TEORICI
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SCHELLING SULLA SCIA DI FICHTE (1775-1854)
Primo di cinque figli, nasce il 27 gennaio 1775 a Leonberg, patria di Keplero. Il padre, “uomo di chiesa, di studio e di famiglia”1, è un autorevole orientalista. Schelling cresce in un ambiente familiare molto colto e affettuoso, dove è oggetto di cure premurose, anche se un po’ oppressive. Si rivela subito geniale e precocissimo. Studia molto presto il latino e il greco. A quindici anni, nel 1790, il famoso Stift di Tubinga lo accoglie eccezionalmente tra i suoi studenti, tre anni prima della norma. Vi frequenta i cinque anni universitari per la laurea in teologia e ha come compagni di stanza Hegel e Hölderling. In quell’università, soprattutto fra gli studenti, Kant è all’ordine del giorno, e Schelling già nel 1791 ne conosce la Critica della ragion pura. Tra gli studenti dello Stift è molto viva l’attenzione ai fatti rivoluzionari francesi e molto praticata la lettura di autori non ammessi o poco tollerati. Schelling partecipa con vivacità a questi fermenti e traduce, ma la cosa non è storicamente accertata, la Marsigliese. In quegli anni a Tubinga si presenta due volte, nel 1793 e nel 1794, Fichte, già famoso come autore della Critica di ogni rivelazione e per altri più recenti scritti. E Schelling lo avvicina e parla direttamente con lui, allora “in uno dei momenti più felici della sua vita e in una delle svolte più esaltanti della sua meditazione”.2 Sta con lui poco tempo, ma quanto basta per avvertirne “quel senso di risolutivo e totale rinnovamento” inerente “alla scoperta stessa della sua nuova filosofia”.3 “L’incontro con Fichte dev’essere stato decisivo per Schelling, sia perché lo confermò nell’intento di dedicarsi alla filosofia malgrado l’orientamento nettamente teologico del suo corso di studi, sia perché gli mostrò col fatto la possibilità di svolgere la filosofia kantiana in senso ben diverso da quello fiacco e snervato dei kantiani di Tubinga (e a giudizio dei giovani Hegel e Schelling, dello stesso Fichte come autore della Critica di ogni rivelazione), sia perché gli indicò la via d’un’affermazione sostanzialmente romantica (e quindi fortemente innovatrice) dell’io come spirito e libertà”.4 Al termine dei primi due anni allo Stift, Schelling scrive di filosofia sul mito, occupandosi di racconti biblici e di miti greci, considerati alla stessa stregua come testi da interpretare razionalisticamente. In questi scritti dimostra già una buona conoscenza dei filosofi moderni come Grozio, Leibniz, Herder, Rousseau e Kant. il mito, significativamente, è presente sia agli inizi che al termine della lunga produzione filosofica di Schelling, anche se con spirito molto diverso: “All’inizio, sotto lo stimolo della critica biblica e del distacco dalla tradizione, il mito è interpretato razionalisticamente, mentre in ultimo, sotto lo stimolo della religione ritrovata e della filosofia positiva, il mito è considerato come l’inizio della rivelazione”.5 Anche il 1793 è dedicato alla critica razionalistica della Bibbia e della religione. Schelling pensa addirittura di dedicare a questi argomenti anche la dissertazione dell’esame finale del corso di teologia, ma poi, su consiglio di maggior prudenza, ripiega su un argomento meno compromettente. Nel frattempo si ammala gravemente, ma riesce comunque a concludere gli studi universitari di teologia nel novembre del 1795 e con lode. Prima ancora di completare gli studi universitari, però, Schelling diventa famoso in filosofia pubblicando, nel marzo del 1795, scritti sulla nuovissima filosofia di Fichte, e altri scritti d’ispirazione fichtiana nella primavera successiva. Nel primo di questi scritti del 1795, Dell’io come principio della filosofia, ovvero sull’incondizionato nel sapere umano, scrive: “L’incondizionato non può trovarsi né nella cosa in generale, né in ciò che può diventare cosa, nel soggetto, ma dunque soltanto in ciò che non può affatto diventare una cosa, cioè, se esiste un io assoluto, soltanto nell’io assoluto. L’io assoluto sarebbe dunque determinato anzitutto come ciò che non può assolutamente mai diventare oggetto. […] L’io, se deve essere incondizionato, deve trovarsi al di fuori di ogni sfera di dimostrabilità oggettiva. Dimostrare oggettivamente che l’io è incondizionato, significherebbe dimostrare che è condizionato. Nell’incondizionato il principio del suo essere ed il principio del suo pensiero debbono coincidere. Esso è semplicemente perché è e vien pensato semplicemente perché vien pensato. L’assoluto può essere dato soltanto per mezzo dell’assoluto, anzi, se dev’essere assoluto, deve esso stesso precedere ogni pensare e rappresentare, e dunque venir realizzato non già per opera di dimostrazioni oggettive, cioè per il fatto che si va oltre il suo concetto, ma soltanto per opera di se stesso. Se l’io non dovesse essere realizzato per opera di se stesso, la proposizione che esprimesse il suo essere dovrebbe essere questa: se io sono, allora sono. Ma la condizione di questa proposizione include essa stessa in sé il condizionato: la condizione non è essa stessa pensabile senza il condizionato; io non posso pensarmi sotto la condizione del mio essere senza pensarmi come già esistente. In quella proposizione, dunque, non già la condizione condiziona il condizionato, bensì, al contrario, il condizionato condiziona la condizione; quella proposizione cioè si sopprime in quanto condizionata e diventa incondizionata: io sono perché sono. Io sono! Il mio io contiene un essere anteriore ad ogni pensare e rappresentare. Esso è nell’atto che vien pensato, e vien pensato perché è; e questo perché esso è e vien pensato soltanto nella misura in cui pensa se stesso. Esso dunque è perché solo esso stesso si pensa, ed esso stesso si pensa solo perché è. Esso stesso si produce mediante il suo pensiero in forza di una causalità assoluta. […] Il sistema compiuto della scienza parte dall’io assoluto escludente ogni opposto. Quest’io, ch’è l’unico incondizionabile condiziona l’intera concatenazione del sapere, descrive la sfera di tutto il pensabile, e domina come realtà assoluta e onnicomprensiva, lungo tutto il sistema del nostro sapere. Solo in virtù di un io assoluto, solo in virtù del fatto che questo io è posto in modo assoluto, diventa possibile che gli sia opposto un non-io, anzi che la filosofia stessa divenga possibile; giacché l’intero assunto della filosofia teoretica e pratica non consiste in altro che nella soluzione del contrasto fra l’io puro e l’io empiricamente condizionato. La filosofia infatti procede, per risolvere questo contrasto, di sintesi in sintesi, fino alla più alta sintesi possibile, in cui io e non-io vengono parimenti e simultaneamente posti (fino a Dio), e dove, poiché la ragione teoretica finisce in aperte contraddizioni, subentra la ragion pratica, non già per sciogliere il nodo, ma per tagliarlo con decisioni assolute. […] L’io teoretico, infatti, tende ad equiparare io e non-io, e quindi a innalzare lo stesso non-io alla forma dell’io; l’io pratico invece tende alla pura unità escludente ogni non-io; e ciò fanno entrambi soltanto nella misura in cui l’io assoluto ha causalità assoluta e pura identità. Il principio ultimo della filosofia non può dunque essere assolutamente nulla che si trovi fuori dell’io assoluto, non può essere né fenomeno né cosa in sé. […] Il punto ultimo da cui dipende tutto il nostro sapere e l’intera serie di ciò ch’è condizionato non deve assolutamente essere condizionato da nulla di ulteriore. Il complesso del nostro sapere non ha appoggio se non è sorretto da qualcosa che si sostiene per forza propria, e questo qualcosa non è altro se non ciò ch’è reale in forza della propria libertà. Ecco dunque l’inizio e la fine di ogni filosofia: la libertà!”.6 Nell’altro scritto fichtiano del 1795, Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo, Schelling presenta già una sua posizione originale sul dogmatismo, espressione di un atteggiamento nei confronti della natura che lo allontanerà sempre più da Fichte. “Nulla – scrive Schelling – mi sembra dimostrare in modo più evidente quanto poco i più abbiano colto lo spirito della critica della ragion pura, che la credenza presso che universale che la critica della ragion pura appartenga a un unico sistema, mentre la peculiarità di una critica della ragione deve proprio consistere nel non favorire esclusivamente un sistema, bensì nell’elaborare, o almeno preparare, il canone per tutti i sistemi. […] La mia convinzione […] è che la critica della ragion pura non è destinata a fondare esclusivamente un sistema […]. Essa è invece destinata piuttosto a dedurre dall’essenza della ragione la possibilità di due sistemi affatto opposti fra loro, e a fondare altrettanto bene un sistema del criticismo (pensato nella sua compiutezza) o, per esprimerci più correttamente, dell’idealismo, quanto un sistema del dogmatismo diametralmente opposto a quello. Le obiezioni mosse dalla critica della ragion pura al dogmatismo erano in realtà obiezioni al dogmaticismo, cioè ad un certo tipo di sistema dogmatico elaborato alla cieca e senza esser fatto precedere da un’indagine sulla facoltà della conoscenza. La critica della ragion pura ha mostrato al dogmaticismo in che modo esso poteva diventare dogmatismo, cioè un sistema autofondato del realismo oggettivo. […] La ragione che mi spinge ad affermare che i due sistemi affatto opposti, il dogmatismo e il criticismo, sono egualmente possibili, e che entrambi sussisteranno l’uno accanto all’altro fin tanto che tutti gli esseri finiti non avranno raggiunto lo stesso grado di libertà, è, in poche parole, questa: i due sistemi hanno lo stesso problema, problema che in ultima analisi può venir risolto non già teoreticamente, ma soltanto praticamente, cioè mediante la libertà. Ora, di questo problema sono possibili soltanto due soluzioni, e di queste l’una porta al criticismo, l’altra al dogmatismo. Quale dei due sceglieremo dipende dalla libertà spirituale che ci siamo conquistata. Noi dobbiamo essere ciò per cui teoreticamente ci vogliamo far passare, ma soltanto la nostra aspirazione a diventarlo può convincerci che lo siamo. Quest’aspirazione realizza il nostro sapere prima di noi stessi; e questo sapere diventa appunto perciò puro prodotto della nostra libertà. Noi stessi dobbiamo aver lavorato per innalzarci al punto da cui vogliamo partire. L’uomo non vi può pervenire con sottili raziocini sia propri che altrui. […] Chi abbia riflettuto sull’idealismo e sul realismo – i due sistemi teoretici contraddittori – avrà trovato da sé che entrambi possono sussistere soltanto nell’approssimazione verso l’assoluto, ma che entrambi, una volta riuniti nell’assoluto, devono cessare di esistere come sistemi contraddittori. Si era usi dire che Dio intuisce le cose in sé. Se con ciò s’intende affermare qualcosa di sensato, il suo significato non può essere se non che in Dio vi è il più perfetto realismo. Ma il realismo, pensato nella sua perfezione, diventa necessariamente – e proprio perché è realismo perfetto – idealismo. Perfetto realismo non è infatti possibile se non la dove gli oggetti cessano di essere oggetti, cioè di essere ciò che è opposto al soggetto (fenomeni), insomma là dove la rappresentazione è identica agli oggetti rappresentati, dove cioè soggetto e oggetto sono assolutamente identici. Il realismo della divinità, in virtù del quale essa intuisce le cose in sé, non è dunque altro che il più perfetto idealismo, in virtù del quale la divinità non intuisce che se stessa e la sua propria realtà”.7 Anche la libertà e la necessità in Schelling ventenne tendono all’unità: “Chi abbia riflettuto su libertà e necessità avrà trovato da sé che questi principi devono essere uniti nell’assoluto: la libertà perché l’assoluto opera per incondizionata forza propria; la necessità perché, appunto perciò, l’assoluto opera in conformità alle leggi del proprio essere, all’intima necessità della propria essenza. In lui non vi è più una volontà suscettibile di deviare dalla legge, e quindi neanche più una legge che non sia quella ch’egli stesso si dà col suo operare e che abbia realtà indipendentemente dal suo operare. Libertà assoluta e necessità assoluta sono identiche”.8 Come non pensare alla “libera necessità” di Spinoza? “Quale è dunque il vantaggio del criticismo sul dogmatismo – si domanda a questo punto della riflessione Schelling – se entrambi finiscono per coincidere nello scopo ultimo che è lo scopo ultimo di ogni filosofare? […] Dogmatismo e criticismo possono farsi valere come sistemi antitetici solo fin tanto che sono in via di avvicinamento allo scopo ultimo. Proprio perciò il criticismo deve intendere lo scopo ultimo soltanto come l’oggetto di un compito infinito; esso stesso si trasforma necessariamente in dogmatismo non appena pone il fine ultimo come realizzato (in un oggetto) o come realizzabile (in un qualche particolare punto del tempo)… Ora, in che modo differiscono i due sistemi per via dello spirito dei loro postulati pratici? […] Il dogmatismo […] non è in grado, più di quanto non lo sia il criticismo, di raggiungere mercé il sapere teoretico l’assoluto come oggetto, giacché un oggetto assoluto non tollera accanto a sé alcun soggetto, mentre invece la filosofia teoretica si fonda proprio sull’antitesi fra soggetto e oggetto. Per entrambi i sistemi non resta dunque altro che fare dell’assoluto – non avendo quest’ultimo potuto essere oggetto del sapere – un oggetto dell’agire, ossia esigere quell’azione mediante la quale l’assoluto vien realizzato. In quest’azione necessaria i due sistemi si uniscono… Il dogmatismo […] è teoreticamente inconfutabile, perché esso stesso abbandona il campo teoretico per dare al suo sistema un esito pratico. Esso è quindi confutabile praticamente e lo è in quanto realizza in sé un sistema che gli è assolutamente opposto. Esso è però inconfutabile per colui che è in grado di realizzarlo anche praticamente, cui è sopportabile il pensiero di lavorare alla propria distruzione, di sopprimere in sé ogni libera causalità, e di essere la modificazione di un oggetto nella cui infinità egli prima o poi si annienterà (moralmente). Non v’è dunque cosa più importante per la nostra epoca che cessare di dissimulare questi risultati del dogmatismo, e, in luogo di nasconderli sotto parole adulatrici e sotto le illusioni della ragion pigra, presentarli nella maniera più determinata, manifesta e patente possibile. Soltanto in questo risiede la speranza di poter salvare l’umanità, la quale, dopo aver a lungo portato le catene della superstizione, dovrebbe finalmente trovare in sé stessa ciò che cerca nel mondo oggettivo, per ritornare così dalle sue illimitate digressioni in un mondo straniero al proprio mondo, dalla propria dissociazione da sé alla propria identità con se stessa, dalle fantasticherie della ragione alla libertà della volontà… È per noi motivo di gioia poter far nostra la convinzione di esserci finalmente inoltrati fino all’ultimo grande problema a cui ogni filosofia può pervenire. Il nostro spirito si sente più libero allorché, abbandonando il modo d’essere speculativo, ritorna al godimento e allo studio della natura senza dover temere di venir nuovamente riportato da una sempre rinascente inquietudine del suo spirito insoddisfatto a quel modo d’essere innaturale. Le idee a cui la nostra speculazione si è innalzata cessano di essere oggetto di un’occupazione oziosa che troppo stanca il nostro spirito; esse diventano la legge della nostra vita, e diventando, perché in tal modo fattesi esse stesse vita ed esistenza, oggetti dell’esperienza, ci liberano per sempre dal gravoso compito di assicurarci a priori, sulla via della speculazione, della loro realtà”.9 Come Fichte con Kant, Schelling si muove sulla scia di Fichte, ma è già Schelling. Scrive, infatti, Pareyson: “Rispetto a Fichte gli aspetti originali sono sostanzialmente due: in primo luogo la tendenza a oltrepassare il punto di vista critico del finito verso la conoscenza dell’assoluto, mediante l’intuizione intellettuale intesa come accesso diretto al sovrasensibile; e in secondo luogo una rivalutazione del dogmatismo, che persino nei confronti del criticismo conserva i suoi diritti, e che se non altro aggiunge a una concezione moralistica del mondo una visione estetica di esso. E fondamentalmente due sono anche i tratti permanenti del pensiero schellinghiano che già si annunziano sin da ora: in primo luogo l’idea d’un principio incondizionato la cui rivelazione spiega l’unità profonda del tutto, come quello che sarà più tardi l’identità e unitotalità, e che già sin d’ora si mette sotto l’insegna dello en kai pan; in secondo luogo la tendenza a concepire la filosofia non tanto come un blocco unitario, quanto piuttosto come un sistema di due filosofie compresenti e irriducibili l’una all’altra, eppure inseparabili e strette fra loro da mutui rapporti, e che per ora sono un sia pur precario equilibrio di criticismo e dogmatismo, e più tardi saranno la convergenza di filosofia della natura e idealismo trascendentale, e saranno infine la collaborazione di filosofia negativa e filosofia positiva”.10 Scartata la carriera ecclesiastica, alla quale lo avvierebbe la laurea in teologia, ma dalla quale lo tiene lontano il suo atteggiamento molto critico nei confronti della tradizione e della dottrina religiosa, anche al giovane Schelling resta solo la possibilità di fare il precettore, proprio com’è già toccato a Fichte, a Hegel e a Hölderlin. Una famiglia aristocratica di Stoccarda gli affida i figli da seguire nei loro studi giuridici nell’Università di Lipsia, dove però si trasferisce con i suoi allievi solo nella primavera del 1796. Succede così che, mentre soggiorna a Stoccarda, la necessità di studiare il diritto, per svolgere adeguatamente la nuova funzione, promuove la sua riflessione filosofica sul diritto e la stesura della Nuova deduzione del diritto naturale nei primi mesi del 1796. Anche in questo scritto manifesta la sua straordinaria e geniale precocità, deducendo il diritto dai principi fichtiani prima ancora che lo faccia Fichte, che pubblica la sua Fondazione del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza in due parti solo tra il 1796 e il 1797. Di questo periodo di Stoccarda c’è anche un testo di Hegel, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, che è probabilmente la trascrizione di un appunto di Schelling, frutto d’incontri e conversazioni di Schelling con Hölderlin. “Si tratta di uno scritto – scrive Pareyson – programmatico, che si caratterizza per il fatto di prender a oggetto la totalità della vita, della filosofia e dell’epoca. Esito morale della metafisica, necessità di una nuova fisica e di una nuova visione della natura, esaltazione anarchica della libertà e negazione di ogni trascendenza, primato della bellezza e concezione della poesia come unica educatrice dell’umanità, necessità di una nuova religione e di una «nuova mitologia», unione dei filosofi e del popolo nella «libertà universale ed eguaglianza degli spiriti»: ecco i temi principali di questo scritto infiammato e profetico, che si conclude con le parole: «uno spirito superiore mandato dal cielo fonderà fra noi questa nuova religione, che sarà l’ultima e più grande opera dell’umanità»”.11 A Lipsia, dove soggiorna dalla fine di aprile 1776 alla metà d’agosto 1798, Schelling studia intensamente le scienze della natura, pensando a una filosofia della natura, mentre continua l’approfondimento della filosofia idealistica fichtiana. Mette cioè le basi di quelle che saranno le due parti fondamentali del sistema filosofico che produrrà di lì a poco, cioè l’idealismo trascendentale e la filosofia della natura. È di questo periodo anche il primo e fondamentale incontro con Goethe, alla fine di maggio del 1798. Incontro che lo conferma nel proposito di approfondire la conoscenza delle scienze della natura e di pensare a una filosofia che non riduca la natura a semplice teatro dell’azione morale, a Non-io fichtiano, ma le riconosca un fondamentale valore autonomo. Si approfondisce così la sua indipendenza da Fichte e matura la ricerca di un principio originario assoluto, capace di rendere ragione sia dello spirito sia della natura. La derivazione fichtiana del Non-io dall’Io gli sembra, cioè, sempre più insoddisfacente. Più studia le scienze naturali e più si rende conto di non poter risolvere la natura in un momento interno al soggetto. La collaborazione con Goethe in ricerche relative alla teoria goethiana dei colori e i forti interessi artistici lo motivano sempre più in questa direzione. Note 1 L’espressione è di Luigi Pareyson in Schelling, Marietti 1975, p. 9. 2 Luigi Pareyson in Schelling, Marietti 1975, p. 12. 3 Ib. p. 12. 4 Ib. p. 12. 5 Ib. p. 13. 6 Ib. pp. 123-27. 7 Ib. pp. 128-133. 8 Ib. p. 133. 9 Ib. pp. 133-35. 10 Ib. p. 16. 11 Ib. p. 18. Torino 1 febbraio 2016 Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf) Bibliografia Schelling, Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo, Nuova
deduzione del diritto naturale, ed. Sansoni 1958. Download |