LA GUERRA SOTTERRANEA
Le ragioni del matriarcato


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DIFFERENZE STRUTTURALI E LORO CONSEGUENZE

Tre partigiane perlustrano le strade di Milano il 26 aprile 1945 (Publifoto)
Tre partigiane perlustrano le strade di Milano il 26 aprile 1945 (Publifoto)

In una società (primitiva, relativamente parlando) nella quale gli elementi a più lunga sopravvivenza temporale fossero quelli femminili i rapporti interpersonali dovrebbero risultare sottilmente modificati.

La memoria "storica" (stiamo parlando di una situazione essenzialmente "pre-scrittura") ed il "riferimento" tribale resterebbe normalmente in capo al soggetto più anziano e ricco di esperienza (generalmente una donna) e, vista la probabile prevalenza dell'elemento femminile nell'ambito dell'organizzazione interna del gruppo per ragioni che dovrebbero trovare giustificazione nei molti fattori che favoriscono le femmine nell'organizzazione tribale (in parte accennate in precedenza e completate sia dal maggior rischio corso da coloro che operano per periodi più lunghi "al di fuori" del gruppo, sia dalla maggiore protezione senza dubbio assegnata ai soggetti procreatori), appare normale che la maggior parte degli eventuali rapporti conflittuali interpersonali o intergruppi abbiano la possibilità di essere risolti senza perdite eccessive.

La matrice (radice "mat/mater", struttura di replicazione) base della comunità giustificherebbe anche (sia pure in assenza delle pratiche agricole stanziali che normalmente la rafforzano in una struttura "maschio-dominante") la forte significanza attribuita all'elemento "generatore" nell'ambiente circostante, propria ancor oggi di quasi tutte le culture primitive (quindi culti della Dea Madre, società a bassa conflittualitą e con scarsi elementi di concorrenza.

Tutti gli uomini sono "figli" di qualcuna e tutti i figli sono "uguali" per la madre), mentre l'aspetto viscerale dei rapporti tra soggetti (stiamo parlando di un ambiente nel quale la sopravvivenza è ridotta, i tempi morti (caratteristicamente indispensabili per la "mente-oziosa") sono quasi nulli e le possibilità di riflessione astratta appaiono improbabili o assai difficoltose), proprio del rapporto materno, renderebbe superflua, fatte salve alcune necessità di ordine funzionale, la formazione di consolidate strutture gerarchiche piramidali.

Secondo la mia interpretazione ci sarebbe quindi stata, in un periodo durato circa 15/25 mila anni e databile a circa 5/12 mila anni or sono, una prevalente struttura sociale con caratteristiche matrilineari, scarsamente conflittuale (relativamente parlando), sessualmente "promiscua" (sempre relativamente parlando), con una spinta animistica verso l'aspetto "generatore/trice" dell'ambiente circostante e con ridotti incentivi alla riflessione astratta non direttamente funzionale alla sopravvivenza del gruppo sociale. (Murray O., Lanzi C., Wastonecraft M., Maffessoli M., Gernet L., Kamen H., Kirk R.).

Per inciso mi permetto di ricordare che non esistono giustificazioni di ordine scientifico ad una patrilinearità della successione nel patrimonio genetico (e per analogia della successione in senso lato, anche considerando l'incertezza della paternità).

Anzi, se si dovesse prendere in considerazione la quantità percentuale di materiale costitutivo della cellula embrionale, risulta evidente che, mentre il Dna nucleico è composto in percentuali eguali da Dna materno e paterno, il Dna mitocondriale è sempre e soltanto trasmesso dalla madre (Jean Brachet, "Introduction to molecular embryology" - W.F.Bodmer/L.L.Cavalli Sforza, "Genetics, Evolution and Man").

Quindi gran parte dell'intero meccanismo di produzione dell'energia, e delle attività correlate, nella cellula embrionale sono di origine esclusivamente materna, pur ricordando sempre che il patrimonio cromosomico mitocondriale è quantitativamente assai ridotto ed in grado di sintetizzare, secondo le attuali conoscenze, un numero limitato di "prodotti".

Quanto in precedenza riferito, se posto in relazione con la particolare fisiologia della specie e con il progressivo aumento di quelli che potrebbero essere definiti (fisiologicamente) "tempi morti" o del "pensiero ozioso" conseguente alla stanzialità ed all'adozione dell'agricoltura, assume un'evidente rilevanza ai fini di una migliore comprensione dei meccanismi della comunicazione intersessuale.

E' bene ricordare che la fisiologia sessuale della specie umana trova particolare rispondenza in quella dei primati superiori ed è essenzialmente diretta a un efficace e funzionale riproduzione. Questo comporta la considerazione che la vita "utile" (agli esclusivi fini di cui sopra) risulta compresa tra i 12/14 anni ed i 24/30 anni.

Entrambi i sessi sono fertili e in grado di allevare e proteggere i cuccioli per questi quindici/diciotto anni ricordando che si sta parlando di fisiologia di base della specie in un sistema non modificato dalle sovrastrutture materiali e culturale prodotte dalla cosiddetta "civilizzazione".

E' corretto anche osservare che in generale il cuore dei mammiferi terrestri, nel loro ambiente "naturale" (naturale è un termine idiota, ma visto che lo usano tutti, soprattutto gli ecologisti...) svolge il suo compito attraverso un numero di battiti pressoché costante in tutte le specie (dagli ottocento milioni al miliardo e duecento milioni di battiti nel corso di una vita. Una formula che sembra valida per quasi tutte le specie, con variazioni in aumento per i mammiferi domestici). Applicando questa grossolana formula agli esseri umani si ottiene un'età massima variabile da 22 a 32 anni.

Tutto il periodo temporale successivo (dai 30 ai 70, tendenziale verso gli 80/90) deve trovare un qualche impiego. Esiste insomma una pesante crasi tra un meccanismo riproduttivo che è rimasto "ancestrale", non subendo variazioni ed adattamenti evolutivi, e l'aumento della durata della vita media individuale, senza compensazioni sostanziali.

Il problema sembra trovare qualche soluzione comportamentale nella replicazione (da parte dei maschi) dei comportamenti riproduttivi propri della cosiddetta "età fertile" (quindi continuando a cercare disperatamente di accoppiarsi con il maggior numero di femmine possibile e in tutte le circostanze) e, parzialmente, con altri meccanismi connessi alla conduzione di una più complessa ed elaborata vita sociale e di quella che viene definita vita "produttiva" ma che, sostanzialmente e da un punto di vista strettamente fisiologico, non riveste grande importanza naturalmente il contesto/struttura in cui trascorriamo la maggior parte del suddetto periodo "inutile" le conferisce, invece, grande importanza per l'avvio dei cuccioli a un esistenza mediamente soddisfacente nella nostra complessa società.

Ed è proprio questa discrasia tra fisiologia e "realtà acquisita" che complica ulteriormente tutti gli aspetti della comunicazione intersessuale.

La donna, più fisiologicamente (ed anche culturalmente) orientata all'allevamento dei piccoli, sembra, anche in una società maschio-dominata, incontrare minori difficoltà all'impiego del periodo "voluttuario" e maggiori difficoltà (in gran parte attribuibili, a mio parere, alle sovrastrutture etico/morali/religiose/culturali) a continuare a rispondere alle fisiologiche ed ancestrali esigenze dei maschi, che persistono imperterriti a replicare comportamenti propri del periodo "fertile" (ricordate che mi sto riferendo solo alla comunicazione intersessuale e non, quindi, agli aspetti ideativi ed astratti della comunicazione in senso lato).

Se su questo "sistema" alterato si sovrappongono costruzioni ideologiche (politiche o religiose) che giustificano o motivano particolari comportamenti/strutture di potere, in nessuna occasione spiegabili se non tautologicamente, si finisce per non comprendere aspetti "critici" evidenti dell'odierno consorzio umano (chiamiamolo così), quali l'enorme preponderanza di crimini contro la persona commessi da maschi e la quasi inesistenza di crimini sessuali perpetrati dalle femmine della specie.

Questi elementi inerenti alla fisiologia ed alla comunicazione primaria/semplice (orientata per il maschio all'esercizio di quanto più buon sesso possibile e per la femmina all'esercizio di quanto sesso sia sufficiente per procreare e, quindi, all'allevamento dei cuccioli), pur se estremante indicativi e rilevanti in una cultura, come quella attuale, maschiocentrica, non possono essere trascurati persino nella mia ipotesi di un'antica, diffusa e predominante cultura madricentrica.

Certamente, in quest'ultima, alcune possibili soluzioni a questo specifico problema dovevano esistere e, in alcuni casi, dovrebbero riflettere sistemi relazionali nei quali la madre era sempre certa ed i piccoli erano figli di molti padri o "zii" (come vengono tuttora definiti presso alcune popolazioni), configurando una sorta di poliandria, mentre in altri potrebbero parzialmente richiamarsi a quella che attualmente definiamo "prostituzione"; così antica da non poter essere materialmente datata questa particolare "attività" di un determinato numero di soggetti femmine assume caratteri di sacralità e di funzione sociale tanto maggiori quanto più si risale indietro nel tempo. Il che farebbe ritenere che, nella mia precitata ed ipotizzata società madricentrica e matrilineare. questa (della prostituzione sacra o istituzionale) potesse costituire una delle valide soluzioni almeno per il problema della "pressione" fisiologica dei maschi e delle conseguenti violenze da "privazione" commesse dagli stessi.


a cura di Marco Capurro


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