Vico: matematica o retorica, scienze sempre più separate o loro ricomposizione unitaria in una nuova filosofia?

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Vico: matematica o retorica, scienze sempre più separate
o loro ricomposizione unitaria in una nuova filosofia?

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Giuseppe Bailone

“Quelli che hanno separato sia dalla filosofia sia tra di loro le arti e le discipline – che non soltanto erano tutte comprese nel grembo della filosofia, ma tutte insieme – mi paiono esser stati simili a tiranni che, impadronitisi di una città nemica quanto mai estesa, ricca e popolosa, per esserne al sicuro da allora in poi, distruggono la città e disperdono i cittadini per villaggi molto lontani: affinché essi non confidando più nella magnificenza e nelle ricchezze della loro città e nel numero dei loro, non possano sollevarsi d’animo, né cospirare, né essere d’aiuto agli altri”.1

Vico sta facendo l’orazione inaugurale dell’anno accademico. Questo compito tocca a lui, perché è professore di eloquenza, e pertanto, come spiega nella parte conclusiva dell’orazione, deve essere “istituzionalmente abbastanza dotto in tutte le scienze e le arti per spronare nell’orazione annuale la gioventù studiosa ad impegnarsi in ogni genere di studi e di arti”.2

L’orazione è però molto di più di un’esortazione allo studio: l’immagine dei tiranni che hanno frantumato la cultura, collocata nel bel mezzo del discorso, dice quanto sia critica la sua posizione nei confronti dell’organizzazione degli studi del suo tempo e quale sia l’impegno teorico che si assume.

Il titolo, De nostri temporis studiorum ratione (Sul metodo di studio dei nostri tempi), e la domanda iniziale, “Quale metodo di studio è più corretto e migliore, il nostro o quello degli antichi?”, collocano questo discorso all’interno nel dibattito, allora vivo, sul primato degli antichi o dei moderni. Presto, però, il confronto fra i due metodi di studio si approfondisce e diventa esame delle possibilità e dei limiti della conoscenza umana.

L’orazione si apre con la citazione del De augmentis scientiarum (Sugli avanzamenti delle scienze), ”l’aureo libretto” di Francesco Bacone, insieme alla denuncia delle sue “smisurate ambizioni”, e si chiude con il consiglio dello stesso Bacone “che i giovani siano tenuti lontano dagli studi di eloquenza, finché non hanno compiuto l’intero ciclo di studi”. Infatti, “che altro è – spiega – l’eloquenza, se non la sapienza, che parla in modo elegante, con abbondanza e in modo appropriato al senso comune?”3

Vico apprezza questa definizione dell’eloquenza di uno dei suoi quattro autori, ma scrive che Bacone “si è comportato nel campo degli studi in modo analogo ai dominatori degli imperi più potenti nelle questioni pubbliche, i quali, giunti al massimo potere sul genere umano, tuttavia si sforzano, sebbene vanamente di tormentare con le loro grandi opere la natura stessa: lastricare i mari con le pietre, veleggiare tra le montagne, ed altre imprese vietate per natura. Mentre invece tutto ciò che all’uomo è dato conoscere è, al pari dell’uomo stesso, finito ed imperfetto”.4

Quanta arroganza e quanta presunzione!

Vico conosce bene i vantaggi del nuovo sapere, tanto esaltato da Bacone, il filosofo del motto “sapere è potere”. Li elenca con ammirazione. Sono magnifici, ma l’uomo sta perdendo il senso della misura: può bensì “tormentare la natura”, ma ha perso la saggezza che viene solo dall’unitarietà del sapere; deve rientrare nei limiti che lo costituiscono, tornare a occuparsi di se stesso, realizzare il sapere che è alla sua portata e ricomporlo in unità.

In Grecia “un solo filosofo corrispondeva ad una università degli studi perfettamente compiuta”; i Romani non avevano bisogno delle università, “poiché collocarono la sapienza nella sola giurisprudenza”. Oggi, invece, “una qualsiasi arte e scienza è diventata talmente difficile, che un singolo è a stento sufficiente per insegnarne una sola. Pertanto presso di noi sono state istituite le università degli studi e organizzate in ogni genere di disciplina, nelle quali gli uni insegnano una disciplina, gli altri un’altra, ciascuno preparatissimo nella propria. Ma a questo vantaggio si contrappone quello svantaggio, consistente nel fatto che le arti e le scienze, che la sola filosofia comprendeva come in un unico respiro, oggi sono distinte e divise. […] E l’insegnamento di esse è talmente disordinato e spesso a rovescio che, per quanto vi siano di dottissimi nelle parti, tuttavia nell’insieme, che è il fiore della sapienza, non sono saldi”.5

È necessaria una nuova filosofia, unitaria come quella degli antichi.

Vico incomincia a costruirla con questa esortazione ai giovani.

“Oggi – scrive Vico – si guarda ad un solo fine di tutti gli studi, uno solo si tratta con riguardo, uno è da tutti celebrato: la verità”.6

Questo fine è sicuramente apprezzabile, ma la verità è il punto d’arrivo, non di partenza del processo conoscitivo e di studio.

Vico rovescia Cartesio e il primato della critica e del rigore razionale, modellato sulla matematica, che il suo metodo ha imposto.

“Oggi iniziamo gli studi dalla critica: la quale, per mondare il suo primo vero non solo da ogni falsità, ma anche da ogni sospetto di falsità, prescrive che i secondi veri e tutti i verisimili siano respinti dalla mente come fossero falsi. Ma in modo svantaggioso: infatti, negli adolescenti si deve formare quanto prima il senso comune, affinché giunti nell’età delle occupazioni non se ne escano in stranezze ed insolenze. Ma, come la scienza si origina dal vero, l’errore dal falso, così il senso comune nasce dal verisimile.

Ed infatti le cose verisimili sono per così dire intermedie tra le vere e le false: come quelle che sono vere per lo più, assai di rado sono false. Dunque, dovendo essere educato negli adolescenti soprattutto il senso comune, si deve stare attenti che la nostra critica non lo soffochi in loro. Inoltre il senso comune com’è regola di ogni prudenza così lo è dell’eloquenza: infatti, spesso gli oratori si affaticano più per una causa vera, che non abbia niente di verisimile, che per una falsa, la quale si basi su uno svolgimento credibile. Ragion per cui c’è il rischio che la nostra critica renda gli adolescenti più inadeguati nell’eloquenza. Infine i nostri critici collocano il loro primo vero avanti, fuori, sopra ogni immagine corporea. Ma lo insegnano agli adolescenti prima del tempo e con severità. Infatti, come nella vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare quella che è sempre stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura. Ed è necessario che nei fanciulli, i quali non eccellono in nessun altra facoltà della mente, sia molto coltivata la memoria, la quale se non coincide con la fantasia, è perlomeno quasi la stessa cosa: e non si devono ottundere affatto gli ingegni rivolti ad arti nelle quali prevalgono la fantasia o la memoria oppure entrambe, come la pittura, la poesia, l’oratoria, la giurisprudenza”.7

L’abitudine al ragionamento ponderato si raggiunge “gradatamente e con dolcezza, in proporzione all’ingegno dell’età”.

Purtroppo, “al giorno d’oggi si celebra la sola critica; la topica non solo non è permessa, ma è del tutto lasciata da parte”.8 Con gravi inconvenienti: “infatti, come l’invenzione degli argomenti precede per natura il giudizio rispetto alla loro verità, così nell’insegnamento la topica deve precedere la critica”. Se “la critica ci rende veritieri, così la topica ci rende facondi”.

Presi da soli la critica e la topica hanno dei difetti: “Il metodo dei topici, perché spesso afferrano il falso; il metodo dei critici, perché non assumono anche il verisimile”. Vico, quindi propone “che gli adolescenti vengano istruiti con giudizio in tutte le scienze e le arti, affinché si arricchiscano dei luoghi della topica, ed intanto si rafforzino nel senso comune per la prudenza e l’eloquenza, nella fantasia e nella memoria per le arti che spiccano per queste facoltà della mente; imparino la critica, ed allora valutino daccapo con loro proprio giudizio le cose nelle quali sono stati istruiti; e si esercitino nelle medesime discutendo pro e contro. In tal modo, infatti, risulterebbero veritieri nelle scienze, accorti nella prudenza delle cose, facondi nell’eloquenza, ricchi di immaginazione nella poesia e nella pittura, di buona memoria nella giurisprudenza. Ed oltre a ciò sarebbe sicuro che non diventerebbero avventati, come chi disputa intorno alle cose mentre le sta imparando; né religiosi in modo distorto, come chi ritiene che niente sia vero se non è dettato da un maestro”.9

Gli svantaggi del metodo moderno sono molti: l’introduzione del procedimento geometrico in fisica non solo “spegne il gusto di contemplare più a fondo la natura”, riducendone lo studio ai soli aspetti geometrizzabili, ma presenta come vero, “in forza del procedimento geometrico” cose che “non sono se non verisimili”; “ottunde le facoltà di parlare con acume e con eleganza”; in particolare “poiché questa fisica, sia mentre la si impara sia una volta appresa, inferisce sempre i prossimi dai prossimi, ottunde negli uditori quella facoltà che è propria dei filosofi, cioè il vedere qualità simili in cose di gran lunga lontane e diverse: ciò che è considerato la sorgente e l’origine di ogni forma acuta ed elegante del parlare”.

Il modello geometrico delle lunghissime catene di ragionamenti a piccolissimi passi, di uguaglianza in uguaglianza, che tanto seduce Cartesio, per Vico, applicato in fisica e nelle altre scienze, ottunde le facoltà filosofiche.

“Il sottile non è il medesimo dell’acuto: infatti il sottile consta di una linea, l’acuto di due. Nell’acuto parlare, del resto, la metafora, che è l’abbellimento al massimo grado insigne ed il più splendido ornamento di ogni discorso elegante, occupa la posizione più importante. Ma anche per un altro motivo quelli che sono abituati a questo genere di discussione sono meno adeguati all’eloquenza. Infatti l’eloquenza è predisposta soprattutto per la moltitudine inesperta: e gli uomini inesperti, soprattutto quando vola irrevocabile la parola10, molto difficilmente afferrano queste lunghe catene di ragionamenti […]. Perciò al loro cospetto è necessario ricorrere a quella libera ed ampia forma del parlare, in virtù della quale l’oratore ora dimostri, ora si allontani, ora torni all’argomento; e ciò che ha detto in modo più rude, rifinisca; ciò che ha detto più succintamente, estenda, ed indugi nella stessa cosa con altre ed altre figure del discorso, affinché l’uditore avendola profondamente impressa nell’animo la faccia propria”.11

Anche nelle altre scienze il nuovo metodo comporta svantaggi. Vico esamina quelli dell’analisi ed esprime il dubbio che essa sia utile alla meccanica. Esamina gli effetti negativi del nuovo metodo nella medicina: “Noi, credendo di conoscere con sufficiente sicurezza le cause delle malattie, non prestiamo attenzione sufficiente ai sintomi e formuliamo diagnosi regolarmente. Nelle quali cose, poiché gli antichi erano superiori ai nostri, la loro via ed il loro metodo di cura era senza dubbio più sicuro. Infatti, forse perché le cause apparivano loro piuttosto nascoste ed incerte, erano solleciti e desiderosi di sapere fino allo scrupolo solo ciò che potevano ammettere e dimostrare, persuasi da lunga osservazione; dai sintomi giudicavano non tanto le cause delle malattie, quanto la gravità e l’avanzamento, in direzione del sicuro tracciato della terapia”.12 Gli antichi, “credendo più facile preservare la salute del corpo, come gli altri beni, che ristabilirla una volta corrotta, prestavano attenzione a quei segni con cui la natura sana facesse cenno della futura malattia, perché potesse essere prevista ed evitata […]. Sempre infatti, prima di cadere in malattia, la natura preannuncia la futura rovina con qualche sintomo”. I medici moderni, invece, spesso dicono: «temporeggiamo, e attendiamo che la natura malata esca allo scoperto»”.13 Il fine della verità evidente, chiara e distinta compromette l’efficacia terapeutica.

Non è poi detto che questa verità evidente si possa raggiungere: “Oggi deduciamo le nostre dissertazioni attorno agli argomenti fisici da un unico vero sperimentato: ma i sintomi e le valutazioni che si raccolgono con lunga osservazione sono verisimili”.14 Non solo: questo modello porta solo a “spiegare un secondo vero che si celava nel primo; ma le malattie sono sempre nuove e diverse”.15

“Ma il massimo inconveniente del nostro metodo di studi è che mentre ci dedichiamo molto intensamente alle scienze naturali, non facciamo tanto per la morale ed in particolare per quella parte che tratta dell’indole dell’animo umano e delle sue passioni in modo appropriato alla vita civile e all’eloquenza, dei segni distintivi della virtù e dei vizi, delle buone e delle cattive arti, dei caratteri dei comportamenti rispetto all’età, al sesso, alla condizione, alla fortuna, alla stirpe, allo Stato di ciascuno, e di quell’arte, tra tutte la più difficile, della dignità (nel testo latino c’è il gen. decori); e così l’amplissima ed eminentissima dottrina dello Stato giace presso di noi quasi abbandonata ed incolta. Poiché oggi unico scopo degli studi è la verità, indaghiamo la natura delle cose perché sembra certa: non indaghiamo la natura degli uomini perché è resa incertissima dall’arbitrio”.16

La “nuova critica” può essere utile alla poesia.

Premesso che “la vocazione poetica è un dono di Dio” che non “può essere acquistata con alcun mezzo”, tuttavia “quelli che sono ispirati divinamente da questa facoltà” possono perfezionarla con gli studi delle lettere. Se insegnata agli adolescenti, però, “la critica nuoce alla poesia”, perché “in loro offusca la fantasia e cancella la memoria. Ma, se gli adolescenti, una volta rafforzati in entrambe le facoltà della mente, fossero istruiti in tale arte, riterrei che la critica gioverebbe alla poesia: poiché i poeti si rivolgono al vero in idea, o per genere […]. Ed il procedimento geometrico conduce il più possibile a foggiare invenzioni poetiche: vale a dire così che i personaggi agiscano sempre per tutto il corso della favola in modo tale, quali sono stati presentati una volta al principio”. Infatti, “non sanno correttamente foggiare tali invenzioni poetiche se non coloro che sono in modo sufficientemente corretto capaci di unire strettamente le cose le une alle altre, affinché le seconde paiano seguire per natura dalle prime, le terze dalle seconde”.17

Le lunghe catene di ragionamenti a piccolissimi passi, tanto nocive alla filosofia, giovano alla poesia!

Convinto che il metodo moderno danneggi la “prudenza civile”, Vico pensa, infatti, che giovi alla “poetica”. Non solo: “E sarei dell’opinione, aggiunge, che la fisica moderna sia conveniente alla poesia. I poeti infatti in buona parte ricorrono a frasi attraverso le quali spiegano le cause naturali delle cose, sia al fine di suscitare l’ammirazione dell’orazione poetica, sia a prova dell’antico possesso: poiché i più antichi tra i poeti furono fisici. Da ciò «nato nel sangue» in luogo di «generato», «svanire nell’aria»invece di «morire», «fuoco ardente nel petto» invece di «febbre», «vapore condensato nell’aria» invece di «nube», «fuoco scagliato dalle nubi» invece di «fulmini», «ombre della terra» in luogo di «notte». […] Poiché la fisica moderna descrive le immagini più sensibili delle cause soprattutto a partire dalla meccanica, della quale si serve come strumento, essa comodamente potrebbe provvedere i poeti di una classe di nuove espressioni”.18

Figlio di un libraio, Vico non poteva non apprezzare i vantaggi della stampa. Tuttavia nota che essa ha eliminato una condizione preziosa per la cultura.

“Quando i libri erano scritti a mano, i copisti, per fare il prezzo dell’opera, trascrivevano gli autori di solida reputazione, e poiché spesso erano venduti a caro prezzo, gli studiosi erano spinti a trascriverli di loro propria mano. È sorprendente quanti progressi si facciano con tal genere di esercizio! Poiché ponderiamo meglio ciò che scriviamo, e soprattutto perché non scriviamo in modo disordinato, né in fretta, né in modo frammentario, ma con calma e senza interruzione. Ed infatti in tal modo non sopravviene una conoscenza superficiale, ma una lunga consuetudine tra noi e gli autori stessi, e attraverso di essa ci trasformiamo in essi stessi tali e quali. E per questo motivo i cattivi scrittori mancavano di trascrittura, invece i buoni erano divulgati con tanto vantaggio”.19

Note

1 Vico, De nostri temporis studiorum ratione, Edizioni ETS 2010, pp. 89-91.

2 Ib. p. 147.

3 Ib. p. 147.

4 Ib. p. 25.

5 Ib. pp. 141-145.

6 Ib. p. 29.

7 Ib. pp. 37-39.

8 La topica è la teoria dei luoghi (topoi in greco) logici e l’arte di inventarli. Aristotele ne parla a proposito della retorica e dei ragionamenti dialettici: i luoghi sono quegli “argomenti che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte discipline diverse, come, per es., l’argomento del più e del meno” (Ret., I.2, 1358 a 10). Questi sarebbero i luoghi comuni. Essi non hanno oggetto specifico, perciò non accrescono la conoscenza delle cose, ma sono strumenti di persuasione. Su questa funzione ha insistito Cicerone, che ha inteso la topica come la parte inventiva della logica, cioè quella che escogita gli argomenti utili a convincere.

9 Ib. pp. 45-47.

10 Orazio, Epistole, I, XVIII, 71.

11 Ib. pp. 51-53.

12 Ib. p. 59.

13 Ib. p. 61.

14 Ib. p. 61.

15 Ib. p. 61.

16 Ib. p. 65.

17 Ib. pp. 79-81.

18 Ib. pp. 83-85.

19 Ib. p. 137.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2012-13 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 20 maggio 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 02-02-2016