’animo si muove liberamente, aspira all’infinito e quindi all’immortalità. Questa ragione è d’importanza tale che perfino i metafisici cristiani ritennero di distinguere l’uomo dai bruti in virtù del libero arbitrio. Certo che i Padri della Chiesa adducono come prova del fatto che l’uomo è stato creato con un animo immortale, e creato immortale da Dio, proprio questa caratteristica, cioè che esso aspira all’infinito”.15

“Concorda con quanto detto or ora l’espressione bruti con la quale i Latini chiamavano gli esseri viventi privi di ragione. Brutum era per loro sinonimo di immobile: eppure essi vedevano i bruti muoversi. Bisogna perciò pensare che gli antichi filosofi italici ritenessero i bruti immobili in sé, cioè incapaci di muoversi se non sollecitati da oggetti presenti, dai quali venivano mossi come per azione di una macchina. Gli uomini, invece, possiedono un principio interno di movimento, appunto l’animo, che è in grado di muoversi spontaneamente”.16

Note

1 Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, p. 5.

2 Ib. p. 7.

3 Di quest’impresa di Bacone ho scritto nel quaderno n° 5, Viaggio nella filosofia, da Montaigne a Pascal, Università popolare editore 2012, pp. 53-72.

4 Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, pp. 19-21.

5 Ib. p. 23.

6 Ib. pp. 23-25.

7 Ib. p. 25.

8 Ib. p. 27.

9 Ib. pp. 27-29.

10 Ib. pp. 33-35.

11 Ib. p 37.

12 Ib. p. 39.

13 Ib. p. 85.

14 Ib. p. 79.

15 Ib. pp. 97-99.

16 Ib. p. 101.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2012-13 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 27 maggio 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 02-02-2016