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MIKOS TARSIS
GUARIGIONI E PARABOLE
fatti improbabili e parole ambigue
Premessa sulle Guarigioni - [SEZ. I - I MALATI DI MARCO] 1) Il dubbio del lebbroso - 2) Lo scandalo del paralitico - 3) L'uomo dalla mano secca e l'ideologia del sabato - 4) La devianza del geraseno - 5) L'umiltà dell'emorroissa - 6) L'arroganza di Giairo - 7) Guarigione di un sordomuto - 8) Gesù e la cananea - 9) Il pessimismo del cieco di Betsaida - 10) L'epilettico di Dabereth e l'orgoglio del padre - 11) Il politico Bartimeo - [SEZ. II - I MALATI DI GIOVANNI] 12) La guarigione del figlio di Cuza - 13) Il paralitico di Betesda - 14) La guarigione del cieco-nato - Epilogo sulle Guarigioni - [SEZ. III - LE PARABOLE DEGLI OPERAI] - Premessa sulle parabole - 15) Il ricco epulone - 16) Il banchetto del re - 17) Gli operai allocchi - 18) I talenti maledetti - 19) Le cinque vergini smaliziate - 20) Il buon pastore - 21) Il fico sterile e seccato - 22) I soldi e la felicità dell'uomo ricco - 23) I vignaioli omicidi - 24) Il servo spietato - 25) L'obolo della povera vedova - 26) Appendici: 26.1) Populismo e non violenza nella chiesa cristiana - 26.2) Il figliol prodigo secondo Wojtyla - Epilogo sulle Parabole
I
Questo testo non ha alcuna pretesa esegetica o filologica: al massimo può essere considerato una sorta di interpretazione “psicopolitica” di un particolare tipo di racconto evangelico: le guarigioni. Se vogliamo, questi stessi racconti si presentano come testi di psicologia individuale e collettiva, immersi in uno sfondo socio-politico.
Non abbiamo neppure cercato di ricostruire l'iter ermeneutico (in senso teologico) che ha portato la chiesa cristiana (dell'est e dell'ovest) a fare dei cosiddetti “miracoli” uno dei pilastri della propria fede. Questo ovviamente non ci ha impedito di smontare l'interpretazione ufficiale che vede in tali supposti “miracoli” un segno della “divinità” del Cristo (che per noi resta indimostrabile).
Come noto, infatti, a partire da Bultmann si è progressivamente acquisita la tesi secondo cui è fatica sprecata risalire alla stesura “originale” o “primitiva” dei vangeli (quella che non avrebbe subito tagli o aggiunte), in quanto i vangeli (canonici e apocrifi) sono appunto nati allo scopo di falsificare (con maggiore o minore consapevolezza) il messaggio di Cristo, per cui più che ipotizzare la presenza di certe manipolazioni, è proprio impossibile.
I commenti di questo libro però, se di sicuro non piaceranno ai credenti, tanto meno piaceranno ai non credenti. È difficile infatti accettare l'idea che la maggiore storicità del Cristo sia presente proprio là dove fino a ieri si credeva il contrario. Ma si rassicurino costoro: si tratta soltanto di una finzione più o meno poetica, più o meno romanzata. Altri vi si sono cimentati, affrontando i vangeli, e nessuno ha avuto niente da ridire. Anche perché pochi in Italia leggono questa “roba” 1.
Ci siamo infatti scandalizzati del film di Scorsese su Cristo, quando il libro da cui aveva tratto l'ispirazione era stato scritto da Kazantzakis 25 anni prima, passando del tutto inosservato. E chi avrebbe sospettato la “bestemmia” di Rushdie se Khomeini non ne avesse fatto un caso internazionale? La fortuna o la sfortuna di un testo non dipende dal suo contenuto, ma dal parlare che ci fanno sopra 2.
È bene comunque sapere che anche nella critica ateistica dei vangeli si va facendo strada l'ipotesi che un “Cristo taumaturgo” non sia una favola dei vangeli (al pari di tante altre), ma una possibilità che con le attuali conoscenze (sempre più complesse) della natura umana e della natura in generale, non è poi così remota come sembra.
I due russi Nikol'skij e Morozov ebbero p.es. a dire che i cosiddetti “miracoli” di Cristo altro non sarebbero stati che guarigioni di malattie psichiche o neurotiche.
In realtà, anche se si arrivasse a credere che il Cristo fosse stato un guaritore, resterebbe poi da capire come mai un guaritore del genere rivendicasse dei diritti politici o si preoccupasse di trasformare la società e la mentalità degli uomini del suo tempo.
Indicativamente si può arrivare a ipotizzare (sulla base di semplici indizi, poiché i vangeli non forniscono prove) che i racconti di guarigione sono tanto più inverosimili quanto più forte era il messaggio politico-rivoluzionario che si voleva nascondere.
Ovvero che la maggior parte dei racconti di guarigione, quando non si è in presenza di una mera terapia psico-somatica, non è che una trasposizione mistica di una realtà che di mistico non aveva nulla e che proprio per questo andava in qualche modo mistificata, non essendo possibile ignorarla o censurarla del tutto.
Si può qui ricordare la celebre osservazione di Engels secondo cui “le religioni artificiali non possono, oltre ad ogni sincero fanatismo, fare a meno, già al momento della loro creazione, dell'impostura e della falsificazione storica...” (in Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo).
II
Che nei Sinottici i miracoli siano presentati come il culmine della potenza di un Gesù di origine divina (anche se lui non lo dichiara mai esplicitamente), il quale sarebbe stato bloccato, nella sua iniziativa di bene, dall'invidia che i capi-giudei nutrivano nei suoi confronti, con la quale lo porteranno a morire in croce, sebbene questa conclusione tragica fosse stata ampiamente prevista dallo stesso Gesù, il quale si piegò alla volontà del Padre, che l'avrebbe comunque fatto risorgere – è un fatto (dal punto di vista redazionale) difficilmente contestabile. È in virtù della sua potenza miracolistica ch'egli può violare il sabato, perdonare i peccati come se fosse Jahvè, frequentare gente impura e mostrarsi superiore a tutti, inclusi Abramo, Mosè e i profeti.
Se si mette a confronto il Gesù dei Sinottici con quello del IV vangelo, dove i miracoli sono stati inseriti da una fonte successiva, appare evidente che questi hanno solo una funzione simbolica (segnica), in quanto servivano, più che altro, come premessa per una riflessione teologica di alto livello. Quindi si ha l'impressione che la mistificazione operata nei Sinottici sia piuttosto elementare. Nonostante siano stati scritti prima, il loro tasso di autenticità non è superiore a quello del IV vangelo. Cioè è più credibile che una guarigione sia stata compiuta per intavolare un discorso sui massimi sistemi, che non per porre gli interlocutori davanti a un'evidenza lapalissiana.
Nei Sinottici l'intellighenzia ebraica viene condannata perché pervicacemente si rifiuta di credere che i miracoli possano dimostrare qualcosa di vero o vengano compiuti per un fine di bene. Questa idea è passata anche nel IV vangelo, ma in forma più metafisica, in quanto l'opposizione nei confronti del miracolo è in realtà in subordine al rifiuto nei confronti dell'ideologia di Gesù (soprattutto quella relativa al sabato e all'autodichiarazione circa la propria figliolanza divina).
I Sinottici sembrano rivolgersi a un pubblico più infantile, influenzato da una cultura pagana, che l'ha abituato a credere in eroi mitologici dai poteri eccezionali, i quali, anche se sono caratterizzati da un qualche limite invalicabile, rendono ognuno di loro assolutamente unico e irripetibile. Se l'eroe è limitato in qualcosa, ciò non fa che umanizzarlo in maniera sublime; e se anche questo punto debole dovesse portarlo alla morte, l'utenza pagana dei miti spera sempre che avvenga qualcosa di miracoloso, cioè che l'eroe risorga o si ripresenti, grazie a un potere a lui superiore o a una circostanza straordinaria, imprevedibile, in altra maniera e si faccia beffe dei propri nemici.
Con tutti i loro miracoli e con la fine attribuita al Cristo, il cui carattere eversivo è solo generico, indiretto, privo di quella capacità organizzativa richiesta per compiere un'insurrezione nazionale, i Sinottici si sono inseriti perfettamente nella mitologia pagana, facendo degli ebrei i cattivi per definizione. Il Cristo di questi vangeli (di cui il principale è Marco, in quanto Matteo e Luca copiano in gran parte da lui) non vuole apparire come un messia ostile ai Romani, né l'avrebbe potuto, visto che l'utenza di questi testi è di origine pagana e non è disposta ad armarsi contro l'imperialismo romano. Ma non è neppure un oppositore propriamente politico dei capi-giudei: non ha bisogno di esserlo semplicemente perché è in grado di prevedere che il loro comportamento riprovevole nei suoi confronti verrà sanzionato da Dio-padre, che permetterà ai Romani di distruggere completamente Gerusalemme e di soggiogare l'intera Palestina in maniera irreversibile.
L'eroe Gesù, pur avendo poteri immensi, era buono d'animo, era un semplice maestro di saggi comportamenti morali (ben visibili, peraltro, nelle parabole), e avrebbe lasciato a Dio-padre decidere cosa fare dei suoi nemici; e qui – bisogna ammetterlo – il comportamento di Jahvè non è molto diverso da quello patriarcale, indiscutibile e super partes di uno Zeus dell'Olimpo.
Per tutte queste ragioni è impossibile trovare qualcosa di veramente autentico nei Sinottici, di assolutamente inoppugnabile, proprio perché sono stati elaborati con la preoccupazione di stupire e di commuovere il lettore (che è già cristiano), non avendo alcuna preoccupazione storiografica, alcuna scrupolosità scientifica, alcuna obiettività politica. Sono testi che oscillano continuamente tra il genere fantastico e quello teatrale o romanzato, e si rivolgono a un pubblico di media levatura intellettuale, in grado di leggere dei testi scritti in un greco facile da capire. Quando poi verranno tradotti in latino, nel IV secolo, da Sofronio, Eusebio e Girolamo, il loro successo editoriale sarà assicurato per i secoli a venire, anche quando l'impero pagano dei Romani non esisterà più.
III
In sintesi, per quanto riguarda le guarigioni, si può affermare che per attribuire attendibilità a una qualunque guarigione compiuta dal Cristo occorre che vengano rispettati questi fondamentali criteri:
1) non deve aver invocato il nome di dio per poterla compiere;
2) per poterla compiere non può aver detto che occorre avere una natura divina, né questa può essergli attribuita dall'evangelista;
3) non può averla compiuta per sostenere l'idea di una propria leadership politica;
4) non può aver fatto alcuna guarigione senza usare mezzi o strumenti terapeutici (tra i quali non possono essere inclusi la preghiera e il digiuno), a meno che la malattia non avesse un'origine psicologica;
5) anche nel caso in cui avesse voluto compiere una guarigione di sabato, per violarne il precetto, essa non può essere accettata senza rispettare le suddette condizioni;
6) quando una guarigione non rispetta le suddette condizioni, può essere interpretata in due maniere: o si tratta di una mistificazione con cui si cela qualcosa di politico; oppure si tratta di una rielaborazione in chiave mistica di dinamiche aventi natura esistenziale o psicologica;
7) in ogni caso qualunque guarigione che vada al di là delle umane possibilità si pone come una forma di violazione della libertà di coscienza, in quanto tende a imporre una spiegazione mistica dell'evento.
(torna su)SEZIONE I
I MALATI DI MARCO
1) Il dubbio del lebbroso
(Mc 1,40-45)
MARCO (1,40-45) [40] Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. [41] Mosso a compassione [adiratosi], stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. [42] Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. [43] E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: [44] “Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”. [45] Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte. |
MATTEO (8,1-4) [1] Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. [2] Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi a lui dicendo: “Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi”. [3] E Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: “Lo voglio, sii sanato”. E subito la sua lebbra scomparve. [4] Poi Gesù gli disse: “Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va' a mostrarti al sacerdote e presenta l'offerta prescritta da Mosè, e ciò serva come testimonianza per loro”. |
LUCA (5,12-16) [12] Un giorno Gesù si trovava in una città e un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò ai piedi pregandolo: “Signore, se vuoi, puoi sanarmi”. [13] Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: “Lo voglio, sii risanato!”. E subito la lebbra scomparve da lui. [14] Gli ingiunse di non dirlo a nessuno: “Va', mostrati al sacerdote e fa' l'offerta per la tua purificazione, come ha ordinato Mosè, perché serva di testimonianza per essi”. [15] La sua fama si diffondeva ancor più; folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. [16] Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare. |
*
v.40) Allora venne a lui un lebbroso:Violando le norme severissime che lo costringevano all'isolamento, un lebbroso esce dal suo lazzaretto e va incontro a Gesù, trovandolo – si può presumere – all'interno di una casa (vedi i vv. 43 e 45). Il luogo è isolato (Marco neppure lo nomina), situato quasi certamente nella regione della Galilea. Matteo, che parla di folle ai piedi di un monte, intente ad ascoltare la predicazione di Gesù, e Luca, che colloca quest'ultimo in un qualunque villaggio, non riescono ad accettare che una guarigione così grande venga fatta lontano da tutti: pur di dimostrare la diversità del maestro-taumaturgo dai colleghi del suo tempo, essi non si fanno scrupoli nell'accostare un malato di questo genere a una folla più o meno numerosa (e comunque già alquanto credente). Stando invece alla laconica versione di Marco, i diretti protagonisti dell'episodio, inclusi i testimoni oculari, sono ben pochi: i padroni di quella casa, del tutto anonimi, il malato e Gesù, che con qualche suo discepolo aveva cercato di sottrarsi alle pressanti richieste terapeutiche dei cittadini di Cafarnao (cfr. Mc 1,35). Molto probabile è la presenza delle due coppie di fratelli galilei: Andrea e Pietro, e giudei: Giacomo e Giovanni.
L'anonimo leprosus sa chi è Gesù, sa che può guarirlo e sa che non lo denuncerà: altrimenti non rischierebbe la lapidazione per andarlo a trovare. Ne avrà sentito parlare, difficilmente lo avrà visto all'opera. Rischia molto, ma la posta in gioco è alta. Non ha mandato a chiamare il guaritore, invitandolo a venire nel leprosario: forse non si fida delle capacità persuasive degli altri, oppure pensa che con un contatto diretto e personale gli sarà più facile ottenere quello di cui ha bisogno. Il vangelo non parla di alcun accompagnatore. D'altra parte le gambe reggono il malato molto bene: la lebbra non l'aveva colpito da molto tempo. Senza considerare che il termine “lebbra” non indica, né in ebraico né in greco, una malattia specifica, per cui poteva anche trattarsi di una malattia della pelle.
La congiunzione con cui Marco apre, nel testo greco, questo racconto, segna un forte distacco da ciò che precede, ma vedremo che non sarà difficile trovargli una collocazione temporale.
v. 40) lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”.
Il lebbroso supplica Gesù in due modi: gestuale e verbale. Con la genuflessione sembra che mostri il dovuto rispetto. Ma si ha l'impressione che Luca e Matteo esagerino nel valutare positivamente lo stato d'animo del postulante. A loro giudizio, infatti, il malato non ha solo una sicura consapevolezza di quanto Gesù “possa” fare, ma ha pure un atteggiamento ben disposto, umile, fiducioso, correlato a una particolare riverenza per questo grande guaritore; tant'è vero che non lo prega a una certa distanza (come in Marco), ma gli si prostra ai piedi, chiamandolo addirittura “Signore”.
In realtà, la supplica orale rende esplicito non solo il motivo della prosternazione (già fin troppo intuibile, nel contesto), ma anche la modalità con cui il malato, uscito dal ghetto dove avrebbe dovuto vivere, si è presentato in quel luogo. Sulla base di questo secondo aspetto già si può cominciare a comprendere come l'omaggio tributato al grande guaritore sia alquanto relativo: solo leggendo Marco è possibile accorgersi di queste sfumature.
La relatività dell'omaggio la si nota soprattutto nella preghiera orale, allorché il lebbroso, pur essendo certo che Gesù ha il potere di guarirlo, non lo è allo stesso modo nei riguardi della sua volontà. In coerenza col proprio atteggiamento spurio, l'uomo si esprime usando una formula dubitativa: cioè egli non solo supplica la volontà di Gesù, ma con un “se” ipotetico del tutto fuori luogo, la pone anche in dubbio. Ovviamente per Luca e Matteo (e per l'interpretazione ufficiale della teologia cattolica) le cose non stanno in questi termini. Il “si vis” per loro è equivalente a una richiesta di cortesia: è come se avesse detto “per favore” o “ti prego”; o è addirittura una manifestazione di umiltà: “non sono degno di ricevere questa guarigione”. Una tale interpretazione, tuttavia, è troppo semplicistica per essere vera: vedremo che molti indizi la contraddicono.
Di che cosa dubita il lebbroso? Non del fatto che la volontà di Gesù sappia agire per un fine di bene (altrimenti egli ora non sarebbe lì a supplicare), ma del fatto che tale volontà sappia sempre agire così, in ogni situazione e circostanza. In altre parole, egli è convinto che chi possiede un determinato potere non sempre ha la volontà di usarlo per il bene della collettività. Gesù insomma potrebbe anche essere un guaritore “cattivo”.
Ci chiediamo: è giusto porsi un dubbio del genere? Se si considera la domanda nella sua astrattezza, la risposta non può essere che affermativa. Teoricamente infatti possiamo anche supporre che gli uomini non sempre si servono dei loro poteri per scopi utili e convenienti alla collettività; anzi, quando non si conoscono le loro azioni o quando si conoscono soprattutto quelle negative, il dubbio sulle loro buone intenzioni diventa non solo legittimo ma anche necessario, a titolo per così dire precauzionale. Con ciò naturalmente non si vuole sostenere la legittimità di un processo alle intenzioni. Il fatto è però che i buoni propositi vanno dimostrati, almeno quel tanto che basta per non costringere la nostra fiducia (cui non possiamo rinunciare) a compiere un salto nel buio.
Qui tuttavia il caso è un altro. Il lebbroso ha dimostrato, dicendo “tu puoi”, di conoscere Gesù e di sapere quanto lui è capace di operare per il bene della gente (in senso fisico e morale), o per lo meno di quanto bene è stato capace fino a quel momento. Che ragione ha quindi di credere che proprio adesso egli potrebbe essere capace anche di “male”? C'è forse stato un momento, prima di questo, in cui Gesù ha preferito usare i suoi poteri per trarne un vantaggio esclusivamente personale? Marco lo esclude, ma la sua testimonianza potrebbe non essere obiettiva. Supponiamo pertanto, mettendoci dalla parte del lebbroso, che Gesù, in una disgraziata circostanza, si sia comportato in modo sconveniente, per debolezza o per interesse. Ciò renderebbe forse lecito il dubbio? Ancora una volta dobbiamo rispondere di sì, ma solo in astratto. In effetti, nella vita reale un dubbio del genere sarebbe solo l'espressione di uno schematico fariseismo. Un uomo che, mentre spera d'ottenere un favore di così eccezionale importanza per la sua vita, preferisce indignarsi a causa di una passata défaillance del guaritore, facendo di quell'episodio una pietra angolare per giudicare tutta la sua vita o un sintomo indicativo della sua intera personalità – un uomo di questo genere sarebbe soltanto uno stupido moralista, un idolatra della legge. E non è certo questo il caso del nostro ammalato, che stupido non è e che, se si vuole, andrebbe rimproverato del contrario. (Si badi: neppure noi vogliamo formalizzarci. Quest'uomo ha ammesso di conoscere Gesù, dunque sa che oltre a guarire, predica anche la venuta di un regno imminente di liberazione. Forse per questo avrebbe dovuto chiedergli parole politicamente edificanti in luogo della guarigione? Nessuno avrebbe il coraggio di biasimarlo per non averlo fatto. Forse però questo giustifica la pretesa di porre delle condizioni per ottenere il favore? È su questo che dobbiamo puntare l'attenzione).
Delle due insomma l'una: o Gesù è quel “posseduto da Beelzebul” indicato dagli scribi mandati dal Sinedrio di Gerusalemme (cfr. Mc 3,22), in cerca solo del proprio tornaconto, e allora il dubbio è lecito; oppure il lebbroso è scettico per altre ragioni. Se la prima ipotesi fosse vera, il dubbio ovviamente sarebbe legittimo (mentre la disperazione del lebbroso aumenterebbe all'inverosimile), ma noi non riusciremmo a capire il senso generale, complessivo, del racconto. Proviamo dunque a escluderla e soffermiamoci ad analizzare la seconda ipotesi.
La tesi da dimostrare, in sostanza, non è che la seguente: in assenza delle concrete condizioni che legittimano l'uso del dubbio intellettuale, il fatto che qui il lebbroso non abbia saputo evitare di formularlo porta in definitiva a credere (supposta l'intelligenza del soggetto) che in quel “se” non si nasconda semplicemente un dubbio, ma piuttosto un pregiudizio, di ordine morale e psicologico, il quale, essendo radicato nell'inconscio, è emerso alla coscienza in modo del tutto spontaneo, cioè involontariamente. Quest'uomo ha sì accettato Gesù come “grande guaritore”, ma nel contempo – senza un motivo plausibile – l'ha rifiutato come “guaritore buono”.
Siamo convinti che se si fosse trattato soltanto di un dubbio intellettuale, anche la furbizia di un adolescente avrebbe saputo evitarlo. Dietro il “se vuoi” si nasconde in realtà un dramma personale, avvertito in modo molto acuto dal soggetto in questione. Da dove nasce dunque questo pregiudizio? È difficile dirlo: qui si può solo ipotizzare. Forse da precedenti esperienze con guaritori (e non) risoltesi negativamente. Noi non possiamo sapere com'egli aveva contratto la malattia: disattenzione, casualità, dolo…? Tuttavia, in quel “se vuoi” sembra ch'egli voglia sottintendere d'aver spesso cercato, ma inutilmente, una persona disposta a guarirlo, o per lo meno disposta a comprenderlo e aiutarlo. Non era certamente questa la sua prima supplica. Se non si forzasse troppo il suo significato potremmo addirittura leggerla così: “se almeno tu vuoi”, dando all'avverbio restrittivo tutta l'enfasi che il momento richiede.
La naturale indifferenza della gente, unitamente all'emarginazione in cui la legge mosaica obbligava i lebbrosi a vivere, devono averlo progressivamente indotto a maturare un notevole pessimismo nei confronti della solidarietà e della giustizia degli uomini. Il “se” che mette in dubbio la buona volontà di Gesù, in pratica implica delle espressioni di contenuto analogo: “se sei buono guariscimi”; “se non lo fai è perché non vuoi”; “non vuoi perché sei come gli altri”, ecc. Un “se” ricattatorio, come ben si può notare, che Gesù qui tollera unicamente perché la sua attività politica era appena agli inizi in Galilea.
Parlando di emarginazione e di indifferenza si può in parte attenuare la gravità del dubbio in questione, ma solo in parte. A ben guardare, infatti, tanto l'una quanto l'altra non possono che essere considerate naturali e inevitabili, almeno per i tempi di allora. Il lebbroso, se vogliamo, può anche aver incontrato persone radicalmente ostili alla sua condizione di malato, ma è assai improbabile ch'egli abbia incontrato persone che, in potere di guarirlo, scientemente e volontariamente si siano rifiutate di farlo (l'eccezione in questo caso non farebbe la regola); oppure tutte persone che, pur non essendo capaci di guarirlo, non abbiano fatto assolutamente nulla per assisterlo (ovviamente nei limiti loro possibili).
Tanto l'indifferenza della gente quanto la durezza della legge mosaica non avevano unicamente come scopo quello di suscitare sentimenti di auto-condanna nella coscienza di questi ammalati, i quali dovevano per forza credere, vigendo ufficialmente l'idea di un Dio giusto giudice, che qualcosa di molto grave, da un punto di vista etico, dovevano aver commesso per meritarsi un castigo così grande (a meno che non stessero pagando il prezzo di colpe commesse dai propri antenati, lontano anche sette generazioni!). Gli ebrei non credevano assolutamente che tali disgrazie potessero colpire a caso o comunque per motivi etici di secondaria importanza. È anche vero però che, in presenza d'una malattia così incurabile (non dimentichiamo che allora la lebbra equivaleva alla morte), c'era senz'altro una ragione in più per cercare di garantire a tutta la collettività una prassi di tutela e prevenzione.
Gli ebrei associavano la malattia alla colpa perché avevano una concezione moralistica dell'esistenza. Non sapendo come risolvere i problemi sociali che li affliggevano quotidianamente (alcuni dei quali erano fonte delle stesse malattie), tendevano a criminalizzare gli individui più esposti a queste contraddizioni, e cioè i malati, gli emarginati, le prostitute… inclusi coloro che svolgevano mestieri proibiti dalla legge. Era un modo sbrigativo di rispondere ai drammatici perché della vita. Anche oggi d'altra parte c'è chi, nell'ambito della chiesa romana, sostiene che l'Aids sia una giusta punizione per omosessuali e tossicodipendenti.
Ai vertici della sapienza ebraica stava il filosofo Giobbe che, rifiutando di associare la malattia alla colpa, considerava le proprie disgrazie una prova cui Dio l'aveva sottoposto, non prima naturalmente d'averla proporzionata alle sue forze. “Se da Dio si accetta il bene, non si deve accettare anche il male?” (Gb 2,10), così aveva risposto alla tentazione auto-giustificazionista che la moglie gli aveva suggerito col dire: “Rimani ancora fermo nella tua integrità? Impreca a Dio e muori!” (Gb 2,9).
Ma anche in questo caso non erano stati fatti molti passi avanti. Giobbe invitava alla rassegnazione e a superare la prova con stoica volontà, nella consapevolezza – direbbe Kierkegaard – che “di fronte a Dio l'uomo ha sempre torto”, anche quando è convinto d'essere innocente o di non aver fatto nulla di così grave da meritarsi un castigo del genere. Giobbe non aveva lo sguardo rivolto verso il futuro, cioè verso la possibilità di modificare i rapporti sociali esistenti: la malattia l'aveva circoscritta nell'ambito della propria coscienza, e così la prova, che doveva servire a verificare una fede già presente, la disponibilità ad accettare una situazione non modificabile.
Viceversa, nel vangelo di Giovanni Cristo dà ai suoi discepoli una risposta più impegnativa: “Né lui ha peccato – disse riferendosi al cieconato –, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestino in lui le opere di Dio” (9,3). Il che significa, detto in modo più “laico”: il limite va visto come occasione per migliorare le cose, per mettere alla prova le capacità proprie e altrui; le contraddizioni vanno viste come “il motore della storia” – direbbe Marx – e non come un peso da sopportare o, peggio, come un pretesto per affermare nuovi rapporti di dominio.
Ma torniamo al lebbroso di Marco. La suscettibilità di quest'uomo, il suo rifiuto radicale (e ineccepibile) di considerare la malattia come un giusto castigo per delle colpe commesse o una prova da superare con rassegnazione, fa da pendant ad una sorta di fraintendimento della realtà. Gli uomini infatti possono anche rifiutare certe contraddizioni, ma non prima d'averne assunto una qualche responsabilità, o comunque non prima d'aver saputo indicare con più o meno coerenza una proposta risolutiva. Contestare soltanto è troppo facile perché si possa anche pretendere d'aver ragione.
Il lebbroso di Marco, in sostanza, ha confuso la mancanza di “potere” della sua gente con la mancanza di “volontà”. Probabilmente molte volte si sarà sentito rispondere alle sue richieste di “vita” frasi tipo: “vorrei ma non posso”. Ebbene, egli col tempo deve aver dato a queste sincere intenzioni (incapaci però di produrre fatti concreti, alternativi a quelli dominanti) un significato sempre più riduttivo: “se volessero veramente, mi avrebbero già guarito”, “se mi amassero veramente, non mi avrebbero abbandonato”. Ecco perché ora cerca una persona che voglia “veramente”, che lo ami “veramente”.
Ma la pretesa è fuori luogo, e per il semplice fatto che questo lebbroso non si vuole lasciar coinvolgere nei limiti della sua gente. Naturalmente sarebbe troppo sperare di vederlo chiedere che si faccia qualcosa perché in futuro non accadano altri casi come il suo, o sperare di sentirlo contestare la malattia mettendo in discussione i meccanismi sociali che la producono e la alimentano. I fatti comunque dimostrano ch'egli ha posto una domanda nei termini più sbagliati: “perché proprio io e non un altro?”, e ha preteso inoltre una risposta immediata e convincente.
Il pregiudizio nei riguardi di Gesù nasce proprio da questo orgoglio: la pretesa di voler guarire in mancanza delle condizioni concrete per poterlo essere. La guarigione è avvertita come un diritto assoluto, inderogabile: ciò che appunto determina, come logica conseguenza, il pregiudizio col quale si dubita delle buone intenzioni del guaritore, ovvero del fatto che questi voglia compiere la terapia senza tener conto dei propri interessi. Banalizzando, potremmo riformulare così l'espressione di questo lebbroso: “tu devi guarirmi perché puoi” (l'orgoglio); “se non mi guarisci è perché non vuoi” (il pregiudizio).
Orgoglio e pregiudizio sono presenti in questo lebbroso proprio perché egli avverte la sua malattia come un'inspiegabile condanna e non come il frutto di un limite sociale, un limite che coinvolge tutti gli uomini, e quindi anche lui. L'esigenza della guarigione è avvertita secondo una logica di tipo giuridico: del diritto proprio e del dovere altrui. Una logica che, normalmente, subentra nel momento stesso in cui non si sa che risposta dare al problema del senso della malattia. Sopravvalutando la questione del merito personale, della propria innocenza o estraneità nei confronti delle contraddizioni sociali, e sottovalutando la questione dell'oggettività storica, caratterizzata da limiti e possibilità abbastanza determinati, il lebbroso si è poi trovato incapace di inventare una risposta plausibile alla sua condizione di malato, una risposta cioè che fosse compatibile alle modalità e alle esigenze del suo tempo; e si è trovato per così dire costretto a darsene una di tipo soggettivistico, irrazionale: “la malattia non ha senso”.
La lebbra è per lui una condanna troppo dura da sopportare perché troppo difficile da capire: per questa ragione egli non solo si sente un reietto della società, ma anche un uomo abbandonato a un crudele destino. Convinto di non aver commesso nulla di “peccaminoso” per meritarsi un tale castigo, quest'uomo accusa tutto il mondo che lo circonda d'aver compiuto un'ingiustizia, un'arbitraria discriminazione. La società, il destino o Dio, la storia stessa: tutto e tutti gli appaiono “mostri” da combattere. Se non fosse così, non avrebbe potuto mettere in dubbio la pietà del guaritore proprio mentre la supplicava.
Il suo pessimismo esistenziale è cosmico e insieme ribelle, ma di un ribellismo velleitario, poco cosciente. Qui non si discute il diritto che questo lebbroso aveva di rifiutare la sua malattia, ma piuttosto l'atteggiamento con cui lo rivendica. La liberazione era finalmente arrivata e sarebbe stato stupido non approfittarne, ma era quello il modo giusto? Quest'uomo voleva essere sanato a tutti i costi, voleva una liberazione che s'imponesse da sé, senza il concorso responsabile di tutti gli uomini, cioè di coloro che la desiderano. Il suo desiderio di liberazione non aveva lo sguardo rivolto alle sofferenze del suo popolo.
v. 41) Adiratosi (mosso a compassione), stese la mano, lo toccò
Mettiamoci nei panni di chi ha vissuto per molti anni una vita agiata o comunque senza particolari problemi, e che dal giorno alla notte si trova a vivere una condizione di super-emarginato, additato dalla gente come un “maledetto da Dio”, costretto a urlare a gran voce, ogni volta che incontra qualcuno: “impuro, impuro!” – cosa faremmo al suo posto? Quali sublimi pensieri potremmo maturare nella nostra coscienza? Forse che il malato, solo perché malato, dev'essere anche buono di carattere? No, certo, ma forse questo può autorizzarlo a insultare mentre supplica?
Di questa drammatica ambivalenza il Gesù terapeuta, che non si è sentito indotto a troncare il rapporto, si deve essere reso facilmente conto, se è vero che manifestò, non “compassione”, ma “sdegno” o “irritazione” – come vuole la versione più antica, che alla chiesa però non piace. Matteo e Luca, avendo posto in buona luce, sin dall'inizio, il nostro ammalato, non potevano comprendere il senso della collera di Gesù, per cui hanno preferito toglierla. Così, in pratica, hanno confermato, senza esplicitarla, la variante usata dal secondo redattore del vangelo di Marco (o da un copista poco intelligente): e cioè “compassione” in luogo di “irritazione”. Oggi gli esegeti tendono a collegare l'ira alla constatazione del dualismo fra volontà divina (in sé positiva) e realtà oggettiva del male. Ma questa giustificazione, oltre che apologetica, è anche riduttiva.
Dunque Gesù non ebbe compassione? Noi vogliamo credere che la ebbe, e almeno per due ragioni. Una è immediatamente evidente: la sofferenza fisica (ma questo non è un motivo sufficiente per compiere la guarigione). L'altra la si può dedurre: il dramma di una coscienza che rifiuta di dare un senso alla malattia (ma anche questo non è un motivo sufficiente per compiere la guarigione). In altre parole, la compassione potrebbe anche esserci stata, come un “segno” dell'umanità di Gesù, ma l'ira, in questo caso, ha un valore superiore, di giustizia. Non dimentichiamo che le guarigioni – ammesso e non concesso che Gesù le abbia fatte – erano sì gratuite ma non fini a se stesse. Nel vangelo di Marco Gesù cerca sempre e comunque di sollecitare gli ammalati (o i loro parenti ed amici) a credere nella possibilità di una liberazione più grande, che non riguardava soltanto le malattie fisiche ma anche quelle sociali, la prima delle quali era senz'altro il senso d'impotenza nei confronti degli oppressori romani. Appellandoci dunque alla compassione, potremmo anche giustificare la guarigione di un malato incapace di comprendere le esigenze di liberazione sociale e nazionale, ma non prima d'aver ammesso che l'obiettivo principale del politico-terapeuta era un altro.
La mano viene appunto tesa per dimostrare la presenza di una nuova volontà. Toccandolo nei sensi spera di toccarlo nei sentimenti, nell'intelligenza, cioè spera di umanizzarlo. Il toccarlo non è una semplice dimostrazione di potenza, perché di questa il lebbroso era già sicuro. Si trattava piuttosto di una concessione di fiducia. Se il lebbroso può credere nella “buona volontà” del terapeuta solo a condizione d'essere risanato, si potrà anche fare – considerata la tappa iniziale della predicazione evangelica – uno strappo alla regola. Se poi neppure questo basterà, allora sarà stata persa una grande occasione, quella di una conversione di mentalità, in virtù della quale si sarebbe potuto operare per un fine sociale di rinnovamento. Il malato insomma doveva capire che l'invulnerabilità di Gesù alla lebbra, o comunque ai suoi condizionamenti, non dipendeva né dalla fortuna né dal caso (quella fortuna o quel caso che inspiegabilmente promuove uno e respinge l'altro), ma dipendeva da una forza e da una volontà sconosciute al potere dominante, con le quali egli aveva intenzione di costruire una nuova società.
Gesù quindi non si piega al ricatto per la disperazione del malato, ovvero per la pietà del caso (anche s'egli non può essere rimasto indifferente al coraggio del malato di rischiare la vita violando la legge sulla segregazione), ma vi si piega per insegnare agli oppressi della sua nazione a credere nella possibilità di una vita nuova. Solo un forte desiderio di liberazione nazionale poteva indurlo a concedere un favore senza le necessarie condizioni soggettive per ottenerlo. In futuro agirà diversamente, semplicemente perché – al cospetto dei suoi numerosi “segni” – vi sarà una ragione in meno di dubitare della sua affidabilità politica e/o morale.
v. 41) e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”.
La lebbra non era stata per il malato un'occasione per riflettere sull'esistenza degli uomini, ma una maledizione da togliere. Vissuta e concepita così essa non serviva a nulla. Ecco perché il lebbroso viene posto di fronte a una diversa opportunità di vita. Saprà fare la guarigione quanto la malattia non è riuscita a fare? E così, dopo aver dimostrato coi fatti che le sue intenzioni e finalità sono positive, Gesù ora glielo conferma esplicitamente e ufficialmente con le parole: la volontà agisce di comune accordo col potere. Non si limita a fare una semplice dichiarazione di guarigione: “sii mondato”, ne fa anche una di volontà, proprio perché il malato aveva dubitato.
Grazie a quelle semplici ma univoche parole il lebbroso avrebbe dovuto capire due verità fondamentali, concomitanti: 1) che l'emarginazione (sociale e “legale”), nonché la stessa malattia, dipendevano da un difetto di potenza, connesso a una comune responsabilità degli uomini, in cui anche il lebbroso avrebbe dovuto sentirsi coinvolto; 2) che questo difetto di potenza poteva essere risolto solo in base a una nuova esperienza, cioè in base a una diversa volontà di ottenere le cose, conformemente alle possibilità oggettive offerte dalla società. Gli uomini insomma non avevano saputo guarire il lebbroso non perché non volevano, ma perché non potevano, e non potevano perché non sapevano come volerlo. Gesù esprime appunto questa nuova “intelligenza”, la quale si basa sull'esperienza di una nuova “forza”. Egli sa adeguarsi alle vere esigenze della società, e questo non tanto nel momento in cui guarisce straordinariamente gli ammalati, quanto piuttosto nel momento in cui, facendolo, vuole offrire un segno di potenza, espresso umanamente, per indurre il popolo a volere un bene molto più grande: la liberazione d'Israele. Non un miracolo li avrebbe salvati dalla schiavitù romana, ma la fede del popolo nelle sue proprie forze. Lo stesso concetto di “miracolo” avrebbe perso di significato.
v. 42) Subito la lebbra scomparve ed egli guarì.
La guarigione è totale e immediata. Se si cercano delle analogie con il caso di Naaman il siro, guarito da Eliseo (2 Re 5,9-14), si resterà delusi. I discepoli di Gesù ne sono testimoni, anche se Marco non parla della loro presenza. Qui non serve un particolare cerimoniale: il lebbroso non l'avrebbe tollerato, né Gesù lo ha ritenuto indispensabile, anche perché aveva già capito il suo “paziente”. Per convincerlo a fidarsi di lui, Gesù sapeva che doveva guarirlo in quel modo e non, p. es., a tappe diverse, progressivamente, come farà in altri casi. Quando la disperazione è grande, ogni tergiversazione rischia di apparire come un gioco crudele, specie se il postulante difetta di lungimiranza.
v. 43) E, ammonendolo severamente, lo rimandò
Quest'uomo non può ancora andare “avanti” – come Gesù avrebbe sperato – ma deve, almeno per il momento, tornare “indietro”. Non gli ha potuto dire: “vieni e seguimi”, perché sapeva che non ne sarebbe stato capace, ma gli ha dovuto dire, e con tono minaccioso: “torna dai tuoi”. È costretto a rimandarlo perché conosce la sua ostinazione, la sua riottosità a capire, a cambiare mentalità; sa che quanto gli è accaduto non riesce a comprenderlo nel suo significato più profondo e che, per questo, rischia di sprecarlo.
Per non passare da un orgoglio a un altro, da un pregiudizio a un altro, occorre prima “superare se stessi”. Per poter accettare “l'opportunità-che-salva” occorre prima riconciliarsi con gli uomini che soffrono sotto “la-legge-che-condanna”. Per superare la legge nella consapevolezza dell'alternativa occorre anzitutto vincere le debolezze che caratterizzano gli uomini schiavi della legge e dei rapporti sociali di sfruttamento. E la prima debolezza che qui va vinta è la pretesa, l'assurda pretesa della diversità senza che vi siano le necessarie condizioni per ottenerla. La seconda debolezza è ancora più grave: è la paura o l'incapacità di realizzare l'alternativa quando le condizioni ci sono.
Saprà questo lebbroso guarito farsi carico di una testimonianza del genere? Oppure si servirà della guarigione per condannare di nuovo gli altri, restando come prima? Nell'incertezza Gesù lo rimanda con tono severo, deciso, come se fosse quasi pentito d'averlo risanato. Matteo e Luca non hanno capito questo strano comportamento e lo hanno volutamente omesso. Ma il vangelo di Marco, almeno in questo caso, è più veridico, ha meno preoccupazioni apologetiche.
v. 44) e gli disse: “Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”.
Tre cose Gesù gli ha chiesto di fare (nel testo greco vi sono degli imperativi con valore esclamativo). Dovrà anzitutto tacere il nome del guaritore, per il bene dello stesso guaritore (anche da questo si può capire che si è trattata di una delle prime operazioni di Gesù sulla lebbra). Poi, approfondendo il senso delle cose che ha vissuto e soprattutto evitando di trasformare la guarigione in un pretesto per condannare la sua gente (“adesso non ho più bisogno di voi”), il neo-risanato dovrà, in positivo, presentare l'offerta di rito al sacerdote per ottenere un certificato di buona salute ed essere riammesso in comunità. Infine, raccontando come sono andate le cose, dovrà diffondere tra i suoi un messaggio salvifico, certamente di tipo politico. Messaggio che in Matteo e in Luca appare di molto ridimensionato, poiché entrambi o non hanno capito il senso esatto delle cose che copiavano, oppure le hanno copiate pensando di non scandalizzare i loro lettori (già disabituati a ragionare in termini di “politica rivoluzionaria”). Così facendo però sono entrambi caduti in contraddizione, in quanto il silenzio sul nome del guaritore è in netto contrasto con l'ubicazione dell'incontro: in un villaggio, secondo Luca; ai piedi di un monte, tra la folla, secondo Matteo.
L'ex-lebbroso, che era un ebreo della Galilea, sa che deve andare dal sacerdote per ricevere l'attestato dell'avvenuta guarigione: lo prevede la legge mosaica. Non può limitarsi a dire, dopo una malattia del genere: “sono guarito”. Senza il nulla osta non può rientrare in società. Perché dunque Gesù gli ricorda una cosa ch'egli sicuramente già sa? È semplice: perché prevede che non rispetterà la legge. Gesù fa quanto è in suo potere di fare, nel rispetto della libertà altrui: oltre non può andare. Un messia che pretende di realizzare un regno di giustizia non può approfittare dei favori che concede come guaritore o delle speranze che suscita come politico per esigere da parte dei postulanti o degli oppressi un'obbedienza cieca, assoluta, ai suoi ordini. Ecco perché si limita a ricordargli quello che deve fare: perché, quando non la farà, non possa dire che in fondo ne poteva fare a meno.
Certo, l'offerta al sacerdote non ha per Gesù un valore particolare: egli non ha bisogno che sia un altro a dimostrare la realtà dei suoi “segni”. Dicendo “sii guarito” non intendeva solo far capire al lebbroso d'essere un guaritore notevole e credibile, ma anche un individuo sicuro di sé, che non ha bisogno della conferma del sacerdote-medico alle sue terapie. Gesù quindi, rinviandolo a casa, ha tenuto anzitutto in considerazione il bene del lebbroso.
Eppure cadremmo in errore se pensassimo che tale rinvio aveva come unico scopo quello di riconciliare l'ex-lebbroso con la sua gente (come vuole soprattutto Luca, mentre Matteo vede il fatto in una prospettiva di polemica anti-giudaica). Gesù ha offerto a quell'uomo un'ulteriore chance, di tipo squisitamente politico. In fondo, egli avrebbe anche potuto portarlo con sé in città, dimostrare che l'aveva guarito e invitare la folla a controllare di persona, senza tener conto del parere del sacerdote: poteva cioè sfruttare la situazione per cominciare ad attirare su di sé l'attenzione delle masse.
Invece fa esattamente il contrario: chiede al risanato non solo di evitare una pubblicità rozza e controproducente, ma anche di dimostrare, presentando l'offerta e raccontando la verità dei fatti, che chi l'ha guarito è una personalità degna di rilievo, per quello che fa e soprattutto per come lo fa, della quale ci si può fidare con una relativa sicurezza, al punto che gli si potrebbe anche riconoscere un ruolo di rilievo nella lotta contro l'oppressione dominante, romana ed ebraica-collaborazionista (erodiani in Galilea; sadducei, anziani e sommi pontefici in Giudea). I sacerdoti insomma, stupendo sia di fronte a questa grande guarigione, sia di fronte all'umiltà con cui essa era stata gestita, avrebbero dovuto prendere consapevolezza che esisteva un potere sconosciuto alla sinagoga, un potere che la legge, le sedi ufficiali del “palazzo”, le scuole rabbiniche non erano state capaci di produrre: un potere col quale, in un modo o nell'altro, ci si doveva confrontare.
La testimonianza della verità doveva dunque servire per dimostrare che Gesù era sia un guaritore “grande e buono”, sia un altro potenziale liberatore d'Israele dall'imperialismo romano. I preti, vedendo quel redivivo presentare l'offerta e sentendo da lui la versione dei fatti, avrebbero dovuto rivedere i loro pregiudizi, evitando non solo di dubitare, come prima il lebbroso, della buona volontà di Gesù, ma anche di sostenere che i suoi poteri autonomi, privi di un placet istituzionale, provenivano dal “maligno” e che, per tale ragione, venivano usati contro i veri interessi della popolazione. I preti insomma, grazie alla testimonianza personale e politica del lebbroso guarito, avrebbero dovuto porsi nell'atteggiamento di chi è pronto ad accogliere l'opportunità favorevole, quella che da tempo il popolo attendeva.
v. 45) Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
Guardando ora il comportamento di quest'uomo si potrebbe essere tentati dal dire che la sua supplica iniziale, formulata con un “se” dubitativo, non era stata solo il frutto del risveglio improvviso di una speranza ormai morta, ma anche una sorta di desiderio di rivalsa, di riscatto agli occhi del mondo intero. Si tratta però di una mera tentazione, poiché il racconto poteva finire diversamente, cioè senza che con l'acquisita guarigione si riaffermasse il pregiudizio precedente, caricandolo peraltro di inimmaginabili opportunità. È dunque difficile indovinare se il lebbroso era o non era partito con l'idea di poter usare la terapia per una rivincita personale contro il mondo. Forse non è neppure importante saperlo.
Matteo, non dicendo una sola parola sul comportamento del risanato (il versetto parallelo è del tutto assente) e volendo restare coerente con le sue premesse, preferisce lasciar credere, indirettamente, ch'egli abbia obbedito. Luca è un po' più complicato, ma non offre dettagli significativi: anche per lui l'ex-lebbroso ha obbedito, ma solo nel senso che ha presentato l'offerta, non anche in quello di tacere il nome del guaritore. L'effetto su Gesù è quindi analogo a quello descritto da Marco, anche se Luca, cercando di sdrammatizzare le cose, mostra che la gente lo cercava sia per le guarigioni che per “ascoltarlo”. Ciononostante Gesù – prosegue Luca – continuava a nascondersi, benché solo per “pregare”.
A ben guardare, in effetti, avrebbe anche potuto essere una soluzione interessante quella di far obbedire l'anonimo postulante al 50%. Gesù in fondo gli aveva offerto tre possibilità di riscatto: 1) comprendere il significato della guarigione (riscattandosi così dall'idea di essere un maledetto); 2) presentare l'offerta (riscattandosi così dall'emarginazione); 3) essere di testimonianza (riscattandosi così dal “nonsenso” di una vita da schiavi sotto il giogo romano). L'una non escludeva l'altra, e comunque il lebbroso poteva scegliere. Senz'altro la comprensione del terzo riscatto era superiore alle altre due, ma se il postulante si fosse limitato a presentare l'offerta prevista dalla legge mosaica, la guarigione non sarebbe stata del tutto vana.
Scegliere l'una o l'altra proposta poteva dipendere solo da come il risanato avrebbe recepito l'esperienza e il messaggio di liberazione del messia-taumaturgo. Quel che è certo è che se avesse almeno un po' compreso il senso di quell'incontro, sarebbe andato dal sacerdote mostrando d'essere un testimone degno di fiducia. Ovviamente egli non aveva come compito quello di manifestare in modo consapevole tutta la verità incontrata: ancora non poteva esserne capace, né il messia glielo aveva chiesto. Sarebbe stato sufficiente che i suoi parenti e compaesani cominciassero a capire che tutte quelle guarigioni altro non erano che uno stimolo a credere nella possibilità di una liberazione molto più grande, molto più impegnativa. Lo stesso ex-lebbroso, che era stato guarito pur essendo ancora privo della necessaria disponibilità interiore a credere, avrebbe potuto (e dovuto) sperare, con il concorso di quanti prima lo emarginavano, nella possibilità di una trasformazione sociale e politica.
Purtroppo egli non solo non comprese ma neppure si presentò e, non presentandosi, non poté neppure testimoniare in modo adeguato. Marco ci fa capire ch'egli si rifiutò categoricamente di obbedire all'ordine di Gesù, anzi fece esattamente il contrario, mettendosi a “proclamare” il nome del guaritore e a “divulgare” il fatto per tutta la regione, tanto che Gesù era impedito dall'entrare pubblicamente nelle città e nei borghi della Galilea. Cosa avrà raccontato è facile immaginarlo: che Gesù era un taumaturgo pazzo, disposto a fare grandi guarigioni senza chiedere nulla in cambio, che lo voleva rimandare dai “suoi” quando lui si sentiva finalmente libero (e definitivamente) dal bisogno di chiedere il loro aiuto, che gli aveva ordinato di portare un'offerta proprio a quel sacerdote che da quando l'aveva visto ammalarsi non faceva che accusarlo d'essere un “impuro”, e così via.
Tutto questo clamore sulla straordinaria benché isolata guarigione (la più grande, fino a quel momento) aveva ovviamente leso l'immagine che di sé Gesù voleva dare. Galvanizzate da prodigi di tal genere, le masse facilmente si sentivano indotte a chiedergli cose inaccettabili per la sua missione. Lui stesso, con simili terapie, rischiava di precludersi uno degli ambiti più adatti alla predicazione della parola, quello appunto delle città (che il Battista, p. es., aveva rifiutato). E tuttavia, nonostante questi inconvenienti di circostanza, facilmente prevedibili, egli non aveva voluto sottrarsi al tentativo di ridare fiducia a un uomo cui la società negava ogni fiducia. La speranza di ottenere una vittoria sull'orgoglio e il pregiudizio di un uomo solo, l'aveva avvertita in quel momento con più forza della preoccupazione di offrire a tutti gli uomini un'immagine convincente, non “miracolistica”, del suo vangelo.
I fatti purtroppo contraddissero le aspettative di Gesù, ma questo non dimostra ch'egli avesse torto: qui non è neppure il caso di dire che l'ingenuità si paga. La trasgressione dell'ordine ha senz'altro avuto una ricaduta su chi l'ha impartito, ma molto di più l'ha avuta su chi doveva eseguirlo. Pur guarito infatti quell'uomo era rimasto “ammalato”, anzi era peggiorato, in quanto aveva perduto la possibilità del vero riscatto, della vera liberazione. Trasformando quel gesto in una semplice liberazione per sé, lo aveva privato del suo contenuto sociale obiettivo, del suo significato “profetico” (“prolettico”, dicono gli esegeti). Rispetto ai tempi della “salvezza”, ovvero della liberazione nazionale, che Gesù indicava come imminenti, quell'uomo, che prima accusava un certo ritardo, ora fa marcia indietro.
Dal canto suo Gesù, non volendo essere strumentalizzato da nessuno, è costretto a ritirarsi “in luoghi deserti” o poco frequentati. Non vuole dare di sé l'immagine di un fenomeno da baraccone né l'illusione di un “superman” dotato di enormi poteri, capace di liberare “da solo” la Palestina: egli non si poneva come obiettivo le guarigioni dei malati, ma la liberazione della sua nazione, dai nemici interni ed esterni, senza fare ricorso a fenomeni prodigiosi. Tuttavia, anche a causa della superficiale testimonianza di quell'uomo, ormai le folle credono soprattutto in Gesù come “grande guaritore”. E Marco, non senza compiacersi delle proprie origini ebraiche, aggiunge volentieri che “venivano a lui da ogni parte”. Non era certo quello un popolo che si spaventava di fronte alle difficoltà di un deserto…
(torna su)2) Lo scandalo del paralitico
(Mc 2,1-12)
MARCO (2,1-12) [1] Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa [2] e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. [3] Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. [4] Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. [5] Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. [6] Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: [7] “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”. [8] Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché pensate così nei vostri cuori? [9] Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? [10] Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, [11] ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua”. [12] Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”. |
MATTEO (9,1-8) [1] Salito su una barca, Gesù passò all'altra riva e giunse nella sua città. [2] Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. [3] Allora alcuni scribi cominciarono a pensare: “Costui bestemmia”. [4] Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: “Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore? [5] Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? [6] Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora il paralitico, prendi il tuo letto e va' a casa tua”. [7] Ed egli si alzò e andò a casa sua. [8] A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini. |
LUCA (5,17-26) [17] Un giorno sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. [18] Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. [19] Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. [20] Veduta la loro fede, disse: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi”. [21] Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: “Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?”. [22] Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: “Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? [23] Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? [24] Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico – esclamò rivolto al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua”. [25] Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. [26] Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose”. |
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v. 1) Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casaL'espressione “alcuni giorni dopo” presuppone un periodo in cui Gesù, compiuta la guarigione del lebbroso, poté rimanere nascosto, prima di ritornare, senza essere visto, a Cafarnao, ove sarà stato ospite – è da presumere – nella casa di Pietro. Ma l'espressione, se si mette il punto dopo “Cafarnao”, potrebbe anche riferirsi al momento in cui gli abitanti del paese si accorgono della sua presenza.
La tattica che Gesù aveva adottato, nella fase galilaica, era relativamente semplice e, forse proprio per questo, abbastanza efficace: sulle prime egli lanciava un messaggio di speranza (cfr. Mc 1,15) e, se occorreva, operava delle guarigioni (cfr Mc 1,32 ss.); poi, quando notava il successo dell'iniziativa, si trasferiva altrove, sottraendosi al superficiale interesse degli “ammiratori”. Dopo qualche tempo però tornava sui suoi passi, cercando fra coloro che la volta precedente l'avevano visto in azione, se c'era qualcuno disposto a diventare suo seguace, disposto cioè a lottare per l'obiettivo della liberazione nazionale.
A Cafarnao aveva già compiuto diversi “segni” (come li chiama Giovanni) e grande era diventata la sua fama. Ora che vi è inaspettatamente rientrato è molto difficile che possa sottrarsi alle richieste o anche solo alla curiosità della folla: questa, in un certo senso, lo tiene sotto controllo. D'altra parte egli ha bisogno dell'appoggio popolare: non vuole predicare nel deserto come il Battista. In questo momento il problema più difficile che deve affrontare è quello di trasformare l'entusiasmo instabile del pubblico che l'ascolta in una solerte e durevole sequela, cioè quello di portare il provincialismo di chi vorrebbe avere un taumaturgo tutto per sé verso un'esperienza di liberazione politico-nazionale.
Anche Matteo parla di Cafarnao, ma fra questa guarigione e quella del lebbroso fa trascorrere un tempo troppo lungo; inoltre il suo Gesù non entra privatamente in una casa ma pubblicamente nella città. Luca invece preferisce la cronologia di Marco, ma il luogo dell'episodio è ignoto, benché si possa facilmente presumere che ci si trovi in Galilea. Il suo errore fondamentale tuttavia è quello di presentare Gesù come un maestro già autorevole, perché riconosciuto da scribi e farisei (cosa mai verificatasi in Marco, il cui vangelo galilaico è notoriamente anti-giudaico), un maestro che usa le guarigioni appunto per dimostrare la propria superiorità etico-religiosa (anche questo non è per nulla evidente in Marco, dove anzi Gesù, la cui politicità appare solo indirettamente, raccomanda il “silenzio messianico”, benché Marco usi questo espediente proprio per dimostrare che Gesù non era un messia politico). Oltre a ciò, Luca ha preferito parlare subito di queste autorità politico-religiose, anche per non trovarsi in imbarazzo allorché dovrà giustificarne l'inconsueta presenza nella casa ove Gesù è ospite.
v. 2) e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunciava loro la parola.
Nessuno ha dimenticato i suoi prodigi terapeutici. Ora ne chiedono altri: forse alcuni son venuti per ringraziarlo o anche solo per curiosità. Sono così tante le persone che davanti alla porta, nel giardino antistante, non c'è più posto. La porta, chiusa, è letteralmente schiacciata dalle esigenze degli uomini. Anche Luca conferma questa situazione. Matteo invece si limita a dire che volevano solo un miracolo.
Ormai Gesù non può più tirarsi indietro: può soltanto fare in modo che la marea di questa gente insieme appassionata e istintiva non lo travolga prima ancora di “cominciare”. Nel testo è scritto che “annunciava loro la parola”, ma ciò è molto improbabile. Certo, è sempre meglio “nutrire” la consapevolezza di un progetto che l'entusiasmo di una guarigione, ma la precisazione riflette un cliché paternalistico ed è quindi fuori luogo. La si può spiegare pensando che a Marco o a qualche altro redattore/copista sia parso molto strano che Gesù, davanti a tante persone, non facesse niente. In realtà stava già facendo una cosa molto importante: rinunciando a guarire, cercava di far capire a quella folla di non desiderare una facile popolarità. In precedenza si era comportato allo stesso modo (Mc 1,35 ss.).
Questa apparente indifferenza al bisogno è, a ben guardare, una sorta di accertamento dell'effettivo interesse per il suo programma e la sua strategia. Egli spera di poter aprire la porta non soltanto per la speranza della guarigione, ma anche e soprattutto per la fiducia nel suo vangelo. La sua attesa silenziosa e discreta è una verifica delle capacità di ascolto della folla. Se lo seguono solo per le guarigioni, certamente se ne andranno, vedendo la porta rimanere chiusa; se anche per la parola, aspetteranno con pazienza ch'egli esca.
Matteo non ha assolutamente capito il senso di questa prova e, pur non ricordando alcuna “predicazione”, mostra un Gesù disponibilissimo a guarire! Luca invece è più elastico: da un lato può facilmente omettere la predica perché nella premessa l'aveva già trasformata in un dialogo edificante fra Cristo e il potere religioso; dall'altro accetta benevolmente la prova, seppure dopo averla alleggerita di molte difficoltà, conformemente alla sua immagine stereotipata di un Cristo amato e stimato persino dagli avversari!
v. 3) Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone.
Prima ancora che qualche discepolo esca da quella casa per informare gli astanti che Gesù non ha intenzione di curare gli ammalati; prima ancora che da quella casa esca lo stesso Gesù per fare un impegnativo discorso alla folla – qualcuno, tra questa, stanco di aspettare, pensa di accorciare il tempo della prova. Scettici sul fatto che Gesù voglia guarire e poco intenzionati ad ascoltare delle “parole”, i cinque postulanti decidono di andarlo a trovare di persona.
v. 4) Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico.
La difficoltà che queste cinque persone dovevano affrontare non era soltanto di natura tecnica (l'ostruzione della folla oppure la salita sul tetto), ma anche di natura morale (l'intrusione nella casa sapendo che Gesù non voleva fare guarigioni). Questa seconda difficoltà deve aver scoraggiato non pochi degli ammalati lì presenti, i quali certamente erano a conoscenza della scala esterna, quella appunto che si utilizzava per rifare il tetto ogni anno. Alcuni forse avranno pensato che un malato del genere poteva giustificare un'azione così rischiosa; altri invece si saranno chiesti come avrebbe reagito il guaritore (o lo stesso padrone di casa) di fronte a quella forma di sfrontatezza.
Matteo, anche in questo caso, non ha remore di sorta: avendo già tolto la “prova della fede” richiesta da Gesù, ora può tranquillamente eliminare l'azzardo dei postulanti. Luca invece, pur cercando d'essere più fedele al testo di Marco, è costretto ad alleviare il peso dello scoglio morale, in quanto il suo Gesù ha meno bisogno di mettere alla prova una folla che già crede in lui. Tali conseguenze, nel suo vangelo, ad un certo punto appaiono come inevitabili.
Vinta dunque la resistenza del dubbio, i barellieri salgono le scale e, una volta in cima, fanno un'apertura, abbastanza facilmente, fra le canne e il fango seccato, in direzione di Gesù; poi calano il giaciglio col paralitico (Marco usa un termine tecnico che indica il letto di gente povera); probabilmente non hanno neppure usato delle corde: sia perché prima di arrivare a quella casa non potevano prevedere quel che avrebbero fatto, sia perché le case palestinesi era generalmente basse. I quattro saranno rimasti sulle travi principali della terrazza (che non ha “tegole”, come invece vuole Luca).
v. 5) Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”.
La fede che Gesù vede non è semplicemente quella in lui come “grande guaritore” (questa anche il lebbroso l'aveva), ma piuttosto quella in lui come “guaritore buono” (dotato di virtù morali oltre che “bio-radianti”). Essi cioè avevano sfondato il tetto convinti che lui non avrebbe protestato, e questa convinzione era di tutti e cinque: diversamente i barellieri non avrebbero accettato di esporsi a quel modo.
È al malato che Gesù direttamente si rivolge, come per indicare che è soprattutto lui ad aver bisogno del suo aiuto, anche se quello che sta per dire non potrà non avere delle ripercussioni sulla coscienza di tutti gli astanti della casa. Lo chiama “figliolo” per la fede, è evidente: in Luca, dove il senso della prova è fortemente sminuito, al posto di “figliolo”, accettato anche da Matteo, c'è “uomo”, che è più generico. In Marco invece l'appellativo è molto confidenziale: viene usato non solo per giustificare una buona azione (il coraggio di quella intrusione infatti, sebbene non indicasse il modello della fede richiesta, era pur sempre una testimonianza di rilievo), ma anche per indurre l'ammalato a credere più facilmente in ciò che ha appena udito: la facoltà di giudicare il bene e il male. Gesù non cerca mai un semplice rapporto medico/paziente, ma soprattutto uno da uomo a uomo. Ciò che Matteo invece non è riuscito a intuire, in quanto il suo Gesù si esprime qui con un tono troppo paternalistico.
La domanda che ora viene spontaneo porsi è la seguente: a quali peccati si riferiva Gesù mentre glieli perdonava? Anzitutto è da escludere a priori ch'egli volesse ribadire l'equazione rabbinica di malattia e colpa, come a prima vista può sembrare. Premiando la fede che il paralitico-discepolo aveva manifestato, Gesù non voleva ricordargli la sua condizione di malato-peccatore, altrimenti l'elogio sarebbe stato una beffa. Inoltre, il perdono dei peccati (qui espresso, peraltro, in una formula alquanto spuria perché ecclesiastica) escludeva proprio la suddetta identificazione: il paralitico viene perdonato prima ancora d'essere stato guarito. Né si può pensare che Gesù volesse perdonare cose di cui lui solo (oltre naturalmente all'interessato) era a conoscenza: se così fosse il racconto avrebbe ben poco di edificante da comunicarci. Alcuni esegeti, a tale proposito, hanno creduto che il paralitico si fosse ammalato a causa di qualche “peccato grave”, di pubblico dominio, e che Gesù avesse voluto liberarlo dalla “fonte” del suo male; ma questa interpretazione – oltre che essere magico-spiritualistica, e non molto dissimile da quella rabbinica – non considera che nel contesto è del tutto irrilevante l'ipotesi che i due già si conoscessero (Marco peraltro, nel testo greco, in questo versetto, usa il termine “paralitico” senza articolo).
Si può infine pensare che il paralitico avesse “peccato” nel momento stesso in cui aveva preteso arbitrariamente la propria guarigione, anteponendola all'importanza del vangelo; ma, oltre al fatto che congetture simili se ne potrebbero fare a iosa, non è davvero possibile credere che Gesù, all'inizio della sua attività politica, si formalizzasse per ragioni o atteggiamenti di questo tipo. Peraltro, si ha la netta impressione che Marco voglia sottolineare come la lode fosse strettamente subordinata alla constatazione della fede. Il perdono dei peccati qui è un premio concesso alla fede testimoniata. Si potrebbe anzi dire che Gesù si limita unicamente ad attestare o a legittimare che il paralitico, con la sua fede, s'era guadagnato da solo la propria riabilitazione morale agli occhi della gente. Insomma, se rischiando più della folla il malato poteva apparire “peggiore”, rischiando in quel modo era diventato “migliore”.
Il punto, se vogliamo, è proprio questo. Sul fatto che la guarigione interiore (o morale) fosse da preferire a quella esteriore (o fisica), qualunque rabbino poteva trovarsi d'accordo. Ma che dire del fatto che tale guarigione, secondo Gesù, poteva accadere nella coscienza d'una persona ritenuta dalla mentalità dominante profondamente colpevole proprio perché irrimediabilmente ammalata? Per i rabbini malattia e colpa si giustificavano a vicenda: in tal modo essi potevano confermare i rapporti sociali esistenti, di oppressione e sfruttamento. Attribuendo le cause della malattia immediatamente al malato, considerato avulso da un contesto storico-sociale concreto, i rabbini non avrebbero certo messo in rapporto le capacità terapeutiche manifestate da Gesù con l'esigenza di modificare il contesto sociale. Su questo c'era poco da sperare. In fondo per loro non le guarigioni del Cristo costituivano “problema”, quanto piuttosto l'uso “anti-sistema” che di esse si poteva fare. E infatti quelle compiute di “sabato” venivano sempre rifiutate.
Ecco perché l'unico modo per ribaltare la concezione ideologica fatalista e politicamente opportunista dei rabbini, era quello di convincere gli stessi gruppi marginali della società a credere che la malattia poteva diventare occasione per dimostrare la “grandezza” dell'uomo. Concetto, questo di “grandezza”, che Gesù non intendeva riferire al suo particolare potere di guarigione, ma piuttosto alla possibilità generale di creare un'alternativa allo status quo. Le terapie volevano appunto essere un segno evocativo della possibilità di realizzare questa esigenza collettiva.
Ora, diversamente da come aveva agito nel caso del lebbroso, con il paralitico Gesù è molto più esplicito nell'indicare in cosa consista la sua pretesa riformatrice. Dichiarando moralmente sano un uomo fisicamente malato, cioè sostenendo che il paralitico meritava considerazione come chiunque altro, anzi più di molti altri, visto il modo in cui si era comportato, Gesù veniva a porsi in qualità di giudice della propria società, in modo particolare di quelle istituzioni e di quei poteri che con una determinata ideologia la governavano. Lo sviluppo della sua tattica qui è notevole.
È quindi evidente che con la sua benevola espressione, mai detta in precedenza, non riferibile ad alcun peccato in particolare ma solo alla mentalità dominante, Gesù ha voluto mettere alla prova quei postulanti e soprattutto il paralitico, che pensava anzitutto di ottenere una terapia risanante. La prova consisteva appunto nel superare la fiducia in lui come “guaritore buono” mediante quella in lui come “maestro di vita”, cioè come intellettuale in grado di giudicare autonomamente, sotto ogni aspetto, i processi del suo tempo. I cinque postulanti dovevano in sostanza capire che la “bontà” del Gesù taumaturgo non aveva come scopo unicamente quello di curare gli ammalati, ma, partendo ad esempio, come in questo caso, da una reinterpretazione del nesso di malattia e colpa, risalire fin verso la fonte di tutti gli abusi di potere, le discriminazioni e le menzogne del sistema.
Gesù poteva pretendere una fede più matura perché lo stesso paralitico, con i quattro portantini, gliene aveva offerto l'occasione. La differenza fra questa guarigione e quella del lebbroso è tutta qui. Nei vangeli, ogniqualvolta l'interlocutore supera un ostacolo, Gesù, con fare pedagogico, ne propone uno maggiore, invitando tutti a compiere continue e profonde metànoie, sia sul piano della consapevolezza critica che, di conseguenza, su quello della decisione personale. (Buona parte del vangelo di Giovanni è strutturata, redazionalmente, sulla base di questa impostazione politico-pedagogica).
Tuttavia, i cinque si aspettavano la guarigione non il perdono dei peccati. Non immaginavano neanche lontanamente che alla loro fede avrebbe potuto corrispondere un “miracolo” di quel genere. Credevano in lui come “guaritore buono”, ma fino a che punto avrebbero potuto? Qui non è come se Gesù avesse detto: “Ti perdono l'intrusione, ma non ho intenzione di guarirti”. In tal caso il paralitico se ne sarebbe andato, perdendo naturalmente la fede nel guaritore. Viceversa, Gesù ha affermato un principio rivoluzionario per la mentalità dell'epoca: la reintegrazione morale dell'incurabile. Se il paralitico non opera una torsione di 180 gradi nella sua coscienza, lo scandalo diverrà inevitabile, nonostante la massima discrezione usata da Gesù.
A tale proposito, alcuni esegeti ritengono che Gesù abbia voluto attenuare la difficoltà della prova evitando di pronunciare la forma attiva: “Io ti rimetto i peccati”. Questa loro spiegazione, in realtà, è servita più che altro come pretesto per speculare sulla presunta origine “divina” del Cristo. In verità, per l'opinione rabbinica non passava molta differenza tra le due forme espressive, in quanto il problema principale verteva unicamente sull'autorizzazione a formularle. Il paradosso dunque resta, e senza un mutamento di prospettiva, col quale si possa accettare questa nuova mediazione fra gli ideali di vita e gli uomini, è impossibile non restare impressionati negativamente, ed è pure impossibile trarre le dovute conseguenze operative sul piano politico (limite che caratterizzerà, ad esempio, un movimento come quello del Precursore). Insomma, chi o che cosa abilita Gesù a farsi mediatore e portavoce delle esigenze degli oppressi? Può un guaritore, solo perché guaritore, avanzare pretese del genere? Fino a che punto un uomo può ritenersi indipendente nel giudizio?
vv. 6-7) Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”.
“Là” dove erano seduti? Certo non nella casa di Pietro. In nessuna parte del vangelo di Marco si sono mai visti degli scribi parlare privatamente con Gesù, e per di più in casa sua o in casa dei suoi discepoli: una decisione del genere li avrebbe messi in cattiva luce agli occhi del potere dominante (benché l'espressione qui da loro usata sia chiaramente di disprezzo). In genere le controversie venivano affrontate pubblicamente, anche quando, invece di molti scribi, ve n'era soltanto uno.
Ma se gli scribi non erano in casa, è impossibile che abbiano udito le parole di Gesù. È persino improbabile che le abbia udite la folla. Dunque, dove si trovano questi legisti? Si trovano nella fantasia di un secondo redattore del racconto di Marco. Qui siamo di fronte a uno dei molti casi di costruzione simbolica verosimile a scopo apologetico. La verosimiglianza è dovuta al fatto che l'intervento di questi scribi, benché irreale nel contesto, è ideologicamente attendibile. Nel senso che se essi avessero effettivamente potuto ascoltare le parole di Gesù relative al perdono dei peccati, con molta probabilità avrebbero pensato le cose riportate dall'anonimo redattore.
Ma dove sta lo scopo apologetico? In due aspetti: anzitutto nel fatto che non si vuole scandalizzare il lettore dicendo che, all'udire quelle insolite parole, tutti i presenti (paralitico, barellieri e forse discepoli) cominciarono “in cuor loro”, se non addirittura “a viva voce”, a porsi delle domande molto imbarazzanti (come imponeva l'inedita situazione), senza però avere il coraggio di formulare esplicite accuse. In secondo luogo, la comunità cristiana primitiva, già abbondantemente spoliticizzata, aveva tutto l'interesse a dimostrare che la risposta di Gesù (che ora vedremo) al dubbio interiore degli astanti, era stata formulata con cognizione di causa, essendo egli “l'unigenito figlio di Dio”.
Gli scribi, che qui inorridiscono al sentire un guaritore volersi fare “come Dio”, diventano improvvisamente, per la suddetta comunità, i veri “bestemmiatori”. Pieni di gelosia e d'invidia, essi avrebbero rifiutato di riconoscere in questo “terapeuta pedagogista”, che nel mentre sana i corpi guarisce le ferite dell'anima, le specifiche qualità “sovrumane” che lo caratterizzavano. Col che, invece di fornire un'immagine realistica, laica e umana, dell'episodio (come andava fatto e come forse neppure l'Ur-Markus riuscì a fare), il secondo redattore ne offre una di tipo idealistico-religioso, inserendo cioè elementi del tutto arbitrari e impedendo così al lettore di capire che con quella espressione Gesù non voleva affatto dimostrare d'essere un Dio o un figlio di Dio e neppure un novello sacerdote, ma semmai il contrario, e cioè un uomo che per vivere “come uomo” non aveva alcun bisogno né di Dio né dei suoi sacerdoti. Essere “come Dio”, in questo caso, altro non avrebbe potuto significare che essere “senza Dio”, cioè capace di stabilire da solo dove si trovano il bene e il male. Gli uomini diventano uomini ogniqualvolta si misurano con questa autonoma capacità di giudizio.
Luca ha accettato la manipolazione del vangelo di Marco perché così poteva legittimare più facilmente la presenza degli scribi in quella casa, avendoli già citati, in compagnia dei farisei, nella premessa. Per il resto la sua versione dei fatti è ancora più spiritualistica e idealizzata. Per quanto riguarda Matteo, questi, situando la scena sulla riva del lago di Tiberiade, non solo ha meno problemi di Luca nel giustificare la presenza anomala degli scribi, ma ha pure tutto l'interesse (lui che è polemicamente anti-giudaico) a mostrarli come nemici irriducibili del “Cristo-Signore”.
Dunque gli ospiti in quella casa di Cafarnao hanno pensato, almeno per un momento, che Gesù peccasse di presunzione, ma senza proferire parola (stando al testo) sono rimasti in attesa di quel che sarebbe successo. In parte temono il confronto, non avendo motivi per accusarlo ed essendo forse consapevoli della pessimistica concezione scriba. Sin dall'inizio, in effetti, i discepoli avevano visto in lui un potenziale messia (cfr. Gv 1,41) e il popolo non poteva non essersi accorto che Gesù, chiedendo fiducia nella possibilità di un mutamento sostanziale delle cose, non guariva per un tornaconto personale. A chi gli stava vicino i dubbi sulla effettiva onestà di questo obiettivo politico-nazionale, apparivano assurdi. Luca infatti è costretto a smorzare l'odio degli oppositori eliminando la parola “bestemmia”. Nel suo vangelo, tuttavia, si capisce a fatica che sono gli stessi postulanti a dubitare.
Ora però, di punto in bianco, è difficile credere che Gesù non stia abusando dei suoi poteri. Gli scribi, proprio a causa del legame ch'egli poneva fra guarigione e liberazione, lo ritenevano un indemoniato, temendo ch'egli potesse approfittarne per rivendicare un potere personale, superiore al loro o addirittura ostile a quello del Tempio. Da tempo abituati a profondi compromessi col potere romano e quindi a ragionare in termini di meri rapporti di forza, gli scribi ritenevano che i mezzi usati da Gesù, benché all'apparenza inoffensivi, avrebbero sicuramente minacciato, prima o poi, tutte le loro sicurezze materiali e morali. Una cosa infatti è guarire, assistere, dare fiducia ai gruppi marginali della società, un'altra è costruire con loro un movimento organizzato con finalità politico-rivoluzionarie.
In che modo ora poteva convincersi chi, più o meno influenzato dall'insegnamento degli scribi e dei farisei, riteneva che la facoltà di giudicare il bene e il male appartenesse solo al “Dio Unico” o, al massimo, alle autorità costituite? In che modo Gesù poteva dimostrare che la sua presa di posizione, teorica e pratica, rappresentava l'inizio di una radicale alternativa al governo istituzionale, che collaborava, seppur malvolentieri, con quello romano? La questione era diventata complessa: chi si faceva “come Dio”, cioè chi scavalcava il potere legale-sacerdotale, era considerato reo di morte e come tale andava lapidato. Questo, nella versione di Matteo, appare assai chiaramente, mentre in quella di Marco le cose sembrano essere in bilico, al punto da legittimare finali contrastanti. Nessuna meraviglia infatti ci sarebbe nel vedere quel paralitico che, disposto ad accettare in luogo della guarigione fisica l'insegnamento etico, disposto cioè a capire che la dignità morale acquisita è il vero “miracolo” di cui aveva bisogno, chiedesse ai barellieri di riportarlo a casa così com'era venuto.
vv. 8-9) Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina?
Era facile immaginarsi i dubbi che passavano per la mente di quegli uomini: non c'è bisogno di pensare che Gesù poteva perdonare i peccati in quanto “conosceva i pensieri” degli uomini allo stesso modo di Dio. Questa chiave di lettura non fa che alimentare il culto della personalità, deresponsabilizzando gli individui. In realtà, Gesù chiedeva solo d'essere accettato come uomo, cioè come un soggetto politico e morale disposto a impegnarsi per un rinnovamento qualitativo della società, per l'emancipazione delle masse oppresse. Le guarigioni erano strumentali alla comprensione di questo fine. Non era proprio il caso che gli esegeti trasformassero un semplice intuito in una preveggenza o il suo giudizio umano in una scienza infusa.
Naturalmente Matteo e Luca non hanno interesse a respingere questa evidente manipolazione del testo marciano: il primo poi, avvezzo com'è a ragionare in termini di netta contrapposizione fra bene e male, si sente ancora più autorizzato a palesare un atteggiamento “ostile” di Gesù nei confronti degli scribi. Luca invece resta più sfumato, più distaccato nelle sue valutazioni, benché ciò non gli abbia impedito di cadere nell'incoerenza fra il “domandarsi” reciproco dei farisei con gli scribi e il “conoscere i pensieri” da parte di Gesù.
Nel vangelo di Marco, Gesù, resosi conto che quanto aveva appena detto era difficile da accettare, usa tutta la benevolenza, la lungimiranza e la persuasione di cui è capace. Il fatto è che spesso gli uomini sono sprovveduti di fronte ai fatti che chiedono un coinvolgimento, impreparati rispetto alle necessità del loro tempo: non sempre o non subito sanno apprezzare le buone intenzioni di chi vorrebbe indirizzarli verso mete più elevate. Chi è abituato ad eseguire passivamente ordini altrui, in cui più o meno crede, o chi, al contrario, li esegue solo formalmente, avendo come unica preoccupazione i propri interessi personali, col tempo matura la convinzione che gli uomini non abbiano sufficienti capacità di trasformazione e che le cose non possano essere modificate. Ecco perché Gesù non ha voluto considerare il loro dubbio come un pregiudizio radicato nelle coscienze e ha preferito non riprenderli severamente. Il suo compito non era quello di fare il moralista, ma l'educatore a una vita nuova o per lo meno alla speranza di ottenerla, e tutti sanno che quando si educa è di fondamentale importanza saper porre le domande giuste nel modo giusto.
Che cosa dunque è più facile riconoscere: il suo potere di guarigione o il suo diritto di giudicare? La risposta poteva apparire scontata: il primo, non foss'altro perché da diverso tempo lo esercitava e sulle cui finalità ormai solo gli scribi nutrivano ancora dei dubbi. L'altro potere, preteso in maniera così autonoma, era considerato fuori dalla portata del comune cittadino, poiché secondo la concezione religioso-giudaica (di allora e di oggi) esso appartiene soltanto a Dio, almeno in ultima istanza. Qui di fatto Gesù lo rivendica come proprio, mostrando che né a Dio né ai suoi sacerdoti si deve attribuire alcunché. L'espressione di “perdono” va quindi intesa nella sua valenza squisitamente umanistica. È come se avesse detto: “Se mi avete creduto mentre facevo guarigioni, se pensavate che le facevo per un fine di bene e non per un interesse personale, perché ora mentre considero innocente l'ammalato pensate che bestemmi? In che cosa è meglio credere: nell'utilità di una guarigione fisica o nella necessità di modificare la mentalità dominante?”.
Una cosa per lo meno era chiara nelle coscienze di quanti in quel momento lo stavano ascoltando: Gesù non aveva alcuna intenzione di proporsi alla collettività come puro e semplice guaritore. Le terapie sui malati – sempre che siano avvenute – erano soltanto degli esempi elementari, benché notevoli (perché di grande effetto), usati per stimolare gli uomini a credere nella possibilità di una liberazione più grande, ben più importante e decisiva. Di qui la necessità di un chiarimento sullo scopo della sua missione. Se gli scribi si fossero confrontati su questo, senza porre delle riserve pregiudiziali, avrebbero capito che i “segni” di Gesù, pur non costituendo di per sé la prova dell'autenticità del suo vangelo (ma ne potevano esistere?), venivano sostanzialmente compiuti per un fine di bene, riguardante l'intera collettività, un fine per la realizzazione del quale Gesù non aveva bisogno di attendere uno speciale “mandato”, in quanto l'autorizzazione a procedere era la storia stessa, erano le stesse contraddizioni del suo tempo che gliela conferivano.
A questo punto il racconto poteva finire nel migliore dei modi (come già più sopra abbiamo ipotizzato). Condiviso l'orientamento generale del messia-guaritore, che nella piena libertà “dalle” leggi divine e da quelle dei ministri religiosi, poteva decidere autonomamente quando un'azione o un'idea dominante è giusta o sbagliata, il paralitico avrebbe dovuto trarre le debite conseguenze teorico-pratiche: teoriche, perché se per la sequela al movimento di Gesù era irrilevante la condizione fisiologica o sociale del discepolo, in quanto bastava la conversione della mentalità, allora andava anche modificato il giudizio su coloro che si rifiutavano più o meno categoricamente di aderire all'esigenza di tale conversione (cioè su coloro – scribi, farisei ecc. – che l'etica convenzionale, politicamente dominante, riteneva “puri” e “ortodossi”); pratiche, perché se è vero che si può essere adatti al rinnovamento anche se malati e si può non esserlo pur essendo “sani”, allora la guarigione fisica è un desiderio inutile o comunque un aspetto per il quale non si possono anteporre gli interessi personali a quelli collettivi.
Non solo, ma per come si erano messe le cose, per il livello di consapevolezza manifestato dai postulanti, il rifiuto dell'equivalenza prospettata da Gesù, di guarire e giudicare, rischiava di portarli a una incresciosa strumentalizzazione dei suoi poteri terapeutici. La logica infatti imponeva una semplice e netta alternativa: o Gesù veniva accettato anche per quello che diceva, e non solo per quello che faceva, oppure doveva essere rifiutato in toto. Accettarlo come “guaritore buono” e rifiutarlo, nel contempo, come “maestro di vita” o come intellettuale che giudica il suo tempo, non poteva più diventare per il paralitico una soluzione accettabile. Meno che mai aveva senso credere nella grandezza dei suoi poteri “psicotronici” (come qualcuno li chiama) unicamente per avere la guarigione.
vv. 10-11) Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua”.
Ancora Gesù non aveva spiegato il motivo per cui si sentiva autorizzato a perdonare il malato, ovvero a mostrare la falsità dell'equazione rabbinica di malattia e colpa; ma lo scopo della sua missione, se non era quello di fare il taumaturgo, non era neppure quello di fare il moralizzatore o il semplice profeta. Scopo della sua missione era quello di testimoniare a tutti gli uomini la possibilità di una liberazione reale, pienamente democratica, umana e politica. I mezzi dovevano essere conformi allo scopo.
Per la prima volta nel vangelo di Marco (ma già da 1,15 si erano capite le sue intenzioni), Gesù sceglie per sé un titolo messianico, “Figlio dell'uomo”, lo stesso che il profeta Daniele aveva scritto nel suo libro (7,13) e che i Giudei contemporanei a Gesù non usavano mai per designare l'atteso messia (cfr Gv 12,34). Un titolo che, con linguaggio moderno, potremmo tradurre come “uomo vero e giusto, profondamente umano”. Nella visione di Daniele infatti quest'uomo, il cui potere sarebbe stato “eterno”, in quanto espressione non “singola” ma “collettiva”, non s'impone con la magia, il vigore fisico o la forza militare, né con una particolare sottigliezza di ragionamenti, ma unicamente in virtù dell'autorizzazione concessagli dall'“antico di giorni”, cioè dalla storia – si potrebbe dire –, dal popolo che con le sue tradizioni fa la storia. È un uomo il cui potere è basato, oltre che sull'esempio personale e sulla capacità dialettica di discernere il bene dal male, anche dalla forza del popolo. Il suo è un potere democratico, “partecipato”, diremmo oggi.
Gesù vuol far capire chiaramente ch'egli non si sente soltanto un “maestro di vita”, un intellettuale che giudica, un rabbino di tipo nuovo, indipendente dai poteri delle autorità costituite e dalle scuole tradizionali. Egli si sente anche un leader politico-nazionale, in grado di dimostrare che il suo diritto di giudicare le cose e le azioni degli uomini è un diritto giusto, vero, conforme alle esigenze dei tempi.
“Figlio dell'uomo” è un titolo insieme politico e umano, completamente avulso dalle questioni religiose. Anzi, da questo punto di vista, il titolo è squisitamente antireligioso (lo attesta anche l'espressione “sulla terra”). L'interpretazione ufficiale di questo racconto (e probabilmente anche quella antica) vuole dimostrare che, oltre a Dio, anche Gesù poteva perdonare i peccati. Nella realtà dev'essere accaduto proprio il contrario, e cioè che Gesù perdonava i peccati per sostituirsi a Dio e ai suoi mediatori, rabbini e sacerdoti del Tempio, che presumevano d'avere il monopolio di tutta la verità sull'uomo. E non solo egli si faceva “come Dio”, ma – stando a Gv 10,33 ss. – garantiva a tutti il poterlo diventare.
Ecco perché guarisce il paralitico: non tanto per dimostrare, come nel caso del lebbroso, che in lui potere e volere coincidono, quanto per dimostrare che in lui coincidono il potere di guarire e quello di giudicare (il metodo e il contenuto), e che lo scopo di questa equivalenza è l'affermazione di sé come messia, per la liberazione del popolo. Il malato insomma viene invitato a credere non solo nell'autonomia di giudizio di un guaritore buono, ma anche nel fine politico-rivoluzionario connesso a tale autonomia (da notare che nel testo greco si ha molto di più l'impressione che Gesù non abbia mai smesso di rivolgersi a lui).
v. 12) Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.
Il paralitico era rimasto zitto, allibito, curioso di sapere come sarebbe andata a finire. Dopo aver ottenuto la guarigione, immediata e totale, chiese a qualcuno di aiutarlo a rialzarsi, poi si rivolse al suo “salvatore” e gli disse: “Solo tu potevi fare una cosa del genere, nessun altro. Ti sarò sempre riconoscente. Ma c'è una cosa che voglio dirti e te la dico in tutta sincerità: tu per me bestemmi! Non vado a denunciarti perché non sono un ingrato, ma d'ora in avanti non rivolgermi più il saluto, perché non ho alcuna intenzione di diventare tuo discepolo. È vero, non mi hai posto come condizione della guarigione quella di credere in te come messia, ma sono convinto lo stesso che tu sia un pericoloso nemico della nostra nazione e, per dimostrartelo, ti lascio qui la barella, perché io non prendo ordini da uno che bestemmia”.
Il racconto poteva anche finire così, nel modo più drammatico possibile. Quello se ne andò sbattendo la porta e, facendosi largo tra la folla, che, stupita, non riusciva a capire il suo sguardo duro come la pietra, se ne tornò a casa, convinto d'aver fatto una buona azione. Se al suo posto ci fosse stato uno scriba, probabilmente sarebbe finita anche peggio: Gesù, su denuncia di quello, avrebbe di nuovo dovuto nascondersi nel deserto, e questa volta non per “alcuni giorni”.
Naturalmente il racconto non finì in modo così inverosimile. In fondo il paralitico aveva scelto di sfondare il tetto proprio perché non credeva nell'equazione rabbinica di malattia e colpa. Il suo problema, semmai, era stato quello di dover scegliere il “perdono” in luogo della “guarigione”: di qui i dubbi e i sospetti, nonostante i quali però “quegli si alzò” – dice Marco –, proprio perché non aveva chiesto che lo togliessero dalla vista di quel “bestemmiatore sovversivo”; “prese il suo giaciglio” – manifestando così d'aver apprezzato anche la riabilitazione morale; “e se ne andò in presenza di tutti” – Marco lo dice per assicurare il lettore che la guarigione avvenne proprio così, nella maniera più semplice possibile, in presenza di tutti quelli che erano in casa di Pietro. I testimoni del fatto c'erano, il resto appartiene alla retorica.
La chiusa infatti è stata completata dal secondo redattore, al fine di togliere il più possibile al racconto gli aspetti realistici e squisitamente umani. Una folla che dichiarasse di “non aver mai visto nulla di simile” mentirebbe sfacciatamente, poiché Gesù aveva già fatto analoghe guarigioni (cfr Mc 1,32 ss.). La folla era lì appunto perché le aveva già viste. Se invece la meraviglia si riferisce al fatto che nessuno si aspettava la guarigione dopo lo sfondamento del tetto, anche in questo caso bisognerebbe dire ch'essa è stata evidenziata in maniera esagerata. Bastava concludere nel modo più semplice e naturale: “e tutti si meravigliarono”. Viceversa, con quell'aggiunta si ha la netta impressione che per la folla fosse davvero difficile credere nell'esistenza di “guaritori buoni”. Comunque, a parte questo, la folla non può aver visto né sentito nulla, in quanto i protagonisti dell'episodio sono sempre rimasti all'interno della casa e con la porta chiusa: è da escludere che Gesù avrebbe rischiato di manifestare la sua volontà di giudizio al cospetto di una folla ancora non in grado di capirlo.
È da presumere che l'anonimo redattore abbia avuto paura che il lettore si meravigliasse anche di un'altra cosa, e cioè della grande libertà con cui l'uomo-Gesù giudicava le azioni e le idee degli uomini. Perché appunto non si credesse ch'egli si comportava così a prescindere da qualunque riferimento alla sua presunta “divinità”, il secondo redattore s'è preoccupato di aggiungere che, nel vedere una tale guarigione, la folla glorificò Dio ancora di più, convinta che un uomo del genere non avrebbe potuto fare quello che faceva se Dio non fosse stato con lui.
Ma c'è di più. L'espressione “non abbiamo mai visto nulla di simile” ha un significato del tutto irrilevante, poiché esso non determina alcuna conseguenza operativa sui testimoni del fatto. Il suo significato cioè è meramente contemplativo, in quanto gli autori del vangelo di Marco intendono riferirsi a un'utenza che vuol vivere “in pace” con l'oppressione romana.
Un rilievo critico dobbiamo farlo anche all'ex-paralitico, che sembra aver preso un po' troppo alla lettera il comando di “andarsene”. In fondo Gesù aveva fatto una dichiarazione politica impegnativa. La conclusione di Marco, in questo senso, appare un po' ambigua: il risanato ha senza dubbio condiviso la dichiarazione, in quanto ha obbedito senza discutere all'ordine impartitogli; ma allo stesso tempo, proprio la fretta con cui lo ha eseguito lascia pensare il contrario, e cioè che la dichiarazione sia stata condivisa solo per un interesse personale.
Naturalmente leggendo Luca e Matteo non si può sperare d'ottenere informazioni più illuminanti. In nessun luogo dei loro racconti si accenna a un'eventuale richiesta da parte del postulante di chiarimenti, di precisazioni o addirittura di partecipazione al movimento messianico guidato da Gesù. Nel finale di Matteo non si comprende neppure se l'ordine è stato rispettato; inoltre l'accettazione della messianicità appare come un problema del tutto insignificante, poiché questo evangelista ne dà per scontata la soluzione.
Luca, al solito, tenta di restare più fedele al testo-base di Marco, ma senza successo. La necessità di condividere l'idea messianica viene da lui ridimensionata in un'astratta dossologia: “e tutti ringraziarono Dio”, il che peraltro contrasta ancora di più col fatto che il risanato esce immediatamente di casa. Come noto, nel suo vangelo le contraddizioni sono alquanto stridenti: ciò dipende appunto dalla preoccupazione dell'autore di voler colmare, senza esserne all'altezza, le lacune dei racconti di Marco. Ad esempio, nella sua conclusione, egli ha voluto aggiungere la parola “timore” per togliere allo “stupore” della folla di Marco la sua superficialità, ma poi non s'è accorto d'aver incluso nella categoria dei “timorati e stupiti” gli stessi scribi e farisei! Matteo non sarebbe mai caduto in una svista del genere: nel suo finale la folla “teme” sì Dio, ma in un odio mortale contro gli scribi che avevano pensato male di Gesù.
(torna su)3) L'uomo dalla mano secca e l'ideologia del sabato
(Mc 3,1-6)
MARCO (3,1-6) [1] Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, [2] e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. [3] Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: “Mettiti nel mezzo!”. [4] Poi domandò loro: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?”. [5] Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: “Stendi la mano!”. La stese e la sua mano fu risanata. [6] E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire. |
MATTEO (12,9-14) [9] Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. [10] Ed ecco, c'era un uomo che aveva una mano inaridita, ed essi chiesero a Gesù: “È permesso curare di sabato?”. Dicevano ciò per accusarlo. [11] Ed egli disse loro: “Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in una fossa, non l'afferra e la tira fuori? [12] Ora, quanto è più prezioso un uomo di una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato”. [13] E rivolto all'uomo, gli disse: “Stendi la mano”. Egli la stese, e quella ritornò sana come l'altra. [14] I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo. |
LUCA (6,6-11) [6] Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. Ora c'era là un uomo, che aveva la mano destra inaridita. [7] Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva di sabato, allo scopo di trovare un capo di accusa contro di lui. [8] Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all'uomo che aveva la mano inaridita: “Alzati e mettiti nel mezzo!”. L'uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. [9] Poi Gesù disse loro: “Domando a voi: È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?”. [10] E volgendo tutt'intorno lo sguardo su di loro, disse all'uomo: “Stendi la mano!”. Egli lo fece e la mano guarì. [11] Ma essi furono pieni di rabbia e discutevano fra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù. |
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Questo episodio, se non si esulasse dal nostro argomento, andrebbe esaminato con quello posto da Marco subito prima: Le spighe strappate di sabato (2,23 ss.). Entrambi, infatti, in modo sufficientemente chiaro e organico, descrivono l'atteggiamento che i farisei (il gruppo politico-religioso di base più significativo) avevano nei confronti di Gesù su uno dei precetti più importanti del giudaismo: il sabato. Tale atteggiamento, sin dall'inizio dell'attività pubblica di Gesù, era stato piuttosto negativo: lo stesso Giovanni, nel suo vangelo, lo conferma dicendo che i Giudei cercavano di ucciderlo perché “violava il sabato” (5,18).
Per gli ebrei il sabato aveva un triplice significato: come simbolo religioso della creazione, in quanto – stando al Genesi – Dio il settimo giorno “cessò da ogni lavoro”, ovvero “fece sabato” (cfr. Gen 2,2-3 e Es 20,11); come segno di una liberazione politica, in quanto l'ebreo, mentre riposa dopo le fatiche del suo lavoro, deve anche ricordare d'essere stato tratto dalla schiavitù d'Egitto al tempo dell'Esodo (cfr. Es 23,12 e Dt 5,14 s.); infine come strumento pedagogico per una convivenza sociale pacifica, in quanto gli ebrei, nel giorno in cui smettono di lavorare, sono convinti di potersi sottrarre completamente al rischio di derubare o ingannare il prossimo, o comunque alla tentazione di far prevalere i loro interessi personali. È in fondo questa la vera motivazione del sabato: le giustificazioni religiose, simboliche o evocative hanno – secondo noi – un valore secondario.
Nell'Esodo si legge che chi profanava questo giorno lavorando doveva “essere condannato a morte” (31,14), e in effetti nessuna solennità dell'anno esigeva un riposo così assoluto. Al tempo di Gesù gli ebrei se ne servivano anche per opporsi ai Romani: non lavorando, se schiavi; non portando armi né marciando, se militari nelle legioni (cosa che poi determinerà la loro definitiva esenzione). Dal canto loro, i farisei, al fine di mantenere il popolo unito e per conservare tradizioni usi e costumi in funzione antiromana, avevano accentuato ancora di più il rispetto formale di questo precetto, impedendo praticamente quasi ogni forma di attività (cfr Mc 2,23-28).
Un fatto però s'imponeva alla coscienza di molti israeliti coevi a Gesù: il tradizionale senso di liberazione, implicito nel sabato, stava sempre più perdendo la sua ragion d'essere sotto il dominio assoluto di Roma. In effetti, come si poteva esser fieri della “terra promessa” con l'oppressione del nemico in patria? Come si poteva ricordare la “liberazione” dal Faraone se non ci si poteva liberare dalla schiavitù di Cesare? In che modo si poteva essere “se stessi” di sabato se durante gli altri giorni si dovevano subire le prepotenze, gli arbitrii dell'invasore, nonché gli abusi, le indecenze di chi preferiva “collaborare”? Proprio a causa di queste domande, che da tempo gli ebrei si ponevano, i farisei, nel racconto delle spighe strappate, non si sentirono autorizzati a denunciare i discepoli di Gesù. In quel racconto, infatti, la legge era stata violata, ma senza che la coscienza morale se ne sentisse in colpa.
v. 1) C'era un uomo che aveva una mano inaridita,
Marco colloca questo episodio nell'ambito della sinagoga di Cafarnao (non ricordando la città si può presumere che la dia per scontata) e poco tempo dopo l'episodio del paralitico. Luca non fa altro che imitarlo. Stando a Matteo invece, è letteralmente impossibile definire il luogo, poiché dal suo racconto del paralitico è passato molto più tempo, al punto che appare inverosimile una violazione del sabato così tardiva.
Sin dal primo versetto Marco fa capire che Gesù voleva compiere una guarigione proprio di sabato, alla presenza di tutti (il giorno non è citato semplicemente perché, anche qui, lo considera ovvio, a differenza di Luca che si rivolge a lettori poco avvezzi alle usanze ebraiche). Nel vangelo di Marco Gesù ha già violato il sabato almeno due volte: privatamente, in casa di Pietro, mentre gli guarisce la suocera (1,29 ss.) e pubblicamente, davanti ai farisei, mentre permette ai suoi discepoli di raccogliere delle spighe di grano per sfamarsi (2,23 ss.).
Visto il carattere ufficiale, irreversibile, con cui il Cristo vuole rompere con l'interpretazione rabbinica del sabato, facendo così compiere un passo in avanti alla sua polemica contro l'opinione dominante che unificava malattia e colpa, si può addirittura pensare che tra lui e il malato in oggetto vi sia stato come un accordo preventivo, una sorta di intesa prestabilita (in nessun momento infatti il malato gli chiederà di guarirlo). Anche leggendo Matteo lo si può intuire (questi peraltro, non senza disprezzo, usa l'espressione “loro sinagoga”). Luca invece esclude completamente tale ipotesi: il suo Gesù entra in sinagoga per insegnare e solo in un secondo momento incontra il malato. La casualità dell'incontro è evidente in più punti della sua versione.
L'uomo di questo episodio è un malato incurabile. L'acquisita malattia, forse non sanata con decisione al suo nascere, si era col tempo acutizzata, tanto da divenire cronica. Marco si guarda bene dal fornire delle aggravanti per meglio giustificare l'intervento “illegale” di Gesù: questo fare moralistico è più consono a un evangelista come Luca, che si sente in dovere di precisare come la mano secca in questione fosse la “destra”.
v. 2) e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo.
Qui si ha la conferma che Gesù era entrato nella sinagoga per cercare con la comunità locale, e soprattutto con i suoi portavoce più significativi: i farisei, un confronto diretto e ufficiale sulla questione del sabato. Essi infatti sembrano attenderlo, sapendo già in anticipo quel che vorrà fare. Il loro modo di “osservare” non è innocente (si potrebbe addirittura tradurlo con “lo stavano spiando”). Consapevoli che Gesù ha già in precedenza violato il sabato, ora lo guardano con un senso di sfida, che è un di più del sospetto e della diffidenza, in quanto – essendo quello un luogo pubblico – sperano vivamente ch'egli cada in recidiva, così potranno tranquillamente denunciarlo. Non lo osservano per comprendere le sue ragioni, ma per vedere se viola la legge con aperta intenzionalità, davanti a testimoni autorevoli. Ciò che finora hanno visto e udito è per loro sufficiente: la decisione di condannarlo pare già unanime. Matteo ne è così convinto che nella sua versione essi pongono subito, in modo capzioso, una domanda: “È lecito far guarigioni in giorno di sabato?”. Il risentimento di Gesù, ovviamente, è qui immediato.
Le prescrizioni del sabato vietavano le cure per la salute, quando naturalmente non fosse in pericolo la vita della persona. Una deroga a questo principio poteva essere concessa, al massimo, dal Sinedrio (il senato giudaico), non certo da un privato cittadino né da un leader politico. Una trasgressione del precetto equivaleva praticamente a mettere in discussione il potere delle autorità costituite o comunque il potere di quei gruppi politici che basavano il loro prestigio, fra l'altro, sul modo in cui applicavano il precetto o lo facevano applicare. In questo senso, né le autorità (nella fattispecie gli erodiani, come dirà più avanti Marco), né i farisei riuscivano ad accettare che la guarigione di un uomo in giorno di sabato, potesse farsi per un fine di bene. Che un così grande potere, esterno o estraneo alla loro influenza, avesse intenzione di contrastare quello istituzionale (degli erodiani della Galilea) o quello sociale (dei farisei, che pretendevano d'essere gli unici veri oppositori del mondo romano in Palestina), appariva cosa inammissibile: entrambi i partiti erano convinti che tutto l'operato terapeutico di Gesù fosse strumentale a una più complessa strategia ad essi chiaramente ostile.
v. 3) Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: “Mettiti nel mezzo!”.
Gesù voleva ufficializzare, mediante un confronto pubblico e diretto con le autorità, la sua trasgressione del sabato, verso la quale già erano state mosse delle critiche in modo ufficioso. Di qui la decisione di far mettere quell'uomo al centro: non solo a tutti doveva essere chiaro che il caso in questione era molto grave, ma anche che il superamento della concezione del sabato egli intendeva realizzarlo all'interno del giudaismo, sottoponendosi al giudizio della pubblica opinione. Gesù non vuole violare il sabato per un arbitrio personale, ma per affermare, in positivo, la realtà di un'esperienza più significativa per il giudaismo: un'esperienza insieme umana e politica, con la quale opporsi al sistema dominante. Non ha paura degli astanti, almeno non lo dimostra: vuole restare coerente con l'intenzione di guarirlo lì dentro, e non perché si sente un provocatore, non perché ritiene di non aver nulla da perdere, ma per offrire alla sua gente un'alternativa credibile, praticabile. Giovanni ricorda nel suo vangelo (10,38) che Gesù, come soluzione di compromesso, era disposto ad accettare che credessero se non in lui, almeno nelle sue opere.
Lo stesso Giovanni descrive bene la sostanziale differenza, sulla questione del sabato, fra la posizione di Gesù e quella dei gruppi politico-religiosi di Gerusalemme: “Mosè vi ha dato la circoncisione – non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi – e voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito interamente un uomo di sabato? Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio!” (7,22 ss.). La differenza stava nel fatto che i “Giudei” – come li chiama il quarto vangelo – non riuscivano a comprendere la caratteristica “simbolica” di leggi come ad esempio quella della circoncisione o dello stesso sabato. Trasformando queste leggi propedeutiche, valide solo storicamente, in idoli sovratemporali, era poi ovvio che non riuscissero ad accettare il superamento realistico proposto da Gesù (superamento che non consisteva – come più avanti vedremo – in una semplice estensione delle deroghe alla rigidità del precetto, ma piuttosto in una sua definitiva abolizione, come lo stesso evangelista Giovanni lascia capire quando parla di guarigione “intera”, “totale”).
Ora, per giudicare con “retto giudizio” occorre un atteggiamento di autocritica, di ascolto, ma l'unico che, in questo senso, si vede, nel racconto di Marco, è quello del malato, il quale, mettendosi nel mezzo, non si vergogna di mostrare il male che l'ha colpito, né il desiderio di guarirlo in un giorno proibito: egli non ha timore delle intenzioni di condanna che serpeggiano nella sinagoga.
Su questo punto Luca continua a sostenere la tesi dell'incontro fortuito, poiché Gesù interviene proprio per dimostrare che non teme gli avversari. Egli lo fa mettere al centro (“in piedi”, mentre tutti sono seduti per terra!) solo dopo aver “conosciuto i loro pensieri”, nel senso cioè ch'egli lo guarisce appunto perché gli sono ostili, ostentando così la propria netta differenziazione. Il Gesù di Luca, infatti, non ha la preoccupazione pedagogica di far comprendere a scribi e farisei che la legge del sabato, quando non è al servizio dell'uomo, diventa un'assurda ideologia. Egli in realtà è già così “padrone del sabato” che non ha alcun bisogno di dimostrarlo, attraverso una coerenza di teoria e prassi: gli basta riconfermarlo in virtù dei suoi poteri taumaturgici o addirittura della sua “divinità”, con la quale naturalmente egli non può lasciarsi sorprendere né intimidire da nessuno.
Nonostante questo però, Luca si è sentito in dovere di precisare che il malato “obbedì” all'ordine impartitogli: come se di fronte a una “divinità” (qui onnisciente e onnipotente) sarebbe anche potuto accadere che il malato declinasse l'invito, temendo d'essere mal giudicato dai suoi concittadini! Nel contesto di Marco invece la precisazione di Luca non avrebbe avuto alcun senso, proprio perché fra Gesù e il postulante esiste già un accordo preventivo: il semplice fatto di mettersi al centro equivaleva in sostanza a una richiesta ufficiale di guarigione, a dispetto delle leggi vigenti.
Matteo addirittura non fa alcun cenno a questo spostamento logistico: non gli interessa minimamente il rapporto di Gesù con un uomo che non dirà per tutto l'episodio la benché minima parola. Gli basta evidenziare una questione di principio. Matteo infatti giustifica la violazione del sabato sulla base della realtà dei bisogni: “Chi è colui tra di voi che, avendo una pecora, se questa cade in giorno di sabato in una fossa, non la prenda e la tiri fuori? Certo un uomo vale molto di più di una pecora!” (12,11-12).
In realtà Gesù non chiedeva che si aumentassero le eccezioni alla regola, ma che si mutasse la regola stessa, subordinando il sabato a tutte le esigenze degli uomini, non soltanto a quelle più importanti. In fondo una deroga alla legge avrebbe anche potuto essere concessa, se la sostanza fosse rimasta salva. In altre parole Matteo non coglie la dimensione globale della rottura. Il suo Cristo rompe con un giudaismo ottuso, ipocrita, superficiale: insomma un giudaismo irrecuperabile, che non s'è neppure piegato a concedere un “favore” al Cristo. Al contrario, il Cristo di Marco ha una concezione più elevata delle leggi fondamentali dell'ebraismo, in quanto è disposto a riconoscere a quella del sabato un valore propedeutico, normativo, storicamente valido, cui si può e si deve rinunciare solo in presenza di una valida alternativa; un'alternativa – si badi – non tanto o non solo al “sabato” in sé, quanto piuttosto ai rapporti di potere che lo legittimano, che lo usano come mero strumento di controllo sociale. Marco esprime la posizione di quella comunità cristiana (di origine petrina) che, sulla questione del sabato, sarebbe stata anche disposta ad accettare molti compromessi col fariseismo, se questo avesse riconosciuto al Cristo una sorta di primato “etico-religioso”: cosa che avverrà solo con la conversione di Paolo di Tarso. Ufficialmente il fariseismo rimase sempre ostile al cristianesimo, proprio perché, pur avendo rinunciato, come il petrinismo, alla rivoluzione politica, non voleva rinunciare alle tradizioni giudaiche. In tal senso il cristianesimo, per come è venuto definitivamente configurandosi a partire dal paolinismo, non è stato che un fariseismo spiritualizzato al massimo, previa accettazione della reinterpretazione galilaica del vangelo di Gesù operata dal petrinismo, con le sue due tesi fondamentali della “morte necessaria del messia” e della sua “resurrezione” (il paolinismo non farà che aggiungere le tesi dell'“unigenita figliolanza divina” e della “parusia alla fine dei tempi”).
v. 4) Poi domandò loro: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?”.
Ecco quindi la domanda cruciale: che cosa si può fare di sabato, il bene o il male? La risposta sembra essere scontata, e il silenzio degli astanti lì a dimostrarlo. Ma non è così. Gesù non aveva posto una questione formale, cui si potesse facilmente rispondere, ma un grave problema di coscienza. Quell'uomo, indubbiamente, aveva bisogno d'essere guarito; non era in pericolo di morte ma la sua malattia non aveva speranze per la medicina dell'epoca. La legge mosaica – stando agli scribi e ai farisei – impediva di sanarlo nel giorno festivo. Gesù appunto chiede come sia possibile che Mosè abbia dato una legge così contraria alla vita.
La risposta che i farisei (e gli erodiani) avrebbero potuto dare, in quel momento, è facilmente intuibile: eccetto il caso di pericolo di morte, era vietato, di sabato, assistere un ammalato, poiché ciò costituiva “lavoro”. Ora, la malattia di quell'uomo non rientrava nel suddetto caso, per cui il Cristo non aveva il diritto di sanarla (né doveva sentirsi in dovere di farlo). Scribi e farisei non mettevano in dubbio il valore della vita, ma tale valore – onde evitare ogni forma di “arbitrio” – acquistava la sua validità solo nella misura in cui non contraddiceva alla norma della legge, la quale appunto affermava, con assolutezza, che il sabato è giorno di “riposo assoluto”. Nessuno avrebbe impedito a Gesù di guarirlo in un giorno feriale.
Il problema da risolvere, in sostanza, era il seguente: che cosa può essere considerato prioritario nell'esistenza degli uomini? E, di fronte ad esso, che cosa è lecito fare? Se è veramente vietato lavorare di sabato, per quale motivo si permette che in questo giorno si salvino degli animali in pericolo di vita? Perché Gerico poté essere conquistata di sabato (cfr Gs 6,4)? Perché invece l'uomo che raccoglieva legna, citato in Nm 15,33, venne messo a morte?
A tale proposito, la tesi di Matteo è abbastanza chiara: se si viola il sabato per un bisogno minore (ad es. salvare una pecora nel fosso) lo si può fare anche per un bisogno maggiore (guarire un uomo). Tuttavia, l'esempio scelto da Matteo non faceva che confermare la posizione dei farisei, i quali avrebbero potuto obiettare che là si trattava di salvare una vita in pericolo (seppur quella di un animale), qui si tratta soltanto di guarire un arto paralizzato. Matteo in sostanza non ha capito che è sul concetto di vita, di esistenza e non di “sabato” che Gesù si scontrava con la mentalità farisaica. All'interno di una logica che equipara la vita ai suoi ritmi biologici, o che misura la dignità di una persona sul modo come rispetta la legge, è impossibile superare non solo la concezione del sabato, ma anche quella di qualunque altra legge. Sotto questo aspetto si può aggiungere che, guarendo di sabato un malato cronico, Gesù voleva in realtà affermare un principio che permettesse agli uomini di considerare positivamente, in qualunque momento, anche quelle azioni di bene compiute in assenza di un bisogno più o meno grave, o quelle azioni non espressamente previste da alcuna normativa.
La posizione degli scribi e dei farisei era schematica ma non semplicistica. Essi erano convinti, come al tempo di Mosè, che, astenendosi dal lavoro, di sabato, l'uomo avrebbe potuto sottrarsi alle contraddizioni che si determinavano, nei giorni feriali, fra l'interesse individuale e quello collettivo. È vero che Mosè, nell'istituire tale precetto, aveva cercato di dargli un senso il più liberatorio possibile, senza affatto impedire il “bene” nei confronti del prossimo, specie in caso di bisogno; ma è anche vero che questo suo tentativo poteva aspirare al successo solo in condizioni socialmente favorevoli. Viceversa, al tempo di Gesù, la constatazione negativa delle contraddizioni sociali si era così accentuata che per gli scribi e i farisei le tradizioni e le leggi del passato avrebbero potuto conservare la loro credibilità solo a condizione di aumentarne artificiosamente il peso. Si era cioè arrivati all'assurdo che la dignità dell'uomo veniva alimentata dalla più completa indifferenza verso le necessità del prossimo. La verità di sé veniva ad essere determinata non anzitutto dalla disponibilità a condividere le esigenze degli uomini, nella concretezza della vita quotidiana (feriale e festiva), ma piuttosto dall'assenza di movimento, dalla rinuncia a compiere qualsiasi azione che non fosse rigidamente circoscritta dalla legge, dalle tradizioni orali e scritte e dal perimetro del Tempio e della sinagoga.
Per gli scribi e i farisei il sabato era diventato l'idolo dell'indifferenza, il feticcio magico da usarsi nei rapporti interpersonali, al fine di valorizzare al massimo un'entità puramente astratta: Jahvè o meglio l'“Uno”. Nel giorno festivo si “costringeva” il popolo all'altruismo semplicemente impedendogli di compiere qualsiasi azione, anche quelle che potevano apparire degne e meritevoli. Era diventata talmente grande la sfiducia nelle capacità umane di bene, che, vietando ogni azione di sabato, le autorità religiose (istituzionali e/o sociali) si erano attribuite sia il diritto di considerare tendenzialmente negativi i gesti compiuti nei giorni feriali, sia il potere di stabilire, dal modo in cui si viveva il sabato, quali “colpe” meritavano d'essere perdonate (da Dio) e quali no. Oltre a ciò, naturalmente, le autorità si assicuravano, in modo del tutto formale, di non essere ingannate da quei lavori compiuti solo in apparenza per il bene del prossimo (salvo poi soprassedere, nel giorni feriali, ogniqualvolta esse avevano consapevolezza del carattere obiettivamente negativo di tali lavori).
Gesù in pratica proponeva di formulare dei casi, anche ipotetici, che giustificassero la neutralità davanti alle esigenze vitali degli uomini, in considerazione del fatto che la legge vietava di condividerle nel giorno festivo. In altre parole, egli chiedeva di rimettere in discussione il motivo per cui determinate azioni come fare del bene, assistere o addirittura salvare una vita venivano ritenute nei giorni feriali un aspetto positivo dell'esistenza, mentre di sabato dovevano essere biasimate, condannate o accettate in via del tutto eccezionale. Se chi ha il potere di compiere il bene, è tenuto a metterlo a disposizione ogni giorno, al servizio della collettività, chi omette di fare il bene, quando l'evidenza lo rende necessario, non compie forse il male? L'indifferenza, in tal caso, non è forse una forma di orgoglio e di disprezzo per gli uomini che vivono in uno stato di necessità (quegli stessi uomini che gli “idealisti” sono soliti considerare fonte di tutti i mali sociali, causa prima della mancata realizzazione dei loro astratti principi)? È vero che in ogni gesto, in ogni iniziativa umana e sociale c'è sempre il rischio che si faccia prevalere l'interesse individuale su quello generale (ammesso e non concesso che ciò sia sempre illecito), ma forse questo rischio può essere considerato come un pretesto per impedire che l'uomo agisca?
I farisei tuttavia pensavano che la riduzione del sabato a giorno comune fosse in realtà finalizzata a estendere l'alienazione del popolo (la sua logica negativa di vita quotidiana) anche al giorno in cui le autorità religiose o comunque la legge potevano in qualche modo garantire, con il divieto assoluto di lavorare, una dimensione etica dell'esistenza. Se il settimo giorno diventa come gli altri – pensavano i farisei – non ci sarà più modo di opporsi all'antagonismo che gli uomini vivono normalmente, negli altri giorni, sul piano socioeconomico. La conseguenza sarà un loro progressivo allontanamento dalle leggi e dalle tradizioni ebraiche.
Senonché le intenzioni di Gesù non erano affatto quelle di compiere una critica puramente distruttiva di questa ideologia del sabato. Il dualismo fra l'interesse personale, prevalentemente manifestato – secondo i farisei – nei giorni feriali, e la dedizione a Dio nel giorno festivo, non poteva essere risolto dimostrando che anche di sabato si è come negli altri giorni, sebbene in modo mascherato. Se Gesù avesse voluto legittimare anche per il sabato la logica negativa della vita feriale, avrebbe proposto una soluzione di comodo facilmente contestabile. In realtà, egli poneva un problema di ordine qualitativo: per quale ragione gli uomini vivono la loro esistenza dominati dall'interesse privato? Che cosa impedisce loro di accettare anche l'interesse collettivo con la stessa intensità e passione? C'è la possibilità di convogliare le esigenze di una vita collettiva verso un progetto di liberazione che valorizzi ogni singolo uomo? Se gli ebrei sono capaci di rispettare il prossimo solo in forza del sabato, in che modo potranno costituire una valida alternativa al dominio dei Romani?
Relativamente al suo tempo, Gesù diede una risposta positiva ed esauriente a queste domande, superando con sicurezza il formalismo deteriore del tardo giudaismo. La coerenza dimostrata in tutte le sue azioni, pubbliche e private, si fondava appunto sull'identità di verità e giustizia, solo grazie alla quale si può salvaguardare la coincidenza degli interessi personali e collettivi. La sua preoccupazione era quella d'indurre gli uomini non tanto a considerare il sabato un giorno qualsiasi, quanto a vivere ogni giorno secondo una logica positiva dell'esistenza, una logica fondata sulla condivisione concreta del bisogno sociale, sulla priorità in ogni momento del fattore umano. Chi vive la vita con questa tensione non ha bisogno di mettersi una maschera (in questo caso il sabato) per nascondere i propri difetti.
Ecco perché Gesù sosteneva che il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Mc 2,27). Ecco perché, in questo racconto, non ha timore, nonostante il divieto della legge, di “ridare” la vita a chi gliela chiedeva. Gesù parla di “salvare” non soltanto di “guarire”: salvare una persona dalla disperazione, non soltanto guarirla da una malattia. Se dopo averla promessa, Gesù non restituisse la vita a quell'uomo che, per ottenerla, ha accettato di esporsi pubblicamente, in realtà gliela toglierebbe, poiché col tempo, di fronte al persistere del male (fisico e sociale), il desiderio di vincerlo verrebbe meno. In effetti, qui è anche in gioco il desiderio di vivere una vita autentica. Sapendo bene a quali difficoltà, rischi e pericoli andava incontro, lasciandosi guarire in quel modo, il malato – dobbiamo supporre – voleva vivere una vita conforme alla volontà del guaritore. Ora, cosa accadrebbe se Gesù, pur potendolo sanare, decidesse di non farlo per timore della reazione delle autorità? Il malato perderebbe solo la possibilità di una guarigione fisica o anche la fiducia in un cambiamento qualitativo delle cose?
v. 5) Ma essi tacevano.
Pur in presenza di una evidente necessità – come lo fu il sacerdote Achimelec nei confronti di Davide, che per sfamare quest'ultimo violò il divieto di consumare il pane sacro dell'offerta (cfr 1 Sam 21,2 ss.) – gli uomini della sinagoga di Cafarnao restano impassibili, completamente immobili. Tacciono perché credono che la domanda di Gesù sia mal posta: temono di contraddirsi. Per loro la risposta giusta non è scontata, per cui la domanda appare ambigua. Dire “il male” infatti non possono, ma se dicono “il bene” prevedono che Gesù replicherà chiedendo il motivo per cui in questo caso lo si vuole accusare.
Dunque la domanda per loro è fuori luogo, è avvertita come un pericoloso tranello. Essi sono convinti di fare già il “bene” di sabato e non riescono a comprendere né ad accettare la diversità del “bene” proposto da Gesù. Si chiedono, in definitiva, la ragione per cui egli non voglia accontentarsi di guarire nei soli giorni feriali, rispettando, come tutti, il precetto festivo. E così tacciono, nella generale indifferenza verso il problema di quell'uomo, strettamente vincolati al loro punto di vista, appoggiandosi vicendevolmente in un odio mortale contro chi vuole anteporre alla necessità della tradizione l'esigenza del rinnovamento.
v. 5) E guardandosi tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: “Stendi la mano!”.
Né in Matteo né in Luca Gesù aspetta la reazione degli astanti: è come se la desse per scontata, talmente scontata che non li guarda neppure con indignazione e/o tristezza. Luca ha voluto conservare solo lo sguardo circolare di Gesù, ma più che altro per dimostrare ch'egli aveva tutte le ragioni di questo mondo per guarire il malato. Cosa che nel vangelo di Marco – abbiamo visto – non era così evidente.
In quali casi l'indifferenza è giusta? Alla luce di quanto fin qui si è detto, si potrebbe essere tentati dal rispondere “mai”. In realtà nessuno si sognerebbe di criminalizzare l'indifferenza quando sono in gioco le idee degli uomini (politiche, culturali, religiose…). In molti casi l'indifferenza non solo è possibile e legittima, ma anche inevitabile, soprattutto quando, in mancanza di altro, non si sa quali antidoti non-violenti usare contro certe forme di intolleranza.
Tuttavia, nel contesto del nostro racconto non sono soltanto le idee (relative alla concezione del sabato) quelle nei cui confronti gli uomini sono chiamati a esprimersi: qui è anche in gioco una vera situazione di bisogno. La pedagogia del Cristo, estremamente concreta, insegnava a non fare dell'astrazione fine a se stessa, ma a porre sempre le idee in relazione a bisogni specifici.
Di nuovo quindi ci chiediamo: quando l'indifferenza è giusta di fronte a una situazione di bisogno, di cui si è in qualche modo consapevoli? (Naturalmente si dà qui per scontato che chi presta assistenza sia in grado di farlo e chi la ottiene disposto a riceverla). Solo in un caso l'indifferenza è lecita: quando è in gioco un bisogno più grande. E anche in questo caso, l'indifferenza nei confronti del bisogno minore sarebbe lecita solo in via temporanea. (Da notare che Gesù non ha qui la preoccupazione di doversi difendere dall'accusa di aver scelto una situazione di bisogno non molto grave per trasgredire il precetto del sabato. D'altra parte se il caso fosse stato “estremo” il problema non si sarebbe neppure posto).
La reazione dei membri della sinagoga non fu quella auspicata da Gesù, anche se poteva essere prevista. In questo versetto Marco sottolinea molto bene i due atteggiamenti emotivi che ha avuto Gesù di fronte al loro silenzio: ira e tristezza. Preoccupato di salvaguardare l'oggettività dei fatti e delle relative valutazioni teoriche, Gesù li guarda “indignato”, manifestando chiaramente la sua disapprovazione. Di fronte a un'evidenza così lampante – egli vuol far capire – la posizione neutrale va qualificata come un'ipocrisia. Intenzionato però a non imporre la sua interpretazione del sabato e disposto a comprendere che l'atteggiamento degli astanti non è naturale ma frutto di un legame distorto con determinate idee, Gesù li guarda “rattristato”.
Ira e tristezza sono due sentimenti che si valorizzano reciprocamente. Senza tristezza, l'ira porterebbe l'uomo a non tenere mai in considerazione alcuna attenuante, a giudicare secondo criteri rigidi e schematici, a confondere “errore” con “errante”. Ma senza l'ira la tristezza rischierebbe l'opposto, e cioè il relativismo dei valori e degli atteggiamenti, fino a giustificare, con l'opportunismo più sofisticato e vergognoso, qualunque idea o situazione.
In effetti, se ci fosse stata solo l'ira, il terapeuta, per restare coerente con le proprie idee, avrebbe dovuto guarire lo stesso il malato, naturalmente non prima d'aver espresso un severo giudizio di condanna. Ma avrebbe anche potuto rifiutare, limitandosi ad accusare i farisei d'essere diventati gli autori morali della disperazione del malato. Mentre se avesse avuto solo tristezza, certo non l'avrebbe guarito in sinagoga o comunque non l'avrebbe fatto di sabato (forse avrebbe addirittura smesso di guarire, temendo il potere degli avversari). Dal canto suo il malato (una volta guarito), se avesse visto soltanto dell'ira, sarebbe forse diventato un fanatico o un estremista del vangelo di Gesù; se invece avesse visto solo tristezza, avrebbe ovviamente perso la fede.
La presenza di entrambi gli stati d'animo fa invece capire l'equilibrio politico-morale del messia-terapeuta, oltre al fatto che il giudizio (espresso qui addirittura in forma interrogativa: “È forse lecito…?”) non aveva pretese di condanna morale. Oggetto di condanna semmai era l'indifferenza, alla quale non si può riconoscere il diritto di auto-giustificarsi di fronte alle situazioni di bisogno. Chi crede che davanti al bisogno sia “naturale” scegliere l'indifferenza, si condanna da solo (a vivere una vita meschina ed egoista). L'importante è che altri abbiano la possibilità di scegliere diversamente.
v. 5) La stese e la sua mano fu risanata.
Quest'uomo non ha detto una sola parola e alla fine del racconto scomparirà letteralmente nel nulla, ma dal suo semplice modo di comportarsi riusciamo a intuire lo stesso qualcosa della sua personalità. Egli ha obbedito due volte agli ordini di Gesù: la prima mettendosi al centro, la seconda stendendo la mano. Per poter obbedire egli doveva aver fede non solo nelle capacità di Gesù ma anche nella giustezza dei suoi ragionamenti: pertanto qui si è fatto un passo avanti rispetto all'episodio del paralitico. In modo particolare, se non fosse stato più che convinto delle ragioni del terapeuta, al secondo ordine – visto l'odio crescente degli astanti – il malato avrebbe potuto non obbedire. Di questo Matteo e Luca non si preoccupano minimamente.
Ma, proprio a motivo del fatto che la fede del postulante era cresciuta in proporzione all'incredulità dei farisei, è difficile parlare di “ordini” o “comandi”. Il malato è andato incontro liberamente alla possibilità di guarire in quel modo, ed è rimasto libero sino alla fine, perfettamente consapevole che l'odio degli astanti non era solo verso Gesù, ma anche verso di lui, che si lasciava guarire di fronte a tutti, come fosse un “complice”. E così sarà per Lazzaro, a Betania, colpevole per i Giudei di aver “accettato” (!) la propria resurrezione (cfr Gv 11,53): questo naturalmente a prescindere dal fatto che in realtà i Giudei odiavano Lazzaro proprio per aver accettato l'alleanza politica coi nazareni.
v. 6) E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.
Al pari dei discepoli del Battista, i farisei criticavano Gesù perché non obbligava al digiuno gli apostoli (Mc 2,18 ss.); ora con gli erodiani si consultano per eliminarlo. Non tramano coi battisti, in quanto, nonostante le assonanze ideologiche, vi erano forti divergenze politiche. Tramano invece con gli erodiani, che per i farisei sono degli avversari sia ideologici che politici. Infatti, il partito collaborazionista degli erodiani (equivalente a quello dei sadducei a Gerusalemme) vedeva in Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea con il beneplacito di Augusto, il messia promesso. Viceversa, i farisei, più fedeli alle tradizioni israelitiche, non riuscivano ad accettare né che Erode svolgesse una politica legata agli interessi di Roma, né che la sua dinastia fosse di origine araba (Erode il Grande, padre dell'Antipa e strenuo persecutore dei farisei, era idumeo).
Perché dunque questa intesa politica? Perché pur partendo da interessi diversi se non contrapposti, entrambi i partiti vedono minacciato il loro potere: istituzionale, quello erodiano; nazional-popolare, quello farisaico. Agli erodiani il rispetto rigoroso del sabato interessa solo nella misura in cui garantisce loro di conservare il potere sugli ebrei della Tetrarchia: non ne fanno una questione di principio (Erode non aveva forse violato la legge mosaica sposando Erodiade?). Dal canto loro i farisei non hanno intenzione di perdere la qualifica di “oppositori” (seppur moderati) del sistema dominante, che sono riusciti ad ottenere dopo decenni di persecuzioni subite. Che fossero degli “oppositori”, lo attesta anche Luca (14,31), allorché afferma che furono proprio loro ad avvisare Gesù che Erode aveva intenzione di ucciderlo.
Tuttavia né Luca né Matteo hanno colto la valenza politica di questa guarigione. Il primo contrappone a Gesù, in maniera classica, gli scribi e i farisei, tacendo sul fatto che a causa di tale guarigione si era chiaramente deciso di farlo fuori (per Luca i veri artefici della morte di Gesù sono i sacerdoti del Tempio): di conseguenza Gesù non ha seri motivi di preoccupazione. Matteo invece contrappone a Gesù unicamente i farisei, limitando la polemica a una questione di carattere morale, sicché alla fine pare alquanto esagerata la loro decisione di eliminarlo. Naturalmente anche qui, come in Mc 3,7, Gesù è costretto a fuggire.
La guarigione di quest'uomo, per concludere, può essere vista come uno spartiacque fra la predicazione ancora libera di Gesù e quella non più tollerata dalle istituzioni. Marco vuole appunto dimostrare come il confronto di Gesù con l'ideologia di alcuni importanti gruppi politici, fosse sin dall'inizio assai aspro. In effetti, chi dispone di potere e non vuole assolutamente perderlo e sa di non avere sufficienti ragioni per far tacere con mezzi legali quanti mettono in discussione la sua credibilità e autorità, davanti a sé non ha molte alternative: l'uso della forza diventa inevitabile. I delitti non vengono commessi solo in presenza di una sicura minaccia, ma anche in via del tutto cautelativa, nel timore che questa minaccia acquisti la fiducia delle masse. L'idolatria del potere (gli erodiani) e quella della legge (i farisei) hanno portato qui alle medesime conseguenze: la differenza sta nel fatto che gli uni giustificano le loro ragioni stando al potere, gli altri stando all'opposizione.
(torna su)4) La devianza del geraseno
(Mc 5,1-20)
MARCO (5,1-20) [1] Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Geraseni. [2] Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. [3] Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, [4] perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. [5] Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. [6] Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, [7] e urlando a gran voce disse: “Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”. [8] Gli diceva infatti: “Esci, spirito immondo, da quest'uomo!”. [9] E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti”. [10] E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. [11] Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. [12] E gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”. [13] Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare. [14] I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto. [15] Giunti che furono da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. [16] Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci. [17] Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. [18] Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui. [19] Non glielo permise, ma gli disse: “Va' nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato”. [20] Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli ciò che Gesù gli aveva fatto, e tutti ne erano meravigliati. |
MATTEO (8,28-34) [28] Giunto all'altra riva, nel paese dei Gadareni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli vennero incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada. [29] Cominciarono a gridare: “Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?”. [30] A qualche distanza da loro c'era una numerosa mandria di porci a pascolare; [31] e i demoni presero a scongiurarlo dicendo: “Se ci scacci, mandaci in quella mandria”. [32] Egli disse loro: “Andate!”. Ed essi, usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci: ed ecco tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti. [33] I mandriani allora fuggirono ed entrati in città raccontarono ogni cosa e il fatto degli indemoniati. [34] Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio. |
LUCA (8,26-39) [26] Approdarono nella regione dei Geraseni, che sta di fronte alla Galilea. [27] Era appena sceso a terra, quando gli venne incontro un uomo della città posseduto dai demoni. Da molto tempo non portava vestiti, né abitava in casa, ma nei sepolcri. [28] Alla vista di Gesù gli si gettò ai piedi urlando e disse a gran voce: “Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio Altissimo? Ti prego, non tormentarmi!”. [29] Gesù infatti stava ordinando allo spirito immondo di uscire da quell'uomo. Molte volte infatti s'era impossessato di lui; allora lo legavano con catene e lo custodivano in ceppi, ma egli spezzava i legami e veniva spinto dal demonio in luoghi deserti. [30] Gesù gli domandò: “Qual è il tuo nome?”. Rispose: “Legione”, perché molti demoni erano entrati in lui. [31] E lo supplicavano che non ordinasse loro di andarsene nell'abisso. [32] Vi era là un numeroso branco di porci che pascolavano sul monte. Lo pregarono che concedesse loro di entrare nei porci; ed egli lo permise. [33] I demoni uscirono dall'uomo ed entrarono nei porci e quel branco corse a gettarsi a precipizio dalla rupe nel lago e annegò. [34] Quando videro ciò che era accaduto, i mandriani fuggirono e portarono la notizia nella città e nei villaggi. [35] La gente uscì per vedere l'accaduto, arrivarono da Gesù e trovarono l'uomo dal quale erano usciti i demoni vestito e sano di mente, che sedeva ai piedi di Gesù; e furono presi da spavento. [36] Quelli che erano stati spettatori riferirono come l'indemoniato era stato guarito. [37] Allora tutta la popolazione del territorio dei Geraseni gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura. Gesù, salito su una barca, tornò indietro. [38] L'uomo dal quale erano usciti i demoni gli chiese di restare con lui, ma egli lo congedò dicendo: [39] “Torna a casa tua e racconta quello che Dio ti ha fatto”. L'uomo se ne andò, proclamando per tutta la città quello che Gesù gli aveva fatto. |
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v. 1) Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Geraseni.Questo è uno dei racconti “terapeutici” di più difficile interpretazione, avendo esso subìto non pochi tagli e aggiunte, da vari autori e in momenti diversi, per quanto il suo significato principale non sia andato perduto. Come al solito la narrazione di Marco è molto vivace, ricca di circostanze e particolari (anche troppi – si direbbe – a giudicare dalle ripetizioni). Arricchita di tratti specifici del rituale esorcistico, essa sembra composta da diverse scene, come un dramma in miniatura.
Il contesto spazio-temporale è facile da individuare. Siamo in un momento particolarmente felice per Gesù: notevole è il suo successo tra le folle galilaiche e non solo tra queste, poiché – dice Marco – vengono anche “dalla Giudea, da Gerusalemme, dall'Idumea e da oltre il Giordano e dai dintorni di Tiro e Sidone” (3,8). Vengono non solo per vederlo agire come taumaturgo (Mc 3,7-10), ma anche per sentirlo parlare come profeta ed eventuale messia (Mc 4,1-34). È diventata talmente grande la sua popolarità ch'egli è costretto a stare nei pressi del lago di Tiberiade, con una barca sempre a disposizione, per evitare che i malati, toccandolo, possano soffocarlo (Mc 3,9 s.). Ed è altresì costretto ad usare le cosiddette “parabole” (cioè il linguaggio allusivo, indiretto, che non usa però con gli apostoli): lo fa per non esaltare le masse, che potrebbero sentirsi indotte ad avanzare richieste incompatibili coi suoi piani e tempi strategici. Ma il linguaggio figurato gli serviva anche per attenuare l'odio degli erodiani e dei farisei che, a causa delle sue guarigioni di sabato, lo volevano “perdere” (Mc 3,6); nonché l'odio degli scribi mandati da Gerusalemme, che lo accusano immediatamente di eresia e stregoneria (Mc 3,22), mentre i parenti di Nazareth lo sospettavano di “pazzia” (Mc 3,21).
Quando Gesù e i discepoli, di notte, si dirigono con le barche verso il paese dei geraseni (Gerasa o Gadara), lo fanno per congedarsi momentaneamente dalle folle e riprendere fiato. Gesù era così spossato – dice Marco – che appena salito su una di esse si addormentò profondamente (4,38).
Luca, a differenza di Matteo, ha rispettato di più la cronologia di Marco, ponendo questo episodio subito prima di quello di Giairo, ma la causa immediata, contingente, dell'attraversata del lago risulta inspiegabile. Matteo invece colloca il brano fra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico, disinteressandosi completamente del rapporto organico di Gesù con le folle, anzi dicendo che “Gesù, al vedere una gran folla intorno a sé, comandò che si passasse all'altra riva” (8,18)! Per cui si ha l'impressione che l'episodio sia avvenuto, rispetto alla diacronia marciana, molti mesi prima.
v. 2) Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo.
La Decapoli era una confederazione ellenistica di dieci città che godevano dell'autonomia comunale, la cui popolazione era prevalentemente pagana. Nel vangelo di Marco questa è la prima regione pagana visitata da Gesù. La zona a sud-est del lago di Tiberiade (che Marco chiama dei “geraseni”) è stata oggetto di contestazione nelle file degli esegeti, in quanto Gerasa (se coincide con quella odierna nella Giordania orientale) si trova troppo distante dal cosiddetto “mare di Galilea”, mentre Gadara, citata da Matteo, pur essendo molto più vicina, non lo è abbastanza per rendere storicamente credibile il racconto. A meno che non si voglia accettare l'interpretazione di Origene, secondo cui la città in questione sarebbe Gergesa, ove addirittura si può scorgere un ripido pendio che giunge fino a 30 metri dal lago.
Qui, appena “Gesù” scende dalla barca, un folle gli si avvicina, come se già lo conoscesse, o forse perché voleva parlare con qualcuno. Le sue intenzioni (diversamente da quel che appare in Matteo) non sembrano essere minacciose, anche perché Gesù non è solo. Si può propendere per l'ipotesi di un precedente incontro, forse quando la malattia era meno grave, ma la grande mole di particolari circa la sintomatologia può essere stata offerta dallo stesso malato, la cui rinomanza doveva comunque essere notevole in quella regione e forse non solo lì (cosa che invece Matteo sembra escludere, avendo sostituito una figura specifica con “due” generiche ed equivalenti).
Ovviamente è da scartare a priori l'idea che fosse un “indemoniato” (Matteo e Luca invece lo dicono esplicitamente). Si tratta di un modo di esprimersi di quel tempo, relativo non solo alla difficoltà di capire certe malattie mentali, ma anche al fatto che le tombe, qui frequentate dall'ossesso, erano considerate “luoghi d'impurità”. Peraltro, è solo nella traduzione italiana che si parla di “possessione”: in greco e persino in latino si lascia semplicemente intendere, con la parola “spirito”, la gravità della malattia. Lo stesso aggettivo “immondo” ha nella nostra lingua un accento molto più moralistico e dispregiativo di “impuro”.
vv. 3) Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, 4) perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo.
Il folle abitava in qualche caverna naturale o artificiale, posta in mezzo ai giardini o ai campi, spesso a fianco d'una montagna. Un posto tranquillo e abbastanza isolato (evidentemente poco frequentato dalla popolazione locale, la quale anzi avrà pensato a questa soluzione per meglio tutelarsi). Si trattava in effetti di un ossesso dotato di forze non comuni.
A partire da adesso, Marco inizierà a fornire, sulle caratteristiche di questa psicosi, una serie di particolari così cospicua che è difficile escludere l'idea di una grande popolarità del soggetto in questione. La descrizione è fra le più drammatiche nel suo vangelo.
Il folle era così esagitato che, pur essendo stato più volte legato, prima ai piedi, poi anche alle braccia, con ceppi e catene, egli aveva sempre infranto gli uni e spezzato le altre. Per questa ragione si era deciso di espellerlo dalla città, relegandolo presso un cimitero. La sua malattia aveva preso un decorso progressivo inarrestabile, diventando sempre più preoccupante.
Nell'originale greco si comprendono meglio le intenzioni di chi lo aveva legato: tenerlo in catene finché non fosse guarito. Per un certo tempo quindi la collettività si era illusa di averlo “domato”; solo dopo l'ultimo insuccesso nessuno aveva più riprovato a incatenarlo.
Nella versione di Luca sembra che il folle abbia scelto spontaneamente di alloggiare nei sepolcri, in quanto rifiutava di vivere “in una casa”; a volte era il “demone” a trascinarlo “nei deserti” (immagine, quest'ultima, assai convenzionale, che non trova alcun riscontro nella versione di Marco).
Nel vangelo di Matteo si stenta addirittura a capire il motivo per cui i “due indemoniati” vivessero nei sepolcri: vien solo detto ch'erano “furiosi”, atteggiamento per cui – si può presumere – gli altri preferivano evitarli.
Ciò che di significativo appare nelle versioni di Matteo e Luca (e che non risulta affatto in Marco) è una netta e totale attribuzione di responsabilità al folle in questione: cioè non si sospetta minimamente che l'atteggiamento dei geraseni possa aver giocato un ruolo di concausa nella formazione e/o nello sviluppo della malattia. L'iter della progressiva marginalizzazione o non appare o è considerato del tutto naturale.
v. 5) Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre.
Questo il comportamento dell'individuo descritto da Marco: continuamente, notte e giorno, con la massima esasperazione, egli vagava tra i sepolcri e sui monti (tra la “morte” e la “vita”, si potrebbe dire), gridando a perdifiato tutto il suo odio per l'esistenza, senza però attentare seriamente all'incolumità di nessuno, in quanto un'altra delle sue caratteristiche fondamentali è quella di “percuotersi” (lacerarsi) con le pietre, cioè di essere un autolesionista, una vittima di se stesso. Non lo avevano recluso perché violento nei rapporti con gli altri, ma per timore che lo diventasse. Più avanti Marco dirà che era anche “nudo”.
Da come Marco lo descrive, sembra che quest'uomo soffra di una forte lacerazione tra il desiderio soggettivo, che è inappagato, e la realtà esterna, oggettiva, giudicata ostile.
vv. 6) Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, 7) e urlando a gran voce disse: “Che hai tu in comune con me, Gesù, figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, per Dio, non tormentarmi!”. 8) Gli diceva infatti: “Esci spirito immondo da quest'uomo!”. 9) E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti”.
Il v. 6 è una chiara ripetizione del v. 2. Sino al v. 9 abbiamo a che fare o con un'aggiunta o con una forte modificazione dell'originale. Se si saltasse dal v. 5 al v. 10 il testo non perderebbe molta coerenza.
Se si tratta di un'aggiunta dobbiamo chiedercene il motivo. E qui si può ipotizzare quanto segue: l'autore doveva essere un cristiano di origine pagana, non solo perché usa – come l'esegesi moderna ha già capito – un'espressione (“figlio di Dio altissimo”) con la quale nell'Antico Testamento i non-ebrei indicavano la divinità suprema (Giove o Zeus); non solo perché usa un'espressione idiomatica esclamativa (“per Dio”) tipica del mondo greco-romano; e non solo perché usa un latinismo (“Legione”) estraneo a Marco; e non solo, finalmente, perché tutta la struttura e la topica di questo dialogato ricalcano pari pari quelle dei racconti ellenistici di esorcismo; ma anche per altre due ragioni, meno tecniche, che gli esegeti tendono a sottovalutare.
Con questa aggiunta l'anonimo redattore sembra abbia voluto sottolineare la gravità della malattia attribuendone la causa ultima o allo stesso infermo di mente o a un'entità superiore alle sue forze. Ovviamente il nome “Legione”, che è di stampo militare, non è stato scelto per far credere in una presenza di “seimila” demoni dentro di lui, ma solo per motivare meglio la grande forza dell'ossesso. Si può quindi dedurre che il manipolatore di questo racconto abbia cercato di conseguire tre obiettivi fondamentali: 1) decolpevolizzare i geraseni dall'accusa di correità morale, 2) misconoscere alle giustificazioni del folle un qualunque valore etico; 3) attribuire la causa della malattia a un'entità extra-storica, la cui forza viene qui accentuata all'inverosimile.
v. 10) E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione.
Se si tratta invece di una modifica sostanziale, questo versetto, che pare conclusivo di un discorso fra Gesù e il malato (fra “l'analista” e “l'analizzato”, si potrebbe dire), ci può offrire la chiave per formulare la seguente ipotesi: il folle deve aver raccontato la sua storia a Gesù, mostrandogli le ragioni del suo comportamento. Gesù, dopo aver compreso il valore (ovviamente relativo) di queste ragioni, deve aver cercato, a più riprese, di convincerlo a cambiare atteggiamento (il malato dunque non sarebbe stato irrecuperabile), finché, visti vani i suoi tentativi, gli avrà proposto di andarsene da quel luogo (almeno temporaneamente), trovando però anche questa volta di fronte a sé un'ostinata resistenza.
Il geraseno era giunto alla follia perché aveva reagito in modo estremamente negativo a una situazione sociale che lui giudicava repulsiva, alienante. Egli esprime la situazione emotiva, nonché la filosofia di vita di chi, non volendosi integrare in un sistema che non accetta, vi si oppone in modo psicotico, cioè senza freni e controlli. Praticamente la sua altro non sarebbe che un'opposizione istintiva, primitiva (meramente individualistica) a una condizione sociale anomala, non presunta ma reale (come sarà lo stesso Marco a evidenziare).
Supponiamo ora che il termine “Legione” non sia stato aggiunto da un redattore incapace di comprendere le cause sociali sottese a un fenomeno come quello della follia, ma sia invece una sorta di identità artificiosa che lo stesso malato si era costruito: quale ne potrebbe essere il significato recondito?
Proviamo ad accettare l'idea che il folle, dotato di una certa intelligenza o sensibilità, si fosse cronicizzato (o desse comunque l'impressione di esserlo) in seguito alla constatazione di un'ampia sfasatura tra la sua consapevolezza del “male sociale”, oggettivo, dell'ambiente circostante, e la sua capacità di trasformazione positiva delle cose; o, se vogliamo, tra la consapevolezza ch'egli aveva di analoghe insofferenze presenti, in forma più o meno latente, in altre persone e l'atteggiamento remissivo, rinunciatario di queste ultime, non disponibili a impegnarsi per modificare la situazione. Che significato potrebbe avere, in tale contesto, un termine come quello di “Legione” se non che erano in “molti” a pensarla come il “folle geraseno”, ma che solo lui aveva avuto il coraggio di manifestarlo (pagando ovviamente di persona)? In tal senso il suo bisogno di restare lì si spiegherebbe coll'esigenza ch'egli aveva di dimostrare qualcosa a qualcuno, e questo “qualcuno” altri non può essere che la cittadinanza di Gerasa, ovvero quella parte di popolazione più soddisfatta della propria esistenza.
Che questa ipotesi sia realistica o del tutto fantasiosa non ha molta importanza: resta il fatto che né Matteo né Luca, a differenza di Marco, sono riusciti a capire il legame genetico (di sfida e di provocazione) che univa il folle al suo territorio. Per loro il dialogo si svolge non tra un malato reale e Gesù ma tra questi e “Legione”: e “Legione” (essendo un complesso di demoni preveggenti) non ha preoccupazioni terrene, connesse alla realtà sociale del presente. In Luca “lo pregavano che non comandasse loro di andare nell'abisso” (8,31), in Matteo gli chiedono: “Sei venuto qua prima del tempo per tormentarci?” (8,29).
v. 11) Ora c'era lì, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo.
La presenza di questa mandria è un altro indizio che ci troviamo in un territorio semi-pagano (la carne di maiale era tabù per gli ebrei). Marco qui non ne specifica il numero.
Il dramma ha cambiato improvvisamente di scena, forse a motivo del fatto che si era determinata una sorta di impasse. Le ragioni dei due interlocutori si erano per così dire assestate in trincea. Soltanto quando il folle getta uno sguardo su quel branco di maiali, la situazione si sblocca e procede in avanti.
v. 12) E gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”.
Il folle, benché nel versetto non appaia chiaramente, deve aver fatto una proposta a Gesù, forse per dimostrargli che il suo attaccamento alla regione era ben motivato. Ma, facendogliela, è anche dovuto scendere a patti, vista la determinazione del terapeuta. La sua richiesta infatti è quella di poter eliminare un branco di maiali offrendo in cambio la propria guarigione. Sembra in sostanza una specie di scommessa. Da come si comporteranno i geraseni di fronte a questo scambio uomo/maiali, Gesù avrebbe dovuto capire la verità di quanto il folle aveva sempre pensato e sempre cercato di sostenere: l'inferiorità morale dei geraseni nei suoi confronti.
v. 13) Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare.
Gesù glielo permise per la curiosità della sfida, per verificare di persona l'attendibilità delle ragioni del folle, ma anche perché si era fidato della sua promessa: quella di voler guarire. Il folle accettò non solo per prendersi una rivincita sui suoi compaesani, dimostrando a una persona autorevole le sue ragioni di vita, ma anche perché sarebbe stato Gesù stesso ad assumersi la responsabilità della strage. Era insomma un'intesa in piena regola.
v. 14) I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto.
Poco importa che non si sia trattato proprio di duemila maiali (il numero anzi pare correlato alla forza del “demone”); quel che conta è come gli uomini reagiscono ai fatti, e qui i fatti sono due: la guarigione e la strage. I mandriani, fuggiti dalla paura (poiché temevano d'essere accusati di negligenza e di dover risarcire il danno), andarono ad avvisare la città e la gente di campagna – dice Marco; ma, se è certa la paura (benché non del tutto giustificabile, in quanto è mancata la verifica della disponibilità di Gesù a sostenere l'esatta versione dei fatti), è improbabile una repentina e vasta notorietà dell'accaduto: Gerasa – come già detto – era a 50 km dalla costa e Gadara (vedi Matteo) a 10 km. Considerando che il racconto ha subìto dei rimaneggiamenti che ne hanno gonfiato il senso, si può presumere, approssimativamente, che i protagonisti dell'episodio (quelli oculari e quelli accorsi subito dopo) siano stati, oltre ai guardiani dei porci, i loro padroni, i discepoli di Gesù e pochi altri. Marco infatti nel testo greco, parlando della “campagna” intende riferirsi a “piccoli raggruppamenti di case”. Viceversa Matteo manda inspiegabilmente i mandriani ad avvisare non tanto i loro padroni di campagna (che potevano – è vero – trovarsi anche in città), ma tutti gli abitanti di Gadara, sicché “tutta la città uscì incontro a Gesù…” (8,34).
v. 15) Giunti che furono da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura.
Qual è la reazione della popolazione locale (la “borghesia rurale”) di fronte alla guarigione del folle? Marco non parla di stupore o di meraviglia, ma piuttosto di “paura” (anche Luca usa lo stesso termine. In Matteo invece i geraseni sono semplicemente seccati, infastiditi).
Alla paura per la strage che i mandriani avevano avuto, ora si aggiunge, da parte di tutti, la paura per quello che secondo loro è un “esorcismo”. Prima avevano paura della follia, ora della guarigione; prima temevano di contagiarsi, ora di ricredersi. L'atteggiamento sembra molto schematico, unilaterale. Il fatto che le cose siano cambiate così all'improvviso, a loro insaputa, li sconcerta, li sgomenta.
Il geraseno ora è “seduto, vestito e sano di mente”: Marco usa dei participi presenti e perfetti per indicare il risultato perdurante dell'azione o del nuovo stato. L'evidenza di questo rassicurante comportamento dovrebbe far capire agli astanti che il “matto” non è più lo stesso, che qualcosa di decisivo è avvenuto dentro di lui, permettendogli di ritrovare la lucidità mentale, la cosiddetta “normalità”.
Certo, è impossibile essere sicuri al 100 per cento della sua integrale riabilitazione: fisica, morale e intellettuale (ma di chi si può esserlo a priori?). Bisognerebbe prima sentirlo parlare, sentirlo esprimere un parere su questa vicenda. La fine dell'ossessione non implica di per sé il recupero dell'obiettiva valutazione delle cose. Tuttavia, i suoi concittadini non sembrano intenzionati a offrirgli questa possibilità: pensano di potersi risparmiare l'attesa di una verifica che per loro sarebbe inutile.
Questo atteggiamento di paura è in realtà facilmente comprensibile. Con una guarigione indipendente dalla loro volontà, la borghesia rurale ha perso il metro di paragone del proprio equilibrio morale e psicologico, la propria legittimità sociale. Nel senso che la mente risanata di quell'uomo non può più testimoniare, indirettamente o negativamente, la “verità” della loro vita, la “giustezza” del loro operato sociale ed economico.
Nelle loro false (perché formali) sicurezze ha fatto breccia la paura non solo per il folle guarito ma anche per il taumaturgo, cioè per la causa di quella inaspettata e sgradita guarigione. Che succede se un folle, ritenuto tale dalla collettività, improvvisamente guarisce con l'aiuto di un estraneo? Succede che la gente comincia ad avere coscienza del proprio limite e della presenza di un'alternativa al proprio sistema di vita, comincia in sostanza a chiedersi se questa diversa opportunità non rischi d'incrinare la facciata della propria monolitica costruzione. Affiorano così le prime imbarazzanti domande: “La malattia di quest'uomo era forse dovuta a un rifiuto motivato della nostra società?”.
Fra l'altro, con la guarigione non era soltanto emersa, inaspettatamente, una critica dell'ideologia dominante. La paura non era sorta solo da questo fatto, ma anche dalle conseguenze ch'esso avrebbe potuto generare, e una di queste era già stata la strage dei maiali. Il “disastro” autorizzato da Gesù, con la complicità del folle (che altri non era stato se non l'ideatore e l'esecutore materiale della strage), si poneva anche a un livello materiale, in quanto, arbitrariamente, era stato compiuto un attentato alla sicurezza economica di quella gente.
v. 16) Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci.
Il “mostro” è rinsavito, non ha più bisogno d'essere legato o tenuto ai margini della società. Qualcuno può testimoniare a suo favore, anzi lo si può addirittura incontrare e parlargli personalmente, senza alcuna difficoltà. Tuttavia nessuno lo fa, sono soltanto i mandriani a fornire ulteriori ragguagli ai presenti: della parola di un ex-folle ancora non ci si fida. Marco fa capire bene nel testo greco che l'appellativo di “indemoniato” (qui usato con l'articolo) era diventato per quella folla un nome proprio e lo era rimasto anche dopo la guarigione.
v. 17) Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.
Se la terapia non avesse avuto un prezzo così alto da pagare, probabilmente i padroni di quei porci non l'avrebbero invitato ad andarsene o l'avrebbero fatto con meno convinzione, con più diplomazia.
Ma così è diverso: un folle risanato (il cui destino non interessava a nessuno) non vale più di un branco di maiali morti. “Perché sta a noi rimetterci” – si saranno chiesti; “che colpa avevamo della sua pazzia?”; “chi ci rimborserà?”. L'ingratitudine è qui figlia legittima della loro grande avarizia. I manipolatori del testo di Marco han forse voluto aggiungere la cifra di “duemila” per rendere più giustificabile questo vergognoso atteggiamento? Se così fosse, vien quasi da pensare che sia stata originata dalla stessa preoccupazione anche l'aver attribuito, da parte di qualche redattore, questo male sociale (l'avarizia) a tutta la città e a tutti i villaggi della campagna circostante. Come noto, infatti, il criterio della maggioranza può rendere meno riprovevoli determinati atteggiamenti.
Ora comunque è chiaro il tipo di falsità che il folle geraseno condannava girando nudo per i monti, il tipo di logica che contestava urlando a squarciagola: era l'ipocrisia dei rapporti umani basati unicamente sul profitto o l'interesse individuale.
Ecco perché spezzava i ceppi e le catene, per dimostrare la sua irriducibile diversità alla rassegnazione dei più, la sua invincibile smania di libertà totale, assoluta, estranea a qualsiasi forma di compromesso, insofferente a qualsiasi forma di coercizione. Ecco perché gridava il suo odio contro l'esistenza, contro l'ambiente in cui aveva trascorso il suo passato e che, ad un certo momento, gli era apparso ipocrita, formale, falso. Correva a più non posso sui monti per essere libero dall'orrenda cupidigia di chi vende se stesso per guadagnare tutto, per essere libero – “nudo” com'era – dagli schemi e dalle convenzioni, dai formalismi e dalle etichette della sua gente.
Egli tuttavia era consapevole anche di un altro fondamentale aspetto: con il suo atteggiamento deviante, egli non aveva ottenuto altro che il disprezzo di chi l'aveva segregato in quel ghetto, la finta compassione di chi aveva gravemente ammalato la propria libertà non nell'eccezione della follia ma, quel che è peggio, nella normalità della vita quotidiana. Ecco perché si martoriava il corpo, si infliggeva da solo i colpi della propria sconfitta. La sua era una follia che lo costringeva ad essere vittima delle sue stesse debolezze: quanto più la sua carica aggressiva pretendeva d'essere convincente, tanto più doveva pagare il prezzo d'una insopportabile emarginazione.
Quest'uomo si era ribellato, nell'irragionevolezza dei suoi pensieri, nell'istintività delle sue emozioni, che pur partivano da un fondo di verità, a un classico esempio di materialismo volgare. Per parafrasare l'anonimo manipolatore del testo si potrebbe dire che in fondo “Legione” aveva visto giusto: di fronte alla prova dei porci, la coscienza dei geraseni si sarebbe rivelata più “immonda” della sua.
v. 18) Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui.
Gesù ha accettato di andarsene: la verità delle cose non può essere imposta, neanche quando sembra evidente. Ma forse qualcosa può ancora ottenere. Se una scommessa è stata persa, se ne può vincere un'altra.
L'ex-folle (Marco usa un participio aoristo per indicare la sua guarigione definitiva) non amava stare con la sua gente: lo si era capito sin dall'inizio. Nella follia pensava d'essersi ritrovato, d'aver realizzato le sue inconsce aspirazioni alla felicità, ma la disperazione, la solitudine e l'autolesionismo dimostravano proprio l'illusorietà della scelta compiuta. Affermando l'io soggettivo secondo una dinamica di mera contrapposizione, al di là di qualsiasi forma di socialità e mediazione, alla fine egli era giunto a odiare se stesso, a non sapersi accettare. Gesù non l'aveva guarito dall'incapacità di “essere”, ma dall'impossibilità di “diventarlo”, liberandolo dal pregiudizio di credere che la cupidigia altrui fosse l'unica fonte del suo male o che il rapporto mercantile fosse unicamente caratterizzato da esosità e speculazione.
Non basta però essere “seduti, vestiti e sani di mente” per dimostrare la propria effettiva guarigione o il superamento delle cause originarie del male: bisogna evidenziare anche coi fatti, con l'azione della propria volontà, che si è capaci di un sano discernimento delle cose, di una condivisione umana del bisogno, affinché i sospetti dei compaesani siano delegittimati, perché privi di motivazioni plausibili. Occorre cominciare da qui, prima di chiedere a Gesù di “restare con lui”. Dopo essersi liberati dai propri deliri e dalla propria regressione narcisistica, occorre liberarsi dal transfert, cioè da quella specie di “culto della personalità” che vanifica la necessità di un'autonomia del paziente in via di guarigione.
Singolare che a Matteo non interessi minimamente il rapporto dialettico di questi due grandi protagonisti.
v. 19) Non glielo permise, ma gli disse: “Va' nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti usato”.
Gesù gli offre una prospettiva di vita nuova, senza strapparlo dal suo ambiente naturale e sociale: lo invita a riprendere il rapporto con gli amici di un tempo e con i parenti, a riconciliarsi con loro, perché è solo facendo comunità ch'egli potrà vincere la situazione conflittuale, antagonistica del suo paese, della sua regione. Appena lo aveva incontrato, Gesù gli aveva proposto di andarsene per ritrovarsi, ora per lo stesso motivo gli propone di restare: la differenza è che ha avuto il coraggio di guarire.
Gesù lo esorta con fiducia a tornare nella sua oikos – dice Marco –, cioè nella sua “abitazione domestica”, per spiegare ai “suoi” il significato del sacrificio dei maiali, ovvero la misericordia del Gesù-Kyrios (titolo che qui va inteso come un equivalente di “maestro” o addirittura di “messia”, tanto è vero che il geraseno era disposto a seguire Gesù come discepolo. Luca stravolge i fatti sostituendo alla parola “Signore” la parola “Dio”). Era un compito minimo per una missione che in futuro avrebbe potuto diventare grande. Da notare che non è così frequente vedere nella tradizione sinottica dei cosiddetti “miracoli” che un risanato riceva un incarico politico di testimonianza e diffusione del vangelo.
v. 20) Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli ciò che Gesù gli aveva fatto, e tutti ne erano meravigliati.
Quest'uomo fece esattamente il contrario di quanto Gesù gli aveva chiesto. Anche Luca se n'è accorto, ma ne addebita la responsabilità alla “poca fede religiosa” del geraseno.
Egli dunque non tornò dai “suoi”, ma andò per la Decapoli; non si limitò a “comunicare” nel piccolo ma pretese di “annunciare” nel grande (ancora una volta voleva tutto e subito); proclamò con vanto ciò che gli era stato “fatto” dal guaritore-Gesù, ma senza sottolineare il messaggio etico-sociale e politico del “messia-signore”; divulgò la notizia della inconsueta terapia, ma non disse nulla della “misericordia”, cioè della gratuità, quella forma di alternativa all'avarizia che un ebreo come Gesù (di tradizione giudaica) aveva evidenziato, in modo pacifico anche se non privo di pathos, a dei pagani sul loro proprio territorio.
La conseguenza di tutto ciò è ovvia: la gente restava “meravigliata”, ma non riusciva a credere. Pur avendo maturato, in virtù dell'alternativa, una diversa “coscienza” delle cose, il geraseno, nella pretesa di veder nascere automaticamente una nuova “esperienza”, era ricaduto nella sua malattia infantile: l'estremismo. “Legione” aveva visto giusto un'altra volta: ben consapevole della singolare avidità di quella gente e della non meno singolare caparbietà di quell'uomo, aveva scommesso, sicuro di vincere, che “l'esorcismo” sarebbe stato completamente inutile.
(torna su)5) L'umiltà dell'emorroissa
(Mc 5,25-34)
MARCO (5,25-34) [25] Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia [26] e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, [27] udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: [28] “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. [29] E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. [30] Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. [31] I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. [32] Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. [33] E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. [34] Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male”. |
MATTEO (9,20-22) [20] Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. [21] Pensava infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. [22] Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita”. E in quell'istante la donna guarì. |
LUCA (8,43-48) [43] Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, [44] gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò. [45] Gesù disse: “Chi mi ha toccato?”. Mentre tutti negavano, Pietro disse: “Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia”. [46] Ma Gesù disse: “Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me”. [47] Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l'aveva toccato, e come era stata subito guarita. [48] Egli le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata, va' in pace!”. |
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v. 25) Ora una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia
Ancora oggi i teologi (ai quali la chiesa, specie quella cattolica, chiede di attenersi il più possibile all'ortodossia o comunque di restare entro i limiti della “decenza”, per non “scandalizzare” le anime semplici) trovano un discreto piacere nel cercare d'individuare i nessi che legano questo brano a quello, concatenato, della figlia di Giairo. Dovendo partire da una lettura forzatamente ipotetica, essi sanno di non aver nulla da rischiare, per cui ogni loro analogia viene accolta come una vera novità in campo esegetico.
La lettura analogica o allegorica, permettendo gli accostamenti più arbitrari, è una vera delizia per quegli ermeneuti che non hanno il coraggio di aprire gli occhi sulla realtà. Diamone qualche esempio: la malattia che colpì la figlia dodicenne di Giairo la portò alla morte; la malattia che da dodici anni affligge questa donna l'ha portata alla disperazione; oppure: la donna, tra la folla, alle spalle di Gesù, rappresenta la fede popolare; Giairo invece, davanti a Gesù e alla folla, rappresenta la scarsa fede del potere politico; e ancora: davanti a Giairo Gesù indugia, davanti alla donna no. E così via, di fantasia in fantasia. Molti secoli fa la leggenda era così di moda che gli esegeti pensarono di battezzare la donna col nome di Berenike (o Veronica, colei che avrebbe asciugato il volto di Cristo sul calvario), considerandola originaria di Cesarea di Filippo.
A noi in realtà non interessa sapere né la vera identità della donna, né se il suo episodio sia accaduto contemporaneamente a quello di Giairo (su questo peraltro ci esprimeremo più avanti). Quel che al massimo si può supporre è che la terapia sia avvenuta in Galilea (la presenza delle folle sembra attestarlo), in un momento particolarmente favorevole a Gesù, e che la postulante sapesse della possibilità di guarire “toccandolo” (come già risulta da Mc 3,10) o comunque pensasse di poterlo fare.
Sin dal primo versetto di questo episodio, Marco inizia a descrivere l'iter clinico della paziente, sulla base di quello che lei stessa, di lì a poco, racconterà. Naturalmente dagli scarsi particolari della malattia è difficile sapere se fosse affetta da emofilia o da qualche altra emopatia (c'è chi parla di “metrorragia acuta”), né la nostra competenza diagnostica è tale da permetterci di avanzare delle ipotesi (la stessa cifra usata per indicare la durata del male potrebbe essere simbolica o approssimata per eccesso). Qui si può soltanto ricordare che, in conformità alle norme del Levitico (15,19 ss.), una donna mestruata o che soffrisse di perdite ematiche, non soltanto era considerata “impura” ma rendeva tali anche gli altri e tutte le cose al solo contatto (al pari, quasi, di una lebbrosa!).
v. 26) e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando,
Più che soffermarsi sul tipo di malattia, Marco si sofferma sul tipo di donna. La quale, a quanto pare, non si era affatto rassegnata alla malattia, anche se aveva speso tutti i beni per trovare un medico più esperto di altri. Marco, usando un'espressione singolarmente dura, lascia intendere che molti medici avessero approfittato della situazione per estorcerle con l'inganno del denaro. Viceversa Luca, che vuole difendere i suoi colleghi medici, si limita a sostenere che la malattia era incurabile.
Tuttavia Marco fa anche capire che la salute della donna era andata peggiorando, in quanto alla insopportabilità del male fisico si era aggiunta l'angoscia di non poterlo più sanare (con tutti i gravissimi problemi di discriminazione sociale che questo avrebbe comportato).
v. 27) udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello.
La fede di questa donna in Gesù si esprime in due modi: 1) ha sentito parlare delle sue terapie, senza probabilmente mai vederlo all'opera, a causa della sua condizione d'impurità; 2) è convinta che in lui esista un potere risanante favorevole di per sé ai bisognosi e così grande che si può trasmettere anche attraverso il “mantello”! Questo secondo aspetto, che rivela il limite della postulante, costituirà un punto di riferimento privilegiato per quei racconti fittizi di contatti terapeutici dei supplici con Gesù (vedi Mc 6,56).
La donna, in effetti, ha una fede superstiziosa e disperata. A motivo del suo tabù sa di non potersi esporre (può stare in mezzo alla folla soltanto perché non era conosciuta); non solo, ma si vergogna di fermare Gesù e di supplicarlo a tu per tu: si sente estranea in quell'ambiente, teme di essere giudicata.
v. 28) Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”.
Questo versetto è chiaramente un'aggiunta: Matteo, sospettando qualcosa, si è limitato a sostituire “diceva” con “pensava”, senza però aumentarne la credibilità. Grazie ad esso infatti l'anonimo redattore invita a credere nella magia e nella stregoneria. Lo stesso Matteo usa deliberatamente il gesto della donna per uno scopo latreutico (il che può anche aver contribuito, in seguito, a promuovere, nell'ambito della chiesa, il cosiddetto “culto delle reliquie”). Negli Atti degli apostoli (5,15) ci si è serviti di questo episodio per inventare la favola dell'“ombra risanante” di Pietro: col che in pratica non si faceva altro che legittimare il culto della sua personalità.
In realtà la grandezza della donna stava nel coraggio di aver trasgredito il divieto della legge, ovvero di essersi opposta alle conseguenze sociali (ormai divenute assurde) che quella norma implicava, pur avendo tuttavia deciso di farlo in modo privato, quasi clandestino, scegliendo una soluzione parziale e riduttiva: appunto la superstizione.
v. 29) E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era guarita da quel male.
La forza della disperazione aveva vinto. Nel testo greco si capisce ancora meglio che senza questa “speranza contro ogni speranza” la donna non avrebbe ottenuto ciò che cercava. Quante volte i medici dicono che se il paziente non vuole guarire non c'è terapia che tenga? E quante volte si sente dire che fin quando non si tocca il “fondo” non si trova il coraggio per rialzarsi?
Se la donna – come dice Marco – ha avvertito “subito” l'istante in cui la malattia spariva, significa che qui abbiamo a che fare con una psicoterapia, cioè con una sorta di “effetto placebo” o di autosuggestione. Un risultato ci fu, e anche a causa del mantello, se vogliamo, ma proprio perché “quella donna”, e non un'altra, lo toccò. Fu proprio la forte intensità del desiderio a trasformare una cosa morta in una cosa viva (in inglese si direbbe wishful thinking). Naturalmente nessuno si era accorto di nulla.
v. 30) Ma subito Gesù, avvertita la potenza ch'era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”.
Questo versetto è stato manipolato, evidentemente, da chi voleva far credere nella divinità o super-umanità del Cristo ed è, come tale, una cattiva interpretazione della dinamica dei fatti. Gesù infatti non si rivolge alla folla perché aveva sentito una dynamis uscirgli, ma – come risulta anche dalla sua domanda – perché qualcuno gli aveva toccato, evidentemente in maniera un po' brusca, il mantello o, come vogliono altre traduzioni, la “veste”. Il fatto gli è parso strano perché non poteva certo pensare a un dispetto da parte di qualcuno della folla che in quel momento lo circondava. Se proprio qualcuno aveva bisogno di qualcosa perché chiederlo in maniera così furtiva?
Non solo, ma l'aggiunta, relativa alla dynamis, finisce con l'interpretare male anche lo stato d'animo di Gesù, il quale certamente non s'è fermato allo scopo di trovare chissà quale fede religiosa, ma semplicemente perché – come si è detto – quel gesto anomalo lo aveva incuriosito. Era chiaro che qualcuno voleva comunicare con lui senza però poterlo fare. E Gesù, essendo di spalle, difficilmente avrebbe potuto individuarlo.
v. 31) I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”.
I discepoli guardano Gesù con occhi attoniti. Per loro la domanda era del tutto assurda, anche nel caso si fosse trattato di un gesto voluto, intenzionale: in mezzo a quella confusione sarebbe stato impossibile rintracciarne l'autore. E si meravigliano che il “maestro” si formalizzi per cose del genere, cui da tempo è abituato. Forse si sentono un po' in colpa per non averlo saputo proteggere al meglio (in qualità di servizio d'ordine), per cui tentano di giustificarsi, senza rendersi conto che Gesù non li avrebbe certo rimproverati, in quel momento, per una mancanza del genere.
v. 32) Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo.
Gesù non si rassegna e, senza dire una parola, si guarda intorno, ma con discrezione, lasciando che dai suoi occhi traspaia non un fare inquisitoriale, ma solo lo stupore o la curiosità per l'inconsueto gesto. Avrebbe potuto soprassedere o fingere di nulla, continuando per la sua strada: forse l'effetto “emostatico” dell'azione non sarebbe venuto meno. In fondo, quante volte si fa del “bene” senza volerlo? Avendo invece intuito il dramma di chi vuole restare in incognito, preferisce attendere che il soggetto si faccia avanti spontaneamente, affinché la fede in lui come taumaturgo proceda verso un'istanza maggiore.
v. 33) E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità.
Immaginiamoci che cosa deve aver provato quella donna mentre Gesù stava in attesa. Evidentemente non si aspettava ch'egli si accorgesse del suo gesto o che gli desse una qualche importanza. Molti lo stavano toccando e in fondo lei non era che una sconosciuta. Per un momento avrà anche pensato che, non riuscendo a individuarla, Gesù se ne sarebbe prima o poi andato: nulla infatti la costringeva a uscire dall'anonimato. Certo è che se avesse deciso di manifestarsi non avrebbe potuto nascondere il proprio gesto né la propria malattia con una bugia. Peraltro l'auto-rivelazione la esponeva al rischio d'una sanzione o di un rimprovero a causa della impurità legale, a motivo della quale non avrebbe dovuto trasgredire il divieto. La tensione dunque, nel suo animo, doveva essere forte.
Ad un certo punto, timens et tremens, venne fuori e raccontò tutto. Con umiltà “gli si gettò ai piedi” e con fede “gli disse tutta la verità”. L'episodio ha potuto essere scritto non perché Gesù s'era fermato ma perché lei s'era decisa a parlare. Se si fa riconoscere “tremando” è perché teme d'essere in qualche modo punita, ma se si fa riconoscere, non essendovi obbligata da niente e da nessuno, è perché spera di non esserlo. Non poteva averne la certezza matematica, perché in questo caso non avrebbe indugiato. Si era semplicemente fidata del fatto che il comportamento di Gesù (tra la folla e con i discepoli) non aveva dato adito, fino a quel momento, a dubbi e sospetti sulla sua “buona volontà”.
La donna, consapevole del rischio di poter tornare malata come prima (eventualità cui andava aggiunta la vergogna di essere stata ripresa pubblicamente), accetta di aver fiducia nella misericordia e nel senso di giustizia di un guaritore intelligente, che saprà capire la drammaticità del caso, nonché l'esigenza di fare un'eccezione alla regola mosaica. Marco precisa che la verità da lei raccontata era “tutta”.
v. 34) Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male”.
La fede non l'aveva semplicemente “guarita” (come vuole Matteo), ma anche “salvata”, e precisamente dall'angoscia di credere d'aver compiuto un'azione illegale, ovvero dal timore di doverne subire le conseguenze. La donna aveva capito che non tutto quanto era illecito per la legge, lo era anche per il Cristo, il quale la chiama “figlia” appunto per toglierla dallo scrupolo di sentirsi una ex-lege. Gesù non premia la fede politicamente incerta e moralmente superstiziosa della donna “clandestina”, ma la fede etica e politica della donna “manifesta”, in quanto le ha riconosciuto ufficialmente il diritto di violare la norma giuridica che la teneva in segregazione. Ed egli lo ha fatto sulla base del principio secondo cui una persona ritenuta “fisicamente impura” (cioè legalmente interdetta) può essere capace, se vuole, di azioni moralmente lecite, al pari di una qualunque altra persona, anzi, a volte può essere capace di giudicare l'iniquità della stessa legge, compiendo azioni più valide di quelle legalmente permesse. In questo senso l'episodio si pone come una diretta conseguenza di quello del paralitico e come un'anticipazione di quello dell'uomo dalla mano inaridita.
La donna, in sostanza, era stata grande non nel momento in cui si era opposta, toccando il mantello, all'emarginazione sociale (poiché aveva fatto questo nel dubbio della colpevolezza e con un gesto magico e furtivo), ma nel momento in cui, uscendo dalla clandestinità, aveva capito che anche per Gesù questa forma di discriminazione andava superata.
Sul fatto che Gesù contesti l'efficacia dell'atto superstizioso proprio mentre assicura all'emorroissa (toccandola, è da presumere) la guarigione, vi sono state delle controversie fra gli esegeti. In effetti, si potrebbe anche pensare che Gesù, dicendo “sii guarita”, volesse semplicemente costatare l'avvenuta terapia (promettendone l'irreversibilità), affinché nessuno nutrisse ancora qualche sospetto sulla confessione di lei e si ostinasse quindi a tenerla emarginata. Ma in tal modo egli avrebbe fatto un torto sia alla donna che alla folla: a questa, perché avrebbe dato per scontato che la maggioranza era scettica; a quella, perché le avrebbe messo in dubbio la confessione. Ha forse bisogno d'essere confermato chi, pur potendolo tranquillamente evitare, senza alcun problema, dice la verità spontaneamente, rischiando, in tal modo e per di più, delle spiacevoli conseguenze? I sospetti della gente che non crede non devono forse dissiparsi da soli?
Una traduzione accurata delle parole con cui Gesù ha congedato la donna, potrebbe essere la seguente: “La tua fede ha reso possibile salvarti”. Ora, se si intende per “salvezza”, alla maniera ebraica, quella integrale della persona (nei suoi aspetti fisici e morali), l'espressione semitica “va' in pace” e quella aramaizzante “sii guarita dal tuo male” devono per forza riferirsi, l'una, al superamento dell'angoscia, l'altra, alla guarigione ematica.
Qui però bisogna intendersi. La donna credeva di potersi salvare (dall'emarginazione) guarendo. Gesù invece ha capovolto i termini: la vera guarigione è stata possibile solo a causa della fede che le ha permesso di salvarsi dal dubbio dell'illegalità. Agli occhi di Gesù la guarigione ottenuta dalla donna con la magia era semplicemente illusoria, come d'altra parte lo sarebbe stata la relativa salvezza, poiché la donna avrebbe sì superato l'emarginazione (fin tanto che durava l'effetto placebo), ma sempre nel dubbio di aver commesso un'azione illecita. Il significato del racconto di Marco vuole invece farci capire che la fede politica della donna aveva permesso a Gesù di sanarla definitivamente, facendola uscire dall'autoinganno della sua fede superstiziosa e mostrando a tutti che l'intenzione di superare il divieto giuridico era più che legittima.
Le versioni di Luca e Matteo sono molto diverse da quella di Marco. Le vediamo solo adesso proprio per questa ragione.
In quella di Matteo, estremamente sintetica, Gesù, appena sente d'essere stato toccato nella veste, si gira e… non dà neppure il tempo alla donna di nascondersi tra la folla: d'altra parte una persona che ha “fede” non può sfuggire o passare inosservata al “figlio di Dio”! La folla peraltro non sembra neanche presente: cosa che, se fosse vera, renderebbe del tutto incomprensibile la tattica scelta dalla donna.
L'emorroissa di Matteo viene premiata da Gesù proprio per la sua fede superstiziosa! Gesù rende pienamente manifesto e legittimo ciò che la donna si era limitata soltanto a “pensare”. E che Matteo non contraddica l'idea magica della donna, lo dimostra un'altra sua affermazione, detta in un contesto diverso: “e lo pregavano di poter toccare almeno l'orlo del suo mantello, e quanti lo toccavano guarivano” (14,36).
Ma si ha anche l'impressione, leggendo il suo racconto, che la guarigione non sia dipesa tanto dalla fede magica della donna (un credente direbbe “religiosa”, essendo qui in causa lo stesso Gesù), quanto dal riconoscimento esplicito che le fa Gesù, il quale, nel mentre la rassicura sulla liceità “morale” del gesto, decide di premiarla, garantendole definitivamente la guarigione.
In altre parole, Matteo, che è generalmente scettico sulle capacità umane di bene, preferisce far vedere che senza il consenso di una “forza superiore” (in questo caso il “superuomo-Gesù”) i postulanti non potrebbero ottenere ciò che desiderano. Matteo insomma elimina tutto il dramma psicologico della donna e tutto il contenuto innovativo del suo dialogo col messia: a lui non interessa evidenziare il fatto che la donna, uscendo dalla clandestinità, aveva compiuto un gesto coraggioso, politicamente significativo per quel tempo. La fede dell'emorroissa è quella in Gesù come “guaritore grande e buono” e, in tal senso, la tipologia del racconto è alquanto convenzionale e la pretesa apologetica di Matteo si esprime nella forma consueta del paternalismo.
La versione di Luca è più complicata ma non meno inverosimile. Appena toccato, Gesù si volta, chiedendo chi sia stato. La folla nega di avergli voluto fare del male intenzionalmente. Pietro e gli altri discepoli giustificano la possibilità di un incidente, dicendo che la folla è numerosa, e si meravigliano che lui non comprenda la situazione. Ma Gesù insiste, e per non apparire un formalista o un eccentrico, dichiara che una “potenza” gli è uscita. In tal modo Luca convalida la giustezza morale del gesto superstizioso e presenta il terapeuta come un “superuomo”.
A questo punto la donna, “vedendo che non era rimasta inosservata” (8,47), cioè che non poteva rimanere nascosta, confessa la verità davanti a “tutti”. La folla, per Luca, è “credente” quasi quanto il Cristo. Infatti, come prima essa aveva protetto la donna, convinta che non avesse fatto nulla di male, così ora, con uno sguardo persuasivo, la invita a manifestarsi, avendo intuito che Gesù non vuole castigarla ma soltanto conoscerla.
Secondo Luca l'emorroissa è una donna di fede senza saperlo, è una credente di categoria leggermente inferiore a quella della folla: ecco perché si presenta davanti a Gesù “tremando”. Non rendendosi conto che solo con la fede poteva sottrargli una “potenza”, teme d'essere rimproverata per averlo fatto in maniera furtiva (in Marco, al contrario, lei non avrebbe dovuto farlo in alcun modo, a causa della sua “impurità”).
Alla fine del racconto di Luca, Cristo premia la fede “manifesta” della donna, quella con cui essa aveva potuto “salvarsi” dal dubbio d'aver commesso un'azione illecita. L'altra fede, quella per cui aveva ottenuto la guarigione, non ha bisogno, per Luca, di alcun riconoscimento. La donna, in fieri, era già cristiana.
(torna su)6) L'arroganza di Giairo
(Mc 5,21-24.35-43)
MARCO (5,21-24.35-43) 21] Essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. [22] Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi [23] e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. [24] Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. [35] Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. [36] Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. [37] E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. [38] Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. [39]Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. [40] Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. [41] Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. [42] Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. [43] Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare. |
MATTEO (9,18-19.23-26) [18] Mentre diceva loro queste cose, giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà”. [19] Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli. [23] Arrivato poi Gesù nella casa del capo e veduti i flautisti e la gente in agitazione, disse: [24] “Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme”. Quelli si misero a deriderlo. [25] Ma dopo che fu cacciata via la gente egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. [26] E se ne sparse la fama in tutta quella regione. |
LUCA (8,40-42.49-56) [40] Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui. [41] Ed ecco venne un uomo di nome Giairo, che era capo della sinagoga: gettatosi ai piedi di Gesù, lo pregava di recarsi a casa sua, [42] perché aveva un'unica figlia, di circa dodici anni, che stava per morire. Durante il cammino, le folle gli si accalcavano attorno. [49] Stava ancora parlando quando venne uno della casa del capo della sinagoga a dirgli: “Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro”. [50] Ma Gesù che aveva udito rispose: “Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata”. [51] Giunto alla casa, non lasciò entrare nessuno con sé, all'infuori di Pietro, Giovanni e Giacomo e il padre e la madre della fanciulla. [52] Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: “Non piangete, perché non è morta, ma dorme”. [53] Essi lo deridevano, sapendo che era morta, [54] ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: “Fanciulla, alzati!”. [55] Il suo spirito ritornò in lei ed ella si alzò all'istante. Egli ordinò di darle da mangiare. [56] I genitori ne furono sbalorditi, ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto. |
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v. 21) Essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare.
Qui due cose si possono facilmente notare. Anzitutto la differenza di atteggiamento da parte delle folle: nella Decapoli i ceti benestanti, dopo la guarigione del pazzo geraseno, l'avevano sollecitato ad andarsene; qui invece lo stimano, anzi lo esaltano, tanto che fra non molto, cioè al momento dei pani moltiplicati, lo riconosceranno ufficialmente come messia, seppure con l'esigenza nazionalistica di restaurare il regno davidico.
In secondo luogo si comprende, da questo versetto, come l'interesse della folla galilaica non fosse unicamente indirizzato alle capacità taumaturgiche di Gesù, ma anche ai suoi discorsi, al suo “nuovo insegnamento” – dice Marco (1,27); per quanto forse non nella misura idealizzata intesa da Luca, per il quale la folla “stava ad aspettarlo” lungo la riva (senza poter sapere, ovviamente, quando sarebbe tornato). Senza dubbio però la folla descritta da Marco non teme il giudizio di condanna già emesso dagli scribi di Gerusalemme, mandati dalle autorità sinedrite a controllare la situazione (Mc 3,22), anzi, fa mostra di volerlo proteggere sia contro costoro che contro gli stessi parenti di Gesù, venuti da Nazareth a prenderlo (Mc 3,21).
Tipologia, questa della folla galilaica, che Matteo rifiuta decisamente. Il suo Gesù, dopo aver litigato con gli scribi in occasione del paralitico guarito, dopo aver polemizzato con i farisei (nella casa dello stesso Matteo) e con i battisti (durante o subito dopo il famoso pranzo offerto dall'apostolo neo-convertito ai “molti pubblicani” suoi amici – gli esattori delle tasse – e a gente che l'opinione dominante considerava di “cattiva reputazione”), il suo Gesù – si diceva – incontrerà il postulante di questo racconto (che Matteo neppure ricorda per nome) mentre è ancora intento a discutere con pubblicani e peccatori, farisei e battisti sul “puro” e l'“impuro”, sulla “misericordia” e il “sacrificio”, ovvero sulla giustizia sostanziale e formale. Nella sua versione, l'unica folla che appare sono i parenti del postulante. Matteo insomma, che per il mestiere che faceva era considerato una specie di “traditore”, avendo voluto scrivere un vangelo contro gli ebrei, cercando di dimostrare che Gesù era il messia di cui loro avevano bisogno, non ha mai saputo liberarsi pienamente dai suoi personali rancori. Naturalmente la tradizione che ha voluto ispirarsi alla sua opera (non dimentichiamo che il vangelo aramaico di Matteo è andato perduto), non ha fatto altro che accentuare il suo antisemitismo.
Viceversa, Marco è un po' più distaccato nei suoi giudizi, anzi qui è addirittura poetico. Quando dice che Gesù se ne “stava lungo il mare”, cioè nei pressi del lago di Tiberiade o di Gennesareth, fa venire in mente che proprio qui avvennero i contatti più significativi fra Gesù e la popolazione locale, le esperienze pubbliche più impegnative (in terra galilaica). Stando sempre a Marco (ma Giovanni smentisce o quanto meno non conferma) è stato proprio “lungo il mare” che Gesù chiamò alla militanza attiva apostoli come Andrea, Pietro, Giacomo, Giovanni e lo stesso Matteo.
v. 22) Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi
Non tutti i sacerdoti o gli scribi della Palestina rifiutavano Gesù. È vero che i vangeli non si preoccupano granché di documentarlo, ma non si deve dimenticare ch'essi sono stati scritti per addossare agli ebrei le maggiori responsabilità della morte di Gesù e per dimostrare ai Romani la lealtà politica dei cristiani. Con ciò, tuttavia, non si vuole sostenere che il postulante di questo episodio sia stato favorevole alla causa di Gesù.
Qui “uno dei capi della sinagoga” (Matteo dice di Cafarnao), preposto alle funzioni religiose, si avvicina a Gesù, mentre questi parla alla folla, per chiedergli un intervento di tipo terapeutico. Quale tipo di “consapevolezza” lasci supporre un atteggiamento del genere, è presto detto. Anzitutto Giairo sa di avere a che fare con un grande taumaturgo, altrimenti ora non rischierebbe di esporsi così tanto, lui che, probabilmente, condizionato com'è dal ruolo che ricopre, non è un suo seguace, anzi, semmai un suo diretto avversario (per quanto soggettivamente possa condividere alcuni aspetti della sua causa). In secondo luogo, Giairo, che non può non conoscere Gesù anche come leader politico, sa perfettamente ch'egli non è più disponibile a fare guarigioni fini a se stesse: altrimenti non gli si sarebbe prostrato ai piedi. In terzo luogo, Giairo, mettendosi pubblicamente in ginocchio davanti a Gesù, pur avendo scelto un momento sbagliato (poiché ha interrotto un'attività più significativa), spera d'ottenere lo stesso ciò che desidera, a motivo della nuova situazione ch'egli, in quanto archisinagogo, è venuto a creare. In altre parole, se da un lato Giairo non ha tenuto conto del proprio ruolo, inginocchiandosi davanti a un ebreo gerarchicamente inferiore e politicamente addirittura ostile, dall'altro invece ne ha tenuto conto, in quanto l'ha fatto pubblicamente, sperando di mettere Gesù nella condizione di non poter rifiutare.
Gesù in effetti dovrà decidere se offrire una proroga al tempo in cui il postulante può giungere al vangelo passando per le guarigioni, o se considerare questo tempo già definitivamente concluso. Trattandosi, in questo caso, di un'autorità religiosa, del cui appoggio egli poteva sempre aver bisogno, c'era, almeno in teoria, un motivo in più per non formalizzarsi. Ma sul piano etico e politico le cose non erano così semplici.
v. 23) e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”.
Il fatto che preghi “con insistenza” sta non solo ad indicare la gravità della situazione, ma anche che Giairo cerca di avvalersi del proprio ruolo. Peraltro, da quello che dice è facile osservare come egli sia unicamente interessato a ottenere la guarigione della figlia. Il suo atteggiamento infatti non è solo strumentale (poiché s'interessa di Gesù solo nel momento del bisogno), ma anche superficiale, in quanto priva le guarigioni di Gesù del loro contenuto socio-politico. Lo si comprende dal tipo di terapia che gli suggerisce: l'imposizione delle mani (una pratica usata fin dall'antichità per indicare la guarigione degli infermi – cfr 2 Re 5,11). Con ciò Giairo sottovaluta Gesù sia come politico che come guaritore, nel senso che lo considera sì “grande” ma non al di là della tradizionale concezione di “taumaturgo” (quale mago, evocatore, teurgo…). Ecco perché Gesù, pur sapendo che la figlia era “agli estremi”, lo ha lasciato insistere nella supplica.
Davanti all'apparente indifferenza con cui Gesù ascoltava la sua richiesta di guarigione, Giairo avrebbe dovuto capire sostanzialmente due criteri di priorità: 1) il primato delle esigenze degli oppressi su quelle degli oppressori (non perché lui è un archisinagogo può pretendere un'immediata soddisfazione); 2) il primato del vangelo sulle guarigioni (se questo è vero per gli oppressi, tanto più lo è per gli oppressori). Viceversa, Giairo non solo è rimasto insensibile a queste motivazioni etico-politiche, ma non ha neppure compreso il semplice criterio di equivalenza delle malattie, che Gesù da tempo aveva evidenziato con la sua notevole attività pranoterapica.
Anche quando è il “potere” a supplicarlo di un favore, Gesù non può fare preferenze, non può concedere delle deroghe di questo tipo ai suoi princìpi, neppure nel caso di una grave malattia. Il precedente che si costituirebbe potrebbe procurargli in futuro dei fastidi molto più grandi del vantaggio che ora può ottenere. Che penserebbero i discepoli nel vederlo rispondere con solerzia alle esigenze di chi comanda e di chi collabora, più o meno, con Roma? Un'eccezione alla regola sarebbe possibile se il postulante si aprisse alla fede, ma Giairo, in tal senso, non sembra offrire una vera disponibilità, per quanto con la sua pubblica prostrazione egli, da un lato, pare abbia capito le difficoltà politiche di Gesù nell'affrontare il suo caso, e dall'altro abbia sicuramente rischiato, in qualche modo, un richiamo da parte dei colleghi: cosa di cui lo stesso Gesù deve essersi reso conto, poiché se lo lascia insistere significa che non era del tutto disinteressato alla sua supplica, né voleva metterlo in una situazione imbarazzante congedandosi da lui.
Leggendo Luca e Matteo si ha una ben altra impressione della personalità di Giairo. Nel vangelo di Luca, Giairo merita la guarigione per motivi squisitamente “morali” – com'è nello stile dell'evangelista: la figlia è “unica” e appena “dodicenne” (informazione, quest'ultima, presa da Marco), per cui non c'è insistenza nella preghiera e Gesù reagisce subito positivamente. Si ha addirittura l'impressione che la prostrazione sia una conseguenza del fatto che Giairo aveva per Gesù un'altissima considerazione. Cosa che in Matteo appare ancora più evidente, poiché Giairo, essendo la figlia “già morta”, è sicuro che gliela risorgerà! Comportandosi già come un “buon cristiano”, Giairo non trova difficoltà a credere nel Gesù-rianimatore, benché il suo caso fosse senza precedenti. Ovvero, in Matteo Giairo non giunge alla fede passando per la disperazione, ma si serve della propria fede per chiedere quanto gli sembra del tutto naturale. Secondo Marco invece i postulanti sono generalmente individui di poca fede, mentre i veri “credenti” (come ad es. gli apostoli) non chiedono mai delle guarigioni (l'unico caso è quello della suocera di Pietro – Mc 1,30 s.).
v. 24) Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
La reazione di Gesù, in Marco, è positiva, ma senza entusiasmo. Egli spera che tramite la soddisfazione di un'esigenza secondaria (la salute fisica), Giairo giunga a comprendere la necessità di soddisfare le esigenze che l'uomo dovrebbe considerare come primarie (la liberazione sociale), ovvero giunga a comprendere la sostanziale differenza tra essere e vivere. Ovviamente Gesù non ha intenzione di servirsi della guarigione per indurlo a mettersi dalla sua parte: egli accetta di guarirlo prima ancora che Giairo manifesti un qualche interesse per il vangelo.
Probabilmente Gesù si convince a intervenire anche per non scandalizzare la folla, la quale, pur sapendo che Giairo non ha fiducia nel vangelo (almeno pubblicamente), può aver giudicato come eccessivo – considerata l'estrema gravità della situazione – l'attendismo di Gesù. La folla anzi pare eccitata al vedere un caposinagoga abbassarsi a quel livello e ha tutto l'interesse a che venga confermata, da parte di un esponente così autorevole della comunità, la propria adesione al Cristo.
v. 35) Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?”.
Qui bisogna anzitutto premettere che all'interno di questo racconto, Marco (o un secondo redattore) ne ha inserito un altro, quello dell'emorroissa. Il motivo di questa insolita interpolazione (accettata anche da Luca e Matteo) non è facile capirlo. Si può però ipotizzare – senza andare a scomodare le analogie simboliche, come generalmente fanno gli esegeti – che alla comunità cristiana primitiva sia parso inaccettabile che la morte della figlia di Giairo fosse dipesa da una colpevole lentezza di Gesù. Se infatti si toglie il brano interpolato, l'espressione del v. 35: “Mentre ancora parlava”, non ha come interlocutore l'emorroissa ma lo stesso Giairo. In altre parole: nella versione originaria di questo racconto probabilmente si capiva meglio che le “cause di forza maggiore” che avevano indotto Gesù a posticipare l'intervento, non riguardavano tanto l'incontro fortuito con l'emorroissa, quanto piuttosto l'esigenza di salvaguardare l'immagine politica del suo vangelo, che Giairo ovviamente non poteva condividere in quel momento. Questa decisione deve aver scandalizzato non poco una comunità in procinto di spoliticizzarsi e di legarsi ad una concezione moralistica o spiritualistica del Cristo quale “maestro di vita”, “signore”, “figlio di Dio”, ecc. Matteo – come già detto – taglierà corto, nel suo vangelo, con questa forma di scandalo, mostrando, da subito, che Gesù era in grado di resuscitare quella ragazzina.
E comunque non è molto importante sapere se i due episodi siano avvenuti proprio così o no. Ciò che conta è il fatto che “mentre Gesù ancora parlava” vengono a riferire a Giairo che la figlia era morta. Non è Gesù a testimoniare la realtà di questo decesso, né a dissuadere l'archisinagogo dal continuare a supplicarlo. Non avendo egli mai fatto “risorgere” nessuno prima di questo momento, è ovvio che la folla (in questo caso i parenti di Giairo) abbiano dei dubbi sulle sue capacità. Lo stesso Giairo, se fin dall'inizio – con buona pace di Matteo – si fosse trovato al cospetto di una figlia morta, non l'avrebbe certo scomodato. E anche adesso che è venuto a saperlo, potrebbe benissimo rinunciare al proposito di condurlo a casa sua: Gesù è conosciuto e apprezzato come taumaturgo (oltre che come profeta), non come “resuscitatore di morti”: un suo fallimento potrebbe costar caro a Giairo.
Tuttavia, qui c'è qualcosa di fastidioso, di poco edificante, anche se può sembrare sintomatico dell'atteggiamento che i ceti benestanti, in genere, avevano nei confronti di Gesù. I parenti (non i servi) di Giairo, in effetti, non si sono limitati a una semplice constatazione di fatto, dicendo che la figlia era morta, ma hanno anche voluto esprimere un giudizio di valore negativo sulle capacità di Gesù (che pur riconoscono formalmente come “maestro”). Chi li aveva autorizzati a questo? Con quale diritto si sono presi la responsabilità di togliere a Giairo l'ultima speranza? Non doveva forse essere il guaritore, eventualmente, a disilluderlo?
v. 36) Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”.
Gesù lo esorta a non disperare, soprattutto adesso che molto forte è diventata la tentazione di maledire un guaritore apparso “lento di riflessi”, tardo nelle decisioni, schematico nelle sue “scelte di classe”… In realtà Giairo viene invitato a superare proprio quella concezione tradizionale della natura umana che ritiene impossibili o irrealizzabili determinate azioni. Ovvero a credere che tutto è possibile, se si ha fede non in un Dio astratto e impotente, ma nell'uomo concreto, capace di coerenza. Nella fattispecie Giairo deve continuare ad aver fede nei poteri del taumaturgo, sebbene l'evidenza possa indurlo a fare il contrario.
Gesù infatti non ha affermato che la constatazione del decesso è falsa, non ha contraddetto i testimoni oculari: ma non ha neppure lasciato intendere ch'essa fosse vera. È in questa incertezza che si gioca la fede di Giairo, il quale – ora che la situazione è mutata – anche se ha meno da perdere nei riguardi della figlia, sa di rischiare moltissimo di fronte ai suoi colleghi: un taumaturgo (peraltro “eretico” come quello) che fallisse nel tentativo di rianimargli la figlia, metterebbe in discredito la sua autorevolezza, comprometterebbe sia la sua reputazione (e la carriera) sia la credibilità della direzione sinagogale. Facilmente egli poteva immaginarsi con quali frasi l'avrebbero accusato: “Come ha potuto un uomo saggio e avveduto come te fidarsi della parola di un impostore?”. Dunque la fede che Giairo deve avere in questo momento è molto più grande di quella che aveva avuto poco prima.
Da notare, infine, che in Marco i latori di quella tragica notizia sono almeno un paio, in Luca invece è uno solo, al quale Gesù “sembra” addirittura rivolgersi invitandolo ad aver fede (mentre Giairo ovviamente l'aveva già!). Peraltro, in Luca Gesù promette chiaramente la resurrezione, in quanto conferma il decesso della bambina dicendo che la “salverà”.
v. 37) E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Non lo permise appunto perché non avevano una “fede” matura, cioè non avevano quella fede sufficiente a ridimensionare l'importanza di terapie del genere ai fini della liberazione politico-nazionale. Egli in sostanza teme che la folla si entusiasmi al punto da comportarsi poi in maniera infantile, difficilmente controllabile. Non è che si lamenti del fatto che qui la folla crede più in lui come “taumaturgo” (cui da tempo era abituata) e non anche come “rianimatore di cadaveri”. Non era questa la fede di cui aveva bisogno. Sono gli esegeti confessionali, malati di “culto della personalità”, che solitamente interpretano la poca fede della folla nel senso ch'essa non credeva sino in fondo che a lui e solo a lui “tutto era possibile”. Le guarigioni non venivano fatte per dimostrare una qualche “sovrumanità”, ma per indicare all'uomo le infinite potenzialità che lo caratterizzano.
Gesù qui permette che siano solo i tre apostoli più fidati a seguirlo non tanto perché spera che la loro fede si irrobustisca davanti a questa nuova grande manifestazione “bioradiante”, quanto perché grazie alla loro riservatezza potrà evitare una fastidiosa popolarità. Se Giairo ha capito il senso di questa scelta oculata, deve aver anche intuito che le intenzioni di Gesù erano serie.
v. 38) Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava.
La seconda prova dell'avvenuto decesso della bambina è offerta dalla presenza, allora consueta, di lamentatrici (e “flautisti”, aggiunge Matteo). Nel testo greco si capisce meglio la presenza dei vicini di casa, dei parenti e dei familiari più stretti, oltre alle piangenti di mestiere. Marco ha voluto sottolineare con cura gli indizi e i particolari più significativi.
v. 39) Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”.
Gesù non voleva semplicemente denunciare l'ipocrisia di un pianto funebre a pagamento (usanza forse tipica delle classi agiate), ma voleva anche verificare il tipo di reazione degli astanti ad una sua affermazione apparentemente senza senso. È evidente che se Giairo avesse chiesto il favore quando Gesù era appena agli inizi della sua attività terapica e tutti avessero ascoltato un paradosso del genere, l'atteggiamento irrisorio degli astanti sarebbe stato del tutto legittimo. Qui tuttavia è diverso. S'egli ha potuto essere così provocatorio, sfidando l'unanime opinione, è stato proprio perché sapeva d'essere conosciuto e da molti stimato come “grande taumaturgo”. Quindi la reazione che si aspettava non era quella categorica dell'incredulità (altrimenti non ci sarebbe stata una prova da superare), ma almeno quella sospensiva dello stupore, in quanto, conoscendolo, era meglio non giudicare le sue parole prima del tempo.
In effetti qui le alternative sono due: o Gesù è un pazzo, perché non sa quello che dice (e c'è semmai da meravigliarsi della fiducia di un Giairo-archisinagogo, mentre si può comprendere la sua riluttanza, come “padre”, ad ammettere l'evidenza del decesso); oppure, se Gesù sa quello che dice, bisogna attendere che lo dimostri, come ha già fatto in altre occasioni. Naturalmente egli sperava che gli astanti scegliessero la seconda soluzione. Se soltanto l'avessero fatto, lui, sostenendo di fronte a chi non ne era convinto, che la bambina dormiva, forse avrebbe anche potuto dimostrare che la morte è diversa da come generalmente appare, meno orribile di quel che sembra: un fenomeno inerente e non antitetico alla vita. Viceversa, non avendo ottenuto fiducia, che cosa riuscirà a dimostrare a quella gente scettica e prevenuta: che la terapia è una semplice esercitazione di poteri sciamanici, oppure ch'essa, come tutte le altre, ha un significato prolettico, propulsivo, teso verso una liberazione molto più grande?
v. 40) Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina.
La terza prova della morte della bambina sta in questa derisione. Invece di tacere e aspettare, lo accusano. Neppure la curiosità li trattiene dal dileggiarlo. Gesù non solo, per costoro, è un pazzo che non sa quel che dice, ma anche un impostore, crudele e sadico, perché vuole illudere i genitori in un momento così tragico. Essi così si prendono la responsabilità di togliere a Giairo e a sua moglie anche l'ultima speranza.
Ecco perché Gesù è costretto a cacciarli tutti fuori (facendolo di persona!). Se avesse permesso a questa gente di assistere alla rianimazione, che per loro sarebbe stata spettacolare, molti sicuramente, non prima d'essersi scusati per averlo irriso, ne avrebbero approfittato per chiedergli cose analoghe, oppure per indurlo, sul piano politico, a compiere scelte affrettate o non desiderate. Altri invece, dopo aver ammesso il proprio errore circa la morte della bambina, avrebbero condiviso la versione di Gesù relativa al “sonno” della bambina, accettando, con passività e rassegnazione, la “solita guarigione di una malata”, senza cogliere in questa “insolita rianimazione di una deceduta” (offerta a un esponente dei ceti benestanti) il suo carattere segnico. Ecco perché Gesù tenne con sé, oltre agli apostoli, i genitori della bambina, che non si erano associati al pubblico scherno.
La versione di Luca, a causa del suo moralismo, è più idealizzata e quindi meno attendibile. Arrivati alla casa di Giairo, Gesù – dice Luca – “non lasciò entrare nessuno con sé, tranne Pietro e Giovanni [Giacomo, che al tempo di Gesù, era non meno importante di Giovanni, è sparito!], unitamente al padre e alla madre della fanciulla” (8,51). La folla cioè, inclusi i latori che avevano annunciato la morte della ragazza, seguì Gesù sino alla casa di Giairo ed è solo qui che viene da lui congedata, con un certo fair play. Una volta entrato in casa, Gesù incontra i parenti e gli amici di Giairo che “piangono” e si “lamentano” (il personale specializzato non c'è); dopodiché egli afferma il paradosso del dormiveglia, ottenendone in cambio scherni e beffe; infine, senza cacciare nessuno, ma anzi giustificando in un certo qual modo la derisione, decide di risvegliarla. Come si può facilmente notare, Luca ha attenuato i lati duri (in realtà giusti e necessari) della personalità di Gesù, facendogli chiaramente un torto sul piano etico e politico.
La versione di Matteo è ancora peggio. La folla – come già detto – non esiste, né i latori, in quanto la bambina è già morta. I discepoli non sono citati per nome. Gesù, dubitando in anticipo della fede dei parenti, ne chiede l'espulsione prima ancora di pronunciare il paradosso della morte apparente e quindi prima ancora che lo irridano. Con un atteggiamento così prevenuto egli dovrà poi guarire la bambina in assenza di testimoni oculari.
v. 41) Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”.
Giairo gli aveva chiesto di porre le mani sul capo di lei, avendo in mente una concezione tradizionale (e politicamente inoffensiva) del guaritore. Gesù invece “la prende per mano”, con molta naturalezza, senza usare strumenti magici, né formule o scongiuri particolari e soprattutto senza invocare il soccorso divino (ciò che ha scandalizzato Luca, che non ha resistito alla tentazione di descrivere la rianimazione come un “ritorno dello spirito in lei”). Alcuni esegeti sostengono, peraltro giustamente, che l'espressione aramaica è stata messa per dare storicità e concretezza al racconto e che proprio la traduzione greca di Marco esclude che si debba credere in una sua presunta potenza magica.
v. 42) Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore.
La guarigione è immediata e totale, come spesso accade in questi racconti: lo attesta il fatto che la bambina può “camminare”. “Essi [soprattutto i genitori, ma anche i discepoli] furono presi da grande stupore” – dice Marco: è da presumere non solo per l'evento in sé, ma anche per il “modo” in cui era accaduto. Gesù mostrava un'assoluta padronanza di sé, nella più totale assenza di riferimenti alla divinità (in contrasto con le modalità terapeutiche di allora).
Lo stupore di Giairo (che non dimentichiamo è un'autorità preposta al culto religioso) è del tutto normale, anche se, pur essendo un di più dell'incredulità, resta un di meno della fede.
v. 43) Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
Gesù “insiste” (come faceva Giairo al momento della supplica) non per aver costatato, dopo la rianimazione, un atteggiamento di scandalo o di paura, ma per aver costatato un semplice atteggiamento di stupore. Che qui manchi, da parte di Giairo, una chiara ed esplicita adesione al vangelo, lo si comprende anche dal fatto che Gesù non s'intrattiene con i genitori della bambina per parlarne: peraltro, dopo questo episodio, di Giairo, attraverso i vangeli, non sapremo più nulla.
Gesù – scrive Marco – deve pregarli con insistenza di non raccontare a nessuno quanto è veramente accaduto. Nessuno infatti dovrà sapere che la ragazza era morta per davvero. Secondo l'opinione di Gesù, espressa pubblicamente, si trattava di una morte apparente o di un sonno profondo (“comatoso”, diremmo oggi). Era in questo che la gente doveva credere e, seppure con qualche difficoltà, vi avrebbe creduto, se i testimoni oculari fossero rimasti zitti, cioè se avessero sostenuto la versione ufficiale del guaritore. In caso contrario egli non avrebbe potuto evitare in alcun modo il fanatismo devozionale, ovvero l'isteria collettiva.
Gesù quindi mette di nuovo alla prova Giairo chiedendogli di tacere la verità delle cose, e se Marco dice che ebbe bisogno di insistere, significa che Giairo aveva intenzione di parlare, forse per vantarsi d'aver creduto nella persona giusta. Certo è che gli sarà sembrato inverosimile che un guaritore così capace, con aspirazioni politiche così manifeste, non avesse intenzione di approfittare dei suoi poteri: al suo posto egli avrebbe chiesto il contrario o comunque non avrebbe dato disposizioni così tassative. Tuttavia, l'evangelista non dice che i genitori trasgredirono il divieto e, considerando che nel vangelo questo episodio non ebbe conseguenze di rilievo, è da presumere che non l'abbiano fatto. In fondo, dopo aver avuto fede nella rianimazione, non era impossibile rispettare questa esigenza di riservatezza.
Al contrario, per Matteo la fama di Gesù “si sparse per tutto il paese” (9,26), e non tanto perché i genitori e gli apostoli vennero meno al dovere di tacere (la loro testimonianza visiva non è neppure ricordata da Matteo), quanto perché è lo stesso Gesù che, presentata la bambina rediviva ai parenti cacciati in precedenza, vuole farsi pubblicità. Il che lascia supporre che la precedente espulsione fosse stata dettata da un forte risentimento personale, quello dovuto al fatto di non essere stato creduto subito sulla parola quando diceva che la ragazza dormiva. E tuttavia la fama che di lui si sparse era relativa proprio al fatto che aveva “resuscitato” una morta e non semplicemente “guarito” un'ammalata, per cui il suddetto risentimento risulta contraddittorio.
In Luca l'ordine di tacere viene dato esplicitamente a chi ha “meno fede”, cioè ai genitori, perché sono questi che rimangono “sbalorditi”, non (anche) ai due discepoli. In precedenza, tuttavia, Luca aveva omesso, per scrupolo, l'espulsione dei parenti, per cui l'ordine finale di Gesù non ha senso o è comunque incoerente con la trama del racconto. In pratica avrebbero dovuto essere gli stessi genitori a convincere i parenti ch'era meglio tacere.
Ora veniamo al secondo ordine dato da Gesù, che Matteo però non cita e che Luca fa precedere a quello di tacere: l'ordine di dare da “mangiare” alla fanciulla. Generalmente gli esegeti lo interpretano nel senso convenzionale secondo cui Gesù voleva rassicurare che la bambina era veramente viva (e non un fantasma), poiché, se si fosse trattato di una semplice guarigione, sarebbe stato sufficiente dire che “camminava”. Tuttavia, se un'interpretazione del genere calza a pennello per il testo di Luca, non è sufficiente a spiegare quello di Marco. Lo stesso Luca, probabilmente, ha deciso di mettere l'ordine di sfamarla subito dopo la rianimazione, perché gli sarà apparso alquanto strano vederlo come ultima disposizione nel racconto di Marco.
Peraltro, se l'ordine andasse inteso alla lettera, con lo scopo voluto dagli esegeti confessionali, verrebbe da dubitare o dell'intelligenza di Giairo che, per quanto “uomo di fede”, non poteva esserlo fino al punto di apparire uno stupido, oppure dell'intelligenza di Gesù, il quale non poteva non sapere che per un genitore, dopo settimane o forse mesi di sofferenze di un proprio figlio, sarebbe stato del tutto naturale rimetterlo in forze dandogli da mangiare. Il “cibo” in questione quindi se va senza dubbio inteso in senso materiale, come soddisfazione di un bisogno elementare, dev'essere compreso anche in una valenza spirituale, secondo cioè una finalità etica o esistenziale. Se così non fosse, l'ordine non sarebbe stato riportato da quel grande sintetizzatore che è Marco, in quanto l'avrebbe ritenuto poco significativo.
Probabilmente la bambina era morta perché non mangiava e non mangiava non perché non poteva (Giairo era un benestante e non aveva intenzioni “omicide”), ma perché non voleva. Se consideriamo la sua età: dodici anni, possiamo ipotizzare che la fanciulla fosse morta per anoressia. Chi muore di questa malattia solitamente è perché si sente trascurato, non capito o scarsamente valorizzato (forse l'espressione usata da Gesù per svegliarla può anche essere letta come un tentativo di affrontare questo suo problema).
In questa malattia si evidenzia il limite della personalità di Giairo, che è l'egocentrismo (in verità si era già notata una forma di esibizionismo nella sua pubblica prostrazione davanti a Gesù, anche se l'oggetto della supplica la rendeva in qualche modo giustificabile). Forse Giairo trascurava la figlia perché aveva tendenze “maschiliste” o forse perché era troppo impegnato come archisinagogo o come intellettuale: ora comunque se vuole continuare a veder vivere la figlia, deve modificare qualcosa d'importante nel suo modo di rapportarsi alla realtà. Non può cioè continuare a tener separati il pubblico dal privato, le esigenze politico-religiose da quelle familiari. La rianimazione della figlia non può garantire di per sé la sua futura sopravvivenza.
Dunque con l'azione del mangiare Gesù non intendeva riferirsi unicamente al cibo quotidiano, ma anche al senso delle cose. Se la bambina era morta di inedia o di depressione, il suo problema era quello di ritrovare il gusto per la vita, la gioia di vivere. Essa aveva bisogno di sostanze vivificanti per non tornare ad ammalarsi. A nulla servirebbe essere guariti o addirittura rianimati se non si avesse voglia di vivere, se non si desiderasse amare la vita. Ecco, in questo senso, Giairo forse deve aver compreso sia che la morte non è peggiore della disperazione, sia che l'impegno per rendere la vita migliore deve avere come obiettivo non solo la propria vita ma anche e soprattutto quella degli altri.
(torna su)7) Guarigione di un sordomuto
(Mc 7,31-37)
[31] Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli.
[32] E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
[33] E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;
[34] guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”.
[35] E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
[36] E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano
[37] e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!”.
*
Nel racconto marciano della Guarigione di un sordomuto, elaborato in ambiente ellenistico (cioè ebraico di religione e greco di cultura), vi sono alcuni elementi che meritano d'essere sottolineati.
Anzitutto esso mette in risalto la disponibilità degli ellenisti ad accettare moralmente Gesù (qui considerato come un “guaritore buono”: “ha fatto bene ogni cosa…”, dicono); ma in secondo luogo, e indirettamente, esso evidenzia il limite politico di quella comunità ellenistica, incapace di accettare Gesù anche come “liberatore nazionale”.
L'incapacità è rilevabile da una serie di indizi: 1) gli chiedono una terapia quando i tempi sono già maturi per ben altre “liberazioni” (v. 32); 2) gli chiedono d'imporre le mani sul malato, come se Gesù fosse un semplice guaritore e non anche un liberatore nazionale, che si serviva di quei “segni” proprio per indurre a sperare in qualcosa di più significativo (ib.); 3) Gesù lo porta lontano da quella folla superficiale, capace solo di strumentalizzarlo per un fine alquanto limitato, circoscritto, inaccettabile per quel momento storico (v. 33); 4) la malattia del sordomuto pare proprio un simbolo della chiusura degli “ellenisti” (v. 34); 5) i postulanti trasgrediscono apertamente il comando di tacere il nome del guaritore (v. 36); 6) non recepiscono il carattere “segnico” della guarigione (v. 37), cioè il suo valore evocativo, prolettico (si badi: non in riferimento alla divinità).
Il racconto pare scritto sulla falsariga di quello del Cieco di Betsaida; ha senza dubbio subìto l'aggiunta del v. 37; non ci aiuta minimamente a comprendere la personalità del malato; presenta, al v. 31, una descrizione geografica alquanto approssimativa. La narrazione sembra una costruzione completamente simbolica.
Sul piano politico il passo più significativo è il v. 36: con esso appare chiaro l'inaffidabilità degli ellenisti, i quali se da un punto di vista etico avevano maturato una concezione più aperta o più tollerante (anche se forse meno esigente) di quella giudaica; da un punto di vista politico invece non nutrono (almeno in questo racconto) alcuna vera istanza di emancipazione sociale. Questi ellenisti sembrano essere benestanti. Probabilmente il racconto originario era stato scritto in un ambiente ebraico ostile agli ellenisti, ma in seguito è stato modificato dagli stessi ellenisti (soprattutto all'inizio e alla fine).
La chiusa, in questo senso, è sintomatica. Il giudizio che i postulanti danno della guarigione, per quanto positivo possa apparire, è del tutto contrario alla realtà dei fatti. Gesù non faceva semplicemente parlare i muti e udire i sordi, ma da un lato entrava nel merito della malattia, mediante un rapporto diretto col soggetto sofferente: un rapporto che, in ultima istanza, andava al di là della stessa malattia (la quale così diventava un pretesto per realizzare un incontro). Dall'altro, Gesù sollecitava a credere nella possibilità di una liberazione integrale, dalle malattie non solo fisiche ma anche sociali, come lo sfruttamento e l'emarginazione.
La citazione del passo di Is. 35,5 s. è servita per considerare Gesù un realizzatore delle profezie bibliche. La giustezza del suo operato dipende quindi dal fatto che le sue guarigioni erano state previste nell'Antico Testamento. La liberazione del sordomuto non è il preludio di una liberazione più grande: è già tutto. Ed essa aiuta a credere che il Cristo è stato mandato da Dio. Questo modo di vedere le cose poteva essere elaborato solo in un ambiente ellenistico conservatore.
(torna su)8) Gesù e la cananea
(Mc 7,24-30 - Mt 15,21-28)
[24]Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato
in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non poté restare
nascosto.
[25] Subito una donna che aveva la sua figlioletta posseduta da
uno spirito immondo, appena lo seppe, andò e si gettò ai suoi piedi.
[26] Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia
era greca, di origine siro-fenicia.
[27] Ed egli le disse: "Lascia prima
che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo
ai cagnolini".
[28] Ma essa replicò: "Sì, Signore, ma anche i cagnolini
sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli".
[29] Allora le disse:
"Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia".
[30] Tornata a casa, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se
n'era andato.
Marco colloca questo episodio subito dopo un cocente smacco del Cristo in occasione di quella che i vangeli sono soliti chiamare "moltiplicazione dei pani", evento prodigioso con cui i redattori vollero mistificare una situazione sicuramente di natura politica. "Da allora - spiega meglio Giovanni - molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui"(6,66). Il rifiuto di diventare re secondo lo schema davidico classico, in cui un messia liberatore, alla testa di un movimento (che in questo caso sarebbe stato di origine galilaica), sufficientemente armato e agguerrito, avrebbe cercato di imporre con la forza ai giudei l'esigenza di compiere quanto prima un'insurrezione nazionale contro i romani e i loro collaborazionisti in terra d'Israele: questo rifiuto li aveva profondamente delusi, e la delusione fu così grande che Gesù, che considerava avventuristica quella richiesta, arrivò persino a chiedere ai Dodici se volevano andarsene (Gv 6,67).
Dopo quella débâcle egli si vide costretto a limitare il proprio insegnamento alla ristretta cerchia degli apostoli più fidati ovvero dei discepoli più fiduciosi, e ciò fino a quando non si fosse reso necessario l'ingresso definitivo nella capitale giudaica per l'ultima verifica, quella della disponibilità da parte dei partiti progressisti ad accettare l'idea di un'insurrezione nazionale in cui nessun gruppo etno-politico avrebbe potuto esercitare un'egemonia sugli altri.
Correlativamente al fatto che Marco non spiega il motivo per cui la cosiddetta "moltiplicazione dei pani" doveva servire per celare una rottura politica tra Gesù e i galilei, che sarebbe risultata molto sconveniente per il rapporto antagonistico tra quest'ultimi e i giudei (fatti passare nel suo vangelo come i veri artefici della crocifissione), viene posta, con una sutura un po' approssimata, la critica di Gesù alla cosiddetta "tradizione degli antichi", ovvero a quei precetti e a quelle pratiche rituali che i rabbini e i farisei avevano aggiunto alla legge mosaica, pretendendo che provenissero per via orale dallo stesso grande legislatore; tutta una normativa minuziosa che in non pochi aspetti contraddiceva più o meno apertamente lo "spirito" delle leggi antiche.
In particolare Gesù contesta il fatto che un cibo preso con mani impure possa contaminare la coscienza di chi lo mangia: cosa che, messa in relazione con l'attività politica, voleva in pratica dire quanto fosse fallace l'idea di chi sosteneva il valore dell'umana dignità, dell'identità nazionale, all'interno di un regime oppressivo, basandosi su aspetti del tutto formali ed estrinseci. Qui in sostanza si lasciava intravedere la necessità che per vincere lo sfruttamento di Roma occorresse anzitutto essere meno settari nel proprio ritualismo e più aperti alla condivisione di una sofferenza comune, riguardante anche popolazioni non ebraiche.
Tuttavia Marco, essendo il suo Cristo del tutto spoliticizzato, non può far vedere le cose come le abbiamo descritte: il "suo Gesù" non va in terra pagana con l'intenzione di saggiare la situazione in vista di un'insurrezione in Palestina, ma ci va come maestro e taumaturgo, seppure in incognito.
Qui, poiché ci troviamo di fronte a un ennesimo caso di guarigione ultramiracolosa, bisogna fare almeno una premessa per non cadere in equivoci. Noi non possiamo escludere a priori che Gesù fosse anche un guaritore di malattie psico-somatiche, cioè di malattie fisiche che avessero la loro origine in fattori mentali, e ci risulta del tutto irrilevante cercare di dimostrare come certe guarigioni, che vanno oltre queste condizioni umanamente accettabili, siano state del tutto inventate. Quel che escludiamo categoricamente è che Gesù si sia servito dei suoi supposti poteri pranoterapici o bioradianti per sostenere la propria messianicità o la propria divinità. Se questo è assodato, si possono anche analizzare i racconti di guarigione come "segni" (se vogliamo nell'accezione giovannea) di qualcosa che esplicitamente i redattori cristiani non potevano o non volevano dire, cioè come ricostruzioni mistificate, quindi non semplicemente mitologiche, di realtà dal contenuto sociale o politico (tanto più che qui si ha a che fare con una guarigione a distanza, che si presta più di altre ad essere caricata di significati simbolici).
Poiché questa pericope viene giudicata molto antica, è possibile risalire all'ideologia primitiva del cristianesimo petrino passando proprio attraverso una mistificazione. Non è da escludere, in tal senso, ch'essa rifletta la presenza di circoli missionari del cristianesimo antico intenti a giustificare una predicazione fra i pagani, che non metta però in discussione la pretesa ebraaico-cristiana di considerare il Cristo come "inviato di Dio per i destini di Israele". Da notare che nella predicazione di Paolo non ci si avvaleva di racconti miracolistici per dimostrare la fondatezza della nuova fede, ma è noto che il paolinismo rappresenta un'evoluzione del petrinismo, ovvero la capacità di trasferire il mito dal miracolo alla speculazione teologica, per cui si dovrà dimostrare che tale pericope non può rientrare nella tradizione paolina.
In questo racconto Gesù e alcuni suoi discepoli compiono un viaggio nella zona siro-libanese, terra pagana e nemica del giudaismo, provincia romana confinante a nord con la Galilea: l'interesse straordinario che gli imperatori avevano per la conquista della Palestina era proprio connesso alla necessità di collegare la provincia siriana con quella egizia, evitando nel mezzo delle popolazioni ostili.
Già abbiamo visto che l'ingresso in questo territorio e la critica della tradizione rabbinica vengono collocati da Marco subito dopo l'incomprensione delle folle al seguito di Gesù circa la natura democratica del suo progetto rivoluzionario: non è quindi un caso che quanto più gli ebrei si mostrino refrattari all'esigenza di realizzare un nuovo regno senza autoritarismi di sorta, tanto più Gesù si avvicina al mondo pagano, dimostrando così l'importanza relativa del preteso primato d'Israele. Qui la mistificazione redazionale è davvero antica, tipicamente petrina, poiché si sfrutta quell'incomprensione per togliere al Cristo qualunque caratteristica politica e, nel contempo, si pone il paganesimo su uno stesso piano etico rispetto all'ebraismo: vi è in nuce il passaggio dal Gesù storico al Cristo della fede, dal Cristo liberatore al Figlio di Dio redentore, benché non in una forma "pura" come quella definita dal paolinismo, in quanto al Cristo si vogliono ancora salvaguardare delle tracce di "messianismo politico".
Il vero contenuto eversivo del vangelo di Marco sta unicamente nel fatto che i giudei non possono più pretendere, rispetto ai pagani, una superiorità aprioristica, ipostatizzata, ma devono semplicemente dimostrarla coi fatti. Preso in sé e per sé, questo, se vogliamo, non era un aspetto che contraddiceva le posizioni politico-rivoluzionarie del Cristo, e tuttavia il petrinismo lo ha voluto usare proprio in questa direzione. Ecco perché le falsificazioni vanno considerate più sofisticate delle mere invenzioni di eventi mai accaduti. È evidente infatti che al Cristo poteva apparire del tutto naturale che fintantoché gli ebrei non sentivano la necessità di coniugare rivoluzione a democrazia, si era costretti a rinunciare all'obiettivo dell'insurrezione nazionale, limitandosi a far capire quella necessità almeno ai suoi discepoli più fidati, che evidentemente avevano ancora bisogno d'essere formati alla scuola della democrazia, ma questo non significava affatto dover rinunciare definitivamente a qualunque progetto di liberazione nazionale. Semmai si poteva verificare se negli ambienti pagani, sottoposti a una medesima oppressione romana, vi potessero essere appoggi esterni alla rivoluzione, specie negli ambienti ebraico-ellenistici.
Viceversa, Pietro si servirà di questa apertura politico-universalistica del Cristo per negare l'esigenza di una insurrezione armata in Israele, ponendo quindi le basi per un'uguaglianza etica tra pagani ed ebrei, priva di prospettive politiche rivoluzionarie. Pietro da un lato tollerava i cristiani di origine ebraica quando rivendicavano l'ebraicità del Cristo, e dall'altro permetteva ai cristiani di origine pagana di credere in lui come redentore universale. Tale ambiguità - come noto - verrà severamente contestata da Paolo.
Nella regione di Tiro, una grande polis sulla costa mediterranea, Gesù non giunge con l'intenzione di fare qualcosa di pubblico; del suo arrivo - scrive Marco - "voleva che nessuno lo sapesse". Le circostanze però non gli sono favorevoli: "entrato in una casa, non poté restare nascosto". Chi era la persona cui aveva voluto far visita? Molto probabilmente un ebreo ellenista già incontrato in Galilea (al cap. 3,8 Marco aveva parlato di gente proveniente da Tiro e Sidone, intenti - aggiungiamo noi - ad ascoltare il nuovo leader politico della Galilea): dal lago di Genezaret al confine vi erano soltanto 50 chilometri. Tiro era una città molto grande ma è dubbio che qui Marco voglia dire che vi fosse proprio entrato: Matteo, che pur copia da Marco, parla delle "parti" di Tiro e Sidone.
Entrando nella casa di quell'anonimo ebreo ellenista Gesù, rendendosi conto della propria popolarità, s'era raccomandato di non rivelare a nessuno la propria presenza, ma, evidentemente, qualcosa non deve aver funzionato, o per cause soggettive, dipendenti dalla volontà di quello stesso padrone di casa, o per cause oggettive, indipendenti dalla sua volontà.
Qui però appare strano che una donna sirofenicia, e dunque del tutto pagana, possa entrare in quella stessa casa. Ebrei e pagani si frequentavano assai poco sul piano domestico, a meno che un pagano non volesse diventare un proselite: quali e quante giustificazioni dovrà dare Pietro per il suo incontro col centurione Cornelio di cui si parla negli Atti degli apostoli (10,28)! Solo ai mercati e nelle fiere era possibile un contatto, dopo il quale comunque bisognava scrupolosamente rispettare un cerimoniale purificatorio. Dunque qui appare evidente che il redattore abbia voluto mostrare come per il Cristo non esisteva più quella abissale differenza di etnia cui gli ebrei erano particolarmente attaccati.
E fin qui il racconto non ha nulla di inverosimile. I problemi nascono quando la postulante lo implora di guarire la figlia indemoniata. Son poche le cose che riusciamo a capire. Certamente la donna conosceva bene il nome di Gesù, che qui associa a una sua attività taumaturgica, già registrata nel vangelo di Marco, e doveva conoscere anche il lato "umano" della sua personalità, la sua apertura interetnica, la sua disponibilità per i bisogni della gente. Il redattore parla di figlia "indemoniata", ma di fronte alla gravità di certe malattie la primitiva mentalità d'allora attribuiva indiscriminatamente al "demone" la causa dell'impotenza umana.
La donna, che Marco definisce "greca" di cultura e "sirofenicia" di nazionalità, non porta con sé la figlia, non s'aspetta una guarigione a distanza, ma che Gesù esca da quella casa ebraica ed entri nella sua. Non può non sapere che il politico Gesù, per motivi di sicurezza in quella terra straniera dominata dai romani, aveva necessità di restare nell'anonimato.
Si noti anzitutto che nel racconto la donna non viene descritta né come un'ebrea ellenista né come una proselite pagana intenzionata a diventare ebrea. Ora, ammesso e non concesso che Gesù fosse un guaritore, sarebbe stato, per una donna del genere, molto difficile ottenere qualcosa sia andando in Galilea, dove lui agiva abitualmente a favore degli ebrei, sia restando in Siria, ove lui è capitato casualmente e senza intenzione di fare alcunché per nessuno, proprio per motivi di sicurezza.
Alla sua richiesta infatti Gesù risponde con due rifiuti: "lascia prima" e "non è bene". "Lascia prima che si sfamino i figli" è un'espressione ebraica che implica il riconoscimento di una precedenza d'onore dei giudei dovuta al rango di "figli", il "popolo eletto" di cui si parla in Dt 14,1 e Is 43,6, mentre, al contrario, si riservava il termine di "cani" ai pagani.
Qui inizia la mistificazione redazionale. Si faccia attenzione ch'essa non inizia quando si vuole presentare un Gesù taumaturgo (cosa che al massimo potrebbe far pensare a un'"invenzione"), e neppure quando si circoscrive il suo messaggio di liberazione a una semplice elargizione di favori terapeutici (cosa già vista nel vangelo marciano), ma proprio quando lo si fa parlare come non avrebbe mai potuto fare un politico in cerca di alleanze contro Roma. Nel vangelo di Giovanni è chiaro sin dall'inizio che Gesù, pur essendo giudeo, non pone differenze di principio tra giudei, galilei e samaritani.
Bisogna ora cercare di capire come può essere nato un racconto del genere. I vangeli non sono stati scritti mentre Gesù era in vita, ma molti anni dopo la sua morte, quando Gerusalemme era già stata distrutta dai romani e non esisteva più alcuna nazione israelitica: che senso poteva avere riportare un episodio in cui si vuole rimarcare una differenza sostanziale, quasi di "diritto divino", tra ebrei e pagani? Già al tempo di Gesù la superiorità etico-politica del popolo ebraico era stata infranta dalla forza delle armi romane e dall'imposizione di un sistema economico particolarmente oppressivo. Immaginarsi un leader politico ebreo che rifiuta un rapporto proficuo, di collaborazione politica, con pagani a lui interessati, solo perché è di origine ebraica, sarebbe stato ridicolo, tanto più che dopo il 70 il movimento cristiano dovrà per forza rivolgersi di prevalenza ai pagani, se vorrà svilupparsi.
Si noti anzitutto l'incongruenza del racconto evangelico: Gesù - stando al v. 24 di Marco - si trasferisce in territori pagani dopo aver criticato duramente le abluzioni dei farisei, le loro regole dietetiche, l'uso strumentale delle offerte religiose..., facendo discorsi che negano le diversità etnico-religiose tra ebrei e pagani, e non a caso il redattore inserisce qui dei racconti (sicuramente inventati) di derivazione pagana o comunque ambientati in territori pagani, che non risultano, è vero, più significativi di quelli elaborati a favore degli ebrei, in quanto chiaramente dipendenti da quest'ultimi a livello di contenuto, di messaggio etico-religioso, ma che hanno comunque il pregio di indicare la fine dell'aristocraticismo giudaico-nazionalistico. E tuttavia qui il Cristo parla come un ebreo vincolato al primato d'onore della propria patria.
Non solo, ma proprio nel momento in cui Gesù, criticando duramente i farisei (che qui rappresentano i giudei agli occhi dei galilei, in quanto alla fonte di Marco vi è Pietro), finisce col porre sullo stesso piano etico ebrei e gentili, quest'ultimi si comportano come ebrei di basso livello, chiedendo miracoli. Cioè proprio nel momento in cui si prospettava la possibilità di un'intesa politica con popolazioni non ebraiche per una insurrezione contro Roma, da un lato il Cristo viene presentato come un ebreo tradizionalista, seppur disposto a fare delle eccezioni, dall'altro i pagani si limitano a chiedere la soddisfazione di interessi privati.
La precedenza d'onore sostenuta da Gesù ("lascia prima") implica qui un diverso svolgimento dei tempi, cioè una diversa "economia salvifica", in cui l'esigenza di una liberazione politico-nazionale viene mistificata dalla trasformazione del Cristo in un redentore morale, il cui potere taumaturgico, a un vero seguace, di vera fede, dovrebbe risultare del tutto irrilevante. Qui la cosiddetta "impurità" o "indegnità" dei pagani viene messa in relazione alla dimensione del tempo, ovvero a una causa oggettiva, indipendente dalla volontà di quelle popolazioni. Nel senso che quando sarà compiuta la salvezza (o liberazione) degli ebrei, verrà il momento anche per loro.
Un'impostazione della strategia operativa del Cristo in questi termini non ha senso per due ragioni: 1. quand'egli era vivo il "prima" o il "dopo" non dipendeva da fattori extrastorici o metafisici, ma semplicemente dal fatto che allora gli ebrei erano, tra tutti i popoli mediterranei, quelli più risoluti ad opporsi ai romani, e il movimento nazareno non rifiutava certo appoggi da parte dei "greci", come già spiega Gv 12,20; 2. dopo la morte del Cristo e la fine di Israele sarebbe stato assurdo, nell'ambito della comunità cristiana, continuare a porre un primato d'onore, di tipo etico-religioso, a favore di un'etnia politicamente sconfitta. L'integrazione dei popoli, che prima sarebbe potuta avvenire sul piano della collaborazione politica, ora, dopo la morte del Cristo, veniva impedita su quello etico-religioso, quando proprio l'ideologia petro-paolina aveva trasformato il messia liberatore in un figlio di dio redentore dell'umanità. È quindi evidente che questa pericope riflette una sorta di compromesso tra una presenza cristiana dell'ebraismo tradizionale (che si rifà al petrinismo) e una nuova presenza cristiana di derivazione ellenistica (che si rifà al paolinismo).
Da notare in tal senso che la versione matteana appare ancora più chiusa di quella marciana, ideologicamente bloccata: Gesù è altezzoso e interviene non per le insistenze di lei, che pur l'aveva riconosciuto come "figlio di Davide", ma per quelle degli apostoli. Peraltro, la traduzione interconfessionale italiana (Ldc Abu) traduce "cani" per Matteo e "cagnolini" per Marco. In tal caso però non si tratterebbe di un insulto, come in Mt 7,6 o Fil 3,2 o Ap 22,14s., ma di un riferimento generico ai pagani come "cani randagi", mentre la donna, parlando di "cagnolini domestici", intendeva proporsi come sua seguace.
In verità, già l'Antico Testamento aveva spesso parlato dell'inclusione dei pagani nelle benedizioni del tempo della salvezza messianica (Is 2,2-4; 41,10-17; 45,14s.; 60,3; Sof 3,8-10), ma l'interpretazione dominante di questi passi associava il messianismo al nazionalismo, per cui di fatto, tra ebrei e gentili, continuava a regnare profonda ostilità e inimicizia.
Ciò che la pericope non riesce a spiegare è il motivo per cui si voglia ribadire una gerarchizzazione, seppur condizionata da un tempo provvisorio e soggetta a eccezioni dovute alla fede personale dei postulanti, quando di fatto, al momento della stesura del testo, non aveva più senso non solo quello storico primato ma alcun tipo di precedenza. Si obbliga cioè il Cristo a sottolineare una speciale elezione divina quando, come politico, l'avrebbe ritenuta assolutamente controproducente ai fini della resistenza armata antiromana, e quando, come redentore - secondo l'immagine falsificata di Pietro -, non avrebbe avuto alcun senso ribadirla, proprio perché al fallimento politico del movimento nazareno e alla disfatta d'Israele nel 70 i cristiani reagiranno affermando l'uguaglianza morale di ebrei e gentili. Quindi questa pericope è davvero antica e non può essere stata scritta dopo che Pietro decise di andarsene definitivamente dalla Palestina.
Pur essendo una mistificazione del "vangelo di Gesù", i vangeli canonici hanno la pretesa di unificare un processo oggettivo d'integrazione dei popoli, all'interno di un unico sistema economico dominante (quello schiavistico romano), con la realtà, in via di sviluppo, di una nuova concezione culturale, quella appunto cristiana, che si pone semplicemente l'obiettivo di "umanizzare", in una visione religiosa della vita, le sovrastrutture di tale sistema, ritenuto politicamente ineludibile. Inserire una pericope del genere in una prospettiva cristiana di così largo respiro, che ambiva a superare la mentalità nazionalistica dell'ebraismo tradizionale, se non avrebbe avuto alcun senso sul piano politico, che senso poteva avere su quello religioso? Tanto più che nello stesso vangelo di Marco il primo a riconoscere la "divinità" al Cristo crocifisso è proprio il centurione romano!
Nella logica di questo vangelo il sentimento di una speciale elezione divina, legato all'appartenenza specifica ad un'etnia, perde ogni ragion d'essere, anzi, essendo già forte il risentimento galilaico nei confronti dei giudei, ritenuti i principali responsabili della morte del Cristo, a maggior ragione si sarebbe dovuto vedere in questo vangelo una naturale predisposizione verso tutte le realtà pagane interessate alla figura del Cristo. Per l'evangelista Marco non è più in gioco, in maniera ipostatizzata, né la dignità del popolo ebraico, né l'indegnità di quello pagano, in quanto, da un lato, non basta la precedenza d'onore per acquisire la salvezza, meno che mai per ottenerla automaticamente, e dall'altro la mancanza di tale precedenza non può certo impedire di ottenerla.
Considerando il contesto semantico del vangelo marciano in cui la pericope è collocata, viene da pensare che il significato di quest'ultima risulti contraddittorio anche rispetto a quanto il Cristo risponde alla richiesta della petulante cananea. Infatti, il Gesù redentore (secondo la visone petrina), le aveva fatto capire che si trattava soltanto di avere pazienza, di accettare un certo differimento nel tempo della salvezza religiosa, nel senso che non ci poteva essere virtù pagana in grado di accelerare l'uguaglianza dei due popoli. E tuttavia, secondo il vangelo di Marco, quella uguaglianza tra ebrei e gentili si verificherà non dopo che gli ebrei avranno "accettato" il vangelo di Cristo, ma dopo che l'avranno "rifiutato". Cioè nella pericope si sarebbe dovuto sostenere che Gesù non poteva far nulla per i "cani" proprio perché ancora non era ancora stato crocifisso dai "figli", ovvero che in via eccezionale, a motivo della particolare fede della cananea, egli poteva anticipare qualcosa, ma unicamente per ribadire che l'uguaglianza tra i due popoli sarebbe avvenuta soltanto quando il velo del tempio si sarebbe squarciato. Invece nella pericope il Cristo si presenta come un ebreo che fa un favore a titolo personale a una pagana degna di fiducia, riconfermando però nello stesso tempo la diversità dei ruoli storici, proprio perchè è un Cristo ambiguo, non del tutto "religioso" ma ancora parzialmente "politico", interessato a non dare alla "salvezza" un contenuto esclusivamente mistico.
Questa pericope non può essere stata scritta da Marco, né può provenire da ambienti galilaici favorevoli all'ellenismo; anzi sembra essere stata elaborata in ambienti farisaici convertiti al cristianesimo, poiché qui non si è in presenza di un ridimensionamento etico-culturale di una concezione aristocratica della vita, ma del tentativo di ricostruire quell'aristocraticismo in nome del cristianesimo. Il Cristo può concedere una grazia particolare (il "pane") all'individuo pagano in due maniere: o all'interno di un territorio ebraico (ovvero all'interno di una comunità cristiana composta da elementi pagani minoritari che riconoscono la loro inferiorità etica e culturale), oppure, se all'esterno, in forma del tutto privata e ufficiosa.
Che continui a persistere, nell'ambito della comunità cristiana, un senso di superiorità dei giudeo-cristiani nei confronti dei cristiani di origine pagana è ben attestato anche dal fatto che nella pericope il redattore ha voluto contrapporre il "pane" della salvezza alle "briciole" della guarigione fisica. I pagani non appaiono "idealisti" come gli ebrei, ma "materialisti", disposti a credere solo dopo aver ottenuto un favore personale. Lo dirà anche Giovanni nel racconto, molto somigliante a questo, del figlio del funzionario Cuza: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete"(4,48). Se si tratta di concedere un favore soltanto per un senso di pietà personale, è giusto che il Cristo vi si opponga. Se i pagani vogliono diventare cristiani, devono dimostrare d'essere almeno all'altezza del più piccolo degli ebrei.
Nella sua replica la donna conferma il "diritto" sostenuto da Gesù: rispetta la precedenza d'onore accettando la distinzione di "figli" e "cagnolini" e rispetta l'economia dei tempi differenti, mostrando di stimarsi non più di un "cagnolino", anche se, a titolo personale e in via del tutto eccezionale, spera di ottenere uno strappo alla regola. Proprio in forza di tale duplice rispetto, la cananea riesce ad ottenere quanto, di regola, sarebbe dovuto spettare, almeno in quel momento, soltanto agli ebrei.
È raro vedere nel vangelo una persona replicare a Gesù senza rischiare, per questo, d'apparire impudente o di dire cose fuori luogo. Lo stesso appellativo di "Signore", usato per rivolgersi a lui, è in Marco del tutto eccezionale (cfr 11,3) e indica indubbiamente la consapevolezza di una grande stima e considerazione. Questa donna sa di non poter avere con lui un rapporto diretto, personale, alla pari, che vada oltre la sua specifica richiesta; non si è offesa dell'epiteto di "cagnolini", anzi, ne ha colto l'occasione per strappare un favore altrimenti impossibile.
La filosofia esistenziale di questa donna, qui usata come simbolo della conversione cristiana da parte dei pagani, s'è dimostrata all'altezza del maestro: con lungimiranza essa ha compreso la differenza fra "cane" e "cagnolino", cioè fra animali selvatici e domestici, e quest'ultimi, pur essendo del tutto assenti nella tradizione ebraica, possono placare la loro fame di "giustizia" stando alla mensa degli ebrei cristiani padroni di casa. L'onore, il primato morale dei "figli" viene così rispettato, e con sottile arguzia essa mostra d'aver intuito che se la separazione tra "figli" e "cagnolini" è una distinzione di ruoli dovuta alle contingenze della storia, allora il pagano può, indirettamente, beneficiare della "grazia" elargita da Gesù agli ebrei senza fare un torto a nessuno. La ricchezza della mensa è tale che i "cagnolini", mansueti e fidati animali, ne possono fruire, non ancora come un "diritto", certo, ma come una benevola concessione.
Le esegesi di tipo confessionale non finiscono qui, ma proseguono col dire che la donna non solo comprese le differenze fra "cane" e "cagnolino" e fra "cagnolino" e "figlio", ma anche quella fra "pane" e "briciola", ovvero fra "vangelo" e "guarigione". Nel senso che mentre Gesù aveva fatto appositamente coincidere il "pane" con il "miracolo" richiesto, mostrando di non avere dei pagani una grande considerazione (essi hanno "fede" solo perché interessati a qualcosa), la donna invece opera una sottile distinzione fra "miracolo" e "vangelo". Sapendo cioè di non poter ancora ancora mangiare il "pane del vangelo", cioè di non poter diventare una discepola diretta del Cristo, essendo pagana, essa chiede soltanto le briciole del miracolo, facendo quindi una grande professione di umiltà. Non solo cioè aveva compreso che un favore gettato in terra pagana, senza la relativa disposizione d'animo in grado di valorizzarlo adeguatamente, rischiava di diventare un gesto inutile, ma aveva anche compreso che se avesse accettato, con umiltà, di appartenere alla mensa degli ebrei-figli come un cagnolino, forse avrebbe anche potuto ottenere ciò che cercava.
È incredibile come l'esegesi confessionale non si sia accorta che questa donna, sapendo di essere pagana, chiedeva di appartenere ufficiosamente all'ebraismo di Gesù quando questo stesso ebraismo non faceva più distinzione tra ebreo e pagano di fronte alla necessità di eliminare l'imperialismo romano. O forse dobbiamo sostenere che dietro un racconto di guarigione s'è voluto celare un rapporto di tipo politico mediante il quale Gesù s'era assicurato un appoggio pagano che non voleva bruciare rendendolo pubblico? Se è così la pericope andrebbe completamente reinterpretata.
Quel che qui non si capisce è il motivo per cui la redazione cristiana pretenda un'adesione ufficiosa da parte di una pagana la cui fede viene riconosciuta e premiata dal Cristo (in Matteo addirittura si scrive che "grande" era la sua fede). Finzione per finzione, dopo essersi inventati la figura di un Gesù taumaturgo, nonché la possibilità di un esorcismo o comunque di una guarigione a distanza, che cosa costava alla chiesa inventarsi una sequela cristiana da parte della cananea? Non era forse stata la catastrofe del 70 a far capire in maniera inequivocabile che il primato d'Israele era finito? Non s'era forse deciso d'inserire nel vangelo di Marco un doppione del racconto dei cosiddetti "pani miracolati" per fare un favore esplicito alla presenza pagana dentro le comunità cristiane?
Tutta questa pericope ruota attorno a concetti come "ufficioso", "riservato", "incognito" che altra spiegazione non possono avere che quella della "sicurezza personale", la quale però nel testo viene mistificata col "primato d'onore" d'Israele, che non trova alcun riscontro né nella predicazione del Cristo né in quella di Paolo, e che in quella di Pietro può aver avuto, al massimo, alcuni deboli riscontri solo nella prima fase della sua attività postpasquale in Palestina.
Si fa fatica quindi a comprendere da dove venga fuori una pericope del genere, anche perché, a ben guardare, chi davvero riesce a superare le barriere interetniche e culturali fra Israele e paganesimo, dimostrando che il vangelo, per essere creduto, non esige alcuna vera precondizione, se non una disponibilità interiore, non è Gesù ma la stessa cananea. Cioè non sono i pagani che devono rispettare i tempi previsti dalla storia, ma sono gli ebrei che devono affrettarsi a recuperare il tempo perduto.
Alcune interpretazioni confessionali si sono spinte ancora più in là, nel tentativo di giustificare il diritto che aveva Gesù di assicurare agli ebrei una certa precedenza ontologica, mostrando che, nonostante l'esempio di buona fede da parte della cananea, essa aveva una figlia "indemoniata", cioè "impura", esattamente com'erano "impuri" i pagani (nell'immaginario ebraico); inoltre aveva creduto possibile una guarigione a distanza (unica nel vangelo marciano), appunto perché superstiziosa come i pagani; s'era prostrata ai piedi di Gesù, considerandolo alla stregua d'una divinità: cosa che un ebreo non avrebbe mai fatto, proprio per evitare il culto della personalità; infine, la figlia, una volta guarita, rimase simbolicamente a letto, non s'alzò come la suocera di Pietro, che prese a servirli di sabato, né come la figlia dell'archisinagogo Giairo, che mostrò d'aver fame.
Per la figlia della cananea non è ancora giunto il tempo d'alzarsi: non per la convalescenza, ma per la stessa immaturità del popolo cui appartiene. I pagani quindi non s'illudano: il diritto di precedenza ebraico rimane integro e l'eccezione alla guarigione miracolosa non fa che confermarlo, almeno fino a quando tutto non sarà "consumato". Attraverso l'umiltà la donna ha potuto cibarsi delle briciole del pane di vita, ma questa anticipazione, questo privilegio strappato col coraggio della fede deve restare vincolato al silenzio dei protagonisti.
Dove sta dunque la mistificazione in questo racconto? Nel fatto che la chiesa ha fatto agire Gesù come se fosse non uomo ma dio, ha quindi dovuto imporre alla donna una fede assolutamente straordinaria e poi ha concluso la pericope tenendo la donna separata dai cristiani di origine ebraica. Nonostante la sua fede, premiata dalla guarigione a distanza, lei non può diventare discepola diretta, in piena regola, paritetica agli altri seguaci provenienti dall'ebraismo, a meno che non riconosca definitivamente un proprio stato di inferiorità etnica e culturale.
Cristiani di origine ellenistica han voluto qui far valere i loro diritti sui cristiani di origina ebraica, ma vi sono riusciti solo in parte, proprio perché questo racconto risentiva visibilmente dei condizionamenti del galilaico petrinismo, che, conservando ancora tracce di messianismo politico-nazionale, non era stato ancora assorbito del tutto dal paolinismo astratto e universale.
(torna su)9) Il pessimismo del cieco di Betsaida
(Mc 8,22-26)
v. 22) Giunsero a Betsaida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo.
A Betsaida-Giulia erano già conosciuti. Lo si capisce non tanto o non solo dal fatto che qui ci troviamo a nord-est del lago di Tiberiade, ai confini della Galilea (ove sicuramente tutti avevano sentito parlare di questo guaritore e molti addirittura lo avevano visto in azione: peraltro qui siamo quasi alla fine della sua attività terapica), e non solo dalla nota biografica offerta dall'evangelista Giovanni, secondo cui questo villaggio aveva dato i natali a Pietro, Andrea e Filippo; quanto soprattutto dal fatto che lo pregano di “toccarlo”. Una richiesta del genere è indicativa di una particolare consapevolezza delle notevoli capacità pranoterapiche di Gesù. Non gli chiedono infatti di “imporgli le mani” – come spesso accade nel vangelo, da parte di chi lo paragona a uno dei guaritori del tempo –, ma semplicemente di “toccarlo” (l'aoristo usato nel testo greco indica bene che per loro era sufficiente che lui lo toccasse una sola volta). La fortuna di vivere a pochi chilometri da Cafarnao li aveva sicuramente indotti a non sottovalutarlo. Non dimentichiamo che il lago di Tiberiade è stato uno dei luoghi privilegiati dell'esordio politico di Gesù. Matteo 11,21 lascia inoltre supporre che a Betsaida egli avesse già fatto altre guarigioni.
Stando a Marco si ha l'impressione che il messia-Gesù, con i suoi discepoli, vi giunga all'improvviso e non per fare guarigioni, ma, più probabilmente, per verificare il livello di approfondimento del messaggio evangelico, ovvero la disponibilità a concretizzarlo. Dal giorno dei pani moltiplicati, cui sicuramente molti abitanti di questo villaggio furono testimoni, erano passati diversi mesi, nel corso dei quali Gesù aveva compiuto alcuni viaggi nelle città pagane di Tiro e Sidone.
Tuttavia, Giovanni si limita a dire nel suo vangelo che dopo lo smacco conseguente ai pani moltiplicati, dovuto al rifiuto di accettare l'istintiva candidatura al trono d'Israele che i Galilei gli avevano offerto (“Da allora – dice Gv 6,66 – molti dei suoi discepoli si tirarono indietro”), Gesù temeva di manifestarsi pubblicamente in Giudea e se ne “andava in giro per la Galilea” (Gv 7,1). Quando poi decise di salire a Gerusalemme, per la festa dei Tabernacoli, poco dopo quella defezione di massa, lo fece “di nascosto” (Gv 7,10). È dunque in questo contesto storico-politico che va collocato il racconto di Marco.
Matteo e Luca, dal canto loro, non ci sono di alcun aiuto, non essendoci riscontri paralleli nei loro vangeli. Questo racconto è troppo breve perché lo si possa facilmente manipolare. Se lo si accorcia diventa del tutto insignificante, se lo si allunga restano sempre dei passi apparentemente inspiegabili. E siccome copiarlo di sana pianta era impossibile, essi hanno preferito ometterlo del tutto. D'altra parte, esisteva già l'episodio del cieco Bartimeo, la cui fede in Gesù era sicuramente più accentuata.
Viceversa, questo è uno dei racconti di guarigione di più difficile interpretazione, un vero gioiello di finissima psicologia e di abilità letteraria. Generalmente gli esegeti cattolici, per non sbilanciarsi verso un'ermeneutica non conforme all'ortodossia, evitano di considerare il brano in sé e per sé, preferendo invece situarlo su di un piano redazionale o allegorico o catechetico-kerigmatico. In tal modo, preoccupati di ribadire, con tono apologetico, i fini “teologici” ch'essi presumono sottesi al racconto, questi esegeti dimenticano di dover compiere quel necessario percorso a ritroso, solo mediante il quale è possibile immedesimarsi nelle azioni degli uomini che ci hanno preceduto, cogliendo di queste azioni quel tanto o quel poco che ancora oggi può suscitare un certo interesse.
Ma ora veniamo al racconto. Si è detto che a Betsaida Gesù e i discepoli speravano d'incontrare un atteggiamento più costruttivo, una nuova disponibilità operativa ai fini della liberazione politico-nazionale. I fatti tuttavia li smentiscono subito. La gente, ormai rassegnata all'idea che Gesù non voglia diventare quel tipo di messia davidico che si attendeva, si limita ad accettarlo come “grande taumaturgo”. Lo “pregano”, è vero, ma in modo formale, con una cortesia un po' distaccata: lo pregano appunto perché sanno che ora egli non concede più i suoi favori con la stessa facilità di prima.
Non lo pregano perché pensano che le guarigioni ora hanno un “prezzo” da pagare: la fede nel suo vangelo di liberazione. Poiché, se è finito il tempo in cui esse venivano concesse senza condizioni di sorta, semplicemente per suscitare la speranza di un rinnovamento sociale, è finito anche il tempo in cui per averle è necessario che il postulante (o chi per lui) mostri di credere già nel vangelo, in quanto un vero seguace del movimento nazareno non può far dipendere la fede dalle guarigioni (ciò che Paolo nelle sue Lettere mostrerà d'aver capito perfettamente, anche se con la parola “fede” intenderà qualcosa di totalmente mistico).
In effetti, gli abitanti di Betsaida pregano Gesù pur sapendo che il suo progetto politico-rivoluzionario è più importante di qualunque guarigione. Ecco, in questo senso la loro preghiera è “formale” perché falsa. Nonostante l'autoconsapevolezza dimostrata, sperano lo stesso ch'egli voglia fare un'eccezione alla regola.
Il pessimismo nei confronti di una vera liberazione politica e l'indifferenza verso i nuovi valori di vita proposti dal movimento di Gesù, caratterizzano queste persone. Sono ormai due anni (stando alla cronologia di Giovanni) che lo conoscono e lo frequentano; eppure, nonostante le apparenze, grande è la loro estraneità, tanto che lo stesso cieco sembra esservi coinvolto… Non lo si sente infatti supplicare, non lo si vede protagonista attivo di questo incontro: il che però, alla luce di quanto si è appena detto, può essere interpretato positivamente. In effetti, che siano gli altri (amici e/o parenti) a condurlo davanti al terapeuta e che siano sempre gli altri a “chiedere”, può anche voler dire che il pessimismo del cieco era meno superficiale, più radicato nella sua coscienza. Sembra ch'egli si sia lasciato fare non perché interessato all'incontro, ma, al contrario, per l'insistenza degli altri.
v. 23) Allora prese il cieco per mano,
Mansuetudine, tenerezza, affettuosità, magnanimità, pazienza…: in quanti modi si potrebbe aggettivare questa scena (peraltro rarissima)? L'amore qui travalica, strabocca, esce dai confini dell'immaginazione: neanche la dura ostinazione di quella gente può fiaccarlo o sminuirlo. Gesù prende il cieco per mano, lo conduce altrove, dove ci sia la possibilità di essere se stessi, di ritrovare la fiducia nelle proprie capacità. Lo porta lontano dall'ipocrisia di chi si crogiola nelle disillusioni, di chi è incapace, perché “cieco”, di riconoscere verità e autenticità là dove si manifestano. Il miracolo più grande in fondo è questo: lasciare che il desiderio di liberazione ci porti fuori dall'indifferenza, dall'ovvietà dei rapporti quotidiani.
Questo cieco si prepara ad accettare le conseguenze della propria disponibilità, che pur non appare particolarmente grande. Il suo lasciarsi fare sembra dipendere più dalla debolezza del suo stato che non dal desiderio di vivere questo particolare momento. Non vi è, in lui, un'adesione consapevole, volontaria, né all'atteggiamento strumentale dei suoi compaesani, né all'alternativa proposta da Gesù: il suo pessimismo è impotente, incapace di agire e reagire, “cosmico” – si potrebbe dire. Forse venato di qualche curiosità.
v. 23) lo condusse fuori del villaggio
Cioè fuori dall'incapacità di essere, dalle vecchie e assurde pretese, dalla solitudine di chi si sente vinto… Chi voleva “vedere” e vedere da vicino – come Andrea, Pietro e Filippo – se n'era andato da Betsaida o comunque seguiva con passione le tappe, le vicende, le vittorie e le sconfitte del movimento messianico di Gesù.
Se lo avesse preso per mano senza condurlo fuori, Gesù sarebbe apparso come un sentimentale disposto a perdonare sempre tutto. Invece ha bisogno di mostrare il senso della giustizia: deve cioè far capire a quella gente che non è possibile concedere ulteriori proroghe a chi ne ha già avute tante. I tempi hanno delle esigenze che vanno rispettate, se si vuole restarvi protagonisti.
Inoltre doveva far capire all'ammalato che aveva qualcosa di particolare da comunicargli, che voleva mettersi in un rapporto personale con lui. Dopo essere stato preso “per mano” e soprattutto “portato fuori” dal messia-Gesù, il cieco non poteva non accorgersi che qualcosa di molto significativo gli stava accadendo. Intanto doveva già aver capito che la particolare sollecitudine degli abitanti di Betsaida nei riguardi del suo male, s'era improvvisamente trasformata in ipocrisia, in un atteggiamento egoistico e superficiale, al cospetto delle esigenze di liberazione, umana e politica, manifestate da Gesù. Quell'umano e quel politico che anche in questo caso si giustificavano a vicenda, procedendo di pari passo. Lo aveva infatti portato fuori per protesta, ma senza inveire; gli aveva preso la mano, ma senza piegarsi alle loro richieste: pietà e fastidio non erano in antitesi. L'insensibilità di quella gente non poteva impedirgli di mettersi in rapporto con la sensibilità del malato.
v. 23) e, dopo avergli messo della saliva (sputato) sugli occhi, gli impose le mani
Gesù non vuole guarirlo subito, ma vuole intrattenersi con lui: usa una procedura lunga e complessa appunto perché lo vuole conoscere, non solo come malato ma anche e soprattutto come uomo. Non si tratta semplicemente di “toccarlo” – come gli era stato chiesto – ma addirittura di scuoterlo, cioè di provocarlo, saggiando le sue capacità reattive. Gesù ha un messaggio da trasmettergli e non soltanto una dynamis, cioè una forza risanante. Egli vuole sincerarsi se veramente valga la pena compiere quest'ennesima terapia. Siccome il tempo dei “favori” è finito da un pezzo, gli sembra giusto pretendere dai postulanti una disposizione d'animo adeguata.
Già dai gesti che Gesù compie, il malato doveva intuire che non si trattava di una guarigione pura e semplice. Gesù non aveva bisogno di “sputare negli occhi” o di “imporre le mani” sul capo: questo cerimoniale, del tutto consueto per un guaritore di allora (e che ha portato alcuni esegeti a considerare veri questi episodi e falsi quelli ove esso non esiste), qui è sospetto, in quanto il suo scopo pare vada al di là della guarigione vera e propria. In altre parole, il cerimoniale lascia presagire che la guarigione non dipenderà unicamente dalla lenta somministrazione della “medicina”.
v. 23) e gli chiese: “Vedi qualcosa?”.
Gesù può immaginare benissimo cosa quell'uomo riesce a vedere. Nel corso della sua attività terapeutica aveva incontrato malattie ben più gravi di questa e i suoi poteri non avevano mai fallito. Semmai falliva il fine per cui li usava, come generalmente accadeva, ma questo non dipendeva da lui. Perché dunque vuol sapere da questo cieco, in via di guarigione, cosa sta vedendo?
In questo racconto, dove tutto è equivoco e di doppio significato, la domanda di Gesù appare sulle prime assai strana (peraltro nel testo greco il verbo usato indica una serie di domande). Si ha la netta impressione ch'egli voglia semplicemente invitare il cieco a esprimersi, a comunicare i suoi pensieri: Gesù vuol conoscerlo, per cui ha bisogno di sentirlo parlare. E siccome in quell'uomo non c'è una vera disponibilità al dialogo, egli è costretto a usare come espedienti una terapia complicata e faticosa, nonché una domanda apparentemente inutile. In tal modo lo induce a cercare un'immagine che, corrispondendo in modo più o meno verosimile alla realtà che sta per vedere (forse per la prima volta), lasci trapelare qualcosa di più profondo, qualcosa che indichi, con relativa semplicità e chiarezza, la sua filosofia esistenziale, l'origine del suo pessimismo radicale.
Naturalmente Marco non ha avuto bisogno di spiegarci che per fare questo senza apparire un medico beffardo, che si prende gioco dei suoi pazienti, Gesù deve aver usato molta cautela (nonostante la durezza dello “sputare negli occhi”). Egli si è comportato così solo per capire se esisteva la possibilità di andare oltre al semplice recupero della vista, ovvero se esisteva nella personalità di quel malato un aspetto positivo da valorizzare, affinché il “segno” non andasse perduto.
“Vedere” è un verbo ambivalente, significa anche “capire”. La domanda di Gesù non è che una delicata provocazione, un'attenta e prudente verifica dell'ideologia. E quell'uomo, che forse ha intuito il senso strumentale della richiesta o comunque la stranezza del cerimoniale, non potrà limitarsi a rispondere: “Vedo male”.
v. 24) Quegli, alzando gli occhi,
Resosi conto d'essere interpellato da una persona disposta ad ascoltarlo, il cieco riacquista fiducia in se stesso, ritrova un certo interesse per la vita, quasi il gusto di poter comunicare qualcosa.
v. 24) disse: “Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano”.
Forse avrà detto anche meno, semplicemente: “Vedo degli alberi che camminano”. Forse la premessa è stata aggiunta perché il lettore non pensasse a un cieco pazzo o schernitore. In ogni caso essa è fuorviante, perché dà l'impressione che l'immagine scelta dal cieco sia una frase subordinata, di cornice, esplicativa di un concetto generico e astratto. In realtà la parola “uomini” era già inclusa nel concetto di “alberi itineranti”. Il redattore ha fatto un torto a questo anonimo protagonista. Interpretando l'immagine ha svilito il senso dell'identificazione evidenziato dal cieco. Se infatti togliamo l'aggiunta, noteremo che l'immagine si comprende da sé, in tutta la sua forza contestativa, polemica; se invece la lasciamo, questa forza si trasforma in una mera esigenza chiarificatrice.
Quest'uomo vedeva male, eppure vede bene. I suoi compaesani, usciti anche loro dal villaggio per vedere la guarigione, non li ha semplicemente “confusi” con degli alberi itineranti, a motivo del fatto che ancora non vede bene, ma li ha addirittura identificati (nel testo greco la parola “uomini” ha l'articolo, quindi si trattava delle persone concrete ch'egli stava osservando perché gli stavano davanti, a una certa distanza). Nel paragone scelto non ha detto soltanto come li vede, ma anche come li sente, come li percepisce dentro di sé. Gli uomini sono dunque alberi semoventi, cioè creature inferiori dotate di intelligenza o creature intelligenti che si comportano in modo inferiore: in ogni caso creature assurde.
Questo cieco vedeva bene, eppure vede male. Vede i suoi parenti e conoscenti come persone indifferenti, vuote, egoiste – e in effetti è così: essi lo sono e lo hanno dimostrato. Ma ciò non è sufficiente per vedere bene. Quest'uomo non ha una concezione dialettica dell'esistenza umana o degli uomini in genere: il suo realismo è votato a un pessimismo radicale, assoluto. Per lui tutti gli uomini del suo villaggio sono così, privi cioè della necessaria determinazione esistenziale, della volontà di credere in un cambiamento reale delle cose.
E tuttavia proprio le sue parole dimostrano il contrario, benché negativamente. Come può, in effetti, essere un albero itinerante colui che ammette la dura realtà delle cose? Con quest'immagine così calzante, per quanto terribilmente amara, egli non ha forse lasciato capire che l'indifferenza, come regola di vita, non riusciva a sopportarla? Nel momento stesso in cui costatava l'anomalia di fondo del suo paese, egli non dimostrava forse di possedere un'istanza repressa di emancipazione?
v. 25) Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa.
La soluzione del problema degli “occhi” era diventata per questo cieco strettamente vincolata alla soluzione del problema della vita: “Perché vedere quando non c'è nulla da vedere?”. Tuttavia, l'autocritica, ovvero il desiderio di autenticità, aveva fatto breccia nella sua coscienza, al punto che con relativa facilità egli può ora accorgersi che non tutti gli uomini sono alberi itineranti, “pecore senza pastore”. Per quel poco che gli ha fatto o per quel poco che gli ha detto, Gesù certamente non lo è, né lo sono, di conseguenza, i discepoli che hanno accettato di seguirlo (alcuni dei quali sono qui testimoni della guarigione).
Marco usa, insolitamente, tre espressioni equivalenti per indicare il successo della terapia: “ci vide chiaramente”, “fu sanato”, “vedeva a distanza ogni cosa”. Il che appunto rivela una doppia guarigione: interna ed esterna (dal testo greco si può addirittura dedurre ch'egli era tornato normale, cioè com'era prima di ammalarsi). Ora quell'uomo ha finalmente maturato l'equilibrio del giudizio, una più adeguata valutazione delle cose. L'amato e odiato pessimismo, che risultava determinante per la sua concezione ideale e morale della vita, ora può cominciare ad essere superato. Solo con uno sguardo sicuro, acuto, penetrante si possono vedere le cose nella loro giusta distanza, nelle loro esatte proporzioni.
v. 26) E lo rimandò a casa dicendo: “Non entrare neppure nel villaggio”.
Continua il gioco dell'equivoco. Misurandosi con l'intelligenza del neo-vedente, Gesù lo invita a fare una cosa apparentemente inspiegabile. Forse è stata proprio la stranezza di queste parole ad aver disarmato i primi due grandi “manipolatori” del vangelo di Marco: Luca e Matteo. È tuttavia evidente che un ordine del genere (certo non di tipo militare) non poteva essere dato se chi doveva eseguirlo non era in grado di capirlo. Il guarito, in altre parole, era stato messo in grado di capire come avrebbe potuto tornare a vivere coi suoi compaesani senza rischiare di ridiventare come uno di loro. Qui naturalmente Marco (o un secondo redattore) ha omesso le altre parole che Gesù deve aver detto: forse perché gli saranno apparse di secondaria importanza, in quanto già implicite nella laconica frase riportata.
“Tornare a casa” infatti significa “tornare a essere se stessi”, smettere di essere “ciechi”. Il villaggio è “il luogo da cui si è stati tratti”, il muro che circonda l'identità della propria casa, l'ostacolo che impedisce di vedere le cose in modo obiettivo. Fuor di metafora, egli sarebbe dovuto tornare a casa evitando ogni forma di pubblicità su questa guarigione, senza “concedere interviste” – diremmo oggi. Nell'originale, infatti, la proibizione di Gesù riguarda solo il momento presente e non anche quello futuro.
Ma c'è di più. Se Gesù gli ha detto di tornare nella “casa-del-villaggio” e non “vieni e seguimi”, significa che per quell'uomo il villaggio doveva continuare a restare, almeno per il momento, il perimetro privilegiato in cui muoversi. Il villaggio cioè non rappresentava soltanto un limite da superare, ma anche il luogo in cui il limite andava superato. “Tornare a casa” dunque significa rientrare nell'egoismo, nell'indifferenza di sempre, ma standosene fuori: tornare ad essere se stessi nell'inferno da cui si è stati momentaneamente tolti. È questo il messaggio politico e ideale che Gesù gli aveva proposto di vivere.
Marco non dice che quest'uomo disobbedì all'ordine di Gesù e noi non abbiamo il diritto di pensarlo. Anzi, la formulazione di un comando così paradossale ci suggerisce l'idea che i due, nella serietà delle loro rispettive intelligenze, abbiano voluto per così dire “divertirsi” a equivocare, come se fosse stato l'incontro di due menti superiori, cui basta poco per capirsi, sulla piattaforma dell'obiettività, cioè sul significato di determinate situazioni (l'indifferenza di Betsaida), sul valore di certi giudizi (il pessimismo del cieco) e sulla necessità di prendere un'importante decisione (quella di tornare a casa senza “passare” per il villaggio).
Ci piace anche immaginare che quell'uomo sia tornato fra i suoi come “luce” per altri “ciechi”, come testimone e profeta di un “già e non ancora”, servendosi magari dell'aiuto di quelle persone che, prima della guarigione, erano state da lui ingiustamente definite come “alberi” di quella grande foresta chiamata “indifferenza”, quella “foresta” che solo con un lavoro tenace e paziente, carico di responsabilità, estraneo ai vari culti della personalità e libero dall'attesa di situazioni-limite o paradossali, si può far “muovere” nel migliore dei modi.
(torna su)10) L'epilettico di Dabereth e l'orgoglio del padre
(Mc 9,14-27)
MARCO (9,14-27) [14] E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro. [15] Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. [16] Ed egli li interrogò: “Di che cosa discutete con loro?”. [17] Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. [18] Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. [19] Egli allora in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. [20] E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. [21] Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall'infanzia; [22] anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. [23] Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”. [24] Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”. [25] Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l'ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. [26] E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. [27] Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi. |
MATTEO (17,14-18) [14] Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo [15] che, gettatosi in ginocchio, gli disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell'acqua; [16] l'ho già portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto guarirlo”. [17] E Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatemelo qui”. [18] E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e da quel momento il ragazzo fu guarito. |
LUCA (9,37-43) [37] Il giorno seguente, quando furon discesi dal monte, una gran folla gli venne incontro. [38] A un tratto dalla folla un uomo si mise a gridare: “Maestro, ti prego di volgere lo sguardo a mio figlio, perché è l'unico che ho. [39] Ecco, uno spirito lo afferra e subito egli grida, lo scuote ed egli da' schiuma e solo a fatica se ne allontana lasciandolo sfinito. [40] Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. [41] Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? Conducimi qui tuo figlio”. [42] Mentre questi si avvicinava, il demonio lo gettò per terra agitandolo con convulsioni. Gesù minacciò lo spirito immondo, risanò il fanciullo e lo consegnò a suo padre. [43] E tutti furono stupiti per la grandezza di Dio. |
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v. 14) E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro.
Ormai mancano pochi mesi alla tragedia di Gerusalemme. Quando compie questa guarigione, Gesù si trovava ancora in Galilea: presso il monte Tabor – lascia intendere Marco –, forse a Dabereth. Ai piedi del monte infatti erano rimasti i discepoli che non avevano partecipato alla sua cosiddetta “trasfigurazione” (stando almeno a quanto dicono i sinottici) e che ora appunto da Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, che lo stanno scendendo, vengono visti discutere con gli scribi locali, circondati dalla folla.
Matteo e Luca non hanno difficoltà ad accettare il quadro spazio-temporale offerto da Marco, tuttavia omettono completamente la disputa in corso, forse per non dover evidenziare – come vedremo – i limiti degli apostoli. Che però alcuni di questi siano lì presenti, entrambi gli evangelisti lo dicono esplicitamente più avanti, allorché parlerà il principale protagonista della folla. Va inoltre detto che, essendo Matteo e Luca preoccupati, anzitutto, di delineare la figura di un Cristo dalle caratteristiche “sovrumane”, inevitabilmente gli apostoli, nei loro vangeli, risultano per così dire “schiacciati” dalla sua autorevolezza, per cui la possibilità stessa di un loro agire autonomo (come appare nel racconto di Marco, ove il rapporto Cristo/discepoli è più di tipo paritetico, anche se fino a un certo punto: si pensi p.es. alle cosiddette “profezie della passione”) non viene, in genere (la possibilità), neppure presa in considerazione, se non quando si vogliono sottolineare alcuni aspetti negativi della loro personalità o della loro ideologia.
v. 15) Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo.
L'istintiva calorosità della folla, che avvicina Gesù appena lo vede, coglie in contropiede i discepoli alle prese con gli scribi. Dalla crisi di Cafarnao, relativa ai pani moltiplicati (stando sempre alla versione dei vangeli), essa l'aveva perso di vista. Secondo Marco, Gesù, dopo quell'evento, era addirittura uscito dalla Galilea per un certo tempo; secondo Giovanni invece si era solo allontanato dai luoghi abituali della predicazione, senza varcare i confini.
Matteo e Luca qui non parlano di “meraviglia” della folla: anzi, al dire di Matteo, non è la folla che accosta Gesù ma il contrario, e la folla non è neppure “molta”; mentre nella versione di Luca non si capisce affatto il motivo per cui una “gran folla” voglia incontrarlo, giacché la richiesta terapeutica del postulante appare alquanto incidentale, inaspettata e comunque avulsa dalla premessa del suo racconto. In realtà, queste lacune sono dovute al fatto che né Matteo né Luca hanno mai presentato l'episodio dei pani moltiplicati come un momento di grave défaillance per la causa politica del vangelo.
La cordialità manifestata sembra tradire, da parte della folla, un'opinione negativa riguardo all'operato degli apostoli, nel senso che la folla mostra d'aver fiducia esclusivamente in Gesù. Ovviamente non penseremmo questo se qui non ci trovassimo alla fine della sua attività terapica. In altre parole, l'improvvisa apparizione di Gesù ha suscitato nella folla soltanto il ricordo dell'avvenimento più significativo accaduto in Galilea: la cosiddetta “moltiplicazione dei pani” (che fu comunque un episodio politicamente negativo, probabilmente trasformato in evento religiosamente positivo proprio da quella miracolosa moltiplicazione… redazionale). Perché dunque – visto che Gesù ha già fatto chiaramente capire di non apprezzare le tendenze spontaneistiche e velleitarie della folla – i discepoli continuano a soddisfare le richieste di guarigione? Perché non cercano il singolo o il gruppo che nella folla anonima e dispersiva sia desideroso di cambiare veramente mentalità?
v. 16) Ed egli li interrogò: “Di che cosa discutete con loro?”.
Quasi volesse tagliare corto con quegli omaggi, Gesù chiede alla folla quale sia l'argomento del diverbio con gli scribi, che non erano certo corsi a salutarlo. Fa capire che è questo ad interessarlo di più. Si potrebbe però riferire il pronome “loro” agli stessi discepoli, se togliamo di scena l'improbabile presenza degli scribi, cioè se consideriamo aggiunta la parte finale del v. 14. Non avrebbe in effetti molto senso che s'interpellino gli scribi su un problema di natura terapica, né sarebbe illogico vedere i soli discepoli “questionare” con la folla (anche se ciò nei vangeli è rarissimo). Qui gli scribi possono essere stati citati per addossare soprattutto a loro il motivo dell'invettiva che fra poco Gesù lancerà.
v. 17) Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto.
Il motivo di quell'accorrere festoso ed eccitato diventa finalmente chiaro: l'interesse in gioco non riguarda tanto “il vangelo per tutti” quanto “la guarigione di uno solo”.
Uno della folla, che riconosce Gesù come “maestro”, dice di essere lì perché bisognoso di un “esorcismo” per il figlio “indemoniato” e precisa, inoltre, che il “demonio” è di quelli “muti”. Quest'uomo, nella sua ignoranza, è convinto che la malattia del figlio sia una diretta conseguenza della prevaricazione del “demone” e afferma di non poterlo cacciare.
L'argomento non è importante come Gesù avrebbe voluto: è di tipo personale non politico, privato non pubblico, mentre i tempi richiedevano ben altro. I discepoli vi si erano lasciati coinvolgere ingenuamente.
v. 18) Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”.
L'atteggiamento di quest'uomo è piuttosto maldestro: da un lato dice di volere l'esorcismo, dall'altro sconfessa apertamente e davanti alla folla i discepoli di Gesù, attribuendo esclusivamente a loro l'insuccesso del “rito”. Fa inoltre mostra di conoscere a perfezione il tipo di malattia del figlio, elencandone i molti e gravi sintomi, e però non si rende conto di avere di fronte a sé un grande taumaturgo, capace di capire da solo la serietà di certe malattie o gli effetti ch'esse provocano. Insomma, l'unica vera cosa di cui si preoccupa è quella di chiarire d'aver fatto l'impossibile per curare il figlio, e che se ha ceduto alle insistenze della folla di rivolgersi a Gesù (in questo caso tramite i suoi discepoli) è stato solo perché era convinto di non avere alternative: il fatto stesso che neppure gli apostoli siano stati in grado di guarirlo, sta appunto a dimostrare – secondo lui – che la malattia era veramente grave.
Nella sua ostentata autogiustificazione, quest'uomo (al quale forse non è dispiaciuto più di tanto vedere abortire il tentativo terapico degli apostoli) ha preteso anche d'essere lungimirante, in quanto ha cercato di dare una spiegazione logica o plausibile alla malattia del figlio, senza però accorgersi che qualcosa gli era sfuggito. In effetti, dicendo che il figlio è epilettico perché “muto” (nel senso che è incapace di una normale comunicativa), egli non s'è accorto che lo stesso mutismo, preso in sé, non può essere considerato come causa originaria o ultima della malattia, poiché anch'esso, di necessità, non è che il sintomo psicosomatico di qualcos'altro, qualcosa che Gesù evidenzierà nel corso della terapia.
v. 19) Egli allora, in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.
Luca e Matteo devono aver faticato alquanto a capire il motivo per cui di fronte alla richiesta del postulante, Gesù si sia indispettito al punto da maledire la sua generazione. Luca infatti addebita la causa della collera all'atteggiamento passivo e superficiale della folla, che si limita alla “meraviglia” per le guarigioni, senza raggiungere la fede nel vangelo. Alla fine del suo racconto, Gesù confessa addirittura agli apostoli che proprio a causa di questa incredulità egli sarà “consegnato nelle mani degli uomini” (9,44). Da notare che per Luca “incredula” è solo la folla e non anche i discepoli rimasti a Dabereth.
Per quanto invece riguarda il postulante, Luca ne dà un'immagine abbastanza positiva: se in lui vi sono degli aspetti negativi, essi al massimo rientrano in quelli più generali che caratterizzano la folla. Il suo atteggiamento resta comunque più scusato che negli altri vangeli: quell'uomo merita la guarigione perché il figlio è “l'unico che ha”, e se “grida” lo fa solo per attirare l'attenzione del terapeuta, al quale si rivolge supplicando con “preghiera” d'intervenire, come già aveva fatto con i suoi discepoli.
Anche nella versione di Matteo si tende a giustificare il postulante presentandolo in una luce già “cristiana”: egli si mette “in ginocchio”, riconosce Gesù come “Signore”, chiede subito “pietà”… Sia in Matteo che in Luca il postulante non offende Gesù accusando i suoi discepoli di aver fatto fiasco, o almeno non sono queste le sue intenzioni. Egli semplicemente afferma d'essere stato costretto a rivolgersi a lui dopo aver costatato l'incapacità dei discepoli: cioè si “scusa”, essendo a conoscenza dell'indisponibilità di Gesù a concedere guarigioni. Viceversa in Marco – come si è visto – egli dà l'impressione di uno che si giustifica, nella quasi soddisfazione d'aver visto fallire i discepoli.
In Matteo l'ira di Gesù non è relativa all'atteggiamento orgoglioso di quest'uomo, ma semmai al fatto che di fronte a determinati problemi, gli uomini (in senso lato), nonostante gli stimoli offerti dal Cristo, ancora non riescono a trovare da soli le giuste soluzioni: in tal senso l'ira può essere stata motivata sia dagli atteggiamenti superficiali di quell'uomo e anche della folla (la presenza della quale, peraltro, è in Matteo del tutto irrilevante), sia dall'ingenuità o impreparazione degli apostoli, che per la loro “poca fede” sono usciti sconfitti dal confronto con la malattia e con gli scribi o con la folla (17,20). Matteo però li farà rimproverare dal Cristo “in disparte”, alla fine del suo racconto.
Nella versione di Marco, Gesù rimprovera d'incredulità (cui Luca e Matteo aggiungono, enfaticamente, la “perversione”) soprattutto il padre del ragazzo, poi la folla e gli scribi lì presenti e, indirettamente, anche i suoi discepoli, fino a tutta la generazione ebraica a lui contemporanea, che a causa appunto dell'incredulità rischia di mandare in rovina l'intera nazione. È evidente che la categoricità del suo giudizio va messa in relazione al momento in cui viene formulato. Se la gente dimostra ancora tanto scetticismo, significa che i suoi insegnamenti non hanno ottenuto l'effetto sperato: egli ha guarito e predicato invano.
v. 20) E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando.
Perché Gesù accetta di guarirlo? 1) Perché ha bisogno del consenso della folla, senza il quale nessuna liberazione politico-nazionale sarà mai possibile; 2) perché di questo caso si sta facendo un dramma di dominio pubblico e lui è nella condizione di poter fare qualcosa. Non è semplicemente la compassione per il malato che lo convince: lo attesta almeno il fatto che questa sarà l'ultima guarigione nella terra di Erode, dopodiché egli intraprenderà il viaggio decisivo verso Gerusalemme (Mc 10,1), ove incontrerà, in occasione delle festività pasquali, molte delle stesse folle galilaiche.
Da notare che in questo versetto Marco conferma l'opinione del padre di quel ragazzo, secondo cui l'epilessia era una forma di “possessione”: opinione peraltro condivisa dalla mentalità dell'epoca e che fa ovviamente comodo a quanti sostengono la “divinità” del Cristo. Anche Luca e Matteo ne hanno approfittato: quest'ultimo addirittura sembra scusare la scarsa dimestichezza di quell'uomo con il vangelo di Gesù, mostrandolo incapace di comprendere la “possessione” del figlio (nel racconto di Matteo infatti si parla di “demonio” solo al momento dell'esorcismo). Dal canto suo, Luca, sulla scia di Marco (o di un suo secondo redattore), ha voluto trasformare la fortuita coincidenza degli spasmi dell'infermo al cospetto di Gesù, in un evento necessario, indispensabile (cosa che, al massimo, può essere stata causata dallo stress psicologico subìto in quel frangente).
v. 21) Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall'infanzia;
Gesù interroga il padre, non più la folla. Avendolo già apostrofato d'incredulità, è probabile che ora gli abbia posto questa domanda sul tempo proprio per fargli comprendere che la gravità della malattia non dipendeva dalla presenza del “demone”, ma piuttosto dalla sua grande mancanza di fede, cioè dal suo carattere ottuso ed egoista. Che si evidenzia, indirettamente e involontariamente, allorché il padre dichiara che suo figlio è malato non dalla nascita bensì dall'infanzia. La malattia non era dovuta a un difetto congenito, né a un disgraziato errore commesso al momento del parto e neppure ad una qualche “responsabilità” del ragazzo.
Con ciò Gesù vuole invitare il padre ad avere speranza, cioè a credere che il male, seppur divenuto cronico, è ancora curabile. La terapia consisterà nel risalirne alle origini, anche se questo dovrà necessariamente comportare, per il padre, una riflessione autocritica sul proprio modo di vivere, un percorso a ritroso dal presunto “demone”, cui fino a quel momento ha scaricato il peso di talune responsabilità, alla propria coscienza.
v. 22) anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”.
I sintomi più gravi li ha detti per ultimi, ma, ancora una volta, per giustificarsi. Essendosi accorto che la domanda sul tempo smascherava una responsabilità di genitore malamente gestita, egli rievoca, per difendersi, i momenti peggiori della malattia, come se volesse far capire che di fronte alla forza di questo dramma egli è sempre stato impotente. Solo adesso inizia a supplicare Gesù: qui è notevole la differenza dai racconti di Matteo e Luca.
L'unica cosa che sa dire è d'aver fatto tutto il possibile: “Se tu puoi far qualcosa di più – aggiunge –, aiutaci”. Quest'uomo non si sente affatto responsabile della condizione del figlio, neppur lontanamente pensa che questa malattia possa essere una reazione negativa al suo modo di vedere le cose, al suo modo di comportarsi nelle diverse situazioni della vita. È vero che dice “aiutaci”, ma lo dice in modo generico e superficiale, senza alcun riferimento alle cause concrete che possono aver provocato l'epilessia, cioè senza nessun “esame di coscienza”.
L'espressione “Se tu puoi, aiutaci” cela di fatto una concezione negativa degli uomini e della vita in genere, benché non nel senso del “se” dubitativo del lebbroso di Mc 1,40 ss. Là si dubitava della volontà di Gesù, qui del potere; là si dubitava agli inizi della sua attività pubblica in Galilea, qui alla fine.
Quest'uomo in realtà è convinto che si possa veramente fare ciò che si desidera non se si possiede la volontà, ma se si possiede il potere. Tra volere e potere, a suo giudizio, esiste un abisso, in quanto il primo non riesce da solo a determinare il secondo. Ora, se Gesù può fare qualcosa, non è perché ha più volontà, ma solo perché ha più potere.
Il possesso del potere sembra dipendere, nella concezione di questo postulante, da fattori estrinseci alla persona: sono le circostanze, la fortuna, il caso o la natura che lo procurano al soggetto. La volontà non è altro che la capacità di saper mettere a frutto i poteri che già si possiedono e di cui si ha consapevolezza.
Quest'uomo è un fatalista: i filosofi direbbero un “determinista”. Egli infatti nega recisamente la possibilità di un cambiamento qualitativo delle cose o dell'esistenza, nega valore all'operato di quei gruppi sociali che nei rapporti di forza rischiano spesso di essere relegati ai margini. È vero che la volontà non può produrre automaticamente il potere, ma in assoluto questo non è vero. Sulla base di certe situazioni, per il concorso di determinati fattori e circostanze, molte volte accade che la volontà (anche, anzi soprattutto quella degli “ultimi”) genera il potere, un potere nuovo, in grado di trasformare la vita degli uomini. Credere in questo significa credere non solo nell'oggettività dei fatti storici, ma anche nelle concrete possibilità degli uomini. Sono i fatti stessi che possono indurre l'uomo a rendersi conto delle sue (a volte insospettate) capacità, quelle capacità in grado di determinare un mutamento sostanziale della realtà.
Le conseguenze che la filosofia negativa di quest'uomo implicava sono evidenti. Egli era persuaso che se il destino aveva voluto, arbitrariamente, preferire una persona invece che un'altra, dotandola di particolari “poteri”, non c'era nessun valido motivo d'aver fiducia in questa “fortunata” persona. In effetti, se il possesso di tali poteri non è trasmissibile, né garantisce un loro uso non arbitrario, non c'è alcuna valida ragione per desiderare di avere una volontà positiva o costruttiva.
Quel padre incredulo si era deciso a chiedere l'intervento di Gesù solo perché la folla gli aveva fatto pressione, e qui gli chiede la “pietà” proprio perché è convinto che un uomo dotato di grandi poteri, se non ha anche compassione e pietà, difficilmente li userà per un fine di bene (o comunque per un fine che non coincida immediatamente col proprio interesse). Chi ha il potere, se non ha allo stesso tempo la pietà, non è mai spontaneo nell'aiuto che concede. Il “se” quindi non è soltanto riferito al potere di Gesù, ma anche alla sua pietà. Il pregiudizio sta nel fatto ch'egli ritiene Gesù capace di fare preferenze di persona.
v. 23) Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”.
Gesù mostra di meravigliarsi alquanto della filosofia di quest'uomo, sia perché esattamente antitetica al messaggio del suo vangelo, da tempo predicato in quella regione, sia perché priva di quel minimo di fiducia nella vita e nelle umane risorse, tale da permettere di affrontare le situazioni con serenità e coraggio. (Da notare che l'omnia è in posizione predicativa senza articolo, indicando con ciò proprio tutto, senza eccezioni, mentre la fede richiesta non è quella momentanea ma quella permanente. Essendovi, nel testo greco, un participio presente il testo andrebbe tradotto così: “Tutto è possibile a colui che continua a credere”).
La reazione di Gesù non è solo di stupore, ma anche di fastidio. In fondo la fiducia che chiedeva non era un salto nel buio, poiché il primo a rischiare le conseguenze di quello che diceva e faceva era lui stesso. L'atteggiamento di fede non era altro che la possibilità di credere in un cambiamento, in una trasformazione qualitativa dell'esistenza, di cui la stragrande maggioranza della popolazione aveva bisogno. Tutti, indistintamente, e non pochi eletti o privilegiati, potevano sperimentare, se volevano, questa lotta per la liberazione politico-nazionale, per l'emancipazione degli oppressi. L'unica condizione richiesta per fruire dei benefici derivanti dall'incontro personale col movimento messianico di Gesù era il riconoscimento che solo con una partecipazione collettiva al vangelo il limite personale e sociale poteva essere superato. Gesù non chiedeva soltanto una disponibilità personale, ma anche la capacità di guardare le cose in modo obiettivo, ponendosi dal punto di vista della collettività che crede nella transizione.
v. 24) Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”.
In modo traumatico il padre comincia a rendersi conto d'essere responsabile della malattia del figlio: Marco dice ch'egli ammise la propria incredulità “ad alta voce” (meglio sarebbe tradurre: “esclamò gridando”), come se gli costasse un enorme sacrificio, come se non gli rimanesse altro da fare!
Fino a quel momento Gesù non aveva fatto nulla per guarire il giovane che gli si rotolava davanti sbavando. Il fatto è che, senza fede, la guarigione non sarebbe servita. Troppi casi analoghi l'avevano dimostrato. Occorreva che questo fosse soprattutto chiaro a quell'uomo, dalla cui conversione sarebbe dipeso il risanamento psicofisico del figlio. E qualcosa in effetti è avvenuto: l'aiuto richiesto acquista per la prima volta un carattere personale. Le necessità dell'autocritica avevano posto fine alla teatralità.
v. 25) Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te lo ordino, esci da lui e non vi rientrare più”.
Mentre alcuni della folla erano andati a prendere il ragazzo, Gesù si era appartato con quell'uomo, ma la folla non se n'era andata; anzi, appena sentito l'urlo del padre, essa corre subito per vedere il prodigio. Sennonché Gesù, non avendo più intenzione di lasciarsi coinvolgere in questi atteggiamenti infantili e strumentali, la previene, anticipando i tempi della terapia.
Nella sua minaccia, che si fa fatica a credere sia stata pronunciata in quei termini, vi è un novità: il ragazzo non era epilettico perché “muto”, ma muto perché “sordo”. L'incapacità di comunicare era dovuta in realtà al rifiuto di ascoltare. Egli non aveva fatto altro che somatizzare il conflitto che aveva col padre e, proprio come il padre, era diventato sordo ai richiami della vita, incapace di mettersi in relazione colle esigenze della vita.
v. 26) E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”.
La guarigione non fu facile, il male covava in profondità. La folla però tradisce la propria incredulità suggerendo al padre l'idea che il figlio non sia riuscito a sopportare la terapia, e lo vuole convincere del suo decesso. Ovvero, essa esprime un “giudizio di fatto” fuori luogo, in quanto non attende la versione del guaritore, cioè una conferma dei fatti da parte di chi, in quel momento, poteva darla con maggiore sicurezza e cognizione di causa. Questo dimostra che la folla, nonostante le grandi terapie del Cristo, restava incredula: qui addirittura lo sospetta d'aver fatto morire il giovane. Il padre tuttavia non si pronuncia e, come lui, una parte della folla, poiché il testo greco fa capire chiaramente (ma lo si intuisce anche nella versione italiana) che lo scetticismo riguardava “molti” non “tutti”.
v. 27) Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi.
Proprio mentre molti credono che sia morto, pur potendo immaginare che il messia-terapeuta non avrebbe mai messo in preventivo un'eventualità del genere accettando la supplica del postulante, né mai si sarebbe sognato di “contrattare” la ritrovata fede di un padre con la morte di un figlio, Gesù invita quest'ultimo a “stare in piedi”, cioè ad affrontare la vita con fiducia e coraggio.
Qui si può concludere dicendo che Luca e Matteo hanno tralasciato completamente la critica della filosofia pessimista di questo anonimo postulante. Per entrambi non si è trattato che di un mero esorcismo, neppure tanto difficile. Non v'è traccia nei loro racconti del dramma psicologico che ha coinvolto quell'uomo, né del significato etico, politico e filosofico sotteso al racconto di Marco. Benché sia chiara l'indisponibilità di Gesù a concedere favori “fuori tempo” e soprattutto senza un minimo delle condizioni richieste, l'infermo viene sanato – nei loro vangeli – per la pietà che suscita il suo caso. La protesta di Gesù, infatti, viene da entrambi messa in relazione col fatto che dopo tanti mesi di predicazione e di guarigioni, egli era convinto che la coscienza della folla avesse ormai acquisito la superiorità dell'una sulle altre.
In particolare, se in Matteo Gesù dà per scontato che la folla non sia capace di questa maturità, mentre gli stessi discepoli devono essere ripresi, privatamente, per la loro “poca fede” (qui ovviamente “religiosa”), Luca invece si limita a dire che di fronte a questa ennesima guarigione tutti furono “meravigliati”. Il che però non significa nulla, in quanto un atteggiamento del genere, in quel contesto spazio-temporale, non può essere considerato come un preludio alla fede (religiosa o no), ma semmai come una forma di miscredenza, essendo qui evidente ch'esso è fine a se stesso. Per quanto riguarda Marco, il passo corrispondente a quello di Matteo, ove in luogo della “poca fede” dei discepoli, si parla di “poca preghiera”, ha tutta l'aria d'essere un'aggiunta infelice, poiché esso mira a confondere la fede esistenziale con quella “religiosa” e la fede nell'uomo con quella in “Dio”.
Per concludere: in Matteo e in Luca il ragazzo guarisce a causa dell'esorcismo su di sé; in Marco a causa dell'“esorcismo” sul padre, il quale ha sì “fede”, ma in maniera del tutto umana, senza alcun riferimento alla “religione”.
(torna su)11) Il politico Bartimeo
(Mc 10,46-52)
MARCO (10,46-52) [46] E giunsero a Gèrico. E mentre partiva da Gèrico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. [47] Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. [48] Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. [49] Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. [50] Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. [51] Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. [52] E Gesù gli disse: “Va', la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada. |
MATTEO (20,29-34) [29] Mentre uscivano da Gèrico, una gran folla seguiva Gesù. [30] Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la strada, sentendo che passava, si misero a gridare: “Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!”. [31] La folla li sgridava perché tacessero; ma essi gridavano ancora più forte: “Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi!”. [32] Gesù, fermatosi, li chiamò e disse: “Che volete che io vi faccia?”. [33] Gli risposero: “Signore, che i nostri occhi si aprano!”. [34] Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono. |
LUCA (18,35-43) [35] Mentre si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. [36] Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. [37] Gli risposero: “Passa Gesù il Nazareno!”. [38] Allora incominciò a gridare: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. [39] Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. [40] Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: [41] “Che vuoi che io faccia per te?”. Egli rispose: “Signore, che io riabbia la vista”. [42] E Gesù gli disse: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”. [43] Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio. |
*
v. 46) E giunsero a Gerico.
L'ultima guarigione che Gesù fece in Galilea fu quella dell'epilettico di Dabereth; “poi – dice Marco – Gesù partì di là e se ne andò nei territori della Giudea ed anche oltre il Giordano” (10,1). Pur tacendo i motivi politici di tale viaggio verso la capitale ebraica (in quanto la liberazione degli “oppressi”, già nel suo vangelo, viene ad essere una diretta conseguenza della redenzione morale connessa alla “morte necessaria”, sebbene non in maniera così esplicita come in Matteo e Luca), Marco ne vuole ugualmente ricordare la grande importanza soteriologica che per il Cristo aveva (di cui lui solo, peraltro, era consapevole). Infatti – dice Marco – “mentre erano in cammino salendo a Gerusalemme, Gesù andava davanti a loro; essi erano turbati…” (10,32), poiché temevano per la loro sorte. Avendo egli perduto in Galilea la popolarità di un tempo, gli apostoli erano convinti che il suo progetto di liberazione messianica fosse irrealizzabile.
È in questo contesto che va collocato l'episodio di Bartimeo. Completamente d'accordo sono Luca e Matteo, benché per il primo il postulante sia del tutto anonimo, mentre per il secondo non si tratti di “uno” bensì di “due” ciechi.
Per arrivare a Gerusalemme, venendo dalla Galilea, si poteva scegliere fra due strade: una, più breve, passava per la Samaria (terra odiata dai Giudei); l'altra invece costeggiando il Giordano, attraversava appunto la città di Gerico (importante centro commerciale e doganale in cui i Romani avevano posto molti gabellieri), per poi immettersi nel deserto giudaico. Conformemente al principio (puramente teorico) che “la salvezza viene dai Giudei” (cfr Gv 4,22), Gesù, senza offrire inutili pretesti alle polemiche, sceglie il secondo percorso.
Passando quindi per Gerico (anche sul nome di questa città i sinottici sono unanimi), Gesù voleva entrare a Gerusalemme (nel vangelo di Giovanni non vi sono motivi per mettere in dubbio le coordinate spazio-temporali indicate da Marco). Dopo anni (superiori a tre, secondo Giovanni) di intensa attività terapica e propagandistica, Gesù voleva suggellare per così dire sul piano istituzionale lo scopo più significativo del suo impegno politico, ideale e sociale: la liberazione nazionale d'Israele. Egli dunque voleva entrare nella capitale per essere ufficialmente riconosciuto come messia, cioè per essere confermato in ciò che da tempo il popolo credeva. In un modo o nell'altro le folle avevano intuito le possibilità di questo sbocco rivoluzionario. Gesù poteva anche non essere il messia tanto atteso – a motivo della sua estraneità ai metodi tradizionali di gestione del potere e del consenso popolare –, ma certamente la sua grande autorevolezza politica e morale non pregiudicava la realizzazione del rinnovamento sociale e nazionale.
Sulle modalità operative con cui avrebbe dovuto conseguire tale obiettivo, i pareri erano molto discordi, anche se tutti fondamentalmente ancorati a una visione revivalista del regno davidico. Mediante la tattica del “segreto messianico”, che i suoi discepoli più fidati ben conoscevano, Gesù cercò sempre di evitare che le folle lo costringessero ad assumersi dei compiti superiori alle sue forze o a intervenire in situazioni e momenti sbagliati, oppure a sostenere principi e valori che ormai avevano fatto il loro tempo.
Indubbiamente, poiché il dominio romano stava non solo compromettendo qualsiasi resistenza armata e non armata dei gruppi politici d'Israele (militarizzati e non), ma minacciava anche di far scomparire i valori, gli usi e i costumi della migliore tradizione ebraica, l'obiettivo esplicito del movimento nazareno era quello di compiere una rivoluzione nazionale (con il concorso delle forze progressiste) che fosse nel contempo culturale e sociale, tale da permettere la partecipazione anche a quelle forze che il nazionalismo giudaico considerava “inferiori” (come ad es. i Samaritani, i Galilei, certi ambienti di origine greca…). Le aperture “universalistiche” del movimento di Gesù verso i non-Giudei o addirittura verso i non-ebrei facevano da pendant, in politica interna, alle aperture “democratiche” verso i ceti subalterni.
Non era però facile varcare la soglia di Gerusalemme. Durante la festa della Dedicazione di alcuni mesi prima, Gesù, per essersi affermato “messia” e “Dio” al cospetto dei farisei (Gv 10,34: il che allora equivaleva a un'esplicita professione di “ateismo”, benché il vero “ateismo” del Cristo stesse nel considerare “Dio” ogni essere umano), aveva rischiato la lapidazione ed era stato costretto – dice Giovanni – ad andarsene fuori della Giudea, “al di là del Giordano, dove Giovanni da principio battezzava” (10,40).
Con l'approssimarsi della Pasqua, e soprattutto dopo la misteriosa resurrezione di Lazzaro (altro politico rivoluzionario ma di origine giudaica), i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine “che chiunque sapesse dove egli si trovava lo denunciasse” (Gv 11,57). Non si dava dunque per scontato il suo ingresso nella “Città Santa” (Gv 11,56). Gesù vi si decise quando si accorse che i parenti di Lazzaro, testimoni della cosiddetta “resurrezione”, erano riusciti, diffondendone la notizia in città, a riaccendere le simpatie dei gruppi politici più progressisti, grazie ai quali egli avrebbe potuto sentirsi protetto dalle insidie delle autorità e dei gruppi più retrivi (sadducei, anziani, ecc.). Naturalmente la scelta di questa festa non era casuale, in quanto nessun'altra avrebbe potuto concentrare così tante forze in un unico tempo e luogo.
Il momento era sicuramente favorevole. Già quando Gesù si trovava a pochi chilometri da Gerusalemme, e precisamente a Betania di Giudea, una gran folla era accorsa: “anche per vedere Lazzaro” – precisa Giovanni (in questo caso mentendo, poiché o Lazzaro non era veramente morto, oppure la sua resurrezione va intesa in senso simbolico, relativamente alle sue idee politiche, che non sarebbero morte con la sua persona). Di qui la decisione, irrevocabile, che i sommi sacerdoti presero di “uccidere pure Lazzaro [ovvero i suoi seguaci], perché molti Giudei se ne andavano [cioè rinunciavano a credere al potere giudaico istituzionale] a causa di lui e credevano in Gesù” (Gv 12,9 ss.).
Le autorità temevano la popolarità di Gesù (cfr Gv 12,19): forse più che arrestarlo, processarlo e giustiziarlo, per loro sarebbe stato meglio eliminarlo in gran segreto, ma anche questo non era facile. D'altra parte Gesù si rendeva conto che la protezione di cui poteva usufruire aveva sì come scopo quello di vederlo trionfare come messia contro i Romani, ma anche – secondo molti – quello di riaffermare integralmente le tradizioni giudaiche dominanti (cfr Gv 12,34). Ecco perché gli era difficile fidarsi ciecamente di questo appoggio popolare. Gesù voleva una rivoluzione di popolo che avesse un contenuto, una dimensione e un carattere globale, che investisse ogni aspetto della vita sociale, culturale e politica: solo così essa avrebbe potuto risultare vincente contro lo strapotere dell'imperialismo romano e contro il collaborazionismo interno. Soltanto a questa condizione egli sarebbe stato disposto a diventare messia. Il popolo quindi avrebbe anzitutto dovuto convincersi che il primo potere ad essere rovesciato era quello delle autorità sinedrite e di quelle del Tempio, che cercavano di cooperare con Roma per salvaguardare i loro privilegi. In nessun caso egli sarebbe stato disposto a compromettersi con queste autorità per dar vita a un governo che solo in apparenza sarebbe venuto incontro alle esigenze di liberazione delle masse.
La situazione quindi era complessa, aperta a diverse soluzioni: in ogni caso sufficientemente matura per realizzare una transizione. Con la guarigione del cieco Bartimeo siamo agli inizi di questo epilogo.
v. 46) E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
La “molta folla” di cui parla Marco proviene probabilmente dalla stessa città di Gerico. Infatti il soggetto sottinteso al “giunsero”, detto in apertura a questo racconto, include soltanto Gesù e gli apostoli, in quanto – stando a Giovanni (11,54 s.) – essi provenivano da Efraim, una “contrada vicino al deserto”, ove si erano rifugiati per sfuggire al mandato di cattura. (Qui si deve ricordare che per i sinottici, diversamente da Giovanni, questo è l'unico momento in cui Gesù entra a Gerusalemme).
Molti di Gerico si erano probabilmente aggregati alla loro comitiva perché sapevano che Gesù voleva entrare pubblicamente a Gerusalemme. Usciti poi da Gerico, Gesù e i suoi discepoli si fermeranno per la notte di nuovo a Betania (ove Lazzaro era “risorto”), mentre la folla li precederà nella capitale, a preparare il suo ingresso trionfale.
A Gerico Gesù compie la sua ultima guarigione. In città – stando alla versione di Marco – egli non incontra nessuna persona meritevole d'essere ricordata: secondo Luca invece egli incontrò il pubblicano Zaccheo (19,1 ss.).
È “uscendo” dalla città (e non “entrandovi”, come dice Luca) che Gesù viene fermato dal cieco Bartimeo, cioè dal figlio di Timeo (già noto – come si evince dal testo greco – a chi frequentava Gerico). Lo incontra probabilmente in una via obbligata per il transito verso Gerusalemme: prima della Pasqua i Giudei osservanti erano tenuti particolarmente all'elemosina. Era qui che Bartimeo aveva le migliori possibilità e non a Gerico, ove i pellegrini si disperdevano. Nessuno lo aveva informato della presenza di Gesù in città. Il motivo forse è duplice: da diversi mesi egli non svolgeva più attività terapica; inoltre negli ambienti giudaici progressisti si era immediatamente capito che la liberazione nazionale, di cui egli poteva farsi carico, era un obiettivo molto più importante.
v. 47) Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”.
Riconosce Gesù perché ne aveva già sentito parlare. Il baccano della folla lo incuriosisce e ne chiede il motivo. Per attirare l'attenzione di Gesù, intuendo che se ne sta andando, si mette a “gridare”: si fa forte della sua stessa debolezza. Grida perché sa, per esperienza, di non essere ascoltato. Non inveisce ovviamente contro Gesù né contro i suoi concittadini, ma contro un ordine di cose che a lui pare ingiusto: la salvezza è arrivata e lui è ancora cieco.
Che la “salvezza” per lui sia veramente arrivata lo dimostra l'appellativo con cui la invoca: “Figlio di Davide”. Marco non gli mette in bocca il nome col quale la folla aveva risposto alla sua domanda, e cioè “Gesù Nazareno”. Lo stesso nome di “Gesù” potrebbe essere un'aggiunta: a Bartimeo infatti non interessava l'identità anagrafica né la provenienza geografica del messia (se dalla Giudea o dalla Galilea, sulla quale invece amavano disquisire i gruppi conservatori della capitale – cfr Gv 7,41-43.52); a lui interessava l'autorità politica del messia, ovvero la possibilità di trovare nel suo stile o nella sua missione una qualche affinità con il più grande re (e cioè Davide) che Israele avesse mai avuto. È la prima volta che nel vangelo di Marco ci si rivolge a Gesù con un simile appellativo (non dimentichiamo però che la testimonianza di Pietro in Mc 8,29 aveva un significato analogo); e l'ultima sarà di lì a poco, al momento dell'ingresso trionfale nella capitale (Mc 11,10).
“Figlio di Davide” era un titolo messianico: a partire da 2 Sam 7,12 il messia degli ultimi tempi era atteso come un discendente di Davide (non necessariamente in senso letterale). Non lo si immaginava come un guaritore di mali fisici, ma piuttosto come un liberatore nazionale. Bartimeo quindi, facendo coincidere tali ruoli, dimostra che, oltre a conoscerlo, per sentito dire, come taumaturgo, lo apprezzava anche come predicatore, attivista e potenziale leader del paese. Impaziente di attendere la venuta del messia, egli, “al sentire che c'era”, lo riconosce subito e lo chiama con un titolo tipicamente giudaico. È singolare la differenza tra questo cieco e quello di Betsaida.
Tuttavia, la sua fede politica viene qui espressa in maniera equivoca, poco convincente. E non tanto per il fatto che anche quest'uomo – come tutti, del resto – si attendeva dal messia la ricostituzione immediata del grandioso regno di Davide e Salomone, quanto per il fatto ch'egli intende servirsi della messianicità di Gesù per soddisfare anzitutto un'esigenza personale. Proferendo le parole “abbi pietà di me”, nel momento in cui Gesù stava per entrare a Gerusalemme ed essere proclamato messia, il cieco in sostanza vuol far capire che la messianicità di Gesù è per lui autentica e significativa solo nella misura in cui egli riuscirà ad ottenere la guarigione. Nella sua implorazione è dunque implicito il tentativo di mettere alla prova l'umanità di Gesù, il suo senso personale di giustizia. Si tratta di una specie di verifica preliminare al limite del ricatto morale: “Se sei il messia guariscimi!”. Solo dopo sarebbe venuto il consenso politico.
Tali aspetti sono sfuggiti o sono stati volutamente tralasciati da Matteo e Luca: quest'ultimo perché preferisce far risaltare il nome di Gesù più che non il titolo onorifico; Matteo invece perché attenua la politicità del titolo messianico mediante la spiritualità di un titolo usato religiosamente dalla chiesa primitiva: “Signore”.
Ci si può chiedere, infine, come mai la folla al seguito di Gesù abbia preferito usare l'appellativo generico del “Nazareno” (ammesso che voglia dire “di Nazareth”) e non quello specifico di “Figlio di Davide”. Si può qui ipotizzare, come risposta, ch'essa fosse originaria della Giudea e che attendesse un riconoscimento ufficiale o istituzionale del messia all'interno della capitale (ovviamente non è neanche il caso di pensare ch'essa abbia avvertito il limite storico e politico nel titolo usato da Bartimeo). Ma non è da escludere, dato l'anti-giudaismo del vangelo di Marco, che la folla in questione sia tutta di origine galilaica.
v. 48) Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbia pietà di me!”.
Gesù lo ascolta ma non si ferma: non aveva bisogno di dimostrare la propria umanità, né in quanto taumaturgo né in quanto messia. Fermarsi sarebbe ora come perdere del tempo, anzi un tornare indietro, tanto più che il titolo di “Figlio di Davide”, detto dal cieco sia per convinzione personale, sia per ottenere più facilmente la guarigione, andava accettato con riserva, implicando esso una concezione tradizionale, cioè superata del messia (cfr Mc 12,35). In suo luogo Gesù aveva preferito, sin dall'inizio, quello più democratico e universale di “Figlio dell'uomo”, che non si prestava a strumentalizzazioni nazionalistiche e politico-religiose.
La folla comunque non sgrida Bartimeo per l'uso che questi fa del titolo messianico, ma solo perché sa che non è quello il momento di fare guarigioni (specie se quel titolo è vero). Il cieco, in altre parole, non lascia che le esigenze della nazione prevalgano sulle proprie, ma fa il contrario. Ormai infatti non è più questione di guarigioni: tutti sanno che le sa fare e che le fa per un fine di bene. Ora la messianicità di Gesù deve soddisfare un desiderio di liberazione oggettivo, generale, squisitamente politico. Gesù quindi non ha bisogno di sottoporsi alla verifica del postulante, in quanto già da tempo ha dimostrato il valore della propria credibilità, umana e politica.
Bartimeo però non si scoraggia, non demorde, e con grande fervore chiede attenzione, implora pietà. Non lo fermano né la sua miserevole condizione, né l'indifferenza di Gesù, né i rimproveri della gente. Il suo atteggiamento è fastidioso, quasi impertinente: eppure, se non fa così, non potrà ottenere quanto desidera. Non avendo capito che l'ingiustizia non sta tanto nella propria malattia o nelle malattie degli uomini in genere, quanto nelle cause che le generano e nei fattori che le riproducono, e non avendo quindi accettato che la “salvezza” o la “liberazione” si indirizzi prima di tutto verso queste cause di fondo (di ordine sociale, culturale e materiale) e non tanto verso i suoi singoli effetti, non avendo infine accettato che chi subisce le maggiori conseguenze di tali contraddizioni deve impegnarsi “così com'è”, sacrificandosi di non poter avere “tutto e subito”, e pensando piuttosto a lottare per il bene delle future generazioni – non avendo capito questo, Bartimeo, se vuole ottenere una guarigione senza la fede, deve urlare con quanto più fiato ha in gola, sperando che il taumaturgo, fermandosi, faccia un'eccezione alla regola, quella secondo cui andava considerato concluso il tempo di credere che la “salvezza” dell'uomo possa coincidere con un beneficio ottenuto personalmente.
In Luca la dinamica dell'incontro ha subìto una sostanziale modifica, correlata al fatto che il racconto risulta spoliticizzato. Essendogli parso strano che nessuno avesse informato il cieco della presenza di Gesù in città, Luca preferisce parlare dell'incontro mentre Gesù sta per entrare a Gerico, non mentre sta per uscirvi. Lo dice due volte: introducendo il racconto con l'espressione “mentre si avvicinava a Gerico” e laddove fa sgridare il cieco da “quelli che camminavano davanti”. E così, pur essendo sul punto d'incontrarlo, Gesù si ferma e lo manda a chiamare, lasciando intendere che non vuole farlo aspettare.
Agli occhi del Gesù di Luca, quindi, Bartimeo è già un uomo di fede, seppure non in maniera perfetta. L'imperfezione non dipende dal fatto ch'egli ha una concezione politica inadeguata del messia, ma dal fatto che ne ha una ancora troppo politica. Da questo punto di vista sembra che la folla lo riprenda a ragion veduta, per contestargli il titolo messianico, ma è solo un'impressione: anch'essa, in realtà, vuol vedere trionfare Gesù come messia a Gerusalemme. Per cui si può pensare – leggendo Luca (nonché Matteo) – che i rimproveri partano dall'esigenza di non voler presentare a Gesù, in un momento così importante (inteso dalla folla in senso politico), dei casi individuali.
In altre parole, Luca e Matteo mostrano una folla intenta a sacrificare sull'altare della politica proprio i casi individuali che destano pietà. Operazione alla quale non partecipano, nei loro vangeli, gli apostoli di Gesù, che sono già stati messi sull'avviso con osservazioni fatte in precedenza, delle quali però – dice Luca – essi “non capirono nulla” (18,34).
In effetti, il Cristo di Luca e Matteo va a Gerusalemme con l'intenzione esplicita di morire, al fine di adempiere – dice Luca – “tutte le cose scritte dai profeti” (18,31) e dimostrare così ch'egli era veramente il “Figlio di Dio”. Luca fa anticipare il racconto di Bartimeo dalla terza profezia della passione. Matteo, oltre a questa profezia, mette, come premessa, anche la risposta che Gesù dà alla madre di Giacomo e Giovanni, il cui finale, puramente redazionale, suona così: “il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (20,28).
Parole, queste, che se non potevano essere comprese dai discepoli più stretti, figuriamoci dalla folla… In ogni caso sia Luca che Matteo han ritenuto opportuno togliere di scena dal racconto di Bartimeo la presenza dei discepoli, per non rischiare di farli apparire come la folla nel momento in cui questa cercherà di zittire il postulante. Scrupolo, questo, che Marco non ha avuto, sapendo bene che tra folla e discepoli, riguardo alla concezione politica che avevano del messia, non c'era molta differenza, per quanto la tesi della “morte necessaria” del Cristo appartenga proprio a Marco, che, in questo, si fa portavoce di Pietro.
v. 49) Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”.
La folla e il cieco esprimono l'intreccio di due esigenze diverse, con il prevalere, per la prima, della liberazione politica e, per il secondo, della guarigione fisica. La differenza sta solo nel fatto che la folla è “fisicamente sana”.
Ancora una volta Gesù si trova di fronte a una difficile situazione: non può sottostare al ricatto del cieco, ma non può neppure avvalorare la concezione tradizionale di messia che ha la folla. Non può concedere la guarigione per la compassione che il caso gli suscita, poiché ha un compito ben più grande da svolgere, però non può neppure dare l'impressione che ormai la pietà non sia più un valore necessario alla sua affermazione politica.
Gesù si ferma chiamandolo con autorità: come se volesse mostrare, da un lato, la sua incapacità a proseguire il cammino nell'indifferenza e, dall'altro, la sua ferma intenzione a non ascoltare più richieste del genere. La guarigione la farà, ma solo davanti a una testimonianza minima di fede. Se la sua missione fosse stata unicamente quella di guarire tutti gli ammalati che incontrava, a Gerusalemme non avrebbe mai cercato il pericoloso confronto con le autorità. Invece di un “Cristo crocifisso” la storia avrebbe avuto un “taumaturgo morto di vecchiaia”: grande sì, famoso anche, ma non certo per le sue idee.
Nelle due versioni di Luca e Matteo, Gesù si ferma sia per la pietà del caso che per correggere la “deviazione anti-umanistica” della folla, che ha di Gesù una concezione meramente politica e della politica una concezione meramente totalitaria, quella secondo cui l'interesse personale va sempre subordinato a quello collettivo. Egli qui non può tollerare i rimproveri della folla proprio perché sa di non essere quel “messia” che la maggioranza si attende e si ferma appunto per dimostrarlo (sperando che lo capisca anche Bartimeo, che con quel suo appellativo politico non era apparso migliore della folla).
Al Cristo di Luca e Matteo è estranea non solo l'esigenza del potere, ma anche la dimensione in generale della politica, cioè del conflitto anti-istituzionale. Egli infatti entra a Gerusalemme allo scopo di proporre eticamente un'idea di giustizia basata sulla logica del servizio, cioè della misericordia, della pietà, dell'amore universale, in antitesi alla logica del potere, che è tipica delle autorità costituite (romane e giudaiche). In pratica Gesù non è che un idealista rigorosamente non-violento, che, al cospetto di un potere dominante sordo ai suoi richiami, vuole sacrificare la propria vita nella speranza che le masse comprendano il suo modo nuovo di concepire la politica (un modo che la chiesa primitiva non tarderà a battezzare con i crismi della religione).
Viceversa, la folla descritta da Marco non è così insensibile come appare in Luca e Matteo. Convinta anzi che le proprie esigenze politiche siano coincidenti con quelle del Cristo, essa riteneva la propria ripulsa verso Bartimeo del tutto naturale, tant'è che quando vede il Cristo interessato al caso, non ha obiezioni di sorta e subito va a chiamare il cieco incoraggiandolo ad alzarsi. Nel vangelo di Marco non è neppure così evidente (almeno non in questa pericope) la vocazione al “martirio” da parte di Gesù, né questi appare come un pacifista ad oltranza, alieno da ogni uso della forza per difendere la causa degli oppressi.
v. 50) Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Bartimeo non ha nemmeno bisogno di farsi aiutare: sembra infatti che si alzi da solo, gettando subito via il mantello su cui sedeva, incurante di perderlo. “Balza in piedi” – dice Marco –, con uno scatto fulmineo, si potrebbe pensare. Difficile credere che quest'uomo sia stato cieco dalla nascita. Il fatto stesso che l'abbiano chiamato (v. 49) e che ora egli cammini da solo verso Gesù, sta forse ad indicare che la malattia, seppur grave, era appena agli inizi. Nel vangelo di Luca, invece, Gesù deve “ordinare” che glielo conducano, il che fa inoltre sospettare che la folla avesse poco interesse a vederlo guarire. Di conseguenza Bartimeo appare meno sicuro di sé.
v. 51) Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”.
Immaginandosi che Gesù lo capisse da solo, Bartimeo non aveva chiesto esplicitamente il dono della vista. Ora però che ha udito quella strana domanda sa di non poter dare una risposta scontata. Qui davvero nessuno può aiutarlo.
Chiamandolo col titolo strettamente confidenziale di “rabbunì” (che significa “mio maestro” o “mio grande” e che è superiore a “rabbi” o “maestro”, usato, il più delle volte in maniera formale, anche dai nemici di Gesù), Bartimeo dimostra la sua fede, cioè la sua intelligenza, e potrà così ottenere ciò che desidera. Egli non esita un attimo a riconoscerlo come sua personale “guida e maestro” (forse questo lascia intendere che si erano già conosciuti? o che Bartimeo, prima di ammalarsi, l'aveva visto di persona o ne aveva ascoltato, tramite un discepolo, il vangelo, restandone favorevolmente impressionato?).
In virtù di questa singolare testimonianza, Bartimeo dimostra di voler la guarigione per seguire meglio Gesù come discepolo. Certo, egli non ha ancora superato la concezione tradizionale del messia, ma si è posto sulla strada giusta per farlo. Ha capito che Gesù merita di essere riconosciuto come messia appunto perché si è fermato: ora dovrà capire che lo meritava anche se non si fosse fermato, e tanto più lo meritava in quanto chi chiedeva la verifica dell'umanità del messia non era neppure in grado di pretenderla nei confronti di se stesso (si pensi al problema del “ricatto morale”).
v. 52) E Gesù gli disse: “Va', la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.
La fede l'aveva “salvato”: dall'angoscia di sentirsi un “maledetto”, un escluso dalle vicende della storia, ma soprattutto dalla pretesa di voler giudicare col proprio metro una realtà sottoposta a leggi oggettive, che vanno rispettate. La fede non l'aveva semplicemente “guarito”, come sarebbe accaduto se l'avesse avuta solo nel Gesù-taumaturgo. In realtà la fede l'aveva salvato da una concezione errata della messianicità di Gesù, quella secondo cui gli uomini dediti alla politica dimostrano pietà e compassione solo fino a quando non giungono al potere.
Una volta guarito, prese a “seguirlo”, dice Marco. In realtà Gesù non gliel'aveva chiesto espressamente. Lo aveva soltanto messo alla prova invitandolo ad andarsene. Questa era stata la quarta prova che Bartimeo aveva dovuto superare, dopo la ripulsa della folla, l'indifferenza di Gesù e la sconcertante domanda con cui questi l'aveva interpellato. In effetti se per Gesù la guarigione non andava considerata come una cosa scontata, non doveva apparire come tale neppure per Bartimeo, il quale perciò avrebbe potuto dare una risposta diversa da quella riportata nel testo, del tipo ad es.: “mi basta che tu ti sia fermato”. Risposta che non diede appunto perché riteneva la guarigione un elemento indispensabile ai fini della sequela. Il che, presupponendo una qualche fede nel vangelo, non poteva scandalizzare Gesù.
A un giudeo così appassionato, così pronto a militare nel movimento messianico del Nazareno, non occorre nessun particolare cerimoniale di guarigione: Marco e per imitazione Luca (ma non Matteo) affermano che lo guarì senza neppure toccarlo. Si trattava peraltro di fargli “recuperare” la vista, non di dargliela ex-novo (Luca, che è medico, ha evidenziato più di una volta che il “recupero della vista” di cui parla Marco andava interpretato in tal senso). In effetti, tutto si era già giocato nella sottile differenza degli appellativi: “Figlio di Davide” e “Rabbunì”. Forse a qualcuno della folla lì presente saranno sfuggite le complesse sfumature semantiche dei due titoli, ma certamente non a Marco, grazie al quale anzi si può cominciare a intravedere il motivo per cui nel vangelo di Matteo si è arrivati a sostituire Bartimeo con i due ciechi, trasformando un racconto politico in uno di carattere morale e religioso.
Le considerazioni matteane – si può ipotizzare – con cui si è cercato di dare uno sviluppo logico all'episodio devono essere state le seguenti: 1) in quella strada obbligata, una settimana prima della Pasqua, non poteva esserci soltanto un cieco; 2) se vi erano più individui in stato di emarginazione o malattia, è impossibile che soltanto uno sia stato guarito; 3) Gesù guarisce per la pietà del loro caso, quindi non poteva fare eccezioni; 4) la fede religiosa richiesta è servita per motivare meglio la pietà, rendendo più naturale e legittima la guarigione.
Da che cosa si capisce che la fede richiesta è di tipo “religioso”? In Matteo semplicemente dal fatto che i postulanti rinunciano al titolo politico di “Figlio di Davide”, limitandosi a quello di “Signore”: un Cristo-Signore, per Matteo, non ha bisogno di dimostrare d'essere anche un “Figlio di Davide”, anzi rinuncia volentieri a questo titolo poiché l'orizzonte in cui l'altro titolo pretende di affermarsi è metastorico: l'unico in cui i “poteri” di questo mondo non hanno alcuna autorità.
Nel vangelo di Luca Bartimeo fa in pratica la stessa cosa: si serve del titolo di “Signore” per sostituire completamente l'altro. Ma nella chiusa, molto più che in Matteo, Luca accentua il fine “religioso” del racconto: Bartimeo, infatti, “cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio” (18,43). Il che in pratica significa che la folla, dopo aver assistito allo scambio di battute fra i due protagonisti, acquisì la stessa fede di Bartimeo, quella fede che salva appunto dall'errore di credere che Gesù sia un messia politico.
Al pari di Marco, anche Luca e Matteo si sono accorti che il contesto spazio-temporale in cui questo incontro è maturato, doveva essere caratterizzato da esigenze etiche maggiori del solito, nel senso che la pietà del Cristo non poteva più esprimersi con la stessa gratuità di un tempo, con la stessa sovrabbondanza. La posta in gioco infatti era diventata più alta: il Cristo rischiava di morire. Se gli uomini avessero avuto fede in lui come “Signore” (e non come “Figlio di Davide”) – lasciano intendere Luca e Matteo –, egli non sarebbe stato crocifisso.
Tuttavia, la fede religiosa richiesta dal Gesù di Matteo e Luca è meno impegnativa di quella politica richiesta nel vangelo di Marco, in quanto qui Gesù è disposto a perdonare di più le debolezze degli uomini. Questo dipende dal fatto che per Luca e Matteo non c'è un vero obiettivo da realizzare: la trasformazione della società, ma solo un metodo da acquisire: la “sequela del catecumeno”, cioè l'atteggiamento di colui che ha appena iniziato a credere che una liberazione politica non è possibile e non è nemmeno auspicabile. La fede religiosa che Luca e Matteo insegnano ad avere (e che in parte si può ravvisare anche in Marco) ha meno cose da chiedere perché ha meno responsabilità da pretendere: essa predica la rinuncia all'agire politico-rivoluzionario. Questo però non fa parte dei limiti dei sinottici più di quanto non faccia parte dei limiti della stessa religione.
(torna su)SEZIONE II
I MALATI DI GIOVANNI
12) La guarigione del figlio di Cuza
(Gv 4,43-54)
GIOVANNI (4,43-54) [43] Trascorsi due giorni, partì di là per andare in Galilea. [44] Ma Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria. [45] Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa. [46] Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l'acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafarnao. [47] Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e lo pregò di scendere a guarire suo figlio poiché stava per morire. [48] Gesù gli disse: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete”. [49] Ma il funzionario del re insistette: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia”. [50] Gesù gli risponde: “Va', tuo figlio vive”. Quell'uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino. [51] Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: “Tuo figlio vive!”. [52] S'informò poi a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: “Ieri, un'ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato”. [53] Il padre riconobbe che proprio in quell'ora Gesù gli aveva detto: “Tuo figlio vive” e credette lui con tutta la sua famiglia. [54] Questo fu il secondo miracolo che Gesù fece tornando dalla Giudea in Galilea. |
MATTEO (8,5-13) [5] Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: [6] “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. [7] Gesù gli rispose: “Io verrò e lo curerò”. [8] Ma il centurione riprese: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. [9] Perché anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Fa' questo, ed egli lo fa”. [10] All'udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. [11] Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, [12] mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti”. [13] E Gesù disse al centurione: “Va', e sia fatto secondo la tua fede”. In quell'istante il servo guarì. |
LUCA (7,1-10) [1] Quando ebbe terminato di rivolgere tutte queste parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafarnao. [2] Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l'aveva molto caro. [3] Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. [4] Costoro giunti da Gesù lo pregavano con insistenza: “Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, [5] perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga”. [6] Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: “Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; [7] per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. [8] Anch'io infatti sono uomo sottoposto a un'autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all'uno: Va' ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa”. [9] All'udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: “Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!”. [10] E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito. |
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v. 43) Trascorsi due giorni, partì di là per andare in Galilea.
Con questo racconto l'apostolo Giovanni inaugura la sezione dedicata alla Galilea (si veda però l'episodio spurio delle nozze di Cana), dopo aver concluso, col racconto della samaritana al pozzo di Giacobbe, la sezione dedicata alla prima attività propagandistica di Gesù in Giudea (i cui principali eventi erano stati la cacciata dei mercanti dal Tempio, che non portò a nulla di concreto sul piano politico, e la rottura col movimento battista, che determinò la conversione al nuovo vangelo di Cristo da parte di alcuni importanti discepoli del Precursore). I “due giorni” si riferiscono alla permanenza in Samaria. Alcuni discepoli lo accompagnano.
Stando a Giovanni, fino a questo momento né in Giudea né in Samaria Gesù ha compiuto guarigioni di sorta, per cui tutte quelle descritte nei sinottici, prima di questa del figlio del funzionario reale, dobbiamo pensare che siano accadute successivamente e tutte in Galilea, ammesso e non concesso che Gesù abbia mai compiuto delle guarigioni. Gv 2,23, che dice: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome”, andrebbe considerato apologetico, non storico.
v. 44) Ma Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria.
Poiché a Gerusalemme, in occasione della pasqua, la cacciata dei mercanti dal Tempio non fu sostenuta in maniera decisiva dalle forze politiche più progressiste, il redattore afferma che la dipartita di Gesù dalla Giudea fu dettata da cause di forza maggiore, probabilmente i motivi di sicurezza connessi appunto all'epurazione del Tempio. La frase, messa così, potrebbe anche far pensare alla decisione, presa ancor prima di entrare in Samaria, di non ritornare o di non restare in Giudea, ma di dirigersi (o addirittura di espatriare) verso la Galilea.
È noto che il v. 44 del testo di Giovanni mette in crisi la tesi di quegli esegeti che considerano il Cristo un “galileo”. Se ci si limitasse al vangelo di Giovanni dovremmo dire che l'origine del Cristo fu giudaica e persino la sua formazione politica, a contatto, senza dubbio, con gli ambienti progressisti del movimento battista e, probabilmente, anche con quelli del partito farisaico (si veda l'incontro con Nicodemo), nonché con quelli del partito zelota, come attesta la presenza di alcuni discepoli tra i Dodici.
In tal senso potrebbe anche non apparire strana l'idea che una parte dei battisti, dei farisei e degli zeloti abbia condiviso sul piano teorico il tentativo semi-insurrezionale del Cristo, senza però appoggiarlo politicamente: il che obbligò Cristo, che si era troppo esposto agli occhi dei gestori del Tempio, i sommi sacerdoti e i sadducei, a lasciare la Giudea e ad emigrare in Galilea (Gv 4,1 ss.).
v. 45) Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa.
Questo versetto è sicuramente storico, anche se, messo in rapporto col precedente, rischia di ingenerare alcuni equivoci. Si potrebbe infatti pensare che il redattore abbia voluto dire che il Cristo, in occasione della sua prima pasqua insurrezionale, non trovò appoggio concreto neppure da parte dei Galilei, che pur ora lo esaltano, in quanto anche loro si erano limitati a condividere solo teoricamente la giustezza del suo operato. Poiché tuttavia è difficile pensare che un uomo isolato potesse mettere scompiglio nel piazzale del Tempio, senza essere immediatamente arrestato dalle guardie giudaiche, si deve ipotizzare ch'egli poté cacciare i mercanti grazie all'appoggio, almeno indiretto, dei Galilei e degli ex seguaci del Battista, per cui la “patria” in questione è proprio la Giudea e non la Galilea, dove invece il grande rifiuto della sua identità messianica avverrà più tardi, in occasione dei cosiddetti “pani moltiplicati”.
Il Cristo, molto tempo prima di Paolo, aveva capito che il primato dei Giudei su tutte le altre etnie di origine ebraica era irrimediabilmente finito. Ai Samaritani lo aveva detto a chiare lettere (Gv 4,21) ed essi credettero alle sue parole pur non avendo visto, a differenza dei Galilei, la cosiddetta “purificazione del Tempio” (ma sarebbe meglio usare la parola “epurazione”, se non addirittura “sollevazione”).
v. 46) Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l'acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafarnao.
Il funzionario in questione, che Luca e Matteo chiamano “centurione”, attribuendogli una funzione di polizia che probabilmente non aveva (i centurioni erano a capo di una guarnigione di 100 uomini), era un ufficiale-amministratore che risiedeva a Cafarnao, al servizio del tetrarca Erode Antipa: la critica ritiene fosse Cuza o Cusa, marito di Giovanna, seguace, quest'ultima, di Gesù (Lc 8,3). Cuza assomiglia, per la decisione di collaborare col potere dominante, alla figura dell'esattore fiscale Levi, poi divenuto l'apostolo Matteo. Qui si ha a che fare con un personaggio di cultura ebraica ma politicamente collaborazionista. (Da notare che in Matteo e Luca si parla di “centurione” anche a motivo del fatto che si vuole dare per scontata l'origine pagana o ellenistica di quest'uomo, tant'è che il Cristo, alla fine del racconto, lo esalterà proprio in quanto cristiano di origine pagana, ponendo la fede di lui in contrasto con quell'ebraismo che, pur progressista, non abbraccerà mai il cristianesimo. Quindi è evidente che questo racconto è maturato in un ambiente ellenistico già cristianizzato).
Il fatto che Gesù avesse scelto Cana come tappa del suo viaggio probabilmente è dipeso, redazionalmente, dal precedente racconto dell'acqua mutata in vino, descritto in maniera simbolica dai falsificatori di Giovanni per mostrare la fine del primato di Israele.
In Matteo e in Luca tutto l'episodio avviene invece a Cafarnao, dove di regola vivevano i funzionari di Erode. Nei loro vangeli non è mai citata la città di Cana, tant'è che molti esegeti dubitano che sia mai esistita. Entrambi collocano questo episodio all'inizio dell'attività taumaturgica del Cristo, senza però avere la precisione diacronica e sincronica di Giovanni.
In entrambi è ammalato non il figlio del funzionario ma un servo, che in Matteo è “paralizzato”, mentre in Luca è preda di febbri che portano alla morte. Il motivo di questa sostituzione è di difficile comprensione: probabilmente Matteo e Luca attingono alla fonte Q.
Diverse possono essere le ipotesi: 1) i due redattori sinottici non hanno voluto ricordare il figlio del centurione perché poi divenne ostile al cristianesimo, 2) hanno voluto modificare questo particolare per non attenuare la fede e la grandezza morale del padre, 3) il ricordo che si trattasse proprio del figlio col tempo era scomparso, 4) l'anonimato è servito per proteggere il padre e il figlio dalle persecuzioni anticristiane da parte dei Romani.
Sia come sia in Matteo, indirettamente, si comprende bene che il servo in questione non poteva essere uno qualunque; tant'è che Luca, che probabilmente attinge anche da Matteo, lo dice esplicitamente con l'inciso “gli era molto caro”.
v. 47) Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e lo pregò di scendere a guarire suo figlio poiché stava per morire.
L'inevitabile domanda che questo versetto suscita è la seguente: come faceva il funzionario a sapere che il Cristo operava guarigioni se ancora non le aveva fatte (stando almeno a quanto dice Giovanni, che considera l'evento del vino di Cana il primo della lista e che però gli esegeti, in genere, ritengono spurio)? Qui delle due l'una: o Cuza sapeva che Gesù era un guaritore (e allora dobbiamo pensare che l'evento di Cana sia stato preceduto da alcune guarigioni in Galilea, cioè dobbiamo dar ragione alla cronologia dei sinottici), oppure egli ha tratto una lungimirante conseguenza dal prodigio di Cana. Si può anche pensare che tra i due eventi di Cana Gesù abbia compiuto svariate guarigioni, ma allora sarebbero del tutto fuori luogo la cronologia di Giovanni e soprattutto il v. 54 di questo racconto.
A motivo di queste contraddizioni molti esegeti sono arrivati alla conclusione che sia l'evento di Cana che questa guarigione siano state in realtà del tutto inventate da ambienti cristiani di origine pagana, al fine di mostrare la loro uguaglianza nei confronti degli ambienti cristiani di origine ebraica. Ma sono state rilevate altre incongruenze che rendono tutto il racconto poco credibile: la guarigione a distanza, che sicuramente resta di difficile comprensione (non a caso essa si ritrova in un altro racconto di origine ellenistica: quello della donna cananea o sirofenicia, cfr Mc 7,24-30); la collocazione temporale di una guarigione così portentosa, più comprensibile verso la fine di un'attività propagandistica e comunque più verosimile al cospetto di una fede sostanziale, che certamente non poteva avere un uomo potente e colluso con Roma come Cuza.
Ora, se il funzionario sapeva con certezza che il Cristo aveva trasformato l'acqua in vino, avrebbe anche potuto pensare come possibile la guarigione di un infermo, che all'epoca veniva considerata alla portata di molti sciamani. Se invece il funzionario non sapeva nulla di Cana, allora resta da spiegare il motivo per cui Giovanni o un secondo redattore abbia voluto specificare al v. 54 che questo fu “il secondo miracolo fatto da Gesù tornando dalla Giudea in Galilea”. Questo senza considerare che lo stesso Gv 2,23 lascia intendere esattamente il contrario: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome”, a meno che con la parola semèia (“segni”) s'intendano degli eventi in senso lato e non si includano le guarigioni. Vien quasi da pensare che Giovanni abbia inteso dire, numerando i primi due miracoli, ch'essi furono i primi due non in assoluto ma solo in relazione alla Galilea, dopo un certo periodo di permanenza passato in Giudea. Ma resta più credibile l'ipotesi che se davvero Gesù si è incontrato con Cuza, al massimo vi è stato un dialogo politico mistificato dal miracolo.
Di fatto noi dal racconto di Giovanni possiamo dedurre con sicurezza (ammesso e non concesso che il racconto abbia almeno una parvenza di verità) solo due cose: 1) il funzionario conosceva Gesù, 2) sapeva che avrebbe potuto guarire il figlio gravemente malato. Il “come” di entrambe le cose non ci è dato sapere. Da notare ch'egli non mostra alcun interesse per quanto Gesù aveva fatto a Gerusalemme e, pur sapendo che il Cristo ha anzitutto un “vangelo di liberazione” da diffondere, non si fa scrupolo di chiedergli un favore personale; o, se vogliamo guardare le cose in positivo, nonostante egli sappia che col suo gesto eversivo Gesù si poneva in una posizione scomoda agli occhi di qualunque uomo di potere, non ha alcun timore d'incontrarlo personalmente.
Le stranezze in Matteo e Luca sono ancora maggiori. Sebbene il servo stia per morire, il funzionario sembra non avere alcuna fretta di supplicare personalmente Gesù. In Matteo addirittura il funzionario sa già che il Cristo esaudirà la sua richiesta: infatti questi risponde subito affermativamente, come se l'oggetto della richiesta fosse di per sé motivo sufficiente per suscitare un interesse immediato. Questo atteggiamento deve aver insospettito Luca, il quale ha pensato di motivare sia l'eccessiva sicurezza del funzionario, sia l'interesse immediato di Gesù. La motivazione di questa scelta è duplice nel suo vangelo: 1) sul piano soggettivo il servo – viene detto – era “molto caro” al centurione; 2) sul piano oggettivo – e questo è decisivo per Luca, che si sforza di dare una patina di credibilità a un racconto che gli dovette apparire inverosimile – il centurione “ama” Israele e “ha fatto costruire la sinagoga di Cafarnao”.
A Luca deve essere parsa sospetta anche quella singolare confidenza (o intesa) che in Matteo emerge tra Gesù e il funzionario: di qui l'esigenza, nel suo racconto, di far precedere il centurione da un'ambasciata di “anziani giudei”, il che però contraddice la particolare gravità della malattia.
A ben guardare Giovanni è il solo che ci permette di comprendere che se il funzionario andò personalmente da Gesù, non lo fece soltanto a motivo della particolare gravità della malattia o dello stretto legame familiare che l'univa all'ammalato, ma anche perché sapeva che agli occhi dei Galilei egli non rappresentava il potere collaborazionista in maniera incontrovertibile.
v. 48) Gesù gli disse: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete”.
Con una frase del genere: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete” (Gv 4,48), sembra impossibile non dare per scontate delle guarigioni operate in precedenza. Il fatto che Gesù non risponda subito affermativamente alla richiesta del postulante, sembra dipendere, in tal senso, da una sorta di preoccupazione a non lasciarsi strumentalizzare. Non solo, ma qui il Cristo deve anche pensare a non dare adito a possibili critiche: infatti, rispetto al ruolo oggettivo che il funzionario ricopriva, cioè a prescindere dalle sue qualità personali, il rischio era quello di mettere dei poteri taumaturgici a disposizione di chi opprimeva i Galilei. Usando l'appellativo “voi” Gesù fa chiaramente intendere al funzionario di considerarlo (o di doverlo considerare) prima come “oppressore” poi come “postulante”, ovvero prima come “amministratore di Erode” poi come “uomo e padre di famiglia”. Era proprio la scelta di servire un potere che collaborava con Roma che rendeva questi individui invisi alla collettività.
La critica che il Cristo rivolge al funzionario è in realtà riferita a quanti scelgono un tipo di vita conseguente a un atteggiamento scettico nei confronti della possibilità di cambiare le cose. Si può forse qui ipotizzare che il funzionario, avendo già ascoltato il vangelo di Gesù, personalmente o per sentito dire, lo ritenesse teoricamente giusto anche se praticamente irrealizzabile o comunque realizzabile solo a condizione di veder dei segni che ne legittimassero le aspettative.
Resta in ogni caso significativo che un uomo di potere al servizio di un sovrano collaborazionista, mostrasse interesse per il vangelo di Cristo: questo forse può spiegare il motivo per cui nei vangeli di Luca e Matteo la figura del funzionario sia stata particolarmente esaltata. Ci si può chiedere, in tal senso, se Marco non ne parli per timore di costituire un doppione del racconto sulla confessione del centurione ai piedi della croce (15,39). E naturalmente non è da escludere che il racconto sia stato messo per fare un piacere a questo intendente di Erode, che forse divenne “cristiano” dopo la sconfitta politica del movimento nazareno.
Ovviamente se si evita di dare a questo racconto un'interpretazione di tipo politico, la critica del Cristo occorre circoscriverla entro un orizzonte meramente culturale: in tal modo il limite oggettivo del funzionario non starebbe tanto nel suo ruolo di collaborazionista/oppressore quanto nell'atteggiamento filosofico dello scetticismo, in cui il Cristo avrebbe anche potuto vedere, in maniera paradigmatica, l'atteggiamento di quella parte della popolazione galilaica che aveva accettato di collaborare con Roma.
Inutile dire che le versioni di Matteo e Luca non aiutano minimamente a comprendere la complessità di queste sfumature. In Matteo addirittura il centurione mostra subito grande umiltà e grande fiducia nel Cristo. Umiltà perché lo considera infinitamente più grande di lui; fiducia perché è convinto ch'egli guarirà il servo a distanza (è addirittura lui che gli propone questo tipo di guarigione!).
Tali assurdità appaiono anche in Luca, con la differenza che questi si sente in dovere di spiegarne la ragione, poiché il suo centurione non vuole essere un ebreo ellenizzato che parla come se fosse già convertito al cristianesimo, ma vuole essere solo una persona umanitaria, la cui bontà è indipendente dal rapporto col Cristo.
v. 49) Ma il funzionario del re insistette: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia”.
Il tono è molto drammatico. Tutto il racconto di Giovanni può essere letto come il tentativo di mostrare quanta difficoltà avesse il potere collaborazionista di risolvere le proprie contraddizioni interne e quanto grande fosse l'esigenza, avvertita da parte di alcuni rappresentanti di questo potere, di trovare un'intesa con le forze ebraiche più aperte al confronto.
Il titolo di dominus, attribuito da un uomo di potere a un individuo che poco tempo prima aveva cacciato i mercanti dal Tempio, in un contesto storico dominato da un forte contrasto politico, è un riconoscimento molto impegnativo. Il funzionario rischiava d'essere denunciato dai suoi subordinati per cospirazione o tradimento. Pur di salvare la vita del figlio, egli ha rischiato di perdere la propria.
Naturalmente il fatto ch'egli chieda insistentemente che Gesù vada a Cafarnao per sanare con l'imposizione delle mani il figlio moribondo, esclude a priori che il funzionario potesse aspettarsi o addirittura immaginarsi una guarigione a distanza. Nei sinottici invece è scontato il contrario.
v. 50) Gesù gli risponde: “Va', tuo figlio vive”. Quell'uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino.
Dal “voi” distaccato al “tu” confidenziale e, nonostante questo, l'irremovibilità del Cristo, che non ha alcuna intenzione di scendere con lui a Cafarnao, anche perché avrebbe dovuto farlo pubblicamente. Quando Cuza capisce che non è sufficiente la propria benevolenza nei confronti del vangelo di Cristo o dell'esigenza ebraica di liberazione nazionale, per poter sperare di veder esaudite le proprie suppliche secondo le modalità da lui stesso proposte, desiste dalla supplica e si convince che l'unica alternativa possibile è quella di credere nella parola che ha appena udito. Quest'uomo sa di non poter pretendere nulla di più, soprattutto sa di non poter pretendere un rapporto ufficiale col Cristo soltanto in nome della propria magnanimità nei confronti della cittadinanza locale. D'altra parte il Cristo non gli ha concesso la guarigione sub condicione, cioè a condizione ch'egli si converta al vangelo.
Singolare comunque resta il fatto che nel vangelo di Giovanni quest'uomo non appare quel perfetto credente che è in Matteo o quel politico virtuoso, potenzialmente cristiano, che è in Luca. Di fatto né Luca né Matteo hanno capito che la guarigione non venne concessa né per i meriti del funzionario né per la gravità del caso, ma anzitutto per costruire una sorta di “ponte” tra il movimento di Gesù, in quel momento ancora in fase di formazione, e l'ebraismo progressista, ai fini della resistenza antiromana. E questo benché nel vangelo di Giovanni proprio la guarigione sia servita per celare un possibile rapporto di collaborazione politica in funzione antiromana.
La guarigione, quindi, stando almeno alla versione di Giovanni, non premiò una fede in atto né uno spiccato senso umanitario, ma cercò anzi di stimolare un approfondimento delle tematiche politiche suscitate dal nuovo vangelo di liberazione, ovvero l'uscita dal tunnel dello scetticismo, in cui il funzionario si dibatteva. Tant'è che il Cristo, vedendo una fede ancora immatura, rifiuta di seguire il funzionario a Cafarnao. Viceversa, in Matteo e in Luca Gesù non va a casa del centurione semplicemente perché la fede di quest'ultimo rendeva inutile il percorso. La situazione – come si può facilmente notare – è rovesciata, per cui le conclusioni politiche che si possono trarre sono alquanto discordanti.
Nei sinottici il fatto che il funzionario fosse oggettivamente un collaborazionista viene del tutto ricompreso all'interno di considerazioni di tipo soggettivistico circa le sue qualità umane. La guarigione si presenta come un aspetto logico, consequenziale a una fede in atto ed essa quindi ha finalità meramente apologetiche.
Giovanni invece, che è assai più rigoroso, ritiene che le qualità personali non siano sufficienti per un'adesione politica al vangelo, meno che mai se si ricoprono incarichi di potere. Facilmente un politico come Giovanni avrebbe potuto interpretare le parole di Luca circa l'atteggiamento magnanime del centurione (che amava Israele al punto da volere la costruzione della sinagoga di Cafarnao) come un modo per rendere meno difficili o più tollerabili dei rapporti che, essendo oggettivamente ingiusti, tra popolazione ebraica e truppe romane, necessitavano di ben altre soluzioni.
Tuttavia, proprio come nel caso della conversione del pubblicano Matteo, Gesù doveva essersi reso conto che l'occasione era favorevole per lanciare un messaggio alle forze collaborazioniste, cioè per arrivare all'amministratore passando per il postulante. È vero, il titolo di dominus poteva essere stato proferito solo per ottenere la guarigione, ma si poteva anche pensare che in virtù di quella guarigione l'amministratore avrebbe potuto trasformarsi in seguace del movimento.
Costatando il coraggio di un funzionario disposto a incontrare un avversario politico, il cui vangelo ormai era ai limiti della legalità, Gesù lo vuole premiare ponendogli, in cambio del favore chiestogli, una condizione tassativa: credere esclusivamente nelle sue parole circa la possibilità di una guarigione a distanza. Il che laicamente voleva dire che potevano esserci “parole nuove” in grado di produrre “fatti nuovi”. Con l'espressione “a distanza” andava in realtà inteso il rapporto fiduciario tra due leader politici su sponde opposte (seguace effettiva del Cristo sarà soltanto la moglie di Cuza, Giovanna, stando a Lc 8,3 e 24,10).
Si badi: il Cristo non pone il funzionario nella condizione di dover scegliere fra la vita del proprio figlio e l'adesione all'ideologia politica filo-romana. Se per credere nel vangelo, cioè nelle parole relative alla liberazione nazionale, il funzionario ha prima bisogno di credere in questa guarigione, rischiando una denuncia per tradimento, il Cristo non può avere motivi inderogabili per opporvisi. Cioè anche dando per scontato che il tema sia stato quella della richiesta di una guarigione, restano salvi i problemi relativi a un difficile confronto di natura politica.
v. 51) Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: “Tuo figlio vive!”.
I servi, che ovviamente non sapevano nulla di quanto era accaduto tra i due protagonisti del racconto, s'incamminarono (i chilometri che separano Cana da Cafarnao sono circa 30) per dire al loro padrone che, essendosi il figlio ripreso, non occorreva supplicare ulteriormente il guaritore (Gv 4,51). Non sospettano di nulla, anzi è probabile che i testimoni di questa guarigione, se davvero avvenuta, siano stati pochissimi, esattamente come descritto in occasione di un altro prodigio inverosimile e per questo risalente sicuramente ad ambienti ellenistici, relativo alla trasformazione dell'acqua in vino.
v. 52) S'informò poi a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: “Ieri, un'ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato”.
Cuza, mentre torna a casa nella speranza di non aver perso il proprio tempo, vuole sincerarsi – lui che è discepolo dello scetticismo – se effettivamente la guarigione sia dipesa dalla parola-volontà di Gesù e non sia piuttosto da collegarsi a una fortuita coincidenza. Ha bisogno di escludere con sicurezza che il caso possa costituire una spiegazione sufficiente. Pertanto “s'informò a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: – Ieri, un'ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato” (Gv 4,52).
Questa ricerca scrupolosa della verità delle cose ci aiuta a capire la personalità contraddittoria di quest'uomo, che umanamente si mostra irreprensibile e che politicamente è opportunista. Sul piano filosofico si potrebbe dire ch'egli oscilla tra lo scetticismo esistenziale e il pragmatismo logico. Cuza appare pragmatico perché non ritiene sia tempo sprecato rischiare di chiedere un favore a un uomo di cui conosce i poteri e dal quale sa che potrebbe anche non ottenere nulla, in quanto suo avversario politico: la malattia del figlio è troppo grave perché egli possa pensare di formalizzarsi in questioni che non lo porterebbero da nessuna parte. Ed è anche logico, poiché vuole sincerarsi di persona della verità delle cose, cioè del nesso che lega la causa all'effetto, anche se di questo nesso non può ovviamente comprendere la concreta modalità. Cuza insomma, anche prescindendo dalla natura apologetica di questo racconto, appare intelligente come uomo e arrivista come politico.
v. 53) Il padre riconobbe che proprio in quell'ora Gesù gli aveva detto: “Tuo figlio vive” e credette lui con tutta la sua famiglia.
Il modo come avvenne questa guarigione resta ovviamente inspiegabile. Si ha qui l'impressione che Giovanni abbia voluto mettere in relazione lo scetticismo del padre con la malattia del figlio. Cuza non cercò Gesù per un interessamento di tipo ideale ma per ottenere un favore personale. Quando cominciò a capire che il Cristo non poteva essere strumentalizzato come taumaturgo, il figlio prese a guarire.
Come nel caso di Giairo, ma in forma molto più soft, sin dall'inizio del racconto si ha avuto l'impressione che Cuza confidasse nel proprio ruolo per ottenere ciò che desiderava, cioè che volesse arbitrariamente soprassedere al fatto, in sé oggettivo, che tra lui e il Cristo vi era un abisso politico che li teneva separati, o che comunque non volesse rendersi conto che Gesù non avrebbe potuto avere alcun valido motivo per fare un'eccezione solo per lui.
Cuza – dice Giovanni – fu consequenziale, nel senso che, una volta appurata l'intrinseca, per quanto paradossale, obiettività degli avvenimenti, non ritenne che vi fosse più alcuna ragione per dubitare della effettiva praticità del vangelo di Cristo, per quanto nel racconto in questione non viene detto fino a che punto egli abbia deciso di convertirsi, cioè non viene detto ch'egli, come il pubblicano Matteo, smise di fare il suo lavoro. La formula del commiato risente della terminologia missionaria della chiesa primitiva.
v. 54) Questo fu il secondo miracolo che Gesù fece tornando dalla Giudea in Galilea.
Questo versetto, su cui già s'è discusso, appare come una doppia conclusione del racconto. Il motivo per cui si sia voluto specificare che era il secondo prodigio resta poco comprensibile e anche, se vogliamo, poco convincente, poiché – come si è visto – il funzionario doveva chiaramente avere una conoscenza di Gesù come taumaturgo.
Si ha come l'impressione che il versetto abbia avuto la funzione di sostituire un'altra conclusione. Risulta infatti incredibile che la conversione al vangelo di un funzionario di Erode non abbia avuto alcuna conseguenza né sul piano politico né su quello redazionale. Vien quasi da pensare che in realtà non vi fu alcuna vera conversione, ma semplicemente una riconferma della personalità umanitaria di Cuza. Le versioni di Matteo e Luca non avrebbero forza sufficiente per contraddire questa tesi, in quanto l'esaltazione della fede cristiana del centurione può anche risultare compatibile con un'adesione solo intenzionale o solo morale al vangelo di liberazione di Cristo.
In Matteo addirittura Gesù prevede che in virtù della fede di Cuza (il quale sembra qui anticipare i futuri imperatori cristiani) si realizzerà nel regno dei cieli un consesso di popoli pagani convertiti al cristianesimo che, seduti al tavolo di Abramo, Isacco e Giacobbe, toglieranno il posto agli ebrei ortodossi d'Israele.
Nel vangelo di Giovanni la conclusione è assai diversa. Il significato politico del racconto non sta affatto nella conversione (peraltro improbabile) del funzionario al vangelo di Cristo, e non sta neppure in un'artificiosa contrapposizione tra cristiani di origine pagana ed ebrei anticristiani, quanto piuttosto nel tentativo di dimostrare che nel concetto di “uguaglianza universale” non si poteva escludere la possibilità di coinvolgere quegli oppressori dal cosiddetto “volto umano” o, nella fattispecie del racconto, i collaborazionisti pentiti.
È facile oggi rendersi conto che un concetto del genere avrebbe potuto avere conseguenze di incalcolabile portata se il movimento nazareno lo avesse fatto proprio come una regola generale: p.es. nei concetti di “oppresso” o addirittura di “oppressore pentito” si potevano includere determinate personalità o classi sociali di origine non ebraica. Se si guardano le cose in quest'ottica diventa del tutto condivisibile la decisione del Cristo di operare una guarigione a una persona che per la mentalità dominante poteva apparire come un nemico.
Nel racconto di Giovanni questi aspetti sono ricondotti alla differenza tra “segno” e “miracolo”: il primo è un evento che può rappresentare un significato politico per i protagonisti e i testimoni. Viceversa, se si vuole ridurre il “segno” a un “miracolo” (come generalmente fanno i sinottici e quelle esegesi di tipo “confessionale”), il superamento dell'incredulità del funzionario comporta inevitabilmente, sul piano politico, una sua riconferma, in quanto è proprio la presenza del “miracolo” che esclude a priori la possibilità di risolvere le crisi di tipo politico.
(torna su)13) Il paralitico di Betesda
(Gv 5,1-16)
[1] Dopo queste cose ci fu la festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
[2] Ora c'è a Gerusalemme la piscina, chiamata in ebraico Betesda, munita di cinque portici,
[3] sotto i quali giaceva gran quantità di ammalati, ciechi, zoppi o paralitici, in attesa del movimento dell'acqua;
[4] poiché l'angelo del Signore discendeva di tempo in tempo, nella piscina e l'acqua si agitava: allora il primo che s'immergeva, dopo il movimento dell'acqua, veniva guarito da qualsiasi infermità avesse.
[5] Lì c'era un uomo infermo da trentotto anni.
[6] Gesù, vedutolo che giaceva e sapendo che già da molto tempo vi si trovava, gli disse: “Vuoi essere guarito?”.
[7] L'ammalato rispose: “Signore, io non ho un uomo che m'immerga nella piscina al primo moto dell'acqua, e mentre io vado, un altro vi discende prima di me”.
[8] Gesù gli disse: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina”.
[9] E in quel medesimo istante l'uomo si trovò guarito, e, preso il giaciglio, se ne andò. Era quello un giorno di sabato,
[10] e perciò i Giudei all'uomo guarito dissero: “È sabato e non ti è permesso portar via il tuo giaciglio”.
[11] Ma egli rispose loro: “Chi mi ha guarito m'ha detto: – Prendi il tuo giaciglio e cammina”.
[12] Gli domandarono: “Chi è l'uomo che ti ha detto: – Prendi il tuo giaciglio e cammina?”.
[13] Ma il risanato non sapeva chi fosse, perché Gesù s'era allontanato dalla folla, lì accorsa.
[14] Più tardi Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: “Eccoti guarito; non peccare più affinché non t'avvenga di peggio”.
[15] L'uomo se ne andò e riferì ai Giudei che chi l'aveva guarito era Gesù.
[16] Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.
*
Che i cosiddetti “miracoli” di Gesù (cosiddetti perché in realtà furono solo delle “guarigioni” alla portata dell'uomo o addirittura delle mistificazioni di eventi di tipo politico) fossero o avessero la pretesa di porsi come “segno” di o per qualcos'altro, e non come un evento fine a se stesso, cioè finalizzato a una mera guarigione psico-somatica, è documentato in questo episodio (influenzato sicuramente da una tradizione sinottica) da almeno due circostanze: la prima è che solo uno dei tanti malati attorno alla piscina di Betesda (a Gerusalemme) viene da lui guarito (questo non significa che al momento della guarigione vi fossero nei pressi altri malati, anzi è da escludere); la seconda è che la guarigione viene compiuta non per la fede del malato, ma, al contrario, affinché l'acquisti (per “fede” ovviamente non s'intende quella religiosa ma la fiducia in se stesso o quella che si deve avere nel rapporto con gli altri).
In questo specifico caso la guarigione è segno o indizio pedagogico di due cose: 1) della libertà che l'uomo deve avere nei confronti della legge (la terapia infatti verrà compiuta di sabato); 2) del fatto che gli oppressi non sono di per sé migliori degli oppressori se non sanno reagire al loro disagio. Questo secondo aspetto lo si coglie nella risposta (v. 11) che il neorisanato ha dato all'avvertimento dei capi-giudei di non portare con sé la barella in un giorno proibito. Egli in pratica si difende dall'accusa dicendo che vi è stato indotto proprio da chi l'aveva guarito.
Quell'uomo aveva preso la barella pur sapendo che non avrebbe dovuto farlo in giorno di sabato, e tuttavia, di fronte a una minaccia di sanzione, non ha la forza di mettere in questione l'attendibilità dell'accusa. Non è riuscito ancora a comprendere la superiorità morale di chi vuole realizzare il bene sempre e comunque, anche nel giorno proibito, rispetto a chi dice di volerlo realizzare limitandosi a non fare il male, a non fare nulla, neanche davanti al bisogno.
Ma procediamo con ordine. È sconcertante che Gesù, “sapendo” che da ben 38 anni un uomo giaceva paralizzato presso la piscina terapica di Betesda, cioè in un evidentissimo stato di frustrazione, si sia soffermato per chiedergli se voleva “guarire” (v. 6). Se avesse voluto guarire quel malato spontaneamente, a prescindere dalla sua “fede”, non sarebbe forse stato sufficiente il fatto di vederlo in quello stato? Perché umiliarlo, schernirlo, fare dell'ironia fuori luogo quando la risposta in definitiva era scontata? Evidentemente in quella domanda era già racchiuso un monito a non reiterare la colpa che l'aveva portato a quella malattia. Ma quale colpa? e quale malattia essa aveva prodotto?
Dietro quella domanda c'era dunque l'esigenza di mettere alla prova la fiducia del malato nella possibilità di ritrovare se stesso. La domanda sembra presupporre una noluntas, una “volontà negativa” di uno che non vuole “veramente” guarire e che quindi, quando lo sarà, dovrà imparare a essere diverso da com'era prima di ammalarsi.
L'atteggiamento di quest'uomo sembra essere tipico di quei malati che fanno della propria infermità un pretesto per non assumersi delle responsabilità personali. Non a caso egli addebita ad altri, invece che a se stesso, la causa della propria malattia (o comunque la causa del suo protrarsi nel tempo).
Quando esiste la possibilità della guarigione, il malato – si evince dal testo – se la lascia sfuggire, poiché “nessuno” – a suo giudizio – lo aiuta a superare i “rivali”. Da ben 38 anni (e ciò ha dell'incredibile) quest'uomo è in attesa di qualcuno che lo aiuti a vincere la “concorrenza sleale” degli altri. (Il periodo di malattia può essere stato gonfiato da qualche copista per rendere ancora più miracolosa, seppure in maniera molto ingenua e inverosimile, la guarigione. È comunque assai difficile credere che un uomo paralizzato da tutto quel tempo non si fosse ancora rassegnato alla propria condizione. Il periodo della malattia può anche essere stato ingigantito per celare una realtà incresciosa, che avrebbe potuto imbarazzare un lettore di vedute un po' ristrette).
Per il malato il fatto di non riuscire a guarire è ormai diventato il leit-motiv della sua personale identità. La malattia lo fa “essere” più che non la guarigione. Lui si sente “qualcuno” appunto perché si considera come uno di quei “malati” che “gli altri” non vogliono aiutare a guarire. Volendo, egli potrebbe anche guarire da solo, ma la pretesa di essere aiutato è più forte della volontà di guarire.
Questa situazione, tuttavia, lo tormenta, altrimenti non si spiega perché da quel posto non se ne sia andato. Il fatto di esserci rimasto per così tanto tempo sta a indicare che la volontà di guarire veramente non era del tutto scomparsa, ma non è da escludere che la scelta di quel luogo frequentato fosse motivata dalle maggiori possibilità di ottenere delle elemosine.
Il paralitico aveva soltanto bisogno d'incontrare una persona che lo scuotesse dalla sua apatia e che, in un certo senso, lo costringesse ad assumersi la responsabilità della propria guarigione, cioè la libertà di poter decidere qualcosa di positivo, la volontà di uscire dal proprio vittimismo.
La malattia di quest'uomo era ovviamente più “psichica” che “fisica” (come quasi sempre succede in quei racconti evangelici di guarigione un minimo realistici), o comunque, anche supponendo ch'essa avesse avuto un'origine fisica, era più che altro un “processo mentale” a conservarla inalterata e anzi ad alimentarla. Al v. 14, infatti, il Cristo farà capire che la malattia era stata il frutto di un “peccato”, cioè di una “colpa morale” (ci si può chiedere se fosse connessa alla sfera sessuale, visto che qui non se ne parla). È strano infatti che qui Gesù usi l'identità rabbinica di malattia e colpa, altrove sempre rifiutata.
Probabilmente nel contesto l'eventualità di un riferimento alla sessualità (che nessun redattore ebraico avrebbe mai ammesso) non sembra doversi escludere del tutto; anzi forse essa spiega la specificità di un caso in un certo senso costretto all'emarginazione: nessuno infatti lo aiutava a entrare in piscina. Anche perché se davvero l'infermo era tale da ben 38 anni, il dire che se avesse peccato di nuovo gli sarebbe capitato di peggio, avrebbe potuto apparire quanto meno beffardo al malato, il quale evidentemente era stato messo nelle condizioni di capire che doveva prendere seriamente la propria vita.
In effetti la malattia potrebbe anche essere stata causata da particolari abitudini dell'uomo, una sorta di effetto somatico collaterale a un comportamento immorale, che avrebbe potuto reiterarsi anche dopo la guarigione. In tal senso la domanda apparentemente incomprensibile di Gesù: “Vuoi guarire?” in realtà andrebbe intesa come un invito ad abbandonare il precedente stile di vita; cioè essa starebbe per: “Pensi che ti serva veramente guarire?”. Qui insomma si ha l'impressione che la possibilità della guarigione stia unicamente nella decisione che l'uomo deve maturare di compiere un atto di volontà in controtendenza rispetto a un precedente trend comportamentale.
Il motivo per cui decide di guarirlo traspare nella risposta stessa dell'infermo: è l'impotenza della solitudine, la disperazione di un uomo tenuto ai margini dagli stessi emarginati. Questo paralitico si era probabilmente reso conto che se non avesse cambiato stile di vita non avrebbe ottenuto una reintegrazione sociale neppure a guarigione avvenuta.
La guarigione di questo malato, stando agli esiti del racconto, è servita a poco, almeno per due ragioni: 1) perché quando i Giudei lo rimproverano di portare il lettino di sabato, cioè in un giorno proibito, egli attribuisce al guaritore (per lui ancora anonimo) la causa della violazione della legge; 2) perché quando egli si rende conto che chi l'aveva guarito era stato Gesù, decide di rivelarne il nome ai capi Giudei, pur sapendo del pericolo cui il suo guaritore-messia andava incontro, avendolo appunto sanato in un giorno proibito. (Peraltro egli rivela l'identità di Gesù senza che nessuno, in quel momento, gliela avesse chiesta. Forse è stato questo atteggiamento ingrato ad aver indotto i redattori a far dire a Gesù che la malattia dipendeva da una qualche colpa.)
Quest'uomo non aveva capito l'importanza di assumersi delle responsabilità personali. Il suo desiderio era soltanto quello di trovarsi (o ritrovarsi) al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica, riottenendo la fiducia di cui aveva bisogno. Per un momento avrà pensato fosse un proprio merito quello di aver denunciato il nome di Gesù; in realtà l'unico merito che avrebbe potuto avere sarebbe stato quello di tacerlo, sfruttando l'incontro casuale e insolito che gli era capitato.
Significativo è il fatto che la notorietà del Cristo, in quel momento, dipendeva proprio dalla volontà di compiere delle guarigioni in un giorno vietato per legge, cioè nell'assumersi una responsabilità diversa da quella prevalente. Il contenuto politico del racconto è, in tal senso, evidente. Gli apostoli testimoni di questo evento devono aver capito che violare la legge del sabato significava porsi contro le istituzioni dominanti, contro le loro leggi antidemocratiche e avere il coraggio di decidere cosa è bene e cosa è male.
In tal senso appare naturale che si dica nel quarto vangelo che in occasione di tale guarigione “i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù” (v. 16), anche se si sarebbe fatto meglio a precisare che erano soprattutto i capi politico-religiosi a volerlo fare.
*
Il v. 17 (“Il Padre mio opera sempre e anch'io opero”), che non abbiamo voluto riportare in questa pericope, fa da collante tra la guarigione del paralitico e l'auto-proclamazione divino-umana del Cristo, che caratterizza tutto il capitolo 5 di Giovanni, il cui contenuto esula dall'oggetto del nostro discorso e che comunque meriterebbe un'esegesi critica a parte.
Qui si vogliono soltanto mettere in risalto alcune differenze tra i due racconti di guarigione, di Marco (esaminato in precedenza) e di Giovanni, ove il protagonista è sempre un paralitico.
In Marco la guarigione avviene a Cafarnao, agli inizi della predicazione galilaica, in Giovanni a Gerusalemme, agli inizi della predicazione giudaica.
Quella di Giovanni avviene di sabato; in quella di Marco è irrilevante il giorno.
In Marco è il malato che vuole essere guarito a tutti i costi; in Giovanni è Gesù che glielo propone.
Le parole con cui Gesù guarisce, in entrambi i racconti (senza neppure toccare il malato), sono praticamente identiche: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”.
In entrambi i racconti il malato viene considerato un “peccatore”, nel senso che la malattia sembra essere una conseguenza di qualche sua colpa morale, la cui natura resta ignota.
In nessuno dei due racconti si ha l'impressione che Gesù conosca il paralitico.
In entrambi i racconti Gesù viene osteggiato perché si fa uguale a Dio: in Marco perché dice esplicitamente di poter perdonare i peccati; in Giovanni perché, guarendo di sabato, violava esplicitamente il precetto del riposo assoluto (inoltre, nei versetti successivi alla pericope, egli si paragona a Dio proprio mentre viola il sabato).
Più volte s'è detto che se il Cristo ha compiuto delle guarigioni, i testimoni dovettero essere molto pochi. La malattia fisica doveva avere cause psicologiche, per cui la guarigione non aveva alcunché di miracoloso, altrimenti dovremmo sostenere che Gesù fece di tutto per dimostrare d'essere più di un uomo, il che non è mai stato.
La realtà è che la chiesa cristiana ha usato la forma redazionale delle guarigioni miracolose per giustificare il fatto che Gesù era nel suo diritto quando non rispettava il sabato. Cioè a fronte di una semplice intenzione di non rispettare il precetto festivo in quanto l'uomo è superiore a qualunque istanza di tipo religioso, specie al cospetto di situazioni di bisogno, i redattori hanno preferito stravolgere il contenuto laico di questa posizione, sostenendo che il Cristo si sentiva autorizzato a violare il sabato in quanto era “figlio di Dio”: cosa che dimostrava compiendo appunto guarigioni miracolose, umanamente impossibili.
In tal modo però la violazione del sabato viene autorizzata nei vangeli solo al Cristo, mentre, inevitabilmente, per quanto riguarda gli uomini, si riconferma il principio della subordinazione della loro volontà a istanze di tipo religioso, non più ebraiche, ovviamente, bensì cristiane. I vangeli, in altre parole, non hanno potuto dire che Gesù violava il sabato in quanto “uomo”, privo di fede religiosa.
Nel vangelo originario di Giovanni probabilmente Gesù appariva ateo in quanto violava il sabato sulla base dei bisogni che incontrava e quindi evitava di fare del sabato un Dio da rispettare in maniera assoluta (successivamente i manipolatori di questo vangelo diranno ch'egli violava il sabato in quanto “figlio di Dio”). L'ateismo del Cristo era del tutto umano, proprio perché chiunque, di fronte al bisogno, avrebbe potuto sentirsi in diritto di violare l'obbligo del riposo assoluto, cioè l'obbligo all'indifferenza.
In Marco invece egli appare ateo agli ebrei in quanto “perdona i peccati” come se fosse Dio, ma non risulta così evidente, attenendosi esclusivamente al testo, ch'egli volesse dimostrare la propria “divinità” operando guarigioni umanamente impossibili. Un lettore cristiano arriva a questa certezza solo quando alla fine del vangelo scopre che Gesù è “risorto”.
Gli ebrei associavano malattia e colpa, cioè ritenevano che una qualunque malattia avesse una qualche origine immorale. Gesù ribalta questa concezione sostenendo che un malato può non avere alcuna colpa di tipo morale. Il malato viene perdonato prima ancora d'essere guarito. Se escludiamo l'idea che nei vangeli vi siano state delle guarigioni miracolose, non si può comunque negare che Gesù abbia fatto valere il principio dell'uguaglianza morale di sani e malati. Col che però, se si fosse affrontato l'argomento in termini umani e non religiosi, si sarebbe dovuti arrivare alla conclusione che l'esigenza della guarigione era, nella fattispecie, del tutto inutile: in una società democratica non si è cittadini di seconda categoria solo perché malati. Per quale motivo dunque nel vangelo di Marco, di fronte all'accusa di aver bestemmiato Gesù ha risposto guarendo il paralitico? Per dimostrare che lui poteva sia guarirlo che perdonarlo in quanto figlio di Dio? Qui il testo di Marco è stato molto apologetico e, in fondo, moralistico.
(torna su)14) La guarigione del cieco-nato
(Gv 9,1-41)
[1] Passando vide un uomo cieco dalla nascita
[2] e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”.
[3] Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.
[4] Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.
[5] Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”.
[6] Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco
[7] e gli disse: “Vai a lavarti nella piscina di Siloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
[8] Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?”.
[9] Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”.
[10] Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”.
[11] Egli rispose: “Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Vai a Siloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”.
[12] Gli dissero: “Dov'è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”.
[13] Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco:
[14] era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi.
[15] Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”.
[16] Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c'era dissenso tra di loro.
[17] Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”.
[18] Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista.
[19] E li interrogarono: “È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?”.
[20] I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco;
[21] come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l'età, parlerà lui di se stesso”.
[22] Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.
[23] Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l'età, chiedetelo a lui!”.
[24] Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: “Dai gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore”.
[25] Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”.
[26] Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”.
[27] Rispose loro: “Ve l'ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”.
[28] Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!
[29] Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”.
[30] Rispose loro quell'uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.
[31] Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.
[32] Da che mondo è mondo, non s'è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.
[33] Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.
[34] Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori.
[35] Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell'uomo?”.
[36] Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”.
[37] Gli disse Gesù: “Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui”.
[38] Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi.
[39] Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”.
[40] Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”.
[41] Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo', il vostro peccato rimane”.
*
La storia dell'esegesi di questo racconto mostra ch'esso è stato riferito, allegoricamente, alla pratica del battesimo cristiano sin dai primissimi Padri della Chiesa, poiché esiste l'azione del “lavarsi” da parte di un malato, che poi guarisce. In realtà la guarigione che vi è descritta vuole rappresentare, in origine e più laicamente, la risposta del movimento nazareno al problema etico-politico della sofferenza umana, anche se questa risposta lascia alquanto a desiderare.
Purtroppo infatti il racconto vuole ribadire, sin dalle prime battute, che Cristo era un taumaturgo miracoloso proprio in quanto “figlio di Dio”, ovvero la straordinarietà delle sue performances medicali (nella fattispecie si trattava di un non vedente dalla nascita) attestava in maniera lapalissiana la sua origine divina. Le “opere” di cui egli parla e che vuole, anzi deve, compiere, per adempiere a un mandato “celeste”, sarebbero proprio quelle che meglio possono aiutare a comprendere la sua natura sovrumana.
Su questo, prima di iniziare a fare il commento, bisogna spendere alcune parole. Anzitutto proviamo a metterci nei panni dei manipolatori del vangelo di Giovanni e chiediamoci: “per quale motivo hanno adottato un'ermeneutica della vicenda di Gesù che risulta del tutto assente nelle lettere di Paolo e che non è così marcatamente esplicitata nei sinottici?”.
Questo sembra un vangelo della disperazione, ove i redattori vogliono giocarsi, con le guarigioni miracolose (che, a dispetto della loro esiguità, come numero, paiono tra le più inverosimili di tutto il Nuovo Testamento) l'ultima carta per dimostrare che le loro interpretazioni dell'evento-Gesù e delle conseguenze ch'esso ha generato dopo la sua morte, è l'unica giusta, l'unica possibile.
In effetti è impressionante il tentativo operato in questo vangelo di far vedere al popolo giudaico e ai suoi leader politici, culturali e religiosi che i cristiani avevano tutte le ragioni di predicare il Cristo risorto attraverso l'eccezionalità dei suoi miracoli compiuti quand'era in vita. Usano una falsità minore per sostenerne un'altra maggiore.
Tuttavia il target di questi racconti fantastici non può essere stato il giudeo, poiché su di lui una favola del genere non avrebbe potuto far presa. Quando, prima con Pietro e poi con Paolo, i cristiani iniziarono a mentire alle popolazioni giudaiche, usarono anzitutto e soprattutto la tesi della resurrezione, non il fatto che Gesù avesse compiuto segni prodigiosi, anche perché questi “segni” non li aveva visti nessuno, tant'è che l'uso di questa parola, nei primi discorsi di Pietro riportati in At 2,22, poteva benissimo riferirsi alle azioni compiute da Gesù per organizzare il movimento nazareno, non certo per guarire i malati.
I Giudei erano diventati troppo smaliziati, troppo materialisti, troppo “atei” per poter credere nelle sciocchezze dei miracoli, meno ancora nell'assurdità di potersene servire per dimostrare la divinità o la messianicità del Cristo. Dunque il target di riferimento di questi racconti di fantasy, al pari degli altri neotestamentari ove si parla di “segni e prodigi miracolosi”, doveva per forza essere il pagano neo-convertito, per il quale le differenze tra scriba, fariseo, sadduceo ecc. risultavano assai poco significative. Per lui i responsabili principali della morte di Gesù, quelli che non avevano capito una parola del suo messaggio e che si opponevano a qualunque cosa lui avesse fatto, erano semplicemente i “Giudei”: di qui il lato fortemente antisemitico dei vangeli in genere.
Non solo, ma mentre con queste guarigioni si voleva guadagnare il consenso dei credenti pagani intellettualmente meno dotati, per l'altra categoria di credenti, quella più sofisticata, il vangelo è in grado di proporre un'altra mistificazione, che apparirà soltanto al momento del racconto sull'ultima cena, allorché il Cristo proporrà il concetto di “sacrificio della vita da parte di chi ama i propri amici”.
Si noti però questa differenza: il vangelo di Marco è “anti-giudaico” come quello giovanneo, che nelle sue parti manomesse è del tutto ellenistico (la versione gnostica del paolinismo), ma lo è in quanto “filo-galilaico”: si resta cioè nell'ambito dell'ebraismo, facendo del cristianesimo una sua corrente eretica, che pretende d'inverare, proponendo la tesi mistica della resurrezione, quanto di meglio aveva prodotto l'ebraismo, avendo però l'accortezza di non fare del vangelo un testo per i soli cristiani di origine ebraica, quanto piuttosto per quelli di origine pagana, evitando quindi di fare troppi paralleli con le tradizioni ebraiche (come invece p. es. fa il vangelo matteano). In questa tesi si può in un certo senso riassumere l'evoluzione dal protovangelo marciano, il cosiddetto “Ur-Markus”, all'attuale canonico.
In Marco viene operata una soluzione di compromesso, quella formulata da Pietro e fatta propria da Paolo al momento della sua conversione. Tutto il primo vangelo ruota attorno alla tesi della resurrezione, e i riferimenti all'ebraismo vengono usati soltanto per dimostrare una diversa interpretazione dei fatti (e anche delle Scritture) che la comunità post-pasquale offre alla luce della tesi della resurrezione. Non c'è un esplicito anti-semitismo come nel quarto vangelo (che non è – si badi – opera di Giovanni più di quanto non lo sia dei suoi manipolatori).
*
Tutto il capitolo 9 di Giovanni, esattamente come il precedente, è privo di un preciso contesto spazio-temporale: non c'è neppure un riferimento formale al Tempio, luogo privilegiato per le discussioni, che i redattori spesso paragonano all'agorà greca. L'unico riferimento è quello relativo alla piscina o fontana di Siloe, tradizionalmente collocata dagli esegeti fuori delle mura di Gerusalemme, adiacente al fiume Cedron.
Il capitolo è abbastanza lungo, come spesso succede nel quarto vangelo: 41 versetti, segno di un'intensa elaborazione, che, per essere messa all'interno di un vangelo destinato a diventare ufficiale, deve per forza essere stata sapientemente concordata, anche se non è escluso l'intervento di più mani redazionali.
Dell'evangelista Giovanni probabilmente non vi è neppure una parola. Il racconto infatti è impostato, sin dalle prime righe, in maniera falsificante. Tuttavia, per non rischiare di dire le stesse cose di racconti precedenti di guarigione miracolosa, il testo doveva per forza contenere qualcosa di inedito, che ora dovremo andare a scoprire.
Ciò che immediatamente distingue questo racconto dagli altri analoghi è che qui si è in presenza di un individuo che non si è ammalato per colpa sua, ma di uno che è nato malato. In casi del genere gli ebrei tendevano ad associare malattia e colpa in riferimento ai parenti stretti del malato: se lui era nato cieco, qualcuno doveva aver sbagliato nel metterlo al mondo.
Alla domanda dei discepoli, se quell'uomo fosse cieco dalla nascita per un suo peccato personale o per colpa dei genitori, cioè per un peccato ereditato, Gesù dà una risposta che aveva lo scopo di mettere in crisi l'identità rabbinica di malattia (o sofferenza) e colpa, esattamente come aveva già fatto nel racconto marciano del paralitico (2,1 ss.).
Se i redattori ci avessero presentato un Cristo laico, il significato della sua risposta ai discepoli sarebbe stato facilmente comprensibile: la sofferenza, specie per chi milita in un movimento rivoluzionario, non va mai giustificata ma tolta, e la malattia è una prova non da sopportare con rassegnato stoicismo (come nel caso di Giobbe) ma da superare, cioè un'occasione di crescita umana, in cui occorre far leva su proprie risorse per tentare di risolvere casi apparentemente insolubili.
Detto questo, che poi la guarigione sia o non sia avvenuta (o non sia avvenuta nel modo come è stata descritta), non farebbe molta differenza. Il problema sta sempre nell'interpretazione. Infatti, se con questo racconto l'autore del quarto vangelo voleva indicare che solo il Cristo, in virtù dei suoi straordinari poteri taumaturgici desunti dalla sua origine divina, era in grado di poter risolvere un caso del genere, non si farebbe che avvalorare l'equazione rabbinica di malattia e colpa, il cui background culturale era dominato da un pessimismo latente.
Viceversa, se con questa guarigione si è voluto semplicemente far capire ch'essa poteva rappresentare una sorta di testimonianza simbolica di un progetto molto più complesso, riguardante l'intera collettività, allora risulta del tutto secondaria la specifica tipologia terapica.
Nella pericope, mostrando un supereroe in grado di compiere una guarigione all'istante, si offre una conclusione sbagliata a una giusta premessa. Invece di fare un discorso relativo all'assistenza (il cieco era anche mendicante) se ne propone uno relativo al miracolo; invece di fare un discorso etico, con cui evidenziare che anche un cieco può essere saggio (come p.es. Appio il Vecchio, Diodoto, Democrito, senza dimenticare il grande Omero), se ne fa uno teologico, mostrando che l'unico in grado di guarirlo era il “figlio di Dio”.
Certo è che se la comunità primitiva ha voluto costruire un racconto in cui in luogo di una liberazione sociale degli oppressi (e quindi dei malati e degli indigenti) ci si doveva limitare a credere in una liberazione miracolosa di singoli malati gravi, il discorso finirebbe col ricadere nell'equazione rabbinica di cui sopra. Se l'esegeta accettasse un tale riduzionismo, arriverebbe prima o poi a condividere l'idea confessionale secondo cui questo racconto non è che una rappresentazione simbolica dell'efficacia del battesimo cristiano: un'efficacia ovviamente solo “religiosa”. In tal senso si dovrebbe considerare del tutto naturale l'espediente redazionale di aggravare il più possibile i sintomi del male.
Paradossalmente proprio le “opere di Dio” invocate per compiere un'azione meritevole, finirebbero col condannare tutti i disabili, che come questo diventeranno cristiani, non solo all'emarginazione di sempre (in quanto nessuno, oltre al figlio di Dio, potrà mai guarirli), ma li si esporrà anche alla beffa (in quanto, dopo aver spiegato loro l'assurdità rabbinica di equiparare malattia e colpa, li si illuderà di poter guarire in nome della nuova fede religiosa).
Ma – possiamo chiederci – se nessuno potrà mai sostituirsi al Cristo nel compiere prodigi del genere, il senso di questo racconto stava semplicemente nel voler far credere che Gesù era un Dio? La mistificazione della lunga pericope, in effetti, sta proprio in questo, che si è usata la malattia grave non per allargare il discorso alle questioni sociali e politiche, ma per restringerlo a quelle meramente religiose. I malati gravi vengono strumentalizzati per far credere che Gesù era più che un uomo e che i Giudei erano degli anticristi. Il testo quindi è particolarmente antisemita.
Quanto alla tipologia della guarigione, è evidente che se è bastato un po' di fango e un po' di saliva, il caso non doveva essere particolarmente grave, o comunque la serietà di questo caso era data da motivazioni più sociali (p.es. l'emarginazione) che fisiche o genetiche, sicché la malattia probabilmente rientrava nel campo della psicopatologia, come spesso succede nei racconti evangelici di guarigione, quando questi non hanno valore esclusivamente simbolico.
E comunque la procedura della guarigione è analoga a quella già riportata nel vangelo di Marco (8,23), per cui i redattori non hanno neanche avuto bisogno d'inventarla: hanno solo aggiunto che invece di spalmare direttamente la saliva sugli occhi, Gesù sputò per terra, dopodiché fece un impiastro che mise sugli occhi di quel disgraziato, che andò a lavarsi in una fontana, guarendo perfettamente.
Oltre a questo si può azzardare che un racconto così ricco di particolari può anche essere stato ispirato da un episodio effettivamente accaduto. Ridurlo solo a una prefigurazione simbolica del battesimo ci pare molto semplicistico.
Resta comunque ben scritto il dialogo tra il risanato e i passanti che lo incontrano, alcuni dei quali lo riconoscono, altri no. Vi è addirittura un aspetto ironico, là dove c'è chi fa fatica ad ammettere che il guarito sia proprio l'ex-cieco quando è lui stesso a confermare la propria identità. In realtà è un po' paradossale che non si riconosca una persona solo perché da cieca è diventata vedente. Qui però i redattori han voluto esagerare per dare l'impressione che i Giudei fossero sospettosi di natura, malfidati.
I testimoni oculari della guarigione inaspettata sembrano essere state poche persone: il cieco, Gesù e alcuni suoi discepoli. Il cieco mostra di conoscere Gesù di nome e forse anche di fama; non sapendo tuttavia della sua presenza in quei paraggi, non gli aveva chiesto di guarirlo, e Gesù agisce dando per scontato che volesse esserlo.
Nel racconto Gesù evita di addossare a qualcuno in particolare (del passato o del presente) la responsabilità di determinati mali sociali o individuali, però lascia intendere che chi non fa nulla per risolverli si rende responsabile della loro persistenza e ovviamente delle loro conseguenze. Un insegnamento del genere può essere universalmente accettato. È singolare che proprio attorno a un messaggio di carattere così generale l'opinione pubblica degli astanti si fosse immediatamente divisa.
L'autore del testo lo dice esplicitamente: alcuni dei farisei dicevano che Gesù non era credibile proprio perché faceva queste guarigioni violando il sabato. Altri invece sostenevano che per fare guarigioni del genere si doveva beneficiare di una sorta di “protezione divina”. Sembra che la popolarità dei farisei tra la folla diminuisca al crescere di quella di Gesù.
I redattori comunque devono aver goduto nel far vedere che i Giudei (in questo caso i farisei) più che stupirsi o rallegrarsi di questa guarigione, s'indignano per il fatto ch'era stata compiuta di sabato. Non solo, ma, temendo d'esser tratti in inganno dal miracolato, i farisei negano addirittura l'evidenza, pretendendo d'interpellare i genitori di lui, come se il malato fosse stato non solo un cieco ma anche un minorato mentale.
I dialoghi son così realistici che si fa fatica a non crederci, anche perché i redattori sottolineano come tra la folla vi fossero pareri discordanti. “Come può un peccatore [che non rispetta il sabato] fare tali miracoli?” (v. 16). E anche il risanato ha il coraggio di dire che Gesù è un “profeta” (v. 17), cioè un “grande”, benché non necessariamente “messia”. Nessuno di fronte ai farisei aveva il coraggio di riconoscergli il diritto alla messianicità, poiché avevano paura di essere espulsi dalla sinagoga (v. 22). Anche i genitori dell'anonimo non-vedente si comportano così.
Solo che i farisei avrebbero voluto ascoltare una versione diversa dei fatti: p. es. che il nome del guaritore non fosse proprio quello di Gesù. Se insistono così tanto a pretendere chiarimenti è perché avevano capito due cose: che quell'uomo, nel momento in cui era cieco, non poteva aver visto chi effettivamente lo stesse guarendo, e che, una volta guarito, egli non l'aveva più rivisto. Vi era dunque un margine di dubbio che poteva indurli a credere che quell'uomo stesse mentendo per fare un favore a un candidato al trono d'Israele. Per questo lo invitano a dire la verità, poiché danno per scontato che Gesù sia un “peccatore” (in quanto, p. es., non rispetta il sabato).
E lo fanno con dei sottintesi che a dir minacciosi è poco. È come se gli avessero detto: “se insisti nell'attribuire a lui la tua guarigione, lo fai a tuo rischio e pericolo”. Insomma, questo era un invito a mentire davanti a tutti, a ritrattare la precedente dichiarazione, ammettendo di non possedere più l'assoluta certezza di prima.
Da notare che qui vengono usati, in maniera intercambiabile, i termini “farisei” e “Giudei” nell'unico senso di “nemici del Cristo”. In realtà il termine “Giudei” nel quarto vangelo, il più delle volte, in senso lato, sta a significare soltanto le autorità giudaiche, inclusi i farisei, e tra queste Giovanni distingue l'atteggiamento di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea; in senso proprio sta invece a indicare che una parte di popolazione ebraica (autorità e cittadini) era sì ostile al Cristo, ma un'altra parte gli era favorevole (8,31; 11,45.56; 12,9). In entrambi i modi il termine “Giudei” viene usato nell'accezione politica, solo che nel primo modo, a differenza del secondo, il lettore ha l'impressione di una contrapposizione più ideologica che politica, quella tra “cristiani” e “Giudei” (e forse anche tra “Giudei” e “Galilei” o tra “Giudei” e tutte le altre etnie della Palestina). Qui il termine viene usato prevalentemente nella prima accezione, poiché la guarigione era stata fatta di sabato, giorno di riposo assoluto, in cui la stragrande maggioranza dei Giudei credeva. Tuttavia, dice Giovanni, intorno all'operato di Gesù non tutti la pensavano alla stessa maniera e vi era “dissenso”.
In effetti il racconto non narra soltanto di una guarigione portentosa, ma anche della volontà intenzionale del Cristo di trasgredire pubblicamente il precetto del sabato, o comunque l'interpretazione ufficiale che se ne dava, e di farlo all'interno della stessa capitale. In particolare alcuni esegeti hanno notato che questa guarigione potrebbe collocarsi durante la festa autunnale dei Tabernacoli o delle Capanne (Gv 7,2), che durava otto giorni e durante la quale il sommo sacerdote scendeva in processione nella piscina di Siloe per attingere con una bottiglia l'acqua lustrale da effondere sull'altare. Siloe era l'unica sorgente di un certo rilievo nell'antica Gerusalemme.
Le grandi festività ebraiche erano l'occasione più favorevole per attirare l'attenzione delle masse e poter discutere di questioni inerenti all'emancipazione umana (come nel caso di questo episodio) o alla liberazione nazionale. Qui non vi è alcun dibattito tra il Cristo e le autorità costituite probabilmente perché quest'ultime conoscevano già il suo programma politico, tant'è che avevano già emanato una sentenza di colpevolezza a suo carico (Gv 8,22).
Il dialogo del Cristo, in queste feste, era soprattutto con la folla. In tal senso la violazione del sabato, che si può dire concluda la sezione iniziata col cap. 7, quella in cui Gesù afferma il proprio umanesimo integrale, è servita per dimostrare la coerenza di teoria e prassi e soprattutto il coraggio politico di tale coerenza. Il superamento dell'ideologia del sabato era consequenziale all'affermata autonomia di giudizio dell'uomo, ovvero alla rivendicazione di una indipendenza dalle interpretazioni del potere dominante.
In occasione di tale festa lo scontro tra il Cristo e i Giudei più conservatori è già molto forte e, nella fattispecie di questo racconto, appare chiaramente che molti stentano a riconoscerlo come messia soltanto perché hanno timore di essere espulsi dalle sinagoghe da parte di scribi e farisei, il che equivaleva a essere scomunicati.
Gli stessi genitori del mendicante cieco, interpellati perché non si voleva credere alla testimonianza di quest'ultimo, sono terrorizzati e non hanno intenzione di rischiare qualcosa prendendo le difese del figlio risanato.
Le autorità, dal canto loro, non vogliono convincersi che quello sia stato davvero cieco dalla nascita e cominciano a chiedergli di giurare e di confermare la versione ufficiale sulla colpevolezza etica e giuridica del Cristo. Sembra qui di assistere alle persecuzioni anticristiane condotte dai tribunali romani. I dettagli sono talmente tanti che l'episodio meriterebbe d'essere rappresentato in una versione teatrale.
È singolare come il mendicante faccia professione di onestà e sincerità con l'espressione: “Se lui sia un peccatore non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo” (v. 25), ma anche di avvedutezza: da un lato infatti non vuol cedere su un fatto così evidente, che lo riguarda in maniera personale, dall'altro però preferisce non interferire con l'opinione che le autorità si sono fatte di Gesù e si limita a riconoscerlo come “profeta” (v. 17). Ora che è guarito non vuole rischiare una nuova emarginazione.
Tuttavia i Giudei insistono (e qui occorre vedere soprattutto le autorità rappresentate dai farisei), sperando di cogliere il risanato in aperta contraddizione, per indurlo a confessare diversamente la dinamica dei fatti. A questo punto il mendicante replica con una battuta di spirito: “Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?” (v. 27). Cioè egli interpreta ironicamente l'eccessivo interesse per il suo caso non come una manifestazione dell'odio che i farisei covavano nei confronti del Cristo, ma, al contrario, come malcelata speranza (mista a invidia e gelosia) di poter diventare suoi discepoli.
La reazione delle autorità è dura: per loro esiste una netta contrapposizione tra il Cristo e Mosè: “Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia” (vv. 28-29). Gesù insomma veniva rifiutato proprio perché non era un uomo appartenente agli ambienti del potere giudaico istituzionale, cioè non era un sacerdote, un sadduceo, un anziano, uno scriba, un fariseo, un levita... né era mai sceso a compromessi con almeno una delle componenti di tale potere. Il quarto vangelo sostiene che al movimento nazareno aderirono, nella fase iniziale, rappresentanti del movimento battista, ed è altresì certo che vi siano confluiti rappresentanti del movimento zelota, ma i vangeli, nel complesso, sono molto parchi nel descrivere alleanze di tipo politico. Qui infatti ci si limita ad affermare che l'impossibilità di incasellarlo in una categoria politica ortodossa era sufficiente per bollare negativamente l'operato del Cristo, di qualunque natura esso fosse.
In tal senso la filosofia del neo-vedente, essendo slegata da interessi conservatori di potere, risulta molto più obiettiva. Egli sa rispondere in modo argomentato ai suoi inquirenti, tradendo una cultura insospettata per un povero mendicante. Non vuole colpevolizzare i farisei ma semplicemente ridimensionare le loro pretese di giudizio, riconducendole entro i binari del buon senso: di fronte a un favore così grande elargito in maniera gratuita sarebbe stato meglio porsi in un atteggiamento di dialogo e non di preconcetto rifiuto.
Agli occhi dei farisei quest'uomo deve essere apparso quanto meno un ingenuo: egli infatti non ha minimamente pensato che uno sciamano dotato di ampi poteri taumaturgici potrebbe anche rivendicare un potere personale di tipo politico. E comunque non vogliono prendere lezioni di comportamento da chi, a loro giudizio, “è nato tutto nei peccati” (v. 34). Sicché decidono di scomunicarlo. Non potevano essere messi in discussione né l'identità di malattia e colpa, né il primato del sabato sull'uomo, né il sospetto di eresia e di minaccia eversiva a carico del Cristo.
Qui si può rilevare che il risanato non ha mai avallato l'idea della messianicità di Gesù al cospetto dei farisei: infatti l'aveva soltanto definito “profeta” e, nella seconda interrogazione, aveva usato il termine “pio”, cioè “devoto a Dio”. Questo perché temeva spiacevoli conseguenze, anche se egli non può nascondere né che l'equazione rabbinica di malattia e colpa non fosse di suo gradimento, né che Gesù aspirasse a diventare messia d'Israele. In tal senso ci sembra, ad un certo punto, quando la tensione tra lui e i farisei sale notevolmente, che gli importi poco il rischio d'essere espulso dalla sinagoga.
Se escludessimo il miracolo e ci limitassimo a questa interessante e per certi versi divertente discussione, non violeremmo alcun principio di sana laicità. Il finale della pericope tuttavia andrebbe riscritto.
Gesù e il risanato s'incontrano di nuovo. Quand'era ancora cieco, qualcuno (forse un discepolo di Gesù) gli aveva svelato l'identità del suo guaritore, ma egli non l'aveva potuto vedere di faccia, neppure dopo essersi tolto il fango nella piscina. Ora può finalmente rincontrarlo ma non può ovviamente riconoscerlo. Davanti a lui potrebbe anche esserci uno che, avendo ascoltato i suoi discorsi coi farisei, sarebbe potuto andarlo a trovare per complimentarsi della sua franchezza.
Gesù gli chiede se crede nel “figlio dell'uomo” (v. 35): un appellativo che in sostanza voleva dire “uomo comune” o al massimo “messia umano”, non necessariamente religioso; un titolo che i redattori cristiani han sempre avuto ritegno a usarlo come prevalente nella predicazione del Cristo, in quanto troppo allusivo al suo contenuto politico. Il neo-vedente si doveva convincere che il Cristo era grande non perché “timorato di Dio” (come prima aveva detto), ma perché “vero figlio d'uomo” (v. 35).
Significativo che Gesù stesso gli faccia capire che i suoi poteri gli provenivano non dal fatto di compiere “la volontà di Dio”, ma piuttosto dal fatto d'essere “integralmente uomo”, e quindi capace, proprio per questo, di giudicare in maniera autonoma, “affinché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (v. 39).
Il finale è però poco convincente per almeno tre ragioni:
– il Cristo si fa riconoscere come messia ma non lo invita alla sequela;
– il risanato lo riconosce come messia ma si prostra ai suoi piedi come se fosse una divinità;
– la presenza dei farisei, in quel momento, è del tutto inverosimile.
Resta però interessante il parallelo semantico tra vedere fisicamente e non vedere spiritualmente, e viceversa, che in un racconto come questo è molto indovinato. Si potrebbe anzi dire che se l'insegnamento di questo capitolo si riducesse a questo parallelo, non vi sarebbe difficoltà ad accettare l'ipotesi di una guarigione usata come segno per indicare simbolicamente il significato di un valore umano. Ma questo solo a condizione di non poter inferire, in maniera “logica”, una qualsivoglia caratteristica sovrumana del Cristo. Se egli ha davvero fatto una guarigione del genere, l'ha compiuta entro i limiti della ragione.
(torna su)Epilogo sulle Guarigioni
Ora che siamo giunti alla conclusione sulle guarigioni, facciamo il punto della situazione.
È anzitutto probabile che nel quarto vangelo i racconti di miracoli siano stati aggiunti proprio perché nel testo originario la loro assenza strideva troppo con l'impianto dei sinottici.
Pur essendo sapientemente manipolato, appare chiaro che in questo vangelo Gesù non doveva affatto apparire come “grande taumaturgo” quanto piuttosto come “politico eversivo”. In tal senso la differenza tra Giovanni e i sinottici sta appunto nel fatto che mentre in questi ultimi ci si è serviti dei racconti di guarigione e in genere di miracolo per mistificare l'attività politica del Cristo, nel quarto vangelo invece la mistificazione è avvenuta presentandolo come “grande teologo”, i cui vari “segni miracolosi” dovevano semplicemente servire allo scopo di legittimare la sua “natura divina”.
Detto questo, vediamo ora di rispondere alle due seguenti domande.
1. Era davvero necessario, nei vangeli, fare guarigioni spettacolari nel giorno festivo per gli ebrei, al fine di dimostrare che il precetto del riposo assoluto, di fronte alla possibilità di compiere il bene in una situazione di bisogno, non aveva alcuna ragione di esistere?
2. I racconti evangelici di guarigione, i cui malati risultano sempre molto gravi e praticamente inguaribili per la medicina dell'epoca, sono stati redatti – vista la resistenza assoluta dei capi-giudei ad accettare quelle terapie di sabato – con intento antisemitico?
Alla prima domanda bisogna rispondere con fermezza che Gesù Cristo non può in alcun caso essere ricorso a pratiche terapiche che andassero oltre quello che può essere considerato l'umanamente accettabile. Se anche si volessero dare per scontate talune guarigioni, queste al massimo possono aver riguardato malattie di tipo psicosomatico. In ogni caso è categoricamente da escludere che il Cristo, con le proprie guarigioni, volesse dimostrare che in lui era presente una natura sovrumana.
Un atteggiamento del genere, peraltro, sarebbe stato del tutto contraddittorio con la tesi del “segreto messianico” formulata e ampiamente sostenuta nel vangelo di Marco, che fa da modello a tutti gli altri (anche nelle parti manipolate del quarto vangelo). Se il Cristo voleva servirsi delle guarigioni per dimostrare ch'era il “figlio di Dio”, non si capisce perché non le abbia usate per convincere il suo popolo a compiere l'insurrezione nazionale. Infatti, una qualunque guarigione definibile come “miracolistica” avrebbe avvalorato ancor più la convinzione ch'egli potesse essere il messia tanto atteso, visto che non avrebbe lasciato molto spazio alla decisione se credere o meno nella sua divinità.
Tuttavia, sostenere da un lato la divinità del Cristo, prendendo i miracoli come esempio paradigmatico, e pretendere, dall'altro, che le masse credessero nella necessità divina della sua morte in croce, è una tesi che, sul piano logico, non sta in piedi, neppure da un punto di vista teo-logico (tant'è che Paolo trascurò del tutto i racconti dei miracoli, concentrandosi unicamente sulla tesi, non meno fantasiosa, della resurrezione).
La risposta alla seconda domanda è conseguente all'impostazione che abbiamo voluto dare alla prima risposta. Nel senso che se si volesse dare per scontata la capacità di operare guarigioni miracolose da parte del Cristo, la pervicace ostinazione giudaica a rifiutarle soltanto perché compiute in giorno di sabato, risulterebbe del tutto inspiegabile, in quanto ci porterebbe a dare una valutazione di questo popolo (o comunque dei suoi leader più significativi) irrimediabilmente viziata da pregiudizi di tipo ideologico.
Nessuna persona al mondo rifiuterebbe una guarigione umanamente impossibile solo perché esiste un giorno della settimana che obbliga al riposo assoluto. È vero che gli ebrei accettavano che si violasse il sabato di fronte ai casi di pericolo di vita, ma sarebbe assurdo sostenere che di fronte a un caso di malattia inguaribile opponessero un rifiuto alla guarigione solo perché il malato non era in pericolo di vita. Se si voleva trasformare un intero popolo in un mostro privo di scrupoli, qui ci si è riusciti perfettamente, tant'è che per rimuovere l'accusa di “popolo deicida” la chiesa romana ci ha impiegato quasi duemila anni.
Insomma è evidente che nei vangeli le guarigioni miracolose sono state elaborate, come genere letterario, da dei redattori cristiani che non solo avevano l'intenzione di dimostrare che Gesù era più che un uomo, ma che nutrivano anche un profondo disprezzo nei confronti della popolazione giudaica, considerata pregiudizialmente chiusa nelle proprie convinzioni religiose.
Nel quarto vangelo i redattori non hanno fatto altro che prendere spunto dai racconti marciani di guarigione, ampliandoli notevolmente con una serie di elucubrazioni spiritualistiche di alto livello. Infatti, mentre in Marco non è così evidente che Gesù facesse le sue terapie per dimostrare ch'era “figlio di Dio”, qui invece la cosa appare molto chiara (benché, beninteso, in nessun vangelo Gesù si comporti mai come un terapeuta che affida alla divinità, tramite riti specifici, preghiere, invocazioni, la decisione di guarire l'ammalato).
Tuttavia, poiché di fronte al bisogno non c'è precetto che tenga, che cosa il Cristo possa aver umanamente detto, a proposito del sabato, è facile intuirlo, anche a prescindere dalle guarigioni compiute. L'assistenza ai malati, ai poveri, persino la “fame” che prese i suoi discepoli in un campo di grano (Mc 2,23 ss.) erano motivi sufficienti per impedire che il sabato diventasse più importante dell'uomo, ovvero che una restrittiva interpretazione farisaica s'imponesse sul buon senso.
Il precetto, quanto mai laico, che Cristo formulò a proposito di tale questione è illuminante per capire che il rigorismo giudaico era del tutto fuori luogo: “il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato” (Mc 2,27), con l'aggiunta finale, ancora più esplicativa: “il figlio dell'uomo (e quindi l'uomo in generale) è padrone del sabato”, cioè si trova nella condizione in cui può eliminarlo come una qualunque altra legge divenuta obsoleta.
In Matteo viene detto, a chiare lettere, che il sabato veniva violato quando un animale domestico finiva in un fosso: “Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in un fosso, non l'afferra e la tira fuori? Ora, quanto è più prezioso un uomo di una pecora!” (12,11 s.). Nell'ultimo vangelo canonico (7,22) Gesù fa notare agli intellettuali giudei che i loro sacerdoti violavano consapevolmente e ufficialmente il precetto del sabato quando erano costretti ad applicare quello della circoncisione.
Insomma ritenersi indenni da colpe solo perché si applicano rigidamente delle regole o solo perché ci si astiene scrupolosamente dal compiere qualunque azione, è una pretesa che di umano, alla resa dei conti, non ha proprio nulla. Anche perché “fare il bene” non può semplicemente voler dire “non fare il male”.
(torna su)SEZIONE III
La capacità di assimilare le figure retoriche si rivela utilissima quando le società (ivi incluse quelle contemporanee) hanno governi dittatoriali. Spesso attraverso l'uso di queste figure, con cui si può evitare di attaccare le classi dirigenti in maniera esplicita, le opposizioni riescono a fare un minimo di contestazione, riuscendo a eludere le strette maglie della censura. Ovviamente ciò suppone non solo una forte intesa tra le opposizioni, ma anche una certa capacità di astrazione e di elaborazione intellettuale sul piano simbolico. Nei vangeli l'esempio più eloquente è costituito dalle parabole.
LE PARABOLE DEGLI OPERAI
Il cristianesimo come socialismo a metà
Esiste un aldilà laico?
esempio di parabola come premessa
Quando verrà il mio turno, la domanda che vorrei mi venisse posta è la seguente:
– Come avresti voluto essere?
Al che cercherei di approfittarne per chiedere:
– Sotto ogni
punto di vista?
Se
mi si rispondesse di sì, chiederei solo una cosa:
–
Vorrei essere umano.
Questo per dire che un laico dovrebbe sottrarre completamente alla religione il cosiddetto “discorso sull'aldilà”. È ora di cominciare a farlo, perché forse questa è l'ultima cosa su cui la religione può accampare delle pretese.
Dovremmo cioè cominciare ad estendere al genere umano la legge scientifica della perenne trasformazione della materia. Noi siamo destinati a non essere mai esattamente uguali a noi stessi: siamo in perenne evoluzione, proprio perché, lo si voglia o no, siamo destinati a esistere.
Il fatto di credere nella nostra eternità non dobbiamo vederlo come un cedimento a posizioni religiose, ma anzi come una conferma che tra energia materiale e spirituale non vi sono differenze sostanziali e che possiamo tranquillamente ipotizzare che all'origine dell'universo non vi sia alcun Dio ma un qualcosa che dovremmo chiamare “essenza umana”.
Tutte le leggi dell'universo si concentrano in una sola: la libertà di coscienza. Lo sviluppo di questa libertà va inteso eterno nel tempo e infinito nello spazio. Prepariamoci dunque a uscire di nuovo dal grembo materno, per entrare di nuovo, in una dimensione molto più vasta, in cui ci saranno regole da rispettare (come la legge di gravitazione universale, la velocità della luce, la riproduzione naturale ecc.), ma anche forme di indeterminazione, di imponderabilità da capire, che ci costringeranno a misurare la nostra intelligenza, la nostra capacità di reazione.
Ed esisteranno naturalmente anche le leggi spirituali, la prima delle quali sarà appunto quella del rispetto della persona, che su questa Terra scienza e religione garantiscono solo se si sta dalla loro parte, come se la verità fosse una cosa che sta qui e non là.
Non esiste un “premio per i buoni” e una “punizione per i cattivi”, ma soltanto la possibilità di essere se stessi, che è la stessa che ci dovrebbe essere offerta su questa Terra, e che per colpa di qualcuno che, dopo aver messo un recinto su un pezzo di terra, ha detto: “Questo è mio”, e per colpa di un altro che gli ha creduto, non abbiamo saputo utilizzare come avremmo dovuto.
È vero, l'inferno esiste nell'aldilà, ma solo per chi non avrà voglia di ricominciare. Chi è convinto di questo non ha bisogno che qualcuno gli racconti delle “parabole”.
*
L'unico caso in cui ciò che dice il Cristo può essere interpretato in chiave metaforica è quando usa il linguaggio parabolico, cui probabilmente si sentiva costretto a causa della persecuzione da parte delle autorità costituite. Parlando in parabole (un linguaggio indiretto, allusivo, non polemico), in un certo senso si nascondeva, sia per timore d'essere arrestato (se avesse usato un linguaggio più esplicito, facendo nomi e cognomi), sia per dare il tempo all'interlocutore di ripensare con calma i giudizi di condanna e riprovazione che aveva precedentemente formulato.
P.es. quando dice “non sono venuto per i sani ma per i malati”, stava sicuramente usando un linguaggio figurato contro i farisei, che spesso guardavano con disprezzo il popolo ignorante o quello che svolgeva mestieri proibiti o che non rispettava alla lettera le regole comunitarie. Stava usando una sottile ironia, ai limiti della comicità, che certamente un fariseo avrebbe potuto capire ma che non l'avrebbe indispettito più di tanto, in quanto, non essendoci un espresso riferimento al proprio partito di appartenenza, la frase avrebbe potuto essere rivolta a chiunque.
(torna su)15) Il ricco epulone
(Lc 16,19-31)
[19] C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.
[20] Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe,
[21] bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe.
[22] Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
[23] Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui.
[24] Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura”.
[25] Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
[26] Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né da voi si può arrivare fino a noi”.
[27] E quegli replicò: “Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre,
[28] perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento”.
[29] Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
[30] E lui: “No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno”.
[31] Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”.
*
Questa parabola è fatalista per quanto riguarda l'idea di giustizia sociale sulla terra, ed è schematica per quanto riguarda l'idea di giustizia sociale nei cieli.
È fatalista perché considera “ricchezza” e “povertà” come condizioni “scontate”, volute da Dio per mettere alla prova la gente: il ricco avrebbe dovuto aiutare il povero (cosa che qui non avviene), mentre il povero avrebbe dovuto rassegnarsi alla propria povertà (cosa che qui avviene).
La parabola è anche schematica, perché considera la salvezza nei cieli e la condanna agli inferi come cosa “acquisita”, “definitiva”. Il ricco epulone non può salvarsi neppure se si pente e Lazzaro, da parte sua, non potrebbe aiutarlo a pentirsi neppure se volesse, perché tra i due è stabilito “un grande abisso” (v. 26).
L'abisso che c'era sulla terra e che Lazzaro sopportava, ora lo deve sopportare il ricco epulone negli inferi, per sempre: cosa che però non gli riesce, e non tanto perché sia “umano” non poter sopportare un dolore senza fine, quanto perché – secondo l'autore di questo racconto – chi ha avuto tutto dalla vita non può sopportare di non aver nulla dopo morto.
La parabola è schematica, cioè categorica, proprio perché fatalista. Il finale lo conferma. L'autore della parabola è convinto che chi è ricco non potrà mai diventare “giusto”, neppure se vedesse un morto resuscitare(v. 31).
Il difetto della morale della parabola non sta tanto nel fatalismo riferito alla possibilità di “fare giustizia” da parte del ricco epulone, quanto piuttosto nel fatalismo riferito alla possibilità di “farsi giustizia” da parte del “povero Lazzaro”.
L'autore della parabola (un ebreo convertito al cristianesimo con evidenti tracce antisemite), partendo dal presupposto che i poveri non sono capaci di “farsi giustizia”, ritiene che la giustizia sulla terra non sia possibile, in quanto i ricchi, proprio perché ricchi, non sono disponibili a “fare giustizia” spontaneamente.
Il limite di questa parabola non sta ovviamente nel voler far credere che per indurre un ricco a “fare giustizia” siano sufficienti la Legge mosaica e l'insegnamento profetico (v. 29), cioè che per “fare giustizia” nel presente sia sufficiente rifarsi a quanto di meglio ha prodotto, nel passato, il popolo ebraico (posizione, questa, che, oltre che fatalista, sarebbe ingenua); ma sta piuttosto nel voler far credere che la pretesa ebraica di realizzare la giustizia in nome di Mosè e dei profeti è illusoria e alla fine produce soltanto dei personaggi come appunto il ricco epulone.
Il giudizio critico dell'autore parte dal presupposto che tra ebraismo e cristianesimo non vi possa essere che una contrapposizione frontale, senza mediazione alcuna, e che, di conseguenza, proprio il fallimento storico dell'ebraismo costituisce la più sicura garanzia del successo del cristianesimo.
L'autore crede di aver trovato una conferma al proprio fatalismo nel fatto che Gesù Cristo è stato crocifisso e che a lui non hanno creduto neppure quando hanno detto ch'era risorto. Forse l'autore, per un certo periodo di tempo, aveva sperato, nel proprio fatalismo di fondo, che gli ebrei avrebbero creduto al vangelo cristiano, almeno di fronte all'annuncio della resurrezione (col quale si poteva perdonare il delitto della croce) e che in virtù della fede in questa resurrezione si sarebbero anche potute migliorare le condizioni degli oppressi. Se è così, allora il cristiano di origine ebraica che ha scritto questa parabola, doveva essere di modeste condizioni sociali, attento ai problemi della giustizia, non disponibile però a impegnarsi in un progetto politico rivoluzionario.
Tuttavia, anche se non sembra, la parabola era abbastanza progressista nel tempo in cui venne scritta, poiché allora si riteneva, negli ambienti ellenistici, che solo i ricchi avrebbero ottenuto il paradiso, o che comunque dopo la morte tutti sarebbero finiti nell'Ade (un inferno deprimente), quindi senza nessun vantaggio per i poveri e gli schiavi.
*
Più in generale qual è il limite della parabola? Il suo autore è convinto che il ricco non rinuncerebbe alle proprie ricchezze neanche se vedesse un uomo risorgere. Con ciò egli implicitamente ammette che la teoria apostolica (petrina) della resurrezione di Cristo non ebbe alcuna efficacia per la modificazione dei rapporti di sfruttamento esistenti nella società schiavistica.
Questa parabola, che sia nata in ambiente ellenistico-cristiano o in ambiente ebraico-cristiano, manifesta comunque indirettamente la limitatezza strutturale del cristianesimo e di qualunque religione sul piano sociale. L'autore può anche averla scritta per mostrare che la legge mosaica e tutto il profetismo veterotestamentario si sono rivelati assolutamente impotenti di fronte all'oppressione della società schiavistica, ma se essa voleva lasciare intendere che i ricchi cristiani di origine pagana o di origine ebraica non arriveranno mai – appunto perché “cristiani” – ad adorare il “Dio quattrino”, così come i ricchi di religione ebraica, allora bisogna dire che la sua pretesa alternativa è non meno illusoria di quella ebraica. Anche perché l'autore è esplicito nel sostenere l'impossibilità di trovare una qualunque mediazione tra ricchezza e povertà e nel contempo l'impossibilità di ribaltare le cose a favore dei ceti non abbienti, tant'è che la possibilità del riscatto, per il povero o lo schiavo, egli la relega nel mondo dell'aldilà. Il povero Lazzaro, infatti, quand'era in vita, si limitava a supplicare la pietà del ricco e non opponeva alcuna resistenza all'ingiustizia sofferta. In particolare il v. 25 pone l'ingiustizia a livello di un male da sopportare. Superata la prova, con la pazienza e la rassegnazione, lo schiavo otterrà nell'aldilà la ricompensa.
Sulla necessità di questo atteggiamento rinunciatario facilmente potevano trovarsi d'accordo cristiani d'origine ebraica e pagana. Ricchi e poveri, per Luca e per tutto il cristianesimo primitivo, sono appunto un dato della natura voluto da Dio. Al cristianesimo non si chiede più di quanto in precedenza si chiedeva alla legge mosaica, cioè la pura e semplice predicazione della pazienza per il povero e della pietà per il ricco.
Ovviamente la parabola avrebbe potuto concludersi con una diversa morale, forse più ebraica che cristiana, ma certamente meno scettica di quel che qui si può constatare: e cioè che chi è abituato a vivere nel lusso sfruttando il prossimo, potrebbe rinunciare a questo tipo di vita soltanto se qualcuno ve lo obbligasse.
*
Forzando un po' la mano si potrebbe dire che la parabola è attraversata da una certa tendenza antisemita, in quanto l'incredulità dei Giudei – qui rappresentati dal ricco epulone – nei confronti del Cristo e del cristianesimo apostolico – qui rappresentati dal povero Lazzaro e da Abramo – viene considerata come assolutamente inevitabile.
Forse non è semplicemente una parabola contro i ricchi o la ricchezza in generale, a favore della speranza di una ricompensa ultraterrena, poiché, in tal caso, sarebbe del tutto normale annoverarla tra quelle del mondo islamico.
Probabilmente non è neppure una parabola preposta a insegnare la cosiddetta teoria della “non resistenza al male”, perché prevedere come ricompensa a un'azione ideale qualcosa di molto materiale, è senza dubbio limitativo dal punto di vista etico-religioso.
Questi aspetti sono certamente presenti nel testo e anche in maniera esplicita. Tuttavia qui si ha l'impressione che il leit motiv del racconto stia piuttosto in una sorta di malcelato disprezzo nei confronti del ceto ebraico benestante, e non tanto o non solo perché “benestante”, quanto soprattutto perché “ebraico”.
Se Luca – che era di origine pagana – avesse voluto scrivere una parabola contro l'uso illecito delle ricchezze, non avrebbe avuto bisogno di scegliere uno sfondo e dei personaggi che ricordano così da vicino l'ebraismo. Sarebbe subito apparsa una scelta forzata e lontana dal suo stile accorto. Peraltro avrebbe ottenuto un effetto di dubbia efficacia pedagogica nell'ambito di una comunità cristiana di origine ellenistica.
Questa parabola contiene elementi troppo artificiosi perché si possa pensare ch'essa rifletta una qualche situazione sufficientemente realistica.
Il povero Lazzaro infatti sembra rappresentare il proletariato ebraico che, emancipatosi dall'ideologia giudaica dei ceti possidenti, che lo discriminava culturalmente e l'opprimeva materialmente, diventa, nei panni di Abramo, una sorta di parvenu cristiano, fondamentalmente razzista e soprattutto antisemita, in quanto ipostatizza un atteggiamento incredulo e volgarmente materialista da parte dei possidenti ebrei.
Abramo rappresenta ciò che Lazzaro avrebbe voluto essere sulla terra quand'era ebreo e ciò che è diventato abiurando l'ebraismo.
In questo racconto la ricchezza è stata vista non tanto per fare una critica al suo uso smodato o a quello ch'essa rappresenta in sé, ma come occasione per condannare un ceto sociale e, con esso, un'etnia, un popolo, una cultura, una religione, senza soluzione di continuità.
Una parabola del genere non solo non può essere uscita dalla penna di Luca, ma meno ancora potrebbe essere uscita dalla bocca del Cristo, sia perché questi, nei vangeli, non ha mai negato a nessuno la speranza della conversione – tant'è che lo stesso Luca non ha scrupoli nel sostenere che persino Zaccheo, un capo degli agenti delle tasse, era disposto a seguire il messia in cammino verso Gerusalemme per l'ingresso trionfale; sia perché non è condannando la ricchezza in maniera così moralistica (chi ha goduto sulla terra soffrirà nei cieli) che si sarebbe potuta ottenere la giustizia sociale in Israele. Cristo non era un profeta ma un leader politico.
In definitiva, una parabola così dominata dalla logica del risentimento, può essere stata solo aggiunta al testo di Luca.
Peraltro, se accettiamo che Luca abbia scritto anche gli Atti degli apostoli, la suddetta parabola si presenta come la negazione della storia del più grande apostolo del Nuovo Testamento, Paolo di Tarso, che si convertì non solo perché era giunto alla conclusione che la Legge e i Profeti non erano più sufficienti a garantire la libertà personale, ma anche perché ad un certo punto si persuase che la scomparsa del Cristo dalla tomba poteva essere considerata come un fatto realistico, da utilizzare strumentalmente come chiave di volta per elaborare una nuova ideologia religiosa, alternativa sia al vecchio giudaismo che alle teorie professate dal Cristo in persona.
(torna su)16) Il banchetto del re
(Mt 22,1-14)
[1] Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse:
[2] Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.
[3] Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire.
[4] Di nuovo mandò altri servi a dire: “Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze”.
[5] Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari;
[6] altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
[7] Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
[8] Poi disse ai suoi servi: “Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;
[9] andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”.
[10] Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.
[11] Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale,
[12] gli disse: “Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale”? Ed egli ammutolì.
[13] Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
[14] Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.
*
Per quale motivo gli invitati a nozze (che si presume appartenessero a un ceto aristocratico) non andarono al banchetto del re? E perché declinarono l'invito anche quelli vincolati da legami di parentela?
Evidentemente gli invitati a nozze non si sentivano tenuti ad andarci, né legalmente né moralmente. Forse i loro interessi erano del tutto opposti a quelli del re e non volevano celare la diversità accettando un invito che in qualche modo avrebbe indebolito la loro opposizione.
Forse non condividevano quel tipo di matrimonio o erano in cattivi rapporti col figlio del re. La parabola non spiega minimamente il motivo del loro atteggiamento, che sembra anticipare di secoli quella che gli storici chiameranno “anarchia feudale”.
Di certo gli invitati avevano acquisito, in quanto possidenti di terre e di servi, un potere tale da non temere la reazione del loro monarca. Il racconto vuole comunque equiparare il re a una sorta di “buon padre”.
La classe degli aristocratici possidenti e militari, descritta nella parabola (hanno città, campi, affari, armi) è paga di sé e non vuole rispettare l'autorità del re neppure formalmente. È un vero e proprio atto d'insubordinazione: essi hanno approfittato dell'occasione (le nozze del figlio del re) per far valere il loro punto di vista.
Il re, dimostrando molta pazienza, si servì a più riprese dei suoi messi per rinnovare l'invito alle nozze, ma inutilmente: i messi anzi vennero uccisi e il re, per non perdere di credibilità, fu costretto a muover guerra e a giustiziare gli aristocratici assassini, sperando ovviamente che gli altri si convincessero ad accettare l'invito.
Niente fa fare. I sudditi refrattari, dopo l'eccidio dei colleghi, credono di avere una ragione in più per disertare la festa nuziale. Ciò tuttavia non può pregiudicare, agli occhi del re, la riuscita della cerimonia, tanto più che il figlio è destinato a subentrargli come erede universale e successore al trono.
I nuovi invitati, scelti “ai crocicchi delle strade”, sono diventati i nuovi rappresentanti della classe sociale che d'ora in avanti otterrà l'appoggio della monarchia: si tratta della piccola e media borghesia, legata ad attività commerciali, artigianali, professionali, in grado di pagarsi un costoso vestito per partecipare alle nozze degli sposi.
Una politica più progressista – dettata anche da fattori indipendenti dalla volontà della corona – aveva permesso a quest'ultima di stringere nuove alleanze politiche, nuove intese di classe, per quanto il rischio d'incontrare elementi “pericolosi”, “sovversivi” era grande: non tutti i commensali, infatti, erano “buoni”.
L'essere invitati a nozze dal monarca implicava inevitabilmente una nuova responsabilità sociale, di cui bisognava essere ben consapevoli. Una volta accettato, l'invito comportava precise conseguenze politiche. Colui che non porta l'abito adatto all'occasione (perché pensa di poterne fare a meno) non ha capito questa fondamentale regola del potere. Questa la morale esplicita della parabola.
La monarchia romana decadente del periodo repubblicano qui tenta la propria revanche, realizzando l'intesa coll'emergente piccola e media borghesia, che vede nella nuova figura dell'imperatore il vessillo democratico contro il vecchio potere aristocratico.
La parabola è stata elaborata in una comunità cristiana imborghesita, che cercava nell'alleanza col principe il proprio riscatto politico-sociale, badando bene di non mettere in discussione le fondamenta schiaviste del sistema. Il ruolo del proletariato, infatti, resta subordinato: il suo “regno dei cieli” consisterà semplicemente (come vuole l'etica cristiana) nell'attendere le “elemosine” che la borghesia vorrà elargirgli, a condizione naturalmente ch'esso resti nei “ranghi”.
Nella comunità primitiva, dominata da elementi proletari rivoluzionari, non si sarebbe mai potuta elaborare l'immagine di un potere che invita a nozze i poveri e caccia il ricco. Questo modo di vedere le cose avrebbe peccato di “moralismo” e sarebbe quindi stato inconciliabile con le esigenze rivoluzionarie.
Tuttavia l'insegnamento indiretto, cioè “non voluto”, della parabola di Matteo, può essere un altro, assai diverso da quello manifesto Chi si compromette su cose essenziali – questa la lezione che il proletariato deve imparare – non può sperare di confondersi tra chi gli è diverso per censo, capacità di rischio, volontà di successo, cercando di ottenere il massimo dando il minimo.
Il proletariato che non vuole accettare i compromessi vergognosi col potere che lo sfrutta, non deve neppure accettare i suoi inviti a nozze: se lo fa, sperando di salvaguardare se stesso, s'illude o rischia comunque di cadere nell'opportunismo. La parabola premia la piccola borghesia che sa approfittare delle buone occasioni per farsi valere, ma indirettamente può essere utilizzata per insegnare al proletariato che è fatica sprecata pensare di poter combattere il sistema usando le sue stesse armi, cioè accettando di condividerne la logica, seppure con riserva. Il potere infatti non tollererà il non conformismo di chi non ha il vestito come gli altri: esso non può fidarsi di chi non vuole compromettersi sino in fondo. Si tratta invero di un'alleanza in cui entrambe le parti dovrebbero far valere i loro interessi, ma in realtà le condizioni sono state poste dal monarca e nessuno le può modificare.
(torna su)17) Gli operai allocchi
(Mt 20,1-16)
[1] Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.
[2] Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.
[3] Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati
[4] e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono.
[5] Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto.
[6] Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?
[7] Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna”.
[8]
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama
gli operai e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai
primi”.
[9] Venuti quelli delle cinque del pomeriggio,
ricevettero ciascuno un denaro.
[10] Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno.
[11] Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo:
[12] “Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
[13] Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?
[14] Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.
[15] Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?
[16] Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.
*
Che senso ha pagare chi lavora meno ore esattamente come chi ne lavora di più? È vero che il padrone – com'egli stesso afferma – è libero di fare del suo capitale “quel che vuole” (almeno finché – si può aggiungere – i lavoratori glielo permettono), ma è anche vero ch'egli è consapevole di quanto l'operaio abbia diritto a un giusto salario (lo attestano le sue parole: “quello che è giusto ve lo darò”). Perché dunque, alla fine della parabola, risulta che il padrone ha ragione e torto gli operai che hanno lavorato di più in quanto assunti di prima mattina? Non era forse un loro diritto pretendere un salario maggiore, proporzionato al tempo impiegato?
Ancora una volta è l'imprenditore a dare la risposta (nei vangeli gli operai non forniscono mai convincenti motivazioni): “Io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? O forse non vedi di buon occhio la mia bontà perché pago gli ultimi come i primi?”.
Ecco dove stava il problema: nella contrattazione. I primi operai hanno venduto la loro forza-lavoro contrattando, gli ultimi no. Costoro infatti appartengono alla manovalanza in esubero, incapace di lotta sindacale. Vengono ingaggiati solo perché la produzione è particolarmente elevata o in fase espansiva. E quelli che hanno contrattato, ben sapendo quale minaccia quotidiana incomba su di loro a causa di questo “esercito di riserva”, non si sono rischiati di chiedere il massimo possibile.
È difficile capire perché questo imprenditore di vigneti non abbia approfittato della situazione per sfruttare la manodopera eccedente, pagandola meno di quella sotto contratto. Probabilmente egli crede, pagando i primi come gli ultimi, di poter ridurre il potere rivendicativo degli operai più qualificati o più “sindacalizzati”.
Questo padrone, che si vanta di essere “buono” proprio mentre inganna e sfrutta gli operai a giornata, è riuscito perfettamente a dividere i lavoratori, a metterli gli uni contro gli altri. Infatti, gli operai dell'intera giornata non hanno saputo trarre dalla discriminazione le giuste conseguenze: invece di allearsi con gli ultimi operai contro gli inganni e le meschinerie dell'astuto padrone, hanno soltanto preteso un trattamento diversificato. E così, grazie al loro atteggiamento “aristocratico”, corporativo, il padrone è riuscito ad avere dalla sua parte una bella fetta del sottoproletariato.
In questa parabola l'operaio appare come una figura rozza, primitiva, un vero allocco che non sa farsi valere, che non sa difendere né i suoi diritti individuali né quelli della sua classe. Questo “somaro” che sa lavorare solo sotto padrone, che non sa rischiare, come il borghese, mettendosi in proprio, merita solo commiserazione. Si crede indispensabile e non sa che nessuno è insostituibile: “gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”.
(torna su)18) I talenti maledetti
(Mt 25,14-30)
[14] Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni.
[15] A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.
[16] Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque.
[17] Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
[18] Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
[19] Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro.
[20] Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”.
[21] “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
[22] Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due”.
[23] “Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
[24] Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso;
[25] per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo”.
[26] Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso;
[27] avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
[28] Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.
[29] Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.
[30] E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
*
Un commerciante, prima di partire per un lungo viaggio d'affari, consegna in gestione una quota delle sue sostanze ai tre servi più fidati, perché ne conseguano un profitto. Divide i suoi beni non in parti uguali ma in base alle loro capacità manageriali: al primo dà cinque talenti, al secondo due e al terzo uno. La scelta del mercante si rivela subito oculata, non solo perché con l'equa distribuzione evita di suscitare gelosie tra i servi, ma anche perché i primi due agiscono come lui aveva chiesto: investono il capitale e lo raddoppiano.3
“Colui invece che aveva ricevuto un solo talento – dice Matteo –, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone” (v. 18). La paura di perderlo era stata più forte di lui. Eppure il padrone non gli aveva dato di meno perché già sospettava che non avrebbe rispettato l'ordine ricevuto: il primo servo, sotto questo aspetto, non offriva maggiori garanzie. A priori si può mai forse essere sicuri di qualcosa?
Perché dunque il terzo servo nascose il talento? A suo dire, per la paura di perderlo e quindi di essere duramente castigato. È giustificata questa paura? Se lo fosse, il padrone non avrebbe fatto la scelta criteriata della ripartizione. La paura, quando s'intraprende un'operazione finanziaria, è inevitabile, in quanto un certo margine di rischio fa parte del “gioco speculativo”: di questo qualunque padrone è perfettamente consapevole. Il fatto ch'egli avesse riconosciuto al servo alcune qualità, attesta appunto che la paura, in qualche modo, poteva essere superata: la prova era per così dire “bilanciata”. Il mercante esigente infatti gli farà capire che la sua paura non era frutto di scarse capacità bensì di “cattiva volontà”. Il servo cioè non aveva fatto nulla per vincere la paura, per mettere a profitto le proprie qualità.
Egli anzi si fa scudo di questa paura e si aspetta da parte del padrone una reazione benevola, comprensiva. Il padrone però, di avviso contrario, spiega al servo – con molta chiarezza e precisione – che proprio per aver dimostrato di temere la sua autorità, egli avrebbe dovuto rischiare. Certo, investendo il talento avrebbe anche potuto perderlo, ma la sanzione probabilmente sarebbe stata meno severa. Peraltro, il padrone fa notare al servo che si sarebbe accontentato anche di un interesse modesto, ricavato da un deposito bancario – che è certo la forma d'investimento meno rischiosa, per la quale non occorrono particolari capacità.
Viceversa, il servo, pur sapendo che il padrone è un uomo esigente e interessato quanto mai al profitto, pensa che nei confronti di questa debolezza egli vorrà fare un'eccezione alla regola. Spera cioè di ottenere un privilegio senza alcun merito, proprio in virtù della sua “paura”! Chiede pietà e commiserazione al fine di legittimare la propria incapacità di saper rischiare. È proprio questa ipocrisia che indispettisce l'imprenditore.
Il quale, rifiutando la soluzione proposta dall'operaio, lo punisce con estremo rigore. Perché lo chiama “fannullone” e non “pauroso”? Perché se fosse stato veramente pauroso non gli avrebbe affidato alcun incarico: il rischio che doveva correre era esattamente proporzionato alle sue capacità. Al limite si può pensare che un servo non sicuro di sé, avrebbe dovuto sin dall'inizio rifiutare il talento dichiarando apertamente la propria indisponibilità; oppure, accettandolo, perché vinto dal riconoscimento di alcune sue qualità, avrebbe dovuto associarsi con uno degli altri due operai, giocando d'astuzia. In fondo le alternative che aveva non erano poche: investire il talento rischiando di perderlo, associarsi col servo più capace, depositare il talento in banca: rischio, astuzia o ragione. Questo servo invece ha accettato la fiducia del padrone per vanagloria e poi l'ha tradito con leggerezza. Di qui gli altri due epiteti di “malvagio e infingardo” che il padrone gli ha lanciato.
Come mai il suo talento viene dato a chi ne aveva di più? Non è forse vero che il primo servo ha semplicemente realizzato un profitto proporzionato alle sue possibilità (o comunque al capitale di cui disponeva)? Perché dunque privilegiarlo, visto che il merito d'essersi conformato adeguatamente alla volontà del padrone è identico a quello del secondo servo? Appunto perché le capacità sono maggiori ed anche perché il mercante, essendo entrato, per così dire, “in società” coi servi, non può lasciarsi sfuggire l'occasione di mettere a frutto la notevole abilità affaristica dimostrata. Non c'è nessuna ragione perché questo mercante esoso e astuto non debba scegliere il servo più capace e più autorevole.
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In questo racconto due immagini di “operaio” si contrappongono: quella di chi pensa di riscattarsi facendo leva sulla propria debolezza e sulla pietà di chi lo comanda; e quella di chi, pur nella propria condizione servile, cerca di ottenere la stessa cosa sfruttando al massimo l'opportunità offerta dalle circostanze (quest'ultimo avrà poi la possibilità, nella storia dei rapporti servili, di trasformarsi da servo “dipendente” a servo “semi-libero”).
Il padrone che dà fiducia e che alla fine premia chi meglio s'è comportato, altro non rappresenta che l'opportunità favorevole per realizzare un desiderio d'emancipazione: ciò ovviamente nei limiti dei rapporti di produzione servili. L'interpretazione ecclesiastica tradizionale che vede il premio del padrone-Gesù elargito al di fuori della storia, nel “regno dei cieli”, è un'evidente forzatura.
Ma c'è di più. La parabola di Matteo riflette sicuramente un periodo storico in cui nell'ambito della comunità cristiana primitiva erano presenti in maniera accentuata degli elementi della media borghesia: la loro presenza poteva anche essere esigua sul piano numerico, ma doveva essere molto influente su quello politico. Lo si nota non tanto perché Matteo vuole identificare la virtù cristiana della fedeltà o dell'obbedienza con la capacità di incrementare i profitti, quanto perché usa proprio l'esempio dell'investimento finanziario per rendere al meglio l'idea etico-religiosa della fedeltà.
Nel racconto semi-parallelo di Mc 13,34 ss., che è all'origine di quello di Matteo, la fede richiesta dal Cristo è piuttosto quella politica, che occorre proprio per attendere il momento propizio della liberazione. Il cristiano di Marco non ha bisogno dell'esempio del denaro ricapitalizzato per convincersi a perseverare in questa fiducia. Marco sa benissimo che una fede politica perduta può essere ritrovata solo con la stessa fede, e questo nonostante che il suo vangelo sia all'origine del processo di spolicitizzazione del Cristo.
È evidente però che se la parabola di Matteo è stata elaborata sotto la spinta della mentalità borghese, ed è rivolta a un cristiano che deve acquisire quella mentalità (in fondo l'insegnamento della parabola è proprio questo: il terzo servo doveva smetterla di considerarsi una “vittima” dell'autoritarismo del padrone, doveva anzi reagire alla condizione servile non tanto per emanciparsene politicamente, quanto per accattivarsi la fiducia e la simpatia di chi lo pagava): se dunque lo scopo della parabola è quello d'insegnare all'operaio come adottare i criteri di vita della mentalità dominante, non siamo forse in presenza, con questa parabola, dei primi rudimenti della cosiddetta ideologia del “cristianesimo borghese”?
In un certo senso si potrebbe dire che il rischio con cui il “cristiano-borghese” realizza i propri affari trova in questa parabola la sua necessaria valorizzazione e legittimazione. Il credente è tale proprio in quanto “borghese”, e viceversa naturalmente. Cioè la mancanza di fede politica nella insurrezione popolare lo porta a condividere la prassi borghese e tale prassi lo porta a giustificare sempre più quella mancanza.
La parabola, se vogliamo, può essere letta da due punti di vista: quello del “padrone” e quello dei due “servi fedeli” (il servo che non rischia rappresenta una posizione superata, inadatta alla vita della società borghese: un servo del genere, che ha già rinunciato allo spirito rivoluzionario, se non ha neppure quello borghese, è un soggetto inutile, che, come tale, va tenuto ai margini e del processo produttivo e del contesto socioculturale che lo giustifica: in questo caso la comunità cristiana).
Il punto di vista del “padrone” può essere considerato analogo a quello della chiesa cattolico-romana, per la quale la ricerca del profitto non va mai disgiunta da un rapporto di sudditanza personale. Il punto di vista dei due “servi fedeli” diventerà invece quello della chiesa protestante, la quale saprà liberarsi, nell'epoca moderna, della relativa dipendenza dal “padrone” (simbolo della “tradizione”) e saprà affermare il principio dell'uguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge e davanti soprattutto al “denaro”: tutto ciò naturalmente sarà possibile a partire dal momento in cui il cristiano-borghese avrà realizzato un consistente patrimonio economico, in virtù del quale egli, a buon diritto, si sentirà sempre più “borghese” e sempre meno “cristiano”.
(torna su)19) Le cinque vergini smaliziate
(Mt 25,1-13)
[1] Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo.
[2] Cinque di esse erano stolte e cinque sagge;
[3] le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio;
[4] le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi.
[5] Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.
[6] A mezzanotte si levò un grido: “Ecco lo sposo, andategli incontro!”.
[7] Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.
[8] E le stolte dissero alle sagge: “Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.
[9] Ma le sagge risposero: “No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
[10] Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
[11] Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”.
[12] Ma egli rispose: “In verità vi dico: non vi conosco.
[13] Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora”.
*
Questa parabola non era destinata a scandalizzare i fautori della stretta monogamia, anche se certo non è possibile considerarla un testo “femminista” né propriamente “ebraico”, per quanto nell'Antico Testamento i sovrani non erano alieni all'uso di propri harem. Le dieci vergini rappresentano il desiderio di emancipazione; le lampade e l'olio i mezzi “soggettivi” per realizzarlo, lo sposo il mezzo “oggettivo”.
Le vergini “stolte” (così chiamate dalla tradizione cristiana), quelle cioè che ad un certo punto finiscono l'olio, sono le vergini ingenue, sprovvedute, che si fidano ciecamente della promessa dello sposo di un ritorno immediato. Le vergini “savie” invece rappresentano non solo la lungimiranza, la previdenza, ma anche la malizia, il disincanto, il fare accorto e sospettoso, essendo abituate ai “ritardi” di chi fa “promesse di liberazione”. Non si lasciano suggestionare dalle illusioni, sedurre dalle apparenze.
L'ingenuità che non sa far tesoro dei falliti progetti rivoluzionari, qui paga un prezzo considerevole, soprattutto in considerazione del fatto che si tratta di “giovani vergini”. Tutte avevano portato l'olio, ma cinque non abbastanza; tutte si erano addormentate, vedendo lo sposo tardare, ma al risveglio le cinque previdenti rifiutarono di dividere l'olio con le cinque sprovvedute, non solo per paura di rimanerne senza ma anche per timore di dover ricadere nell'utopia, nei desideri di felicità un tempo provati. Ecco perché lo sposo premierà il pessimismo dell'intelligenza e della volontà, respingendo categoricamente l'ottimismo di chi aspira, senza motivo (secondo la mentalità borghese) a veder superati i rapporti sociali basati sull'individualismo.
La parabola insegna ad essere diffidenti e calcolatori, a non credere nella speranza di una vera liberazione per il presente. Infatti, quando lo sposo verrà, le vergini “savie” lo accoglieranno con un pregiudizio, con una schema mentale, quello che induce a giocare d'astuzia al fine di ottenere un tornaconto personale, anche là dove dovrebbe imporsi la semplicità delle cose, l'entusiasmo e la passione che suscitano le prospettive rivoluzionarie.
Si consolino, tuttavia, le vergini “stolte”: lo sposo non rappresenta la liberazione vera, quella umana, sociale e politica, ma solo un inganno, una beffa, un'emancipazione di tipo “religioso”, cioè una “redenzione”, quella che fa promesse per l'aldilà, mentre nell'aldiqua s'accontenta di vivere un'esistenza gretta, meschina, piccolo-borghese.
Le vergini che il mondo scettico e opportunista chiama “stolte” devono piuttosto imparare a non “attendere” la liberazione, ma a “costruirla”. Essa non va intesa come un dono o un premio per la propria fiducia o per la propria speranza. Loro stesse devono considerarsi protagoniste della storia. In caso contrario la “fede” non servirà a conseguire un obiettivo rivoluzionario, ma a ritardarlo, a posticiparlo (come appunto è accaduto alle loro amiche “savie”). Bisogna aver fede nelle forze del presente, non nel futuro escatologico.
(torna su)20) Il buon pastore
(Gv 10,1-21)
[1] “In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante.
[2] Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore.
[3] Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori.
[4] E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce.
[5] Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”.
[6] Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
[7] Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore.
[8] Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
[9] Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
[10] Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
[11] Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore.
[12] Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde;
[13] egli è un mercenario e non gli importa delle pecore.
[14] Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me,
[15] come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.
[16] E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.
[17] Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
[18] Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio”.
[19] Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole.
[20] Molti di essi dicevano: “Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?”.
[21] Altri invece dicevano: “Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”.
*
Come noto le parabole vengono considerate una sorta di discorsi di edificazione morale o filosofica, piuttosto astratti, in quanto con riferimenti a personaggi del tutto immaginari, oppure, se reali, difficilmente individuabili, specie per la generazione successiva a quella cui le parabole erano state indirizzate. Non è escluso che Gesù, per difendersi da un potere ostile, abbia fatto ricorso a immagini figurate o allusive, attraverso le quali l'attacco alle istituzioni risultasse per così dire indiretto.
Tuttavia la pericope del “buon pastore”, in cui Gesù parla esplicitamente di se stesso, non appare tanto di tipo etico o filosofico quanto di tipo politico, e più precisamente come una specie di autocandidatura alla direzione governativa della Palestina, al fine di liberare quest'ultima sia dalla presenza colonialista dei Romani che dal collaborazionismo degli elementi ebraici più opportunisti.
È difficile insomma pensare che questo discorso, se mai sia stato pronunciato, non abbia avuto una chiara connotazione eversiva. La chiesa ha voluto intitolarlo, con accento moralistico, “Il buon pastore”, ma se la lettura di questa lunga pericope giovannea (generalmente classificata o come parabola o come allegoria) non è viziata da pregiudizi confessionali, ci si renderà facilmente conto che con la similitudine di “messia-pastore” il Cristo voleva porsi come uno dei principali mediatori di tutte le istanze, istituzionali e soprattutto sociali, relative al compito della liberazione nazionale della Palestina.
È molto probabile che in origine il discorso finisse al v. 6 e che facesse parte di un'unica pericope: quella del “cieco-nato”, presente nel cap. 9, mentre il cap. 10 avrebbe dovuto iniziare con la festa della Dedicazione, che inizia al v. 22. Il motivo di questa imprecisione redazionale è molto semplice: poiché l'intervento dell'intellighenzia cristiana sulla parabola, in direzione della pretesa figliolanza divina del Cristo, è stato molto marcato, la chiesa ha ritenuto opportuno fare di questo discorso (che, a partire dal v. 15, assume una caratterizzazione marcatamente teologica) un unico capitolo con la festa della Dedicazione, in cui il Cristo – sempre secondo l'intenzione confessionale – ribadisce, ancora più esplicitamente, ciò che aveva detto in maniera figurata nella parabola precedente. In questa maniera si è sacrificata la cronologia dei fatti sull'altare dell'ideologia religiosa.
Il fatto di aver voluto trasformare in “parabola” un discorso squisitamente politico, rientra in quel processo redazionale, ben più generale, di mistificazione ai danni dell'operato di Gesù da parte di quei redattori la cui ideologia post-pasquale, che interpretò la tomba vuota come “resurrezione”, risultò, ad un certo punto, prevalente: ci riferiamo ovviamente all’ideologia petro-paolina.
In altre parole, se Cristo ha usato lo strumento linguistico delle parabole, non l'ha fatto con intenti etico-filosofici astratti, ma semplicemente perché quando, nell'immediato, non si dispone ancora della forza sufficiente per contrastare la resistenza di un governo autoritario, può essere necessario trasformare il linguaggio contestativo da diretto a indiretto. Le parabole cioè non venivano usate per attenuare l'esigenza della rivoluzione nazional-popolare, ma per farla sopravvivere in un contesto politico sfavorevole. Usare un linguaggio con riferimenti espliciti in circostanze sfavorevoli significa fare dell'avventurismo, ovvero illudersi che il proprio estremismo possa essere percepito come una forma di coraggio.
Il discorso simbolico sembra rivolgersi ai farisei testimoni della guarigione del cieco-nato, come se al v. 9,41 di quella precedente pericope, in cui il giudizio sul partito dei farisei era stato negativo 4, si volesse qui aggiungere qualcosa di positivo, una sorta di proposta costruttiva di partnership politica.
Tuttavia, se questa interpretazione è sensata, può esserlo solo relativamente ai vv. 10,1-5, poiché a partire dal v. 7 è difficile ravvisare una vera proposta di collaborazione. Fino al v. 5, infatti, il Cristo parla in terza persona, lasciando credere che, nel rispetto di determinate condizioni, chiunque poteva diventare un vero leader politico della nazione.
Viceversa, a partire dal v. 7 il discorso è tutto in prima persona, con esclusione aprioristica di qualunque concorrente politico e religioso, del passato, del presente e persino del futuro. Infatti il v. 8 è molto esplicito in tale esclusivismo e, per questa ragione, assai poco credibile: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati”. Difficilmente un'affermazione del genere avrebbe potuto essere condivisa.
Sotto questo aspetto l'interpretazione redazionale data ai vv. 1-5 (che è poi tutta racchiusa nel prosieguo di quelli) contraddice il significato complessivo della parabola o comunque estremizza arbitrariamente alcuni concetti chiave. Infatti, là dove il Cristo parla di un pastore sensu lato che, riconosciuto dal guardiano, può far uscire il suo gregge dall'ovile, successivamente invece il Cristo si identifica, sic et simpliciter, con la stessa porta dell'ovile e si autodefinisce “buono”, senza bisogno di riconoscimenti da parte di terzi.
Queste sono parole che, se effettivamente pronunciate, facilmente avrebbero indotto qualcuno a muovere l'accusa di protagonismo autoritario. Quando poi il Cristo pretende di identificarsi con Dio (vv. 15, 17 e 18.), inevitabile diventava l'accusa di eresia, se non di follia, come giustamente appare al v. 20, che però il redattore ha voluto mettere proprio per sottolineare l'abisso che separava i contendenti. Qui la manipolazione ermeneutica della parabola originaria è così evidente che non vale neppure la pena discuterla.
In sostanza si è voluto trasformare un discorso figurato, totalmente privo di agganci a temi metafisico-religiosi, in un discorso in cui l'individualismo teologico viene portato all'eccesso e in cui non si ha alcuno scrupolo a far parlare il Cristo secondo l'ideologia paolina, quella per cui il messia doveva morire e risorgere per unificare ebrei e gentili (vv. 16-18).
A ben guardare invece questo discorso rappresenta la parte politica di quello successivo, di tipo culturale, dedicato all'argomento dell'ateismo. Nella pericope del “Buon pastore” Gesù parla di “socialismo democratico”, mentre in quella della “Festa della Dedicazione” parlerà di “umanesimo laico”.
In che senso “socialismo democratico”? Nel senso espresso sin dal primo versetto: “chi non entra per la porta [cioè rispettando le regole della democrazia] nell'ovile delle pecore [il popolo], ma vi sale da un'altra parte [usando cioè la frode o l'inganno] è un ladro e un brigante”. Per realizzare il socialismo occorre la democrazia, la quale ha le sue regole da rispettare: non vi sono scorciatoie.
La democrazia è la prima istanza, il socialismo la seconda: una è metodo, l'altro è fine. Quando un leader si comporta in maniera democratica non avverte se stesso come insostituibile e certamente il popolo l'avverte come affidabile.
Il guardiano dell'ovile non rappresenta soltanto il “luogotenente del pastore”, cioè colui che di notte custodisce le pecore nel recinto, ma rappresenta anche una sorta di “delegato popolare”, in quanto ha il compito di aprire la porta dell'ovile soltanto a chi ne ha il diritto. Prima dev'essere lui a riconoscere il legittimo pastore, poi saranno le pecore, che usciranno dall'ovile non perché costrette ma dopo aver riconosciuto il particolare richiamo del loro pastore.
Gesù si pone come leader popolare, democratico; non vi è nulla di religioso in questo suo discorso, e il popolo lo segue con fiducia proprio perché si riconoscono reciprocamente: non a caso qui si parla di “pastore”, non di un ricco proprietario terriero.
Che la pericope non possa essere definita una “parabola” né una “allegoria”, ma al massimo un “paragone” o una “similitudine”, è dimostrato anche dal fatto che nella sua seconda parte Gesù, vedendo che non l'avevano capito adeguatamente, si spiega in maniera più esplicita e diretta.
Tuttavia, che gli astanti non avessero capito il significato generale del paragone appare un po' strano, poiché anche nell'Antico Testamento risultava pacifica l'equazione politica di “pastore di greggi” e “pastore di uomini”: basta leggersi Ezechiele 34 per convincersene, o i primi otto versetti del cap. 23 di Geremia.
I veri “pastori d'Israele” sono i leader politici autenticamente democratici, quelli che devono riunire il gregge che si è disperso, e devono farlo per amore della giustizia e dell'eguaglianza. La differenza tra Gesù ed Ezechiele è che quest'ultimo si limita ad auspicare la venuta di un pastore novello Davide, mentre Gesù sostiene d'essere il pastore che il popolo attende.
Quindi ciò che non capivano non poteva essere tanto il significato simbolico della parola “pastore”, e neppure l'esigenza politica di avere una guida adeguata per ricostituire un popolo unitario. Quello che non capivano era probabilmente il riferimento concreto alla candidatura di un ruolo specifico: Gesù stava forse parlando esplicitamente di sé o a favore di altri, come p.es. aveva già fatto, prima di lui, il Battista, rimasto sempre riluttante ad accettare la qualifica di messia? E come poteva riferirsi a se stesso con una tale sicurezza senza alcun avallo istituzionale? senza ch'egli militasse in alcuno dei tradizionali partiti giudaici? Dubbi di tal genere a chi altri potevano venire in mente se non ai farisei? se non cioè a quel partito per il quale il rispetto delle regole voleva anzitutto dire “attaccamento fanatico alle tradizioni”?
Gesù ribalta qui il concetto di democrazia, sostenendo ch'essa si realizza non quando si antepone il glorioso passato al corrotto presente, ma quando si risponde alle domande di giustizia del popolo. Egli, nella parte iniziale della spiegazione, non sostiene esplicitamente d'essere il “pastore politico” che cercano (una pretesa del genere sarebbe stata contraddittoria all'idea stessa di democrazia), ma semplicemente ch'egli si pone come “porta dell'ovile” per chiunque voglia diventarlo. Il che, in altre parole, voleva dire che chiunque, nel movimento nazareno, avrebbe potuto diventare “pastore”, se avesse rispettato le regole della democrazia, quelle regole rappresentate appunto dalla “porta”.
Può apparire poco diplomatica la frase: “tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti” (10,8), ma è probabile ch’essa trovi la sua motivazione nell'urgenza del momento storico per Israele, ed è altresì probabile ch'essa sia stata detta al cospetto di un uditorio non più disposto ad obbedire ai demagoghi di turno, e che quel “tutti” si riferisse soltanto ai politici della sua stessa generazione, che effettivamente s'erano rivelati incapaci di liberare Israele dall'oppressione interna ed esterna. Infatti, subito dopo egli esalta il popolo dicendo che, benché dei leader politici disonesti abbiano cercato di ingannarlo, esso ha saputo ugualmente difendersi: “le pecore non li hanno ascoltati”.
Se il popolo chiede chiarezza, quando sono in gioco aspetti essenziali per il proprio destino, il linguaggio non può essere equivoco. Ciò tuttavia non esclude che il v. 8 sia stato aggiunto successivamente, anche perché al seguente si ripete quanto già detto al v. 7, e cioè che Gesù si considerava “porta dell'ovile”, strumento di democrazia.
D'altra parte che qui il linguaggio sia figurato solo fino a un certo punto, è dimostrato anche dall'evidente affermazione di tipo messianico secondo cui Gesù rivendica a sé il ruolo di “pastore politico”. Col che non si precisa soltanto la regola della democrazia ma anche il suo indicatore di direzione: la garanzia è il popolo, ma il popolo ha bisogno di una guida, altrimenti si disperde. E la guida deve dimostrare d'essere all'altezza del compito, deve impegnarsi in una promessa d'alto profilo: mettere a disposizione tutta la propria vita per il bene del gregge. Il leader deve operare per un ideale superiore, restando incorruttibile.
I pastori della nazione d'Israele, se vogliono liberare il popolo dallo straniero che l'opprime e da chi lo tradisce schierandosi dalla parte del nemico, non devono frodare ma praticare la giustizia, non devono uccidere ma far vivere, non devono distruggere ma costruire, in una parola non devono essere “mercenari” ma “idealisti e patriottici”.
Il mercenario, quando vede venire il “lupo”, colui che usa violenza e inganno per devastare e dominare, “abbandona le pecore e fugge”. Qui l'intenzione apologetica del redattore ha subito approfittato dell'espressione “dare la vita per le proprie pecore” (vv. 11 e 15), per sostenere che il Cristo intendeva riferirsi alla propria morte.
In realtà sarebbe stato assurdo che gli ascoltatori di quelle parole le interpretassero alla lettera in quel momento. “Dare la vita per le proprie pecore” voleva semplicemente dire “essere coerenti coi propri ideali di giustizia”. Il popolo aveva bisogno di un leader edificatore di una nuova società, non di un martire.
Infatti un qualunque politico strettamente legato a interessi di potere, non può mai essere coerente quando sono in gioco gli obiettivi della giustizia sociale. I politici mercenari predicano la giustizia solo per ottenere i consensi necessari a dominare, ottenuti i quali le promesse fatte in campagna elettorale diventano carta straccia. È la differenza tra democrazia e demagogia.
Il finale della pericope è ampiamente manomesso, specie là dove s'introduce il rapporto tra “Padre” e “Figlio”, ma anche là dove si parla di “altre pecore” (v. 16), cioè di “pagani”, che dovranno far parte del medesimo ovile.
Addirittura si pretende che i farisei accettino l'idea della figliolanza divina del Cristo semplicemente in nome del fatto ch'egli era disposto a sacrificare la propria vita per il bene del popolo. Allo scettico che avesse posto obiezione (in quanto molti altri leader prima del Cristo erano stati giustiziati dai Romani), il redattore è subito pronto a far notare che un indemoniato non restituisce la vista ai ciechi (v. 21). Pensare, sulla base di queste argomentazioni irrazionali, di poter dimostrare qualcosa di logico, ha senso, ovviamente, solo se il destinatario di questa parabola è già credente.
Qui sono stati introdotti due elementi tipicamente post-pasquali, facenti parte dell'ideologia petro-paolina. Da un lato si è voluto far risalire la credibilità di Gesù a un suo presunto rapporto diretto con Dio-padre, contraddicendo così l'idea stessa di democrazia politica, che non ha bisogno, per essere giustificata, se non di se stessa; dall'altro si è voluto far credere che per il Cristo non sarebbe stato un problema la chiusura e l'ostilità del popolo ebraico, in quanto egli avrebbe sempre potuto rivolgersi, e con successo, ai “gentili”: col che si antepone all'obiettivo della liberazione politico-nazionale quello della generale redenzione morale dell'umanità; benché non si possa escludere a priori che il Cristo volesse indicare gli elementi migliori del paganesimo come partner indispensabili della rivoluzione ebraica contro l'imperialismo romano.
C’è da dire che là dove più è forte la rivendicazione politica della liberazione nazionale, maggiori sono i tentativi di mistificazione compiuti dai redattori.
Manipolazioni così pesanti inducono inevitabilmente a credere che il discorso di Cristo sia stato effettivamente pronunciato. Un'esegesi laica deve però essere in grado di smascherare la pretesa di far apparire grande un uomo non in quanto coerentemente democratico, ma in quanto “padrone della propria vita e della propria morte” (vv. 17-18).
Paradossalmente infatti, se davvero il Cristo avesse affermato d'essere uguale al Dio-padre, in grado di morire e risorgere come e quando gli pareva, si dovrebbe dar ragione a quegli ebrei che nel finale della pericope sostengono ch'egli “ha un demonio ed è fuori di sé” (v. 19).
Non a caso i redattori han dovuto aggiungere, sommando falsità a falsità, che di fronte a un uomo che rivendica a sé non un ruolo “politico” ma uno “teologico”, è lecito chiedersi come sia possibile che “un indemoniato possa aprire gli occhi ai ciechi” (v. 21). Col che venivano completamente ribaltati i termini della questione: non si trattava più di credere o meno nella messianicità del Cristo, ma piuttosto nella sua divinità.
In altre parole la credibilità del messia non passava attraverso il rapporto fiduciario tra il popolo e il proprio leader rappresentativo, ma attraverso una astratta identificazione di azione pratica (la disponibilità all'autoimmolazione) e di ideale religioso (l'identificazione col Padre), sicché le parole del Cristo-pastore andrebbero accettate non per il loro riferimento alla realtà concreta, in cui si gioca il rapporto dialettico tra masse e potere, ma per una loro intrinseca e formale coerenza, di tipo appunto teologico o comunque metafisico, in cui la pretesa equiparazione al Padre è garantita dall'accettazione, piena e incondizionata, del martirio.
Il Cristo andrebbe creduto perché azzarda un'ardita speculazione intellettuale: l'uguaglianza di Dio-figlio e Dio-padre, resa possibile sul piano umano in quanto possibile su quello divino (cosa che troverebbe conferma nell'accettazione volontaria della croce, trasformata in trionfo della resurrezione). È difficile non vedere in questa elucubrazione redazionale una forma di irrazionalismo mistico.
Ma c’è dell’altro. Se questa pericope è davvero collegata a quella del cieco-nato, allora va ricordato che la guarigione di quest’ultimo (ammesso e non concesso il suo carattere realistico) era avvenuta di sabato, cioè in violazione della legge. È su questo che bisogna concentrarsi se si vuole capire l'opposizione dei farisei. A quel tempo il rispetto scrupoloso, quasi maniacale, del sabato aveva determinato una situazione tale per cui di fatto solo poche persone (tra cui appunto i farisei) riuscivano a stare entro i limiti della perfetta legalità. Il sabato era diventato, per la gente comune, un fardello del tutto insopportabile, una ingiustificata mortificazione settimanale.
Con il suo discorso figurato il Cristo voleva semplicemente dimostrare (ma non era semplice accettarlo) che la violazione della legge sul sabato non partiva da interessi di tipo personale, cioè non era finalizzata all'affermazione di un arbitrio soggettivo, non mirava a destabilizzare una situazione umanamente accettabile né a cercare una contrapposizione unilaterale con i farisei, che pur si servivano del sabato, oltre che dei digiuni e di molte altre cose, per distinguersi dal resto della popolazione.
Le guarigioni (sempre che siano avvenute) non venivano compiute di sabato allo scopo di violare la legge e le istituzioni o di sfidare le autorità, anche se tutto ciò, in apparenza, sembrava fosse proprio così. Lo scopo delle guarigioni in generale e quelle compiute di sabato in particolare era di offrire un segnale utile all'esigenza democratica di un rinnovamento progressivo dei costumi, delle leggi, delle istituzioni, al fine di tentare un approccio costruttivo tra potere e masse popolari. Il movimento nazareno non poteva dare per scontata la volontà da parte delle istituzioni e soprattutto del principale partito politico, quello appunto farisaico, di non collaborare con le fasce sociali più deboli in una prospettiva di liberazione nazionale dallo straniero.
In tal senso il Cristo si proponeva non tanto come “guaritore buono” (che di fronte al bisogno non può non intervenire, pur sapendo che la legge glielo impedisce), quanto piuttosto come “leader politico”, che trasgredisce la legge sul sabato (o meglio l'interpretazione forzata che se n'era data) proprio perché il suo movimento aveva intenzione di riformare leggi e istituzioni divenute obsolete, per portare il paese a un livello superiore di coscienza civile e politica.5
Nel suo discorso Gesù dichiara di non voler elevare il livello di consapevolezza delle masse usando metodi autoritari, ma semplicemente rispettando le regole democratiche, cioè utilizzando il principio della partecipazione popolare. Il “pastore entra nel recinto delle pecore per la porta” e non “da un'altra parte”: egli non è “ladro e brigante” e “le pecore ascoltano la sua voce”, “perché la conoscono”.
Il popolo palestinese non avrebbe potuto compiere una sollevazione antiromana in nome del potere giudaico collaborazionista, né in virtù dell'attendismo farisaico. Tuttavia questo potere, istituzionale e sociale, doveva sapere che se non avesse rinunciato ai propri privilegi o al proprio opportunismo, la sollevazione si sarebbe fatta comunque, e non solo contro Cesare.
Il significato del discorso è tutto qui: in ultima istanza quindi il Cristo chiedeva ai farisei di organizzare le masse per uno scopo rivoluzionario. L'altissima diplomazia da lui usata si evince bene dall'uso del linguaggio figurato, attraverso cui si evita di colpevolizzare qualcuno in particolare.
(torna su)21) Il fico sterile e seccato
(Mc 11,12-25)
[12] La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame.
[13] E avendo visto di lontano un fico che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se mai vi trovasse qualche cosa; ma giuntovi sotto, non trovò altro che foglie. Non era infatti quella la stagione dei fichi.
[14] E gli disse: “Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti”. E i discepoli l'udirono.
[20] La mattina seguente, passando, videro il fico seccato fin dalle radici.
[21] Allora Pietro, ricordatosi, gli disse: “Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato”.
[22] Gesù allora disse loro: “Abbiate fede in Dio!
[23] In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato.
[24] Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato.
[25] Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati”.
*
La pericope è stata collocata da Marco tra l'ingresso messianico e la purificazione del Tempio, a titolo di anticipazione e insieme di conferma della tragedia che sarebbe successa di lì a poco. Essa quindi è il frutto di una considerazione filosofica relativa alla morte del Cristo.
Se si dà per scontato che il racconto abbia radici storiche si finisce col cadere in un labirinto interpretativo del tutto artificioso. Le contraddizioni sono talmente tante che sarebbe fatica sprecata cimentarsi sopra speculativamente.
Non ci resta dunque che affrontarlo in maniera simbolica, mettendoci nei panni di un redattore cristiano che ha appena rinunciato, non senza travaglio, alle proprie origini giudaiche.
Stando a Marco, e questo trova conferma anche in Giovanni, Gesù e i Dodici, nel momento cruciale dell'ultimo ingresso nella capitale, avevano trovato un punto d'appoggio a Betania, a pochi chilometri di distanza, presso l'abitazione di Marta e Maria, dove, secondo il Giovanni interpolato, Gesù avrebbe compiuto il prodigio più importante e più spettacolare di tutta la sua vita: la resurrezione dell'amico Lazzaro, di cui i Sinottici non sanno assolutamente nulla.
La differenza tra Marco e Giovanni sta nel fatto che quest'ultimo spiega molto chiaramente che a Betania giunse il solo Gesù, accompagnato da un paio di discepoli, uscendo a suo rischio e pericolo dalla clandestinità, al fine di soccorrere l'amico Lazzaro gravemente malato (forse ferito in uno scontro armato con le truppe romane). Successivamente si sarebbero ritrovati tutti presso il Monte degli Ulivi per organizzare l'ingresso pubblico nella capitale. Nonostante tutto tale versione appare la più convincente.
Al v. 12 di Marco vi è la prima contraddizione cronologica: Gesù ha fame appena uscito, di mattina presto, dalla dimora di Marta e Maria. È evidente che qui il redattore intende per “fame” qualcosa di immateriale, il cui cibo non poteva essere trovato nell'umile Betania.
Betania stessa è qui considerata come un villaggio simbolico. Essa rappresenta il modello ideale della verità soggettiva, i cui esponenti più significativi per Gesù erano appunto Marta, Maria e Lazzaro, dei quali sappiamo pochissimo: gente semplice, di condizioni sociali modeste, le cui aspettative di giustizia sociale e di liberazione nazionale avevano trovato nel movimento nazareno un solido punto d'appoggio.
Ciò tuttavia non basta. L'obiettivo del Cristo non era soltanto quello di valorizzare l'interiorità umana, dandole un nuovo contenuto da vivere, ma anche quello di proporre un programma politico a tutta la nazione e il luogo principe dove avrebbe potuto farlo era soltanto uno: Gerusalemme.
Anche questa capitale è nel vangelo di Marco un simbolo: il modello ideale della verità oggettiva. Nonostante tutto, dirà il Cristo alla samaritana, la salvezza viene dai Giudei. Finché Gesù non entra come messia nella capitale, proponendo un nuovo modello di società, la sua missione resta incompiuta. Marco però lo farà entrare proprio per dimostrare che i Giudei erano peggiori dei Galilei e che solo per colpa loro Gesù fu crocifisso e Israele distrutta da Roma.
Betania ha compreso la lezione etica, umana del Cristo, ma questo non basta a saziare la sua fame di rivelarsi compiutamente a quegli uomini che la storia ha prescelto come guida della nazione.
A Gerusalemme è più forte l'esigenza della verità assoluta, la necessità di dover prendere delle decisioni strategiche per tutto il paese: qualunque opposizione a questa aspettativa di liberazione è destinata a ripercuotersi gravemente sul destino dell'intera nazione.
Se Gesù non entrasse nella capitale con tutto il seguito di discepoli che gli è possibile, e non si proponesse esplicitamente alla guida della rivolta antiromana, tutta l'attività propagandistica condotta fino a quel momento andrebbe irrimediabilmente perduta.
È solo a questo punto che Marco introduce l'elemento del fico, traendo in inganno il lettore superficiale sulla vera natura della fame del Cristo.
La descrizione del redattore è realistica e non vi sarebbe motivo apparente per non credervi. Marco fa capire che l'ingresso messianico del Cristo nella capitale fu in realtà un ingresso nel Tempio. La prima volta “dopo aver guardato ogni cosa attorno (cioè dopo aver constatato la corruzione commerciale nel luogo principale del culto religioso), essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici diretto a Betània” (v. 11).
Il mattino dopo lascia Betania per tornare a Gerusalemme e, mentre cammina coi discepoli, egli vede, lontano dalla strada, un fico pieno di foglie; supponendo che abbia dei frutti, gli si avvicina e grande è la sua delusione nel notare che non vi è neppure un frutto. Marco precisa subito che la pianta non poteva averne, non essendo ancora giunto il momento adatto. Nonostante questo Gesù la maledice. Dopodiché egli entra nella capitale e caccia i mercanti dal Tempio: a causa di questa iniziativa Marco dice che “i sommi sacerdoti e gli scribi cercano il modo di farlo morire” (v. 18). Gesù, la sera, torna di nuovo a Betania. “La mattina seguente, passando, vedono il fico seccato fin dalle radici” (v. 20).
A Marco serve mostrare un Cristo profeta e moralizzatore proprio per mistificare il lato eversivo della sua politica. Il fico seccato rappresenta il giudizio schematico di un redattore moralista. Il senso di questo racconto è la critica unilaterale dell'illusione, o meglio dell'ipocrisia di chi fa mostra di avere ciò che non ha, di essere ciò che non è.
I profeti veterotestamentari avevano usato la medesima simbologia: la delusione attende Jahvè nel giorno della sua visita (Ger 8,13; Mi 7,1; Os 9,10; Ab 3,17). Insieme alla vigna il fico rappresenta il popolo d'Israele che porta frutto (Is 5,1-7; 36,17; Dt 8,8; Ct 2,13; Ag 2,20) o che deperisce (Nm 20,5; Ps 105,3; Is 34,4; Ger 5,17), a seconda della sua fedeltà o infedeltà all'alleanza.
I profeti si sono serviti di queste immagini anche per indicare il giudizio definitivo di Dio, che retribuisce ciascuno secondo le sue azioni (Os 2,12; Zc 3,10). In Pr 27,18 il fico viene addirittura paragonato alla Torah.
La differenza tra i profeti e il redattore di questa pericope è che qui non c'è possibilità di ripensamento da parte del Cristo-giudice: il fico d'Israele viene seccato definitivamente, senza soluzione di continuità. La presenza ingannevole delle foglie, cioè la maschera dell'ipocrisia, ha fatto il suo tempo.
Il versetto principale che legittima un'interpretazione dubbia della pericope è il n. 13: “Non era quella la stagione dei fichi”. Il senso di quest'espressione lo si evince solo pensando alla collocazione di tutta la pericope. Il fico sterile non rappresenta semplicemente una inadeguatezza della coscienza ebraica al vangelo di liberazione, che col tempo si sarebbe risolta, ma rappresenta proprio l'irrisolvibilità di tale inadeguatezza, cioè l'autunno del giudaismo.
“Non era quella la stagione dei fichi” sta appunto ad indicare che per quel tipo di presenza storica – il giudaismo classico – non vi sarebbe più stata, dopo la morte cruenta del Cristo, una stagione in cui poter maturare frutti significativi.
Il fatto che il Cristo abbia voluto infierire condannando a morte certa un fico fuori stagione, può urtare la sensibilità di una persona di vedute laiche e democratiche. Il filosofo razionalista Bertrand Russell, p.es., si scandalizzò di questo atteggiamento e dichiarò che non avrebbe mai potuto diventare cristiano.
Qui tuttavia la pianta rappresenta Israele, soprattutto nelle sue espressioni ufficiali di potere, che sotto la fronda ingannevole delle sue pratiche religiose, esteriori e formali, nasconde una profonda sterilità spirituale. La maledizione non è che l'esplicita constatazione di una falsità che ormai non può più ingannare nessuno: il redattore della pericope, cristiano di origine giudaica, sta ragionando col senno del poi.
Se poi il lettore vuol vedere in questa condanna, in maniera più estensiva, il destino inevitabile cui va incontro ogni uomo che vuol fare dell'ipocrisia un modo per imporsi, allora si potrebbe dire che la condanna è relativa non tanto alla mancanza del frutto quanto alla falsità delle foglie, cioè è relativa al dualismo tra apparenza e realtà e soprattutto alla pretesa che, in nome di questo dualismo, il potere possa trarre in inganno le masse.
È facile notare come il redattore abbia voluto indicare una sorta di parallelismo con l'albero della scienza del bene e del male che la Genesi pone nel mitico Eden. Sono entrambe piante ingannatrici, con la differenza che nei vangeli il Cristo viene rappresentato come un soggetto che ha una chiara consapevolezza della verità.
In tal senso l'espressione che il redattore ha messo in bocca a Pietro è indicativa del diverso livello di consapevolezza che distingueva il Cristo dagli apostoli: la pianta non si era seccata perché maledetta, ma era stata maledetta perché fingeva di avere frutti.
Che poi il disseccamento immediato possa dipendere dalla volontà del credente, questo fa parte della mitologia religiosa. In luogo di un “Gesù della storia” che non è riuscito a realizzare la sua missione politica, Marco ha avuto bisogno di accentuare al massimo le caratteristiche sovrumane del “Cristo della fede”.
(torna su)22) I soldi e la felicità dell'uomo ricco
(Mc 10,17-22)
[17] Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
[18] Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
[19] Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”.
[20] Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”.
[21] Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
[22] Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
*
Il racconto dell'uomo ricco, in Mc 10,17-22, è uno dei più indicati per comprendere la differenza tra “coscienza soggettiva” (il desiderio) ed “esperienza oggettiva” (la realtà).
L'uomo che corse incontro a Gesù, mentre questi “usciva per mettersi in viaggio”, e che “in ginocchio davanti a lui” gli chiese cosa doveva fare “per avere la vita eterna” (v. 17), è un soggetto usato da Marco simbolicamente, per evidenziare che anche gli uomini di “potere” (in questo caso “economico”) possono avere delle “buone intenzioni”.
Il simbolismo è evidente per almeno due ragioni:
– la domanda è di tipo etico (di morale personale) o, se vogliamo, di tipo filosofico-esistenziale, in quanto fondamentalmente astratta, mentre il movimento nazareno, avendo un obiettivo strategico generale (la liberazione d'Israele dall'oppressione e dallo sfruttamento), non era disposto a rispondere alle domande di “senso” in termini vaghi, idealistici o personalistici, cioè svincolati dall'esigenza di un impegno sociale e politico concreto;
– la domanda viene posta a Gesù in un momento in cui chiunque avrebbe saputo darvi una risposta precisa, circostanziata, anche se non avesse fatto parte del movimento nazareno.
Lo sconosciuto manifesta il suo particolare “idealismo” soprattutto nell'appellativo con cui ha interrogato Gesù: “Maestro buono”, che nel linguaggio di allora significava “perfetto”.
Con la sua controdomanda Gesù contesta il valore di tale idealismo soggettivo, benché apprezzi l'interesse e la buona fede di quel “notabile” (stando alla definizione di Luca. Matteo invece lo considera un “giovane”, ed è la sua versione che è passata nella tradizione della chiesa. Il termine “giovane” probabilmente è stato usato da Matteo in luogo di “ingenuo” o addirittura di “illuso”, ancorché per motivi correlati all'età e non alla volontà. Trasformando quest'uomo in un “giovane”, Matteo ha cercato di giustificarne il comportamento, ma così ha di molto attenuato il dramma psicologico del racconto di Marco).
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo” (v. 18) – così risponde Gesù. Qui è evidente che Marco vuole evitare il culto della personalità, ma la sua preoccupazione (o di qualche altro redattore) è anche quella di dimostrare che tale culto può essere superato solo ribadendo il culto esclusivo per la divinità. Il che lascia già presagire che la risposta di Gesù o l'interpretazione che lo stesso vangelo ne vorrà dare – come vedremo –, sarà inficiata da argomentazioni di contenuto religioso.
La prima risposta che Gesù dà è di carattere etico e rappresenta la soluzione minore, proporzionata a un'esigenza superficiale, spontaneistica, anche se sincera. “Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la padre” (v. 19). L'uomo dunque era “sposato” ed è altresì significativo che un secondo redattore abbia aggiunto il divieto di “frodare” a quello di “non rubare”, che evidentemente, in considerazione del ruolo sociale ricoperto da quell'uomo, non era parso sufficiente. Quest'aggiunta in realtà rispecchia un'ideologia spoliticizzata del redattore, secondo cui – almeno così sembra – il senso etico dell'esistenza consiste non in un impegno fattivo contro le ingiustizie sociali e l'oppressione (che nella Palestina di allora dominavano ampiamente), ma semplicemente nella conduzione di un'esistenza la più possibile onesta. Sul piano pedagogico è però interessante la preoccupazione del redattore di verificare, attraverso Gesù, l'effettiva coerenza, nel notabile, tra desiderio e vita. La comunità cristiana primitiva, benché spoliticizzata, prevedeva al suo interno un forte rigorismo morale.
La testimonianza del notabile è comunque positiva, almeno riguardo al dovere di rispettare la legge. “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla giovinezza” (v. 20). Già da questo Matteo avrebbe dovuto capire che l'“uomo” di Marco non poteva essere scambiato per un “giovane”. La sua domanda rispecchiava uno stato d'insoddisfazione personale, tipico di quella persona che, dopo essere entrata nel mondo degli adulti, si chiede se i suoi progetti giovanili abbiano qualche possibilità di realizzarsi. Quell'uomo, in pratica, si chiedeva se c'era la possibilità, nella vita adulta, di superare le illusioni della gioventù senza rischiare di cadere nel cinismo. Egli infatti aveva già maturato l'idea che il rispetto scrupoloso della legge non era bastevole alla realizzazione di sé.
Di qui la seconda risposta di Gesù, che è più impegnativa, in quanto è rivolta sia alla professione dell'uomo che alla sua coscienza sociale e politica. “Una sola cosa ti manca: Vai, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (v. 21).
La risposta è caratterizzata da due elementi: uno costrittivo, la povertà; l'altro propositivo, la sequela. La prima soluzione è una critica indiretta dei limiti della legge. Con essa cioè si vuole dimostrare che la legge può permettere un'onestà personale puramente formale: sia nel senso che non aiuta l'uomo onesto e virtuoso a trovare un senso vero di liberazione, poiché la legge può solo proibire non promuovere (ed è il caso del notabile in questione); sia nel senso ch'essa, di per sé, non può farsi carico di tutti i tentativi disonesti dell'individuo, in quanto se veramente ci fosse la possibilità di utilizzarla così, gli uomini non avrebbero bisogno di alcuna legge.
La risposta di Gesù è radicale, non moralistica, poiché si dà per scontato che l'opulenza, se è conciliabile col rispetto della legge (almeno apparentemente, in quanto Gesù, fidandosi, non ha verificato l'attendibilità delle affermazioni del notabile), non lo è mai con l'istanza umana di liberazione. Di qui la richiesta di seguirlo in un impegno politico attivo a favore degli oppressi, uscendo non solo dai limiti della legge, il cui rispetto non può assolutamente comportare un progresso qualitativo verso la democrazia; ma anche dai condizionamenti della ricchezza personale, la quale, agli occhi dei ceti marginali, appariva inevitabilmente come motivo di sospetto.
Occorre in sostanza ribadire che l'aspetto più costruttivo della proposta di Gesù sta anzitutto nell'offerta di un discepolato attivo e diretto, vissuto in prima persona. Nessuno infatti rinuncerebbe alla propria sicurezza materiale se non fosse convinto di ottenere, in cambio, la soddisfazione di un'esigenza di giustizia molto più sentita. Tuttavia, è significativo come Gesù ponga in stretta correlazione la lotta politica per la giustizia con la rinuncia all'opulenza. L'interdipendenza dei due fattori può essere usata non solo per denunciare il limite della prassi dell'elemosina o dell'assistenza a favore dei poveri, ma per mettere anche sull'avviso quanti credono possibile restare coerenti con l'obiettivo rivoluzionario vivendo un'esistenza agiata. Da notare che qui – essendo il testo manomesso per motivazioni religiose – l'affermazione relativa al “tesoro nel cielo” può contribuire in misura rilevante a cercare un alibi per non impegnarsi politicamente.
Gesù si rendeva conto che il cospicuo patrimonio che il notabile possedeva avrebbe potuto ostacolarlo anche nel caso in cui l'avesse conservato in minima parte. In astratto è senza dubbio vero che chi prova un grande desiderio di liberazione deve essere disposto a fare grandi sacrifici, anche da subito; ma nella fattispecie del racconto questo è ancora più vero, poiché qui si è in presenza di un “notabile”, non di un uomo qualunque.
“Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni” (v. 22). La conclusione è molto amara, ma realistica, anche se – diversamente da come vorrà far credere il commento redazionale dei vv. 23ss. – non era inevitabile (“Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”; “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago...”; “Impossibile salvarsi presso gli uomini, ma non presso Dio!”).
Detto commento è alquanto moralistico, poiché non solo è pregiudizievole nei confronti dei ceti benestanti, condannando la ricchezza in sé e ritenendo “impossibile” una qualche modifica comportamentale in direzione della giustizia sociale (cosa però che gli stessi vangeli, in altri racconti, non dicono), ma anche perché si affida interamente alla “divinità” il compito di “salvare” l'individuo. Paradossalmente, proprio questi versetti favoriscono l'accumulo delle ricchezze, in quanto distolgono gli uomini dal compito di combatterne l'uso antisociale.
In realtà, l'insegnamento del racconto di Marco doveva essere un altro, quello per cui l'idealismo (sia nella forma oggettiva, connessa al rispetto della legge, sia nella forma soggettiva, connessa al bisogno di autorealizzazione) è di per sé inutile ai fini della liberazione sociale e personale, e che le “buone intenzioni” sono sempre insufficienti quando non si concretano nella prassi quotidiana. I fatti stanno proprio lì a dimostrare che si può essere nello stesso tempo “moralmente giusti” e “politicamente ingiusti”.
Dal punto di vista della legge, l'opulenza può non essere incompatibile con la ricerca della perfezione morale, ma essa è comunque un impedimento notevole alla realizzazione della giustizia sociale, perché profondamente contraddittoria con la realtà della miseria e dello sfruttamento. Solo chi ha coscienza di questa contraddizione e avverte forte dentro di sé il bisogno di superarla, è disposto a rifiutare l'idea che opulenza e onestà siano compatibili. Che questa consapevolezza possa maturare anche in una coscienza “borghese”, va considerato come un'eventualità remota, ma non impossibile, anche se non sarà certo dalla speranza che tale eventualità si verifichi che dipenderà la battaglia politica per la giustizia sociale, e tanto meno si dovrà rinunciare a tale battaglia – come invece vuole ogni religione – affidandone l'esito alla volontà divina.
(torna su)23) I vignaioli omicidi
(Mc 12,1-12)
[1] Gesù si mise a parlare loro in parabole: “Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano.
[2] A suo tempo inviò un servo a ritirare da quei vignaioli i frutti della vigna.
[3] Ma essi, afferratolo, lo bastonarono e lo rimandarono a mani vuote.
[4] Inviò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo coprirono di insulti.
[5] Ne inviò ancora un altro, e questo lo uccisero; e di molti altri, che egli ancora mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero.
[6] Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!
[7] Ma quei vignaioli dissero tra di loro: Questi è l'erede; su, uccidiamolo e l'eredità sarà nostra.
[8] E afferratolo, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna.
[9] Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad altri.
[10] Non avete forse letto questa Scrittura:
La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo;
[11] dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”?
[12] Allora cercarono di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. E, lasciatolo, se ne andarono.
*
Benché descritta in forma parabolico-allegorica, la vicenda dei vignaioli omicidi può essere vista a partire dalla situazione economica della Galilea di duemila anni fa, dove il terreno coltivabile era in gran parte nelle mani di grandi proprietari terrieri stranieri, che molto spesso avevano la loro residenza all'estero. Il che però può suscitare delle perplessità esegetiche che vedremo più avanti.
Il vigneto viene impiantato a regola d'arte dallo stesso agrario: la siepe di recinzione serviva per delimitare una proprietà privata e per proteggerla da animali predatori e da ladri; il torchio per lavorare l'uva; la torre era il casolare ove si abitava durante la vendemmia: conteneva il frantoio e il magazzino dell'uva e del vino, mentre sul tetto aveva un punto d'osservazione per la vigilanza. Una volta avviata, la vigna veniva data a mezzadria: era questo il rapporto di lavoro che in genere si stipulava fra proprietari terrieri e fittavoli o coloni ebrei.
Il fatto di risiedere all'estero per un lungo periodo di tempo rendeva necessario l'invio di servi esattori per la riscossione dell'affitto pattuito, che in pratica era una quota del raccolto annuale. Secondo la legge ebraica la prima scadenza avveniva al quinto anno.
Nel testo non appare che il latifondista fosse una persona particolarmente esosa; d'altra parte ciò non è indispensabile saperlo: il rapporto di sfruttamento era oggettivo e doveva sottostare a determinate leggi economiche. Né viene detto che il suo primo riscuotitore avesse trattato con disprezzo gli operai: non ne aveva bisogno.
La condotta dei vignaioli può essere messa in relazione al clima rivoluzionario diffuso tra i contadini della Galilea (soprattutto in virtù dell'attività eversiva degli zeloti), ma ciò non sembra giustificare la prevaricazione su un intermediario che svolge un semplice ruolo esecutivo. È vero che l'intenzione è quella di bastonarlo a titolo dimostrativo, non di ucciderlo, ma è anche vero che in tal modo essi inevitabilmente creano un precedente di cui, prima o poi, dovranno rendere conto. Qui si ha l'impressione che la resistenza all’oppressione colonialistica romana si manifesti in forme istintive e superficiali, tipiche peraltro della Galilea.
Se il maltrattamento al primo esattore poteva sembrare dettato da quel sentimento di ribellione che si ritrova facilmente in quei coltivatori espropriati della loro terra e costretti a lavorare sotto padrone, il secondo maltrattamento appare invece più deciso e razionalmente motivato, e quindi, per il tenutario della vigna, ancor più minaccioso del precedente. I contadini infatti non si aspettavano l'invio del secondo esattore, ma probabilmente una manifestazione di forza più convincente. Pensano quindi di poterne approfittare: ecco perché al peggioramento delle prepotenze uniscono una pretesa di autolegittimazione (“lo coprirono d'insulti”).
Perché mai il proprietario della vigna non era intervenuto subito con autorevolezza? Probabilmente perché conosceva la loro volontà di resistenza e sperava, inviando il secondo servitore, ch'essi avrebbero ridimensionato le pretese. Vuole evitare di esasperare i conflitti mediante dure ritorsioni, ben sapendo d'essere proprietario in una terra straniera, e tuttavia vuol far capire di non essere intenzionato a scendere a compromessi che vanifichino il rapporto di sfruttamento. In sostanza temporeggia ribadendo diplomaticamente il proprio potere.
Nella pericope viene detto che inviò molti esattori, ma ciò appare esagerato o comunque finalizzato dal redattore ad accentuare il comportamento irresponsabile di quei contadini. È probabile che nella versione originaria (confermata dal vangelo apocrifo di Tommaso) gli esattori fossero soltanto tre, di cui l'ultimo nei panni dello stesso figlio. Se così non fosse, difficilmente si potrebbe spiegare l'atteggiamento lassista del proprietario, il cui permissivismo non può essere giustificato semplicemente col fatto ch'egli risiedeva all'estero. Qui il redattore ha voluto accentuare il comportamento visibilmente irrazionale tenuto da quei contadini, che non avevano valutato bene i rapporti di forza in campo.
La pazienza raggiunge il culmine quando il proprietario decide d'inviare suo figlio: cosa che però difficilmente avrebbe fatto se gli operai avessero ucciso tutti i suoi esattori. Limitandosi a bastonarli gli operai potevano anche pensare di risparmiarsi un'immediata e categorica reazione da parte del padrone della vigna, ma dopo aver preso a ucciderli era come se si fosse dichiarata guerra. Qui dunque si ha l'impressione che quel latifondista si stia comportando un po' ingenuamente, specie in considerazione del fatto che non sembra aver inviato il figlio in condizioni di potersi difendere militarmente. Non dimentichiamo però che la parabola ha lo scopo di dimostrare qualcosa a favore dei cristiani contro gli ebrei.
Il latifondista, inviando un intermediario così importante: il figlio erede universale di tutte le sue risorse, sembrava offrire a quei coltivatori un'ultima possibilità d'intesa, consapevole di non voler sottovalutare la gravità della loro protesta. Spera insomma d'accordarsi diplomaticamente senza dover ricorrere all'uso della forza.
Il modo di ragionare dei contadini, al veder giungere il figlio, non è illogico, ma dettato da un certo senso di superiorità, da una percezione ottimistica delle cose. Se maltrattando, insultando e uccidendo gli esattori essi avevano soltanto sperato di entrare in possesso della vigna (o forse di rientrare in possesso della terra), ora, pensando di uccidere il figlio del padrone, sono certi di poterlo fare pienamente, cioè da una situazione di fatto essi vogliono entrare in una situazione di diritto.
Perché sono così convinti di questo? Proprio perché il proprietario fondiario non è intervenuto di persona. La comparsa del figlio-erede fa loro supporre o che il padrone sia morto, o che sia troppo debole per agire. E così, se prima avevano bastonato e insultato chi per loro era indirettamente responsabile del rapporto di sfruttamento, ora pensano di uccidere chi per loro è fonte di questo stesso rapporto. Qui si può anche pensare a uno scontro armato, seppure di lieve entità.
Secondo le disposizioni giuridiche di allora, ebraiche e romane, si permetteva a chiunque d'impadronirsi di un bene (anche immobile) qualora fosse rimasto senza proprietario. Ecco perché gli operai agricoli pensano di diventare i nuovi padroni della vigna, uccidendo chi, secondo loro, ne sarebbe stato l'erede. È talmente grande la loro sicurezza che nel testo si ha l'impressione che gli abbiano persino negato la sepoltura (qui la chiesa vedrà addirittura un'allusione alla crocifissione al di fuori delle mura di Gerusalemme!): non si preoccupano di salvare le apparenze perché sanno che nessun concittadino li denuncerà per aver ucciso uno sfruttatore e nemico della patria. Senonché la parabola è tutt'altro che favorevole a questa conclusione eversiva: infatti i contadini verranno eliminati e la vigna data ad altri.
Cerchiamo ora di capire la collocazione semantica di questo testo nel vangelo di Marco. Là dove è molto forte l'opposizione delle autorità nei confronti di Gesù, è facile che questi, in pubblico, si serva di strumenti linguistici il cui significato, per essere adeguatamente compreso, va spiegato (cosa ch'egli faceva privatamente ai propri discepoli). Qui non solo viene confermata detta opposizione, ma le autorità (Matteo enfaticamente parla di “sommi sacerdoti e farisei”) non hanno alcun bisogno che qualcuno spieghi loro il significato di quella parabola, tant'è che, se non fossero state impedite dalla folla, l'avrebbero arrestato immediatamente.
Se si esclude l'inizio del capitolo 11 di Marco, in cui s'illustra il trionfale ingresso messianico, tutto il resto non è che una sequela di minacce in direzione di Gesù, in funzione prolettica della tragedia che sta per compiersi sul Golghota. Dopo quell'ingresso il Cristo può soltanto constatare, a dimostrazione dell'aridità spirituale d'Israele (v. 14), un “fico seccato” (che peraltro maledice); compiuta la purificazione del Tempio, la casta sacerdotale cerca “il modo di farlo morire” (v. 18); sacerdoti, scribi, anziani rifiutano di riconoscere la sua autorità, esattamente come prima nei confronti del Battista (v. 28); col dibattito sulla questione del tributo a Cesare e della resurrezione pensano di coglierlo in fallo per denunciarlo o di eversione o di ateismo... Nonostante questa fortissima opposizione, e dopo aver criticato duramente tutta l'ipocrisia di un partito, quello farisaico, che pur vedendola, non fa nulla per sostenerlo (anche i farisei erano ben consapevoli della corruzione del Tempio), Gesù si accinge ugualmente a entrare a Gerusalemme per autoimmolarsi (è questa la tesi petrina e Marco la registra a livello redazionale).
La parabola non fa che confermare una situazione di grave conflitto. L'esegesi confessionale ha naturalmente visto in essa un'anticipazione di quella che sarà la fine del primato d'Israele, simbolizzato dai coltivatori ebrei fatti fuori dal latifondista, e sostituiti da nuovi coltivatori “cristiani”. Ma per quale ragione le autorità dovevano sentirsi prese di mira da una parabola del genere? E in che senso la folla doveva invece sentirsi valorizzata da essa, al punto da prendere le difese del Cristo?
Se il proprietario della vigna appare come uno sfruttatore romano e i contadini come ebrei che vogliono ribellarsi, è assurdo pensare che Gesù volesse esaltare la figura dell'oppressore, colonialista e proprietario “privato”, e che potesse trovare in questo un consenso popolare. Stava forse criticando il ribellismo infantile dei leader politici ebrei, paventando una soluzione di tipo “matteano”, cioè mettendosi esplicitamente dalla parte del nemico? Ma non era stato lui a chiedere a Matteo di smettere di lavorare per Roma e d'impegnarsi seriamente in un progetto contro l'oppressione nazionale?
L'esegesi confessionale qui rischia di cadere in un'assurdità dietro l'altra. Leggere misticamente la parabola (col senno “mistificato” del poi) come se il padrone della vigna fosse Dio e suo figlio lo stesso Gesù, e gli operai salariati le autorità che non riconoscono i profeti e li uccidono, fino a eliminare il più grande di loro, al punto che per questo delitto il Cristo si ritiene in diritto-dovere di assicurare il passaggio del primato storico d'Israele al mondo pagano (che in quel momento rappresentava l'oppressione!), è, a dir poco, molto fantasioso.
Se la folla lì presente ha apprezzato quella parabola, evidentemente doveva aver capito ch'essa era diretta contro dei leader politici ebrei che non sapevano fare il loro mestiere di oppositori risoluti a Roma. Ma la cosa strana è che nella parabola l'opposizione dei contadini al latifondista c'è ed è anche forte: dunque per quale motivo quei leader pensarono ch'essa era diretta contro di loro?
Qui si ha l'impressione che se la parabola è stata davvero detta (esisteva una versione quasi analoga in Is 5,1ss.), non può esserlo stato così come ci è arrivata. Cioè si ha l'impressione che i vv. 10-11 di Marco, quelli in cui si cita un passo veterotestamentario, usato in maniera apologetica, celino un finale molto diverso. Marco ha compiuto una duplice operazione redazionale: ambigua e tendenziosa. Ambigua perché ha voluto far vedere, senza specificarne il motivo, che le autorità gestivano il potere in maniera sbagliata e che la folla era consapevole di questo limite. Tendenziosa perché lascia presupporre che il motivo non fosse affatto di tipo “politico” bensì di tipo “religioso” o comunque di tipo “politico-religioso”: il Cristo non venne riconosciuto né come “messia” né come “figlio di Dio”.
Di certo questa parabola, se è stata detta, deve esserlo stata in Galilea, la terra di Pietro, che nutriva sentimenti di ostilità nei confronti della Giudea, anche se non ai livelli dei Samaritani. Quindi la collocazione in Giudea è del tutto convenzionale. Ma se non è una parabola contro i sommi sacerdoti, gli anziani, i sadducei, che non hanno bisogno dello strumento delle parabole per essere additati come corrotti e collaborazionisti, non è neppure un intervento contro gli scribi e i farisei, altrimenti Marco, sempre molto attento a queste cose, lo avrebbe detto esplicitamente.
Questa è una parabola che non aveva bisogno d'essere interpretata per essere capita: qui veniva denunciata l'incapacità dei partiti rivoluzionari nell'organizzare una resistenza efficace contro Roma. Il proprietario fondiario doveva apparire nella parabola come uno che fa giustizia di chi s'illude di poter andare avanti con un ribellismo spontaneistico e di maniera.
Gesù ce l'aveva con chi stava avallando una resistenza miope, istintiva, che si accontentava di piccoli risultati ma era priva di una strategia di largo respiro e che alla fine rischiava soltanto di fare gli interessi di Roma. Stava insomma accusando gli zeloti residenti in Galilea. Quello che manca in questa parabola è proprio la parte costruttiva, propositiva, mistificata dal riferimento religioso all'Antico Testamento.
Il lettore oggi si deve accontentare del fatto che la conclusione resta obiettiva, in quanto, avendo sottovalutato la forza del padrone della vigna e sopravvalutato la propria, gli operai agricoli hanno duramente ma giustamente pagato il prezzo del loro infantile estremismo: quando si organizza una rivendicazione socioeconomica bisogna essere capaci di valutare oggettivamente i fatti, il peso delle forze in campo, bisogna essere capaci di “realismo politico”.
La resistenza unilaterale, irriducibile a qualsiasi forma di negoziato, di contrattazione, era diventata politicamente perdente, e non perché eticamente ingiusta, ma perché non sostenuta da una forza equivalente a quella che si voleva combattere.
(torna su)24) Il servo spietato
(Mt 18,23-35)
[23] A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.
[24] Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.
[25] Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.
[26] Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: “Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.
[27] Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.
[28] Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: “Paga quel che devi!”
[29] Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito”.
[30] Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
[31] Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto.
[32] Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato.
[33] Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
[34] E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto.
[35] Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello.
*
Conformemente alla nota tesi marxiana secondo cui “i princìpi sociali cristiani hanno giustificato la schiavitù antica [in quanto] essi predicano la necessità di una classe dominante e di una oppressa” 6, sempre più ci si rende conto – leggendo i vangeli cristiani – che in questi testi religiosi (o, se vogliamo, di “politica religiosa”) non si giustifica soltanto la schiavitù allo “stato puro” (prima di loro l'aveva già fatto Paolo nelle sue lettere), quella, per intenderci, dell'apogeo del dominio romano, ma anche e soprattutto quella forma di schiavismo che, venuta a crearsi nelle province imperiali intorno al I e particolarmente II sec. d.C., aveva preso il nome di “colonato” (o colonìa).
Nei racconti allegorici riguardanti i coloni (vincolati strettamente, quest'ultimi, non meno degli schiavi, alla terra, benché giuridicamente più liberi), non si mette mai in discussione la realtà del nuovo rapporto economico, cui i Romani erano stati indotti a ricorrere nelle province appena conquistate militarmente. Anzi, gli autori dei vangeli (specialmente Matteo) tendono a legittimare la necessità di questo rapporto, mostrando che quando esso non veniva accettato (ovviamente dai coloni), era sempre per motivi “moralmente indegni” (a carico, ovviamente, degli stessi coloni), cioè per motivi indipendenti non solo dalla volontà soggettiva del padrone (che anzi spesso viene paragonato a Dio!), ma anche dalle concrete circostanze socio-economiche, considerate non tanto come un prodotto “storico”, quanto piuttosto come una condizione inevitabile della “natura”. La parabola matteana del servo spietato, che ora vedremo e che è priva di paralleli sinottici, lo dimostra in modo eloquente, seppur essa riproduca solo limitatamente una situazione reale.
Prima di prenderla in esame è però necessario fare un breve excursus storico. La cessazione delle guerre esterne verso la metà del I sec. d.C. aveva determinato la diminuzione del numero degli schiavi. Considerando che il lavoro di quest'ultimi era già di per sé poco proficuo, soprattutto quando il proprietario romano non era presente sul suo fondo agricolo, se non in maniera saltuaria e attraverso propri intermediari, fu facile rendersi conto che sarebbe stato più conveniente affittare la terra a degli schiavi affrancati, dando loro in uso i mezzi produttivi, oppure stipulare un contratto con dei liberi ma miseri contadini, costretti sin dall'inizio del rapporto di colonato a ricorrere ai prestiti del padrone. Il canone generalmente consisteva al massimo nel terzo del raccolto e in alcune prestazioni gratuite di lavoro.
Senonché la mancanza di abitudine a un sistematico lavoro produttivo, da parte di questi lavoratori semi-indipendenti, che eccedesse i loro bisogni vitali, la loro strutturale debolezza economica dovuta a una tecnologia molto elementare, la tendenza al parassitismo ozioso della classe padronale e, in particolare, l'esigenza d'imporre sempre maggiori tasse da parte di un impero cresciuto smisuratamente sul piano burocratico e militare, furono fattori che in poco tempo costrinsero il colonato a rivelarsi come un insufficiente surrogato della schiavitù. Anzi, la situazione sociale dei neo-liberti “ascritti alla terra” era sensibilmente peggiorata, in quanto se prima, come schiavi eccedenti, potevano permettersi di lavorare poco e male, in seguito tutta la responsabilità della gestione economica della terra gravava sulle loro spalle.
Liberando questi “strumenti parlanti” – come venivano chiamati –, il padrone s'era sottratto a molte delle spese per mantenerli, ma, ferma restando la separazione dei produttori dalla proprietà dei mezzi produttivi, non migliorava affatto la condizione di questi ex-schiavi, né, tanto meno, quella dei liberi contadini affittuari. Col tempo, di fronte alle crescenti richieste di canoni maggiorati, tutti diventeranno debitori insolventi e determineranno quel fenomeno che, agli albori del Medioevo, può essere definito col termine di “servaggio di massa”.
*
La parabola di Matteo inizia parlando di un re che voleva fare i conti coi propri servi. Si tratta probabilmente del rendiconto quinquennale che il padrone romano faceva coi lavoratori di provincia alle proprie dipendenze. Non un “re” quindi ma al massimo un “procuratore” nominato dall'imperatore per una determinata provincia imperiale, il quale, a sua volta, affidava le terre a dei “conduttori” che le lavoravano direttamente oppure le subaffittavano a dei piccoli affittuari, i coloni appunto. Fra conduttori e coloni non regnavano buoni rapporti, poiché i primi, cercando di diventare proprietari delle terre, aumentavano illegalmente i pagamenti, pretendevano maggiore lavoro e usavano violenza. È possibile quindi che la parabola rifletta, vagamente, un rapporto del genere.
Il fatto che vi siano dei conti da verificare può far pensare che la parabola sia stata scritta non più tardi della seconda metà del I secolo. Il denaro infatti verrà sostituito dai prodotti in natura e da varie corvées solo nel II secolo. Tuttavia l'incredibile ammontare del debito, che ora vedremo, fa pensare a una successiva manipolazione del testo.
Uno dei servi del procuratore aveva accumulato un enorme debito di 10.000 talenti 7. La cifra è volutamente esagerata non tanto per evidenziare una qualche “colpa soggettiva” del colono, né, tanto meno, per accentuare il carattere oppressivo di questo rapporto di lavoro, quanto piuttosto per sottolineare ancor più la particolare “malvagità” che questo servo dimostrerà nei confronti di un altro servo, per analoghi motivi di credito: sarà difficile, in effetti, con un debito così elevato, giustificare il suo comportamento.
Il colono gravemente indebitato e l'atteggiamento magnanimo del padrone, che si lascia commuovere dalle suppliche di quello, spiegano forse la decisione degli imperatori del II sec. di trasformare la rendita in denaro in rendita in natura. Che il servo in questione non fosse uno schiavo ma un contadino libero divenuto colono è dimostrato dal fatto che il padrone pensa di venderlo come schiavo, con tutta la sua famiglia, solo dopo aver constatato il mancato assolvimento del debito. Il colono, si sa, non aveva, al pari dello schiavo, la possibilità di beneficiare di alcun vero diritto, soprattutto in presenza di debiti che non si potevano pagare. Il padrone infatti considera del tutto normale la schiavizzazione di lui e della sua famiglia, nonché la requisizione di tutti i suoi beni.
L'umanità dimostrata, in questo caso, non doveva essere interpretata come un segno del miglioramento della situazione socioeconomica degli oppressi. Con la crisi del reclutamento degli schiavi era preferibile al padrone essere condiscendente verso i coloni, anche per i pagamenti del canone (ovviamente con un debito di 10.000 talenti la pietà sarebbe stata insensata). L'atteggiamento padronale verso i ceti inferiori era diventato più mite solo perché le modalità dello sfruttamento economico si erano più razionalizzate. In ogni caso un padrone non avrebbe mai sciolto dal debito un colono che, non potendolo pagare, avrebbe potuto lavorare gratis per lui. Al massimo poteva concedergli una dilazione nel pagamento. In pratica il vangelo illude il lettore che la categoria dei padroni possa a volte essere così buona e comprensiva da condonare debiti anche elevatissimi. 8
Ottenuta la remissione del debito, il servo, incontratosi con un altro servo, suo debitore, esige che questi saldi i conti con lui (100 denari) 9. Ma la situazione purtroppo si ripete: neppure l'altro è in grado di pagare.
Il racconto è un'efficace testimonianza non solo di come la miseria, nei cui confronti s'era incapaci di reagire, potesse abbruttire spiritualmente, ma anche di come la modificazione dello sfruttamento da schiavistico in colonato non avesse affatto risolto il problema della sussistenza del lavoratore dipendente, privato della propria autonomia economica. Si trattava di un puro e semplice palliativo favorevole soltanto ai proprietari dei capitali e dei mezzi produttivi.
E così, invece di una lotta comune contro il padrone (cosa che però spesso accadeva, in maniera spontanea e disorganizzata, specie nella Galilea di allora, benché gli evangelisti, tesi a cercare una legittimazione del cristianesimo nell'ambito dell'impero, non possano ovviamente documentarla), scoppia una guerra tra poveri. Invece di basarsi sull'unità di classe, sulla reciproca collaborazione, in nome di uno sfruttamento comune, emergono forti divisioni e rivalità.
Il condono del debito avrebbe dovuto indurre il primo servo a un comportamento più benevolo nei confronti del “collega”, che in fondo, proprio come lui, chiedeva soltanto una proroga. Ma una serie di circostanze l'aveva invece portato a infierire con ostinazione: anzitutto l'esasperazione provocata dall'indigenza materiale, nonché la paura, annessa, di ritrovarsi nelle file degli schiavi, poi l'umiliazione di chiedere la misericordia al proprio padrone (che nella parabola viene già visto come “re”), infine l'incomprensione delle strategie politiche in virtù delle quali al padrone non fosse più possibile sfruttare il lavoro altrui.
L'omertà comunque non lo protegge: gli amici e i parenti del secondo servo, consapevoli che al primo era stato risparmiato un debito più grande e che, nonostante questo, egli aveva voluto lo stesso denunciare l'altro, lo vanno a riferire al creditore.
Saputa la cosa il re-padrone (che qui in un certo senso fa le parti di un giusto giudice, anticipando, in ciò, quello che sarà l'atteggiamento del feudatario medievale sul piano locale) non si rifà ad alcuna legge per condannare il comportamento del primo servo, ma unicamente alla propria autorità: con questa gli aveva estinto (o prorogato) il debito e con la stessa gli revoca il condono (o la dilazione).
Il fatto d'essersi lasciato convincere dalle suppliche del servo ora lo infastidisce molto più di prima (c'è forse qui un rimpianto dei tempi in cui i padroni non cedevano mai alle implorazioni degli schiavi?): oltre al raggiro di quello, egli ha dovuto sopportare anche la perdita di profitti dovuta alla detenzione del secondo servo. Paradossalmente è il padrone stesso a insegnare al servo la solidarietà fra membri di una medesima classe sociale: “Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” (v. 33). Sembrano qui presenti le origini della “predicazione interclassista” della chiesa romana, ovvero la funzione illusoria di un’istituzione (ivi inclusa quella dello Stato) che si presume equidistante dai conflitti di classe.
Adesso la punizione riservata al primo servo non è più semplicemente quella di venderlo come schiavo a un altro padrone, col quale, se le circostanze gli fossero state favorevoli, avrebbe forse potuto – dato il mutare dei tempi – ritornare alla semilibertà del colono, ma è quella di costringerlo ai lavori forzati fino a quando non avrà pagato tutto il debito, sotto stretta sorveglianza degli aguzzini (un'anticipazione dei futuri “villici imperiali”?). Con la prima punizione, poi revocata, il padrone mostrava di considerarlo un inetto; con la seconda lo considera un crudele approfittatore.
Qual è dunque l'insegnamento della parabola? Certamente non quello di offrire dei criteri obiettivi di giustizia sociale o economica. La pietà del padrone non incide minimamente sul rapporto oggettivo di sfruttamento, né vi incide il fatto d'aver reso giustizia al secondo servo. Di fronte ai propri coloni il padrone, la cui residenza è altrove, ha sempre più bisogno d'apparire come un “operatore di giustizia” (a livello locale).
L'unico valore morale positivo del racconto, che appare fortemente influenzato da tradizioni giudaiche, sta forse in questo, che quando si beneficia, in qualità di servi, di un favore considerevole, e insperato, da parte di un proprio superiore, si dovrebbe avere una ragione in più per non rifiutarne uno, di entità infinitamente minore, a un membro della propria classe sociale, anche se quest'azione, a causa della precarietà generale in cui si vive, può costare non pochi sacrifici.
Detto principio però è così evidente che non c'era bisogno di scriverci sopra un'apposita parabola, in un vangelo peraltro che presumeva d'essere alternativo all'ideologia ebraica tradizionale: se si è avvertito il dovere di farlo, significa che la situazione dei coloni nelle province imperiali del Vicino Oriente nei secoli I-II d.C. doveva essere alquanto drammatica e che ben pochi di loro riuscivano a sopportarla.
Qui comunque non c'è la difesa esplicita del padrone “in quanto padrone” (in fondo essa appare scontata e quindi inutile); piuttosto c'è l'intenzione di far capire al lettore che la sua decisione di annullare il condono – alla luce della nuova situazione creatasi – era stata giusta. L'atteggiamento del primo servo può anche apparire comprensibile, data la miseria, ma nel contesto è ingiustificato.
Tuttavia, l'accentuato carattere paternalistico del racconto impedisce di valorizzare il fattore, altrettanto etico-sociale, della reciproca collaborazione fra elementi di una medesima classe oppressa. Lo impedisce proprio perché con una valorizzazione del genere non si potrebbe poi non affrontare il problema di come superare concretamente i condizionamenti che determinano situazioni sociali di miseria e di esasperazione: problema che può essere risolto solo attraverso la lotta di classe.
Parlando del “servo spietato” il vangelo di Matteo dimentica di dire che, in genere, anche i padroni erano “spietati”. Circoscrivendo il problema della miseria entro il semplice terreno morale, il vangelo mistifica quelle che sono le leggi di natura economica. Farà senza dubbio questo involontariamente, ma ciò non toglie ch'esso possa prestarsi, in modo oggettivo, a un suo uso strumentale per la conservazione dei rapporti di sfruttamento esistenti.
(torna su)25) L'obolo della povera vedova
(Mc 12,41-44)
[41] E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte.
[42] Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
[43] Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
[44] Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
*
Il racconto del vangelo di Marco sull'obolo della povera vedova (12,41 ss.), ripreso da Luca (21,1 ss.), è stato collocato dagli evangelisti poco prima dell'ultima tragica settimana a Gerusalemme, nell'ambito della più generale critica mossa nei confronti della principale istituzione del giudaismo: il Tempio, e delle principali categorie sociopolitiche (scribi e farisei) che non fecero nulla per impedire la palese corruzione dei suoi amministratori: sadducei e sommi sacerdoti. È una pericope direttamente morale e indirettamente politica.
Il tesoro apparteneva al Tempio di Gerusalemme e i sacerdoti usavano le offerte dei fedeli o per compiere olocausti o per aiutare i poveri. Si trattava infatti di contributi volontari, non di tasse, che pur essi richiedevano per la manutenzione della struttura e per le loro necessità quotidiane. Oltre a ciò – come noto – esistevano altre forme commerciali di sfruttamento del luogo santo, specie in occasione delle grandi festività, che permettevano ai suoi gestori di arricchirsi notevolmente.
Qui Marco racconta che Gesù e i suoi discepoli osservano “come” i credenti fanno le loro offerte, e anzitutto vedono i ricchi che gettano con ostentazione molte monete. Quando si presenta la vedova che offre “due spiccioli”, Marco si sente in dovere di specificare che il loro importo era equivalente a un “quattrino”, per spiegare al suo lettore di origine pagana il valore del “leptà” ebraico, e quindi il fatto che si trattava di un'offerta poverissima. Che fosse propriamente una “vedova”, solo il suo abbigliamento poteva rivelarlo agli astanti.
Gli esegeti si sono chiesti come sia stato possibile stabilire l'esatto importo dell'offerta. Storicamente si sa che nell'atrio del tempio, dove potevano accedere anche le donne, esisteva un corridoio (detto “gazofilacio”) in cui erano collocati tredici salvadanai a forma di tromba, che servivano per raccogliere le libere offerte e quelle destinate a determinati scopi. Non si gettava il denaro personalmente, ma lo si consegnava al sacerdote incaricato, il quale poi lo metteva in questo o quel salvadanaio secondo l'indicazione dell'offerente.
Ma che la donna nominasse apertamente l'ammontare dell'offerta, così da poter essere ascoltata da Gesù e i suoi discepoli, è davvero improbabile. Il racconto non è storicamente attendibile, non foss'altro che per una ragione: da tempo i seguaci del movimento nazareno avevano smesso di fare offerte al Tempio, sicuramente a partire dall'episodio della cacciata dei mercanti da parte dello stesso Gesù, avvenuta, stando alla cronologia di Giovanni, alcuni anni prima. Essendo giudicato come luogo di corruzione morale e di collaborazionismo politico con l'invasore romano, al Tempio le offerte non andavano fatte, né poche né molte.
La pericope appare come una semplice illustrazione del valore dei sacrifici dei poveri, un valore che in quel momento non è stato capito da chi (i discepoli lì presenti) si è lasciato ingannare dalle apparenze materiali (l'infimo importo), senza comprendere che dietro di esse si celava lo stato poverissimo dell'offerente. Il Cristo insomma sembra rispondere a un'osservazione di disappunto da parte dei discepoli, che hanno avuto la pretesa di giudicare senza cognizione di causa.
Visto così, il senso del racconto è tutto di tipo etico. La vedova è “generosa” non tanto perché “ha pensato” di fare l'offerta, lei che avrebbe potuto obiettivamente farne a meno, né perché ha dato i due leptà a Jahvè o ai poveri più poveri di lei, ma proprio perché in quella misera offerta essa ha dato “tutto quanto aveva per vivere”.
Il suo desiderio era quello di realizzare una comunione totale (materiale e spirituale) con ciò in cui credeva. Nei confronti di chi, pago di sé, ha dato il superfluo, lei, pur nella sua indigenza, ha dato di più. Non quindi la quantità in sé fa il “modo”, ma la quantità vista a partire dalla condizione sociale dell'offerente.
In altre parole, questa vedova, dando tutto, non ha fatto in verità una semplice offerta, ma ha cercato di realizzare una comunione totale dei beni. È vero che questo gesto è rimasto a livello di esigenza personale, senza potersi concretizzare nella realtà (in quanto è mancata la volontà positiva del ricevente), ma ciò non toglie ch'esso sia stato molto più grande di quello che a prima vista apparisse.
Se si fosse tenuta una delle due monetine avrebbe fatto lo stesso un'offerta generosa (essendo di condizione poverissima), ma non avrebbe manifestato di credere nella possibilità di una comunione totale dei beni, cioè non avrebbe messo se stessa in comunione piena con la realtà in cui credeva.
L'obiezione che a questo punto si è soliti fare è nota: la donna ha potuto dare tutto proprio perché non aveva niente. Contro tale obiezione almeno due osservazioni valgono: in primo luogo la donna aveva dato tutto perché credeva in un ideale (altrimenti avrebbe dato una sola moneta o forse niente), mentre i ricchi danno il superfluo proprio perché non credono in quello che fanno, ovvero compiono formalmente un gesto che non mette in discussione il loro status sociale privilegiato; in secondo luogo, dire che questa donna non aveva paura di diventare più povera di quello che era, è come dire che uno può talmente abituarsi alla propria povertà da non desiderare più d'uscirne. Il che però viene proprio contraddetto dal fatto che la donna ha dato tutto non per la disperazione di non avere niente, ma per la speranza di ottenere qualcosa, anche se per il suo gesto essa meritava di ricevere in cambio tutto (e di riceverlo hic et nunc, non nell'aldilà).
Con ciò ovviamente non si vuole sostenere che il ricco dia soltanto il superfluo perché avaro: questa sarebbe una considerazione psicologistica. Il ricco non dà tutto semplicemente perché non crede nella possibilità di una reale socializzazione dei beni, cioè nella possibilità di riottenere tutto compatibilmente alle esigenze di tutta la collettività.
Anzi, se si guarda la consapevolezza culturale di entrambi gli offerenti, occorre dire che il ricco professa già nella sostanza l'ateismo, pur contraddicendosi nella ritualità della devozione religiosa, usata in maniera strumentale, come forma d'inganno delle masse inconsapevoli. La vedova invece appare credente sia nella forma che nella sostanza, e manifesta quindi una maggiore coerenza, pur all'interno di una grande ingenuità.
Nonostante l'indifferenza verso gli ideali della religione, il ricco di duemila anni fa, ostile alla comunione dei beni, ha contribuito a impedire al gesto della donna di assumere un significato politico positivo, anche se il redattore evangelico si sforza di connettere quel gesto al precedente discorso di Gesù indirizzato agli scribi, che ingoiano le case delle vedove, e a quello successivo, indirizzato alla distruzione militare del Tempio da parte di una istituzione governativa ancora più corrotta, quella romana. Come se questa distruzione fosse una conseguenza meritata per la mancata volontà, da parte del potere giudaico, di valorizzare gli enormi sacrifici della popolazione più debole.
Ma ciò su cui il vangelo tace (e diversamente non potrebbe fare) è il fatto che, sul piano oggettivo, il gesto della vedova non avrà alcuna vera conseguenza, in quanto né il sacerdote incaricato né i ceti sociali ch'egli rappresenta sono disposti a coinvolgersi con l'offerente povero, onde realizzare una comunione dei beni.
L'impotenza del vangelo sta appunto in questo, che mentre elogia l'individuo, a livello morale, per talune sue azioni di onestà, generosità, sincerità..., lo condanna poi, a livello politico, a restare quello che è, cioè emarginato, sfruttato e schiavo di tutti, invitandolo ad aver fiducia nelle istituzioni, a non giudicare mai nessuno e a sperare in un premio nell'aldilà, lasciando a Dio la punizione dei nemici.
Soggetta a rapporti di produzione schiavistici, questa donna “sogna” di poter concorrere, con la sua generosa e poverissima offerta, al mutamento della realtà, s'illude di poter ottenere di più versando tutto. L'incapacità di comprendere i meccanismi del modo di produzione economico e di gestione del potere politico purtroppo fa sì che proprio mentre, soggettivamente, si crede di poter modificare le leggi dello sfruttamento, in realtà, oggettivamente, non si fa che prolungarle nel tempo. Pur essendo buone le sue intenzioni, la vedova non fa che avvalorare la gestione corrotta del Tempio.
Mentre il povero spera, nella sua inconsapevolezza e ingenuità, che lo schiavismo venga rimosso con un'azione “dall'alto”, il ricco, dal canto suo, versa le proprie elemosine affinché il clero continui a illudere gli oppressi che per emanciparsi socialmente è sufficiente fare delle semplici offerte.
In tal modo i ricchi potevano apparire “buoni credenti” proprio perché vi erano persone, come la vedova, che, con le loro offerte, contribuivano a tenere in piedi, pur senza esserne consapevoli, il luogo principale della corruzione e dell'inganno.
(torna su)Appendici
26.1) Populismo e non violenza nella chiesa cristiana
Nel voluminoso Commento di Giovanni Crisostomo al Vangelo di Matteo vi sono alcune pagine, relativamente alle cosiddette “parabole degli operai”, che ancora oggi possono essere considerate indicative del modo concreto di affrontare la “questione sociale” da parte della chiesa cattolica.
Nel periodo in cui visse Crisostomo, cioè nella seconda metà del IV secolo, la chiesa doveva necessariamente affrontare, come in tutte le società antagonistiche, il grave problema degli oppressi, che allora s'identificavano con gli schiavi, i coloni e i piccoli proprietari agricoli in via di proletarizzazione.
Il celebre padre della chiesa, educato alla teologia storico-letterale di Antiochia, non si nascondeva la difficile situazione socioeconomica del crescente pauperismo. Anzi, alcune sue descrizioni sono veramente impressionanti per il nudo realismo che esprimono. Prendiamo ad esempio quella in cui si parla dello sfruttamento dei coloni contadini: “Se qualcuno guarda come costoro [cioè i latifondisti] trattano i loro miseri e umili contadini, vedrà che sono più crudeli dei barbari. A coloro che sono consumati dalla fame e passano la loro vita lavorando, impongono continuamente insopportabili tributi e li sottopongono a faticosi servizi; trattano ì loro corpi come se fossero asini o muli, o per dir meglio pietre, senza conceder loro un momento di respiro; e, produca o non produca la terra, li opprimono ugualmente senza condonar loro nulla. Può esservi qualcosa di più triste? Questi disgraziati, dopo aver lavorato tutto l'inverno ed essersi ridotti all'estremo per il gelo, le piogge, le veglie, si ritirano con le mani vuote e per di più carichi di debiti. Ma più della fame, più ancora di queste sciagure, hanno paura e temono la violenza degli amministratori, le querele in tribunale, i rendiconti, i supplizi a cui vengono condotti e i pesi inesorabili che sono loro imposti” (ed. Città Nuova, 1969, III volume, pp. 59-60).
Tuttavia, nonostante questa dura denuncia, la chiesa costantiniana, sempre più attratta dalla prospettiva del privilegio, si stava lentamente disabituando all'uso dell'autocritica e cominciava soprattutto ad accentuare la propaganda della rassegnazione rivolta ai ceti inferiori, invitandoli a non inasprire, con rivendicazioni sociali o politiche, il loro già difficile rapporto con i potenti.
Nei confronti di quest'ultimi la chiesa si limitava a utilizzare la critica dell’“immoralità” (così veniva considerato lo sfruttamento economico “eccessivo”), e lo faceva anche per non perdere consensi tra le popolazioni meno abbienti.
Nel populismo di Crisostomo la minaccia di “castigo eterno” per i ceti benestanti (laici e chierici) che non si ravvedevano, era un richiamo frequente. “Sappiate”, disse un giorno agli avari del suo tempo, “che voi siete crudeli non con gli altri, ma con voi stessi. [ ... ] Infatti, ciò che tu fai a lui [cioè al povero], lo fai come uomo e nella vita presente; non così Dio, che ti castiga con un castigo eterno nell'altra vita” (p. 53).
Ciò tuttavia non gli impediva di ribadire il motivo della sopportazione per i poveri desiderosi di acquisire il perdono dei peccati e le migliori virtù cristiane. Le pagine 54 e 55 sono in tal senso molto eloquenti.
Forte del suo potere economico la chiesa aveva l'ambizione di porsi come arbitro morale fra i proprietari laici dei mezzi produttivi e i nullatenenti. Non sapendo o non volendo o non potendo (quale grande proprietario terriero) risolvere praticamente lo sfruttamento economico, essa, in definitiva, si opponeva a qualsiasi lotta politico-rivoluzionaria. E in genere lo faceva mascherando, dietro le raccomandazioni, i consigli, le perorazioni in favore dei poveri, i suoi grandi interessi di casta.
La divisione della società in classi rivali era ed è ancora oggi considerata come un fenomeno naturale, tanto naturale che, all'occorrenza, cioè quando i beni materiali della stessa chiesa vengono minacciati, essa non ha scrupoli nel difenderli con la violenza, ancorché in forma mascherata, subdola, servendosi di forze sociali e autorità politiche che possano garantire, in definitiva, la sopravvivenza della sua dottrina interclassista e non-violenta.
Forse l'unico momento in cui la chiesa romana non ha avuto remore di sorta nell'affermare l'uso diretto e personale della violenza è stato nel periodo che va da Gregorio VII a Bonifacio VIII, ma anche questo atteggiamento è stato pagato con vari scismi interni...
Ai tempi di Crisostomo il cristianesimo era appena diventato “religione di stato”. E già molti cristiani, protestando contro la corruzione e il malcostume (soprattutto dell'alto clero), fuggivano dalle città e si ritiravano nei deserti a vivere come monaci: vita ascetica, comunità di beni e lavoro semplice. Questa, in verità, è l'altra soluzione che il teologo antiocheno, grande oratore, offriva all'uditorio a lui contemporaneo. Seguire la vita dei monaci “sulle montagne e nelle grotte”. “Fra di loro non vi è padrone né schiavo. Tutti sono schiavi e tutti sono padroni”. “Sulla loro tavola c'è solo pane e acqua” (p. 151). “Ciascuno va al lavoro, da cui traggono abbondanti proventi che impiegano nell'assistenza ai poveri” (p. 137).
Non era una soluzione di comodo, ma restava comunque un ripiego. Crisostomo proponeva di gestire la fiorente e complessa economia della sua città “rinunciandovi”, letteralmente, sul modello appunto dei monaci, per i quali l'economia a livello di tecnica produttiva era ridotta al minimo essenziale.
Ancora egli non poteva sospettare che di lì a poco molti di questi monasteri sarebbero diventati dei ricchissimi proprietari di terre (in virtù di lasciti e donazioni), e che i coloni che vi lavoravano sarebbero rimasti coloni per tutta la vita, senza mai poter partecipare alla gestione comunitaria del cenobio (il quale frattanto si sarà trasformato in una struttura rigidamente gerarchica, con a capo abati e priori dotati di ampi poteri).
Il moralismo di Crisostomo (come di ogni fenomeno religioso in genere) è strettamente legato all'individualismo. Il subordinato, lasciato solo nell'ambito del lavoro, solo ad affrontare la sua alienazione economica e sociale, doveva poi ricercare, all'interno della comunità religiosa, una salvezza personale di fronte a Dio, attraverso la mediazione autorevole della chiesa (autorevole sul piano materiale e culturale).
La comunità, somma di persone singole, non potendo costituire una valida alternativa all'individualismo della società classista, al massimo serviva per sopportare meglio le contraddizioni del sistema produttivo (mediante elemosine, assistenza, beneficenza ecc.).
Nella seconda metà del IV secolo furono forze sociali estranee alla chiesa ufficiale o in polemica con i suoi dogmi (vedi le correnti ereticali) che cercarono d'opporsi al regime oppressivo dell'impero bizantino. Si pensi, ad esempio, all'insurrezione dei Visigoti nelle province danubiane dell'impero, cui si unirono schiavi e coloni, nonché i contadini della penisola balcanica; ma anche alla rivolta di schiavi, coloni e mercenari dell'Asia minore (399-401) e a quella della tribù degli Isauri: proprio quelle etnie che lo Stato pagano prima e cristiano dopo cercarono di tenere ai margini della società qualificandole con l'appellativo di “barbare”.
(torna su)26.2) Il figliol prodigo secondo Wojtyla
Nell'enciclica Dives in misericordia Giovanni Paolo Il diede un'interpretazione piuttosto particolare della parabola del figliol prodigo, sintomatica -a mio parere -di un certo modo di vedere da parte di molta intellighenzia cattolica.
Vista alla luce dei due temi dominanti e strettamente vincolati, la misericordia e l'infedeltà, la parabola viene ad assumere nel documento un'importanza assai considerevole. A ben guardare, infatti, il figlio “degenere” non è altri che il mondo cristiano colpevole di “tradimento”. Ed è facile capire in che senso: perché compromessosi con ideologie anti-religiose (quella borghese e quella proletaria).
Ora, né Dio né la sua chiesa – al dire di Wojtyla – possono lasciare i popoli cristiani in balìa del loro peccato, altrimenti verrebbero meno al loro progetto di liberazione storica integrale. Occorre invece aver misericordia del peccatore, affinché egli faccia penitenza e di nuovo si converta a Dio, della cui grazia la chiesa romana è custode, interprete e dispensatrice.
Quel giovane che, ad un certo punto della sua vita, secondo il suo libero volere, decise di abbandonare il padre, dopo aver ricevuto la sua porzione di patrimonio, e che poi, accorgendosi della gravità della sua situazione morale e materiale, causata da una vita dissoluta, e ripensando alla dignità perduta, sceglie di riconciliarsi col padre supplicandone la misericordia – è un giovane che, nell'ottica di Wojtyla, simboleggia l'itinerario storico ed esistenziale di tutta la società moderna formatasi sulle rovine del medioevo.
L'“uscita di minorità” – secondo l'integralismo cattolico – non ha affatto comportato un'acquisizione di responsabilità in ordine a un compito religioso ed ecclesiale da assolvere nella storia. Al contrario, l'emancipazione borghese prima, proletaria dopo, hanno stravolto, nella critica più o meno radicale delle istituzioni e tradizioni passate, qualsiasi ordinamento autenticamente etico-religioso, e il fallimento di questo tentativo oggi sarebbe così evidente da preoccupare alquanto per le conseguenze che potrebbe avere.
Wojtyla rimproverava al figliol prodigo non solo il suo tradimento, ma anche l'uso del libero arbitrio, causa di fondo di tutto il malessere moderno e contemporaneo (un uso di fronte al quale la chiesa romana ad un certo punto ha dovuto cedere). Non c'è per l'uomo la possibilità di vivere autonomamente un'esperienza degna di lui; anzi i fatti – secondo Wojtyla – hanno dimostrato che, separandosi dalla tutela e dall'assistenza del clero, le società civili sono state incapaci non solo di salvaguardare i diritti della chiesa, ma anche di rispettare le fondamentali libertà degli uomini. Qualsiasi istanza del mondo laico, priva de placet ecclesiastico, è destinata a inverarsi nel suo contrario.
L'accusa di Wojtyla non era ovviamente così esplicita, e nell'enciclica in oggetto era relativa al pentimento di cui deve farsi carico il giovane colpevole d'infedeltà. Il documento anzi trasuda di un benevolo paternalismo, in quanto il padre, nonostante tutto, è sempre pronto a perdonare, proprio perché egli è “immutevole” (atarassico). Si condanna, è vero, il desiderio smodato dell'emancipazione, dimostrandone gli effetti negativi, ma non per questo si viene meno alla speranza di una riconciliazione.
In ogni caso, la modernità, col suo volontario e consapevole tradimento, ha perduto, secondo la chiesa romana, ogni diritto e quindi ogni vera libertà. Il traditore non può essere considerato dal padre come un figlio, ma solo come un colpevole privo dello stato della grazia. Se il padre, ovvero la chiesa, cedesse ai sentimenti o alle considerazioni personali, perderebbe in giustizia e credibilità.
Ciò d'altra parte sarebbe anche inutile, poiché il figlio è in qualunque momento autorizzato a riacquistare tutti i suoi diritti, se solo si pente del “male” compiuto.
Nell'ermeneutica mitologica di Wojtyla il padre viene presentato come un individuo dotato della grazia “per natura”, come una sorta di divinità assolutamente perfetta, infallibile, che dà al subordinato il diritto di esistere secondo un valore prestabilito.
Wojtyla non è interessato ad analizzare le cause storiche che hanno portato l'epoca moderna a rompere col medioevo. La ribellione del figliol prodigo viene colta nel suo aspetto superficiale di “colpa morale” (una colpa senza valide attenuanti e che ha portato l'uomo alla perdita d'identità).
In tale contesto la chiesa romana proclama la propria innocenza: essa non ha alcuna responsabilità per il tradimento degli uomini e, come tale, resta sempre disposta a perdonare e a riammettere alla comunione.
Dopo la sconfitta storica dell'impero cristiano-feudale, la chiesa ha preferito attendere in silenzio che il figlio ribelle si rendesse personalmente conto della sua follia; e ora promette, sforzandosi di valorizzare gli aspetti positivi della moderna emancipazione10, che al traditore pentito sarà serbato un trattamento migliore di quello per il fratello maggiore (di estrazione rurale?), rimasto sì fedele ma con poca convinzione.
Per riconciliarsi col padre, per recuperare di colpo tutti i diritti perduti, il figlio degenere deve possedere la coscienza della propria dignità. Di qui l'esigenza di lottare contro tutto ciò che impedisce la manifesta riconciliazione del figlio col padre. Si tratta di una lotta contro un nemico che non sa riconoscere o non vuole accettare la coscienza della dignità e del diritto umano, un nemico esterno ben identificabile, colui che priva la chiesa di prestigio e dignità: il comunismo insomma.
Infatti, più che l'ideologia borghese, è soprattutto il socialismo democratico che suscita nella chiesa romana seri motivi di preoccupazione (la scomunica dei teologi della liberazione lo conferma). La chiesa non può permettersi il lusso che l'uomo, peccando, resti libero di peccare: ecco perché il padre deve fare di tutto affinché il figlio si riconverta. L'opera educativa sostenuta prima del tradimento non può andare perduta. La dimenticanza, in questo caso, non pagherebbe.
(torna su)Il fatto che gli adulti, a differenza dei bambini, dispongano di un linguaggio astratto, non sta di per sé a significare ch’essi non credano nei miti o nelle favole della religione. Il linguaggio astratto, che gli animali non conoscono e neppure le macchine dell’intelligenza artificiale, è incredibilmente complesso, perché può portare a fingere di credere in cose che si sanno false e che però si vogliono far passare per vere.
Nondimeno resta vero, come risulta appunto dai Vangeli, che se ad un certo punto il Cristo si trovò indotto ad usare un linguaggio figurato, quello parabolico, ciò fu dovuto alle circostanze di luogo e di tempo, in quanto non sempre con un linguaggio esplicito si possono raggiungere gli obiettivi prefissati.
Quando, nell’immediato, non si ha il consenso e quindi la forza sufficiente per vincere la resistenza di un governo autoritario, occorre trasformare un linguaggio diretto o immediato in un linguaggio indiretto o appunto mediato da immagini simboliche, da similitudini, da allegorie e figure retoriche.
In tal modo diventa più facile sottrarsi a uno scontro frontale, il cui esito, ad un’analisi obiettiva delle forze in campo, risulterebbe sfavorevole a chi cerca un’alternativa convincente, praticabile, al sistema dominante.
Le parabole sono servite non per attenuare l’esigenza della rivoluzione, ma per farla sopravvivere in un contesto pericoloso. La manipolazione dei redattori cristiani è servita invece a rendere generico un contesto specifico, facendo diventare il discorso politico delle parabole un semplice discorso etico-religioso.
(torna su)1 Si veda p.es. il Giuda di Zullino, di Pazzi, di Del Rio, o il Pilato di Gurgo, o il Figlio dell'uomo di Siro Angeli: per costoro, ovviamente, le esigenze di liberazione politico-nazionali del Cristo non furono più che una mera tentazione.
2 P. es. Il nome della rosa ha avuto un enorme successo internazionale (fu fatto anche un film), ma chi conosce i libri di Umberto Eco non si sognerebbe neanche lontanamente di paragonare questo noioso romanzo ai gustosi, divertenti, originali Apocalittici e integrati o alla superimpegnata Struttura assente.
3 Chi pensa di avere più capacità ritiene naturale il diritto-dovere di mettersi alla prova. L'aspirazione ad avere mezzi/strumenti proporzionati alle proprie capacità è tanto più legittima in quanto nel racconto è lo stesso mercante che stabilisce personalmente tutte le differenze.
4 “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: 'Noi vediamo', il vostro peccato rimane”.
5 Che poi i redattori abbiano voluto usare la guarigione proprio per mistificare un discorso che in origine aveva un contenuto esclusivamente politico, questo è certamente possibile e meriterebbe una trattazione ad hoc.
6 Marx-Engels, Scritti sulla religione, ed. Garzanti 1979, p. 150.
7 La Bibbia di Gerusalemme, agli inizi degli anni Settanta, paragonava il valore di 10.000 talenti a 55 milioni di lire oro, mentre i 100 denari a 100 lire oro. Polibio narra che Scipione impose ai Cartaginesi sconfitti un pagamento di 10.000 talenti d'argento in 50 rate annuali (da cui si potevano ricavare 1.400.000 denari). Pertanto l'importo di cui parla Matteo è del tutto inverosimile.
8 L'uso politico-strumentale di tale illusione lo si può ritrovare anche nel documento della commissione pontificia “Iustitia et Pax” sul problema del debito internazionale: Al servizio della comunità umana, 1987.
9 Cento denari corrispondevano allo stipendio di circa 100 giornate lavorative.
10 Si pensi alla riabilitazione del metodo scientifico di Galileo e degli ideali della Rivoluzione francese.
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