STORIA DEL PANE A
RAVENNA
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LA RISCOPERTA DEI MULINI
Questa seconda categoria di mulini, entrata in crisi alla fine dell'Ottocento, sta vivendo oggi un progressivo rilancio, sulla scia della crescente domanda di prodotti alimentari genuini e non industriali. (Clicca qui per conoscere l'esperienza dell'Aqua druveda). Per far funzionare un mulino tradizionale occorreva che l'acqua scorresse sempre. La pioggia era l'occasione ideale per lavorare giorno e notte, con due o tre macine. Si cominciava a macinare verso agosto e si proseguiva fino a novembre. Poi c'era una pausa che andava fino a primavera. Le macine andavano sempre tenute sotto controllo: dovevano essere dure, porose, omogenee e ben regolate nel peso. Quelle troppo pesanti finivano col surriscaldare la farina. L'operazione essenziale per mantenere sempre affilate le macine era la cosiddetta "rabbigliatura", praticata con martelli taglienti. (Clicca qui se vuoi conoscere un po' di glossario). Altro elemento determinante per la qualità della farina era la velocità di rotazione, che veniva regolata modificando la distanza tra le macine e misurando la quantità di cereale da macinare. Due quintali all'ora era una buona produzione. Molto richiesto ad un certo punto cominciò ad essere il pane bianco. Per ottenerlo si mettevano due litri d'acqua per ogni quintale e si mescolava il tutto. Così il grano, nel prendere l'acqua, si sfogliava, perdendo la crusca. Ovviamente non si lavorava soltanto il grano, ma anche le castagne (che dovevano essere secche) e la biada per gli animali (una farina molto grossa). Questo affascinante patrimonio storico-culturale e tecnologico viene oggi studiato presso il Museo del patrimonio industriale di Bologna "Aldini Valeriani". Testi di Umberto Foschi e Gianluca Missiroli |