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MIKOS TARSIS
PROTAGONISTI DELL'ESEGESI LAICA
Premessa - 1) Sulla metodologia esegetica di Silvio Barbaglia - 2) Gli studi di Mauro Pesce e Adriana Destro - 3) Gli studi di Mac - 4) Grandezza e limiti di Samuel Brandon - 5) Tranfo e La croce di spine - 6) Il patibolo di Ajtmatov - 7) Ida Magli e i vangeli - 8) Il mitologismo di Pier Tulip - 9) Le ricerche di Bultmann e l'attuale esegesi laica - 10) È attendibile Jossa come esegeta del N.T.? - 11) È ancora attuale Fernando Belo? - 12) La vita di Gesù, secondo Hegel - 13) Bloch e la politicità del cristianesimo - 14) Zarcone e il Cristo teo-politico - 15) Il Cristo ribelle di Reza Aslan - 16) La dimensione politica dell'attività di Gesù - 17) Il Gesù “comunista” di Costanzo Preve - 18) Ha senso la teologia ateistica di Paul van Buren? - 19) La teologia ateistica di Altizer - 20) William Hamilton e la morte di Dio - Conclusione
I processi con cui gli uomini acquisiscono la verità delle cose sono molto lenti e faticosi. Solo in occasione di momenti politicamente rivoluzionari possono subire un'improvvisa impennata.
Non è l'intelligenza a mancare. Sono piuttosto gli interessi a pesare. Siamo sempre dietro a difendere degli interessi, propri o altrui, che ci impediscono di guardare le cose obiettivamente.
Ma la verità non può aspettare i nostri comodi. Che ci metta un giorno o mille anni, a noi non resta che prenderne atto e fare ammenda di tutti i nostri errori. E non solo nostri ma anche di tutti quelli delle generazioni che ci hanno preceduto, poiché, al cospetto della verità, un giorno o mille anni sono esattamente la stessa cosa.
*
Noi non siamo degli specialisti in materia di esegesi neotestamentaria: abbiamo soltanto vaghe nozioni di storia, filosofia, teologia... Però ci piace riflettere, pesare le parole, rimettere le cose in gioco, immedesimarsi nei protagonisti degli eventi da esaminare.
Uno degli avvenimenti su cui più si è soffermata la nostra attenzione è stato quello che ha visto come protagonista un uomo passato alla storia col nome di Gesù Cristo.
Questo libro non è altro che un'antologia di tutti gli articoli scritti su alcuni studiosi del Nuovo Testamento o del Cristianesimo primitivo, incontrati casualmente nel corso delle mie letture.
Va letto come seconda parte di quello pubblicato sulla Metodologia dell'esegesi laica.
torna su1) Sulla metodologia esegetica di Silvio Barbaglia
I
Barbaglia contro Cascioli
Una questione di stile
È triste vedere un docente di Scienze bibliche presso il seminario diocesano di Novara, titolato a formare giovani seminaristi e insegnanti di religione, che a loro volta avranno a che fare col mondo dei giovani, sbeffeggiare uno studioso come Luigi Cascioli di essere un “agronomo” di Bagnoregio, di avere un diploma in “agraria”, di essere conterraneo di classi “rurali”… Come se la provenienza geografica, socioeconomica o scolastica di uno studioso dovesse essere un discrimen per qualificare il valore delle argomentazioni che sostiene.
È triste questo razzismo culturale da parte di un docente che dovrebbe insegnare ai propri allievi il rispetto e la tolleranza, e fa specie in un prelato che, proprio per il ruolo che ricopre, dovrebbe favorire pace e concordia, anche quando gli avversari appaiono duri e intransigenti.
Atteggiamenti come quelli di don Silvio Barbaglia, nel suo libro La favola di Cascioli www.lanuovaregaldi.it/doc/evento/Cascioli.pdf, tradiscono una pretesa che oggi ha sempre meno ragione di esistere: quella del monopolio interpretativo da parte della Chiesa romana in relazione alle verità cristiane e al fenomeno religioso in generale.
Una questione di metodo
Considerando che le fonti neotestamentarie da tempo gli esegeti più scrupolosi stentano a reputarle come assolutamente autentiche o attendibili (in fondo è stato proprio dal dubbio che è nata la critica testuale), non c'è alcun bisogno di inveire contro chi propone ipotesi o anche tesi interpretative divergenti da quelle ufficiali o tradizionali (che in Italia, come noto, coincidono con quelle ecclesiastiche).
Alla fin fine si tratta di un punto di vista contro un altro, per cui, se non vogliamo tornare ai tempi bui delle scomuniche, dovremmo lasciare ai lettori o addirittura alla storia il compito di stabilire quale versione dei fatti sia la più vera o verosimile. Rispondere a delle pretese esegetiche, che in effetti possono anche apparire dogmatiche, con altre non meno perentorie, non aiuta certo lo sviluppo della ricerca e dello spirito critico.
La mancanza di serenità interiore, quando si affrontano argomenti così cruciali per le sorti di convinzioni religiose radicate nei secoli, tradisce stati ansiogeni, di risentimento o di paura, che non si addicono a chi fa dell'indagine critica una delle ragioni della propria vita.
Una questione di merito
Forse il Cascioli può aver esagerato negando l'esistenza storica al Cristo (cosa che prima di lui molti altri hanno fatto), ma perché non ammettere che persino negli ambienti cattolici più avanzati si dà per acquisita la differenza tra “Gesù storico” e “Cristo della fede”?
Al giorno d'oggi diventa quanto meno discutibile usare argomentazioni a favore del “Cristo teologico” per sostenere delle tesi a favore del “Gesù storico”.
Sono piani diversi, che non dovrebbero legittimarsi a vicenda, non foss'altro perché tale distinzione è frutto di studi condotti con rigore scientifico in ambienti protestantici stimati in tutto il mondo, che per molti aspetti hanno portato a considerare le fonti neotestamentarie quanto meno imprecise, ambigue, reticenti, se non addirittura fuorvianti: il che ha finito con l'aprire la strada a una visione del tutto laica e razionale della vicenda legata al nome di Cristo.
Prima della Scuola di Tubinga non si sospettava neppure che potesse esistere una differenza tra “Gesù storico” e “Cristo della fede” (ancora oggi gli ortodossi la rifiutano, e a non torto, poiché sanno benissimo che se si approfondisce quella differenza si rischia di far cadere tutto il castello di carte false costruito intorno alla figura di Gesù, la prima delle quali è quella relativa all'identificazione di “tomba vuota” e “resurrezione”).
Dunque il Cristo potrà anche essere esistito, ma certamente non assomiglia a quello rappresentato nel Nuovo Testamento, dove il suo messaggio di liberazione nazionale è stato sostituito, a partire soprattutto da Paolo, da uno di redenzione universale.
Una questione politica
Qui però se si entrasse nel merito di tutte le questioni affrontate nel testo di Barbaglia, il discorso diventerebbe molto lungo.
Si può semplicemente osservare che ogniqualvolta si nega un qualunque valore alla tesi secondo cui il Cristo (o chi per lui) sarebbe stato un politico rivoluzionario, e che furono i suoi discepoli (o forse solo alcuni di essi, quelli che alla fine prevalsero) a trasformarlo in un redentore morale, di fatto si finisce con lo schierarsi apertamente dalla parte di chi non ama che vengano messi in discussione i poteri politici acquisiti della Chiesa romana.
Una posizione del genere, per quanto documentata e forbita possa presentarsi al lettore, non ha alcun valore esegetico. Infatti se un intellettuale cattolico deve limitarsi a usare le migliori acquisizioni della critica redazionale protestante solo allo scopo di difendere uno status quo clericale, allora sarebbe quasi meglio che affidasse unicamente alla forza della fede e della tradizione – come fanno appunto gli ortodossi – il valore della propria confessione.
Gli intellettuali cattolici, sotto questo aspetto, appaiono come lacerati da un conflitto di coscienza: non hanno il coraggio protestante di un affronto disincantato delle fonti neotestamentarie e non hanno neppure il coraggio ortodosso di sostenere che la forza della fede non può poggiare su princìpi politici.
Una questione ermeneutica
Purtroppo il Barbaglia, preso com'è a difendere privilegi acquisiti, non s'è accorto che quando si vuole sostenere con caparbietà la tesi secondo cui le fonti cristiane a nostra disposizione sono antichissime, risalenti addirittura al I secolo, quindi vicinissime ai fatti narrati; quando si vuole sostenere questo, proprio allo scopo di dimostrare che i cristiani credettero subito nella resurrezione del Cristo e nella sua figliolanza divina, e che quindi non ci fu affatto una falsificazione tardiva, operata quando tutti i protagonisti della prima generazione erano già morti, non ci si accorge che se davvero le fonti storiche risalgono al I secolo, noi dobbiamo inevitabilmente concludere che la falsificazione del messaggio di Cristo iniziò subito dopo la sua morte, tra i suoi stessi seguaci, all'interno o di fronte a quella inspiegabile tomba vuota.
La tesi di questi intellettuali cattolici si ritorce come un pericoloso boomerang contro la stessa credibilità della Chiesa cristiana, la quale verrebbe a poggiare le propria fondamenta su una falsificazione ancora più antica di quello che si credeva.
Il Nuovo Testamento è nato per rassicurare i Romani che i cristiani non erano “nazionalisti” come gli ebrei, ma “cosmopoliti”; non erano interessati alla “politica” ma alla “religione”; non si rivolgevano “alla carne e al sangue” ma alle “potenze dell'aria”.
Oltre Cascioli?
Posta tale questione ermeneutica, ci si può chiedere, rivolgendosi a Cascioli e ai suoi epigoni: per quale motivo, se si accetta l'idea di un messia ebraico eversivo di duemila anni fa, non c'è modo di riferirla a una figura come Cristo e si può al massimo riferirla a un personaggio extracanonico come Giovanni di Giscala? Perché temere che, nell'utilizzare le medesime fonti neotestamentarie, non si sarebbe potuto ugualmente dimostrare la presenza di tale aspetto eversivo nella predicazione del Cristo? L'esegesi laica odierna, alla luce della moderna critica testuale, non è forse in grado di stabilire con relativa sicurezza che i vangeli, pur avendoci tramandato un Cristo del tutto spoliticizzato, contengono aspetti che si possono interpretare molto diversamente?
Gli intellettuali laici hanno forse timore di farsi mettere in crisi dalle osservazioni di Barbaglia, che si diverte a ridicoleggiare le tesi dell'agronomo Cascioli, ipotizzando soluzioni interpretative opposte? Così infatti scrive nella nota 103: “Per quanto i cristiani dei primi secoli avessero la preoccupazione di mostrare un'immagine forte di un cristianesimo battagliero contro l'eresia, attribuendo azioni di coraggio agli apostoli e mettendo in bocca parole violente allo stesso Gesù al fine di legittimare una propria guerra di religione, non sono riusciti ad occultare la vera essenza del messaggio e della prassi di Gesù e del suo gruppo, di natura pacifica e non violenta, in opposizione all'uso della forza e secondo una separazione radicale tra Cesare e Dio!”.
Peccato che il Barbaglia non ci dica dove i cristiani avrebbero fatto questo, quando si sarebbero comportati così. Questo gioco delle possibilità teoriche astratte poteva andare bene tra i sofisti al tempo di Socrate: di fatto tutto il Nuovo Testamento presenta il Cristo e i cristiani in maniera tale che i poteri dominanti (quelli romani) potevano dormire sogni tranquilli.
Oltre Barbaglia?
Contestare Cascioli per aver detto che il Cristo dei vangeli non è mai esistito, e ribadire la tesi del Cristo redentore, rispecchia una posizione superata, che non fa progredire di un millimetro la ricerca storica.
È assurdo pensare che non ci possono essere falsificazioni intorno alla vicenda di Cristo proprio perché il soggetto in questione è “figlio di Dio”! O che una tesi non ha alcun valore argomentativo finché non è dimostrata da fonti storiche inoppugnabili.
Noi viviamo a duemila anni di distanza dai fatti che vogliamo cercare di capire. Persino di fronte a un incidente stradale di cui siamo testimoni oculari, spesso dobbiamo costatare versioni opposte.
Dunque, se può anche essere giusto contestare a Cascioli il fatto che quando si considera irreale l'esistenza storica del Cristo evangelico, ciò di per sé non può implicare che non sia esistito un Cristo politicamente impegnato, si sarebbe comunque fatta più bella figura formulando nuove domande interpretative: p.es. perché la rivoluzione del Cristo fallì? Perché dopo la sua morte non fu proseguita? Perché si fece di un evento politicamente insignificante (la tomba vuota) il fulcro di tutta la sua predicazione? Se la rivoluzione di Cristo fu politica e non religiosa, come si configura il ruolo di Giuda?
Ma se da Nazareth non può venire nulla di buono, potrà venire qualcosa di buono da un seminario di Novara?
Addendum
Le argomentazioni con cui si cerca di spiegare il significato di un testo, o hanno un valore in sé o non ce l'hanno. Cioè non ha senso dire che hanno valore perché qualcun altro le supporta. Questo modo di ragionare è fideistico, nel senso che si ritiene credibile un'osservazione solo perché un'autorità superiore l'ha già detta in precedenza o l'ha confermata successivamente.
Lo si ritrova, tale modo di fare esegesi, soprattutto nel mondo “cattolico”, dove si dà più importanza al magistero che non al libero esame. Paradossalmente lo si ritrova anche nell'enciclopedia Wikipedia, là dove si pretende che per ogni tesi affermata si citi almeno una fonte da cui è stata presa. Come se la “fonte” sia una cosa dogmatica, vera per definizione, quando tutti sappiamo che non c'è fonte che non possa essere oggetto di opposte interpretazioni. La riprova di ciò è data proprio dal fatto che quando uno cita le proprie fonti, a sostegno delle proprie tesi, subito interviene un altro a dire che quelle fonti sono poco attendibili.
Onde evitare inutili polemiche sulla questione delle fonti e delle interpretazioni che se ne danno, un esegeta laico del Nuovo Testamento, indicativamente, dovrebbe assumere il seguente criterio ermeneutico: tutte le fonti o le esegesi di tipo confessionale, quelle che vedono in Gesù un extraterrestre dotato di poteri sovrumani, cioè di onnipotenza, onniscienza, preveggenza..., capace di dominare la natura, capace di rivendicare un'esclusiva figliolanza divina e cose simili, sono tutte fonti o interpretazioni che non valgono assolutamente nulla, per cui si possono tranquillamente trascurare. D'altra parte gli stessi esegeti confessionali contemporanei quando mai si mettono a leggere le opere dei Padri della Chiesa o dei teologi controriformisti per interpretare criticamente i vangeli?
Personalmente faccio fatica ad accettare anche una critica meramente testuale o filologica, priva di un rimando significativo al contesto storico in cui il testo è stato prodotto, ovvero all'origine motivazionale che l'ha generato. In altre parole, se un esegeta, tanto per fare un esempio, arriva a scoprire, filologicamente, che il tema dell'onniscienza di Gesù, nel racconto della Samaritana (quello per cui egli è in grado di rinfacciarle d'aver avuto cinque mariti), è stato inserito tardivamente da un anonimo redattore, ma non arriva a capire che tutto il tema dell'“acqua viva” non aveva alcun contenuto religioso, ma solo simbolico, non dà un contributo significativo all'esegesi laica dei vangeli. I limiti della filologia assomigliano ai limiti della sintassi rispetto alla semantica nello studio della grammatica. Una qualunque proposizione non è che sia semanticamente comprensibile solo perché è sintatticamente corretta.
II
La difesa di don Silvio Barbaglia1
Una questione di “stile”, appunto!
1) Parto dalla prima questione di Galavotti, quella dello “stile”. Egli pensa allo stile del mio scritto in termini moralistici, si scandalizza che un educatore possa dare così il cattivo esempio ai suoi educandi. L'unica cosa giusta del punto di Galavotti è il titolo: “questione di stile”! È in effetti una questione di “stile”, ma di stile letterario, di genere letterario usato! Il genere letterario usato è abbastanza palese a chiunque si accosti a leggere il mio La favola di Cascioli. Inconfutabile dimostrazione dell'infondatezza delle tesi dell'agronomo Luigi da Bagnoregio (scaricabile in www.lanuovaregaldi.it). Chiunque vedrebbe che la struttura retorica retrostante è funzionale al “rispedire al mittente” ogni accusa che il Cascioli rivolge alla Chiesa cattolica. Il titolo, il sottotitolo, l'utilizzo della professione di “agronomo” per inquadrare la persona che dibatte in tema di storicità del cristianesimo, l'uso dell'aggettivo “inconfutabile” più volte ribadito, il richiamo ai “falsari” e le denunce a don Enrico Righi, che si adattano meglio al Cascioli che al Righi… il tutto per configurare un “teorema”, appunto il “teorema di Cascioli”. Rimandare al mittente tutte le accuse rivolte nei confronti della Chiesa cattolica era l'istanza retorica retrostante all'intero testo “semiserio” e neppure di difficile decifrazione. Anche usando toni potenzialmente offensivi con chi, senza mezzi termini, li ha usati per anni, attraverso pubblicazioni, sito Internet e media nazionali e stranieri. Sia chiaro che non è stato certo un sentimento di livore o di rabbia che ha prodotto quello scritto. No, per il semplice fatto che: primo, neppure conosco personalmente Cascioli; secondo, mi sono attenuto il più possibile al genere letterario volutamente polemico, ben cosciente di suscitare provocatoriamente la questione per un giusto dibattito (sebbene questo abbia superato anche le mie attese). Ogni contesto comunicativo prevede dei codici. Pensando di lanciare la cosa in Internet e conoscendo i dibattiti in atto, ho valutato che questa forma comunicativa potesse essere efficace per la finalità che mi ero preposto: mostrare l'infondatezza delle tesi sostenute da Luigi Cascioli seguite ad occhi chiusi da tantissime persone... Certamente, se avessi pensato ad una pubblicazione scritta – in luogo di quella elettronica per fruizione via Internet – avrei dato forma e contenuto assolutamente diversi, soprattutto mi sarei dovuto rivestire direttamente della modalità tipica della pubblicazione scientifica come regolarmente faccio quando pubblico in tema di scienze bibliche.
2) Solo la distinzione chiara tra “autore reale” e “autore implicito” (guadagno delle scienze del linguaggio e dell'ermeneutica letteraria del sec. XX) riesce a far giustizia di un giudizio fondato sul secondo procedimento messo in atto. Senza conoscere l'autore reale e senza documentarsi (…bastava anche solo scrivere il mio nome e cognome in un motore di ricerca e sarebbe stata abbondante la mole di possibilità di giudizio su altri aspetti del sottoscritto) è facile lasciarsi andare a giudizi complessivi sull'autore reale che procedono proprio soltanto dall'unico testo letto (dove parla l'autore implicito), con il rischio di non cogliere la logica sottesa, di carattere retorico, rispondente ad un genere letterario preciso.
Il caso di Luigi Cascioli invece è diverso, perché egli non solo ha scritto un libro e lo ha fatto stampare per diffonderlo (quindi con “pretesa” ben diversa da quella del sottoscritto), ma è a capo di un intero sito (www.luigicascioli.it), rimanda a link ad altri siti analoghi per acredine contro la Chiesa cattolica, è ripreso dai motori di ricerca su circa 60.000 link in tutto il mondo, sempre e solo per quest'unica battaglia contro la Chiesa cattolica. In quel caso, posso dire, senza grossi timori di essere smentito, che il Cascioli ha fatto della battaglia contro il fondamento del cristianesimo (Gesù Cristo mai esistito!) e contro la Chiesa cattolica la sua ragione di esistenza in questi anni. La continuità tra le caratterizzazioni dell'autore implicito e dell'autore reale qui è maggiormente verificabile. Possiamo quindi affermare che anche l'istanza del “lettore implicito” del mio testo – ovvero il progetto di lettore di cui il testo si fa portatore –, corrisponde chiaramente a questo Luigi Cascioli, qui appena tratteggiato, in compagnia di tutti coloro che ne condividono lo stile e i contenuti e, tra questi, evidentemente anche Enrico Galavotti. La differenza quindi è che il sottoscritto si è rivestito di quella vis polemica al fine di usare uno stile simile ma con contenuti diversi di chi vuole condurre solo una “battaglia contro”.
In sintesi, la scelta del genere utilizzato e dello stile sono stati voluti per raggiungere finalità che, come si sa, non solo non convincono facilmente soprattutto chi si oppone alle tesi sostenute, ma addirittura, creano fastidio e repulsione in personalità con carattere pacato che non amano la polemica “contro” o in chi si oppone risolutamente alle tesi esposte; fastidio e repulsione che si manifestano in vari modi, da considerazioni etiche professionali (come Enrico Galavotti), legate al “buon esempio” dell'educatore alla svalutazione del contenuto del testo, per acredine e polemica gratuita (come tra i commenti letti nei blog e nei forum).
Una questione di metodo, appunto!
La critica a Luigi Cascioli non è certo stata elaborata dal sottoscritto perché sosterrebbe tesi discordanti dalle mie, bensì per il metodo usato funzionale al dogmatismo storiografico tra i più radicali che abbia mai riscontrato. Le sue sono asserzioni prive di documentazione, senza una sola citazione bibliografica ma sempre dogmatiche. Le verifiche svolte con acribia su porzioni del suo testo mostrano imprecisioni, pressappochismi impressionanti…
Il mio scritto dovrebbe essere sufficiente a mostrare tutto questo: smentirlo è possibile, certo, ma portando prove e non solo affermazioni generiche e apodittiche “alla Cascioli”. Ci sono dei riferimenti che vanno oltre l'opinione, la documentazione offre una sua base di oggettività. Anche i più radicali decostruzionisti riconoscono anch'essi una resistenza oggettiva del testo in opposizione ad una teoria radicale di interpretazione infinita. Quindi nella ricerca storica si procede vagliando, documentando, ragionando… Quando si mettono in campo questi aspetti metodologici è possibile un'intesa, diversamente è dogma allo stato puro. Il libro di Cascioli è una forma di scrittura ex-cathedra. Il mio, in molte sue parti, ne imita lo stile con la finalità di relativizzare la pretesa dogmatica. E poi sarebbe la Chiesa ad essere dogmatica!
Gli stati ansiogeni o di serenità interiore evocati dal Galavotti, infine, sono certamente da riferirsi al Cascioli, a meno che egli non abbia capito la forma letteraria del mio scritto che, nella sua composizione, ha provocato in me tutt'altro stato d'animo: oltre ad avermi impegnato mi ha anche divertito. Ma senza minimamente dubitare che quel titolo di “agronomo” dato al Cascioli avrebbe potuto suscitare sentimenti di discriminazione culturale poiché l'agronomia è appartenuta alla sua formazione e alla sua professione. Io dovrei offendermi se mi danno del “prete”? Penso proprio di no. Nessuno vieta ad un agronomo di essere esperto di storia antica, di origini del cristianesimo e di scritture, ma lo deve dimostrare. E viceversa: nessuno vieta ad un esperto di filologia biblica di minare alla base i cardini fondamentali della scienza agronomica, ma lo deve mostrare non basta “sparare”. Per chi è del mestiere è più facile collocarsi nei dibattiti alti, per chi non lo è deve conquistarsi il posto mostrando le competenze. Questa non è discriminazione ma metodo scientifico normale in tutti i campi della conoscenza. Cascioli invece ha dimostrato il contrario! Mi si dica, con cognizione di causa, dove e in che cosa nel suo libro e nel suo sito il Cascioli si mostra uno “studioso” nell'accezione tecnica del termine!
Una questione di merito, appunto!
Sul “Gesù della storia” e il “Cristo della fede” siamo di fronte a tre secoli di discussioni che non possono essere qui ripresi. Il mio scritto non prendeva in considerazione tale tematica ma solo la dimostrazione che le due prove avanzate dal Cascioli (che avevano la pretesa di mostrare in modo inconfutabile la non esistenza storica di Gesù) erano così deboli da mostrarsi esse stesse capi d'accusa contro lui medesimo al posto di don Enrico Righi: ovvero l'accusa di abuso di credulità popolare e di sostituzione di persona. Un autogol che pochi sarebbero stati capaci di congegnare.
In ogni caso se il sig. Galavotti desidera leggere che cosa penso sinteticamente in merito alla questione complessa del “Gesù della storia” e del “Cristo della fede” può scaricarsi il testo di recensione al libro di C. Augias e M. Pesce, Inchiesta su Gesù in: lanuovaregaldi.it/doc/evento/Recensione%20Pesce%20e%20Terza%20ricerca.pdf dal titolo: In margine alla discussione del libro-intervista di Corrado Augias - Mauro Pesce.
Una questione politica, meglio “fantapolitica”!
Volere etichettare – nel caso: intellettuale cattolico – senza entrare nel merito della discussione, delle prove, dell'oggetto stesso è volere sfuggire dal tema trattato. Il sig. Galavotti che procede con i classici cliché ed etichette attribuisce al sottoscritto interessi di politica ecclesiale garantista di poteri acquisiti a partire già dalla forma della cristologia del redentore morale contro il rivoluzionario politico.
Da parte mia nessuna di queste preoccupazioni, ma solo quella della ricerca attraverso studi di settore approfonditi, le fonti, andando ai testi originali, consultando i manoscritti antichi, fino a leggere i facsimili di tutti gli antichi manoscritti dei primi secoli. Gli intellettuali cattolici sono molto più vari, seri e liberi di quanto pensi Enrico Galavotti che trovo, lui sì, molto più “fatto con lo stampino” dell'homolaicus segnatamente anticlericale. Sento più varietà di gusto e di prospettive nel cattolicesimo e molta più libertà di pensiero…
Una questione ermeneutica, ma quale ermeneutica?
Si parla di falsificazione del cristianesimo. Non so a quali intellettuali cattolici si riferisca il Galavotti. Io so solo che se il riferimento è all'ambito scientifico della Terza ricerca (Third Quest), allora è possibile intenderci su un piano almeno comune di ermeneutica storica; se invece si vogliono fare degli scoop, allora è un altro paio di maniche, ma l'ermeneutica è un'altra cosa. I criteri storiografici del Cascioli sintetizzati al termine del mio scritto ben si attagliano anche al Galavotti se non documenta ma asserisce soltanto.
Oltre Cascioli? Speriamo!
Quando la storia si scrive sapendo già come deve andare a finire ancor prima d'avere ricercato è una storia smaccatamente ideologica. Che Gesù fosse un rivoluzionario politico è un'ipotesi di lavoro vecchia come la storia della ricerca sulla vita di Gesù. Più nessuno resta stupito da questa posizione. Si resta stupiti quando la si afferma ritenendola “oro colato”, verità assoluta. Tale posizione è stata teorizzata, smontata, contestata e oggi, in ambiente scientifico della “Terza ricerca” quasi più nessuno ritiene possa essere un ambito significativo per interpretare la figura del rabbi Gesù. Ecco il senso dell'“ipotesi al contrario” della nota 103. Basta essere convinti di un'idea, poi i documenti e i testi che in qualche modo danno ragione all'ideologo si trovano, anche attraverso contraffazioni, citazioni inventate, personaggi creati ad hoc… Luigi Cascioli, abbiam visto, in questo è maestro non solo in Israele…
Oltre Barbaglia? Verso l'homolaicus Galavotti? Auguri!
L'oggetto del mio studio, che evidentemente Galavotti non ha considerato nelle sue articolazioni logiche e contenutistiche, non era la tesi del Cristo redentore, ma, lo ripeto, dimostrare l'infondatezza delle due tesi di Cascioli. Stop, solo questo! Se avessi dovuto considerare il problema del Gesù storico tout court o del Gesù come figlio di Dio, redentore, Signore, ecc. avrei avuto bisogno di ben altro spazio letterario. Capisco che sono queste le cose che interessano al Galavotti, perché in questo vorrebbe ribadire per l'ennesima volta che il Gesù della storia ha niente a che fare con il Cristo della fede. Tutte le domande che mi pone hanno già una risposta nella sua testa e nel suo cuore, perché appartengono non tanto all'euristica ma al prodotto già preconfezionato. Non voglio dunque rovinarglielo. Galavotti, infine, si domanda: “Ma se da Nazareth non può venire nulla di buono, potrà venire qualcosa di buono da un seminario di Novara?”. Beh, bisogna ammettere, che è l'unica parte del discorso di Galavotti divertente e simpatica. Auguri!
Piccola controreplica
Don Silvio Barbaglia non si rende conto che chiunque può interpretare le “Sacre scritture”, non solo i sacerdoti, i teologi, i biblisti, gli esperti in materia. Non vuole ammettere una cosa su cui si discute sin dai tempi dei primi vangeli apocrifi. E che, in questa interpretazione, uno studioso debba necessariamente partire dal presupposto che le fonti neotestamentarie sono manipolate, mistificate, interpolate, sono secoli che lo si dà per scontato. Interpretare alla lettera tali fonti è la cosa più sciocca di questo mondo, che non fa progredire di un millimetro l'esegesi critica. Non a caso Barbaglia predilige la “Terza ricerca”, cioè quella che più s'avvicina a un'interpretazione “confessionale” di quelle fonti e che vede nel Cristo un ottimo giudeo. E poi ha il coraggio di scrivere, pensando che questo rischio lo possano correre solo gli altri, gli “anticlericali”: “Quando la storia si scrive sapendo già come deve andare a finire ancor prima d'avere ricercato è una storia smaccatamente ideologica”.
III
Un intellettuale di stile non s'imbarbaglia
È incredibile che un insegnante dia del “moralista” a un altro insegnante (il sottoscritto) perché quest'ultimo s'è permesso di dire che non si può criticare una persona mettendo continuamente in luce le sue origini sociali, geografiche o gli studi scolastici che ha fatto in gioventù.
È come se io in classe dessi per scontato che uno studente di origine bulgara o marocchina o di provenienza rurale o montana non potesse fare altro che prendere un voto scadente. E siccome Barbaglia sostiene che sulla base di un certo stile letterario è anche possibile concedersi licenze di bassa lega, io in classe potrei tranquillamente prendere in giro gli stranieri, i contadini o i montanari, facendo leva sulle differenze nei livelli di apprendimento, rispetto agli studenti urbanizzati, figli di genitori laureati, posizionati e quant'altro.
Chissà perché non m'è mai venuto in mente di poter usare una “struttura retorica retrostante” con cui dileggiare chi, provenendo dalla montagna, si fa beffe della nostra civiltà inquinata o chi, provenendo dalla Bulgaria, mi dice che la religione ortodossa non riconosce l'autorità del papa.
Interessante inoltre la teoria pedagogica secondo cui è sempre bene mettersi allo stesso livello di chi ci sta di fronte, anche nei casi in cui forse un maggiore distacco avrebbe aiutato meglio il lettore a capire da solo la fondatezza delle tesi dei rispettivi contendenti.
Personalmente non riesco neppure a capire chi abbia stabilito che il digitale meriti meno riguardi del cartaceo, poiché, proprio sulla base di questa erronea percezione di valore, un intellettuale come Barbaglia si è sentito autorizzato ad usare uno stile volutamente polemico. Davvero gli avversari semplicemente “telematici” non hanno credenziali sufficienti per essere trattati con maggiore rispetto?
Peraltro lo stesso Barbaglia è costretto ad ammettere che le tesi di Cascioli vengono “seguite ad occhi chiusi da tantissime persone”. Dunque perché usare uno stile così basso nei confronti di decine o forse centinaia di persone, che hanno deciso di proseguire autonomamente nei loro siti e blog le tesi di questo famoso “agronomo”? Solo perché appartengono al web? Eppure lo stesso Barbaglia si chiede perché io non abbia usato, guarda caso, proprio un motore di ricerca per verificare se lui stesso in altri testi non avesse usato uno stile più scientifico. E, di grazia, mi si vuole spiegare il motivo per cui un intellettuale che normalmente scrive in maniera scientifica, improvvisamente debba scadere in un linguaggio da bar quando ha a che fare con un polemista agguerrito ben presente nel web nazionale e internazionale?
O forse la risposta a questa domanda sta nel fatto che Cascioli, secondo Barbaglia, non merita uno stile scientifico quando lo si critica, in quanto lo stile da lui usato è soltanto provocatorio e denigratorio nei confronti della Chiesa? Ma allora perché uno scienziato deve darsi tanto da fare per un testo e un sito che in fondo potrebbero anche giudicarsi da soli? Quanto tempo durano le cose non sufficientemente motivate e fondate? Non sarebbe forse stato meglio ignorarle?
Evidentemente non si poteva e forse proprio perché qui si ha a che fare con “un sito ripreso dai motori di ricerca su circa 60.000 link in tutto il mondo”. Cascioli è così famoso che secondo Barbaglia lo stesso autore del sito homolaicus.com “ne condivide lo stile e i contenuti”. Accidenti che svista prof. Barbaglia! Rimproverare a me di non saper distinguere tra “autore reale” e “autore implicito”, solo per il fatto di non aver digitato il suo nome in un motore di ricerca, e cadere nella stessa svista subito dopo, non mi sembra un atteggiamento molto “scientifico”: io di Cascioli non condivido né lo stile né i contenuti, e se lei avesse usato un qualunque motore di ricerca si sarebbe accorto che da un decennio in rete ho assunto, in merito all'analisi delle fonti neotestamentarie, una posizione più “storicistica” che “mitologistica”.
E comunque rinfacciare al Cascioli di usare “una forma di scrittura ex cathedra” quando fino alle ricerche protestanti in materia di esegesi la Chiesa romana era proprietaria di una forma analoga, mi pare quanto meno ingeneroso. Sono innumerevoli i libri che detta Chiesa ha vietato di leggere dal 1558 fino al 1966 (ci sono anche alcune opere di Dante Alighieri, Rosmini e Gioberti!).2 Sarebbe stato sufficiente sostenere che a dogma non si risponde con dogma e non che le interpretazioni cattoliche del dogma cristiano sono più vere di quelle laiciste.
Vorrei qui chiudere la questione dello stile riportando questo infelice interrogativo di Barbaglia: “Io dovrei offendermi se mi danno del 'prete'?”. Personalmente mi chiedo se una domanda del genere sia sufficiente per considerare lecito il fatto che lei abbia dato del “rurale”, dell'“agronomo”, dell'“agrario” a uno studioso del cristianesimo? Temo che questa finta ingenuità non faccia che peggiorare i fastidi di “moralisti” come me.
Per quale ragione infatti lei dovrebbe considerare la parola “prete” un epiteto? Non è forse il suo mestiere? Tra l'essere sacerdote e studioso del cristianesimo vede forse molta differenza? Non ha forse considerato il lavoro intellettuale come una naturale conseguenza di una vocazione interiore?
È strano che un intellettuale come lei, che pur si è accorto che la maggior parte delle tesi di Cascioli non sono farina del suo sacco ma derivate da autori stranieri, non sia arrivato a immaginare che questi stessi autori possono aver documentato ampiamente le loro tesi. E allora che dire di costoro? Che, pur non essendo “agronomi”, restano degli incompetenti?
Vorrei qui aggiungere che indubbiamente è vero che Cascioli è un novizio rispetto ai grandi esegeti critici del cristianesimo primitivo e che si serve di fonti per lo più francesi, che oggi, nel loro accanito positivismo, consideriamo superate, in quanto preferiamo assumere atteggiamenti più possibilisti circa l'autenticità di una figura storica come il messia Gesù, per quanto enormemente mistificata dai redattori cristiani; ma è anche vero che nel generale torpore in cui versa l'atteggiamento laico verso le fonti neotestamentarie, più predisposto verso l'indifferenza agnostica che alla critica puntuale, i lavori editoriali di Cascioli, nonché di Donnini, hanno determinato un piccolo terremoto nel web nazionale, al punto che oggi è praticamente impossibile non vedere come la critica del cristianesimo primitivo ha assunto proporzioni preoccupanti per una Chiesa abituata da sempre a gestire le verità di fede in termini prevalentemente politici o comunque monopolistici.
Quanto al resto, Barbaglia sa sicuramente meglio di me che gli eventi storici influiscono sulle motivazioni dei ricercatori: quando spopolavano le idee del socialismo, l'interpretazione che si dava del Cristo era quella di un rivoluzionario; oggi che domina il neoliberismo si è tornati a parlare di Cristo redentore e profeta. Ed entrambe le versioni sono state sempre ampiamente documentate. Dunque non è affatto vero che il tempo, di per sé, rende superate determinate tesi; semmai quelle che paiono più convincenti vengono riprese e riformulate (come fece la Scolastica con l'aristotelismo o l'Umanesimo col platonismo).
Lo sa bene anche la Chiesa, che quando ha a che fare con teologi del calibro di Hans Küng, Jacques Pohier, Edward Schillebeeckx, Leonardo Boff, Charles Curran, Tissa Balasuriya, Anthony de Mello, Reinhard Messner, Jacques Dupuis, Marciano Vidal, Roger Haight, Jon Sobrino, Uta Ranke-Heinemann fa presto a scomunicarli o a sospenderli dall'insegnamento.
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Cascioli rappresenta la vecchia esegesi positivistica francese, che in Russia si chiamava mitologista, e che partiva dal presupposto dell'inesistenza di Cristo. Questa esegesi si oppone non solo a quella confessionale ma anche a quella storicista di derivazione laica, che parte infatti dal presupposto di questa esistenza, pur mettendo in discussione l'interpretazione datane da tutto il cristianesimo (cioè dal Nuovo Testamento a oggi, con parziale esclusione di quella dei teologi della liberazione).
Indubbiamente i mitologisti fan bene ad affermare che non si può sostenere l'esistenza del Cristo sulla base dei soli vangeli canonici, ma se ci si ferma a questo non si riesce a fare il passo successivo, che è quello di cercare di capire non tanto la falsificazione quanto piuttosto la mistificazione. C'è differenza tra le due cose: per i mitologisti si tratta solo di falsificazione, per gli storicisti invece c'è di mezzo la mistificazione, che è una falsificazione compiuta su cose realmente accadute.
Portando alle estreme conseguenze le tesi dei mitologisti si arriva a dover concludere che la falsificazione altro non è stata che una pura invenzione di fatti mai accaduti. I vangeli cioè vengono paragonati a una sorta di Donazione di Costantino, con cui comunque la Chiesa s'assicurò per ben 700 anni il dominio temporale del papato.
IV
Videmus nunc per speculum in enigmate
Queste riflessioni vogliono essere un commento alle osservazioni critiche che don Silvio Barbaglia ha fatto al testo di C. Augias - M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l'uomo che ha cambiato il mondo, ed. Mondadori, Milano 2006.
Il valore della fede
Testi come quello di Augias-Pesce, oggi sempre più numerosi, rendono esplicito un fatto che alla Chiesa romana piace sempre meno, e cioè che un'analisi storica delle fonti neotestamentarie può salvaguardare una certa “fiducia” nei confronti dell'uomo-Gesù, rinunciando però del tutto alla “fede” nel Cristo figlio di Dio. Di fatto la “fede personale” non solo si presenta come ingrediente del tutto inutile nell'indagine storica di quelle fonti, ma addirittura diventa fuorviante, in quanto impedirebbe una qualunque reinterpretazione critica di quelle stesse fonti.
In effetti, dando per scontato che gli aspetti religioso-confessionali siano all'origine della predicazione del Cristo, appunto perché così essi appaiono nelle fonti cristiane più antiche, gli esegeti credenti non riescono ad accettare che uno storico possa mettere in discussione tale postulato. E per loro, non rassegnati all'idea della fine di un loro monopolio interpretativo delle verità cristiane, è dunque difficile pensare che sulla base di questo postulato si possa impostare un confronto che porti a risultati convergenti.
Don Silvio Barbaglia p.es., per il quale la prova della verità delle fonti neotestamentarie sta proprio nel fatto che esiste ancora oggi una Chiesa che crede in quelle fonti, considera i racconti relativi all'ultima cena, quelli in cui – secondo la Chiesa – il Cristo dà per certo che verrà tradito e ucciso, come la quintessenza della nascita del cristianesimo, quando proprio in quei racconti la falsificazione redazionale raggiunge uno dei suoi massimi livelli. E dice questo senza rendersi conto che su molte parti di quelle stesse fonti vi sono interpretazioni discordanti persino all'interno delle stesse confessioni cristiane (si pensi p.es. al passo matteano sul cosiddetto “primato di Pietro”).
Ebbene, noi sappiamo che anche il mondo contadino ha creduto per millenni in tante verità agricole, trasmesse oralmente, ma questo non ha impedito alla borghesia di distruggerle con la forza. La differenza tra coscienza laica borghese e coscienza laica democratica sta proprio in questo, che oggi non si vuole distruggere con la forza alcuna verità, ma si vuole lasciare al libero dibattito la formazione di una consapevolezza critica del fenomeno religioso. È disposta la storiografia confessionale a un confronto del genere?
Ora, se è disponibile a un dibattito franco e aperto, perché, pur non chiedendo allo storico di aderire spontaneamente alla fede, essa pretende ch'egli non metta mai in forse la religiosità dell'evento Gesù? Per quale ragione uno storico laico deve accettare la tesi confessionale secondo cui non esiste un Gesù diverso da quello dei vangeli?
È stata la coscienza laica, non certo quella religiosa, ad aprire la ricerca sulle fonti neotestamentarie. Il fatto che siano state scoperte palesi incoerenze, inspiegabili lacune, stridenti contraddizioni dovrebbe indurre i credenti a guardare quelle fonti con più spirito critico e meno ingenuità.
L'approccio laico delle fonti cristiane non si pone come obiettivo politico quello di distruggere la fede (da tempo s'è capito che l'anticlericalismo sortisce sempre effetti opposti a quelli voluti), quanto quello di stabilire dei percorsi culturali in cui sia possibile muoversi liberamente, alla ricerca di una verità che non può più essere data per acquisita né può essere considerata appannaggio della sola fede. Starà poi alla coscienza di ognuno trarre le debite conseguenze.
Il valore delle fonti
Il fatto che esistano fonti prodotte dalla “fede” non deve portarci a considerarle del tutto inutili ai fini della ricerca storica della verità. Lo storico può sempre cimentarsi in una loro reinterpretazione, cercando di scoprire o almeno di ipotizzare dove e come è stata operata una falsificazione o manipolazione dei fatti.
Certo, si lavora sulla base di ipotesi, in quanto non avendo fonti alternative (di carattere laico) che ci diano un'altra versione dei fatti, non si può aver la pretesa di dire l'ultima parola sulla vicenda che ha visto coinvolto l'ebreo-Gesù. Forse l'unica fonte che mette in crisi l'intero impianto filoromano presente nei vangeli, i quali attribuiscono le maggiori responsabilità della morte del Cristo agli ebrei, è costituita dalla Sindone, che non ha subìto immediatamente le censure delle altri fonti proprio perché solo con la moderna tecnologia se ne è scoperto il vero contenuto politico (l'esecuzione di un rivoluzionario). In ogni caso per uno storico laico è meglio lavorare sul materiale che c'è dando per scontate le falsificazioni, piuttosto che non lavorarci affatto dando per scontato che sia tutto vero.
Alla storiografia laica interessa assai poco scoprire i veri autori di tutte le fonti protocristiane. Il Nuovo Testamento è stato scritto da Autori Vari, per lo più anonimi, che rappresentavano interessi comunitari diversificati. Non è questo che rende poco credibili quegli scritti. In genere non si considera propriamente “falsificato” un testo quando nel momento della riscrittura viene manipolato in qualche singolo aspetto. Questa operazione sarebbe meglio definirla col termine di “interpolazione”. La falsificazione vera e propria è una sorta di “mistificazione ideologica” e riguarda aspetti di fondo, sostanziali, dell'intero testo.
Nei confronti di questa falsificazione, su cui poggia l'intera struttura ecclesiastica, una posizione storiografia di tipo “confessionale” non è in grado di operare una ricerca scrupolosa, obiettiva… La storiografia clericale, se vuole restare tale, deve per forza accettare una preliminare falsificazione, quella appunto che le permette di restare clericale. Per la Chiesa cristiana studiare l'evento Gesù non è come studiare Giulio Cesare. Cristo non è solo un personaggio storico, ma anche un avvenimento che ha prodotto un movimento di credenti che, seppur non omogeneo, è attivo ancora oggi.
Gli storici laici non possono non rendersi conto che quando si esaminano le fonti neotestamentarie si è in presenza di testi il cui obiettivo era di creare una sorta di partecipazione popolare al potere costituito, in cui però gli aspetti politici dovevano apparire come mediati da un'istanza di tipo culturale, in quanto lo Stato romano veniva sì contestato a motivo del proprio integralismo politico-religioso a favore del politeismo pagano, ma non come ente preposto alla tutela del sistema schiavistico.
Questa forma di partecipazione popolare la Chiesa la definiva e ancora oggi la definisce di tipo “religioso”. Tant'è che studiosi come Barbaglia, anche se sono disposti ad ammettere che nell'evento Gesù vi fosse l'intenzione di trasformare radicalmente la realtà, non arrivano mai a chiedersi se tale intenzione abbia potuto essere, sin dall'inizio, di natura “non religiosa”: dunque – secondo lui – solo uno “storico di chiesa” può adeguatamente interpretare il cristianesimo.
In tal senso Barbaglia vorrebbe semplicemente limitare la ricerca storica all'individuazione di quegli aspetti formali che hanno differenziato le varie interpretazioni dell'evento Gesù, salvaguardando quella che può essere considerata ancora oggi la versione decisiva del fatto più fondamentale, quella appunto che il Cristo è risorto in quanto “figlio di Dio”. Cioè vorrebbe semplicemente riconfermare operazioni esegetiche già note, eventualmente con l'apporto dell'ermeneutica, senza mettere in discussione né la fede né la teologia.
Sotto questo aspetto ci rendiamo conto che una qualunque discussione critica, con un uomo di fede, sulle fonti cristiane, rischia di diventare una fatica sprecata. Infatti, per quanto illuminata possa essere la sua posizione, sarà sempre minata da un vizio culturale di fondo, quello appunto della fede, che se è necessaria per accettare il misticismo delle fonti cristiane, diventa del tutto inutile, e anzi fuorviante, quando si tratta di interpretarle. Meglio dunque sarebbe affrontare coi credenti temi extradottrinali, argomenti di carattere generale, utili alla società civile.
Un punto di vista strumentale
L'uso delle fonti storiche è sempre strumentale a un proprio punto di vista. Chi nega questa necessità, la riconferma tacitamente, quando difende il punto di vista della propria comunità d'appartenenza o di un'ideologia di riferimento cui si sente legato. Si tratta piuttosto di far sì che tale visione diventi un sentire comune, usando i metodi del libero confronto, senza alcuna eccezione.
È assurdo pensare che le fonti cristiane possano far valere la loro autenticità basandosi semplicemente sul fatto che la Chiesa ha duemila anni di storia (l'ebraismo, p. es., ne ha quattromila), anche perché all'interno della Chiesa stessa l'interpretazione delle medesime fonti non è mai stata univoca. A tutt'oggi le confessioni mondiali che si fronteggiano nell'esegesi delle fonti cristiane sono tre: ortodossa, cattolica e protestante (quest'ultima suddivisa in una miriade di comunità tra loro indipendenti).
Tutto quello che Barbaglia dice contro le intenzioni della storiografia laica (relativamente p.es. alla strumentalizzazione delle fonti) può essere tranquillamente ritorto contro la Chiesa stessa: l'atteggiamento strumentale non può essere il “peccato” di qualcuno in particolare. Già il semplice fatto che “esistano” delle fonti scritte dovrebbe indurre lo storico a porsi di fronte ad esse in maniera guardinga. Infatti da quando esistono le “civiltà” la storia non è mai stata scritta dai poteri “deboli” (che spesso non hanno neppure gli strumenti per scriverla). Se fra mille anni restassero in mano agli storici solo i film americani sugli indiani, che possibilità avrebbero di recuperare la verità originaria su quelle tribù? E se oggi esistesse una persona analoga a Gesù Cristo, con l'unica differenza che fosse preoccupata di mettere tutto per iscritto, al fine di non essere male interpretata, avrebbe forse più speranze di poter raggiungere i propri obiettivi?
Non è forse vero che qualunque cosa può sempre essere manipolata da chi sta al potere? E se questo potere trova dei seguaci convinti, degli eredi spirituali, non è forse vero che le manipolazioni possono andare avanti anche per decine di anni, addirittura per secoli? Ci sono voluti 700 anni prima di scoprire che la Donazione di Costantino era un falso patentato.
Un ricercatore non può non sapere che nell'ambito delle civiltà basate su interessi antagonistici, le idee dei fondatori di movimenti politici o religiosi facilmente vengono travisate, strumentalizzate o censurate dai loro epigoni. Se si accetta questo dato di fatto per un grande personaggio della cristianità come Francesco d'Assisi, tanto per fare un esempio, non si capisce perché lo si dovrebbe escludere nei confronti di Gesù Cristo.
Insomma, a uno storico laico poco importa se, non tenendo conto del carattere confessionale delle fonti neotestamentarie, egli rischia di ritrovare solo “se stesso” nell'analisi dell'evento Gesù. L'importante è dimostrare che ai fatti possono essere date interpretazioni diverse, la cui fondatezza sta unicamente nella coerenza argomentativa. Chi può dire a priori che qualunque interpretazione dell'evento Gesù che non voglia tener conto di aspetti religiosi precostituiti, preliminari a qualunque ricerca, sia destinata al fallimento? Stando alla storia è fallito piuttosto il progetto clericale di voler trasformare qualitativamente la realtà sociale sulla base della fede religiosa.
È incredibile che uno storico del cristianesimo primitivo, come Barbaglia, affermi che siccome l'interpretazione ufficiale dell'evento Gesù, tramandataci dalla storia, è stata di tipo confessionale, è impossibile sperare di poter ottenere, sulla base di quelle stesse fonti, un'interpretazione non-confessionale di quel medesimo evento.
Barbaglia in sostanza muove le sue argomentazioni all'interno di due paletti epistemologici ben strani, anche se comprensibili all'interno di una storiografia cattolica:
– le fonti cristiane rappresentano non solo l'interpretazione più vera dell'evento Gesù, ma anche l'unica possibile, al punto che se fosse del tutto falsa, non vi sarebbe alcuna possibilità di dimostrarlo;
– uno storico laico non può dir nulla di significativo sull'evento Gesù proprio perché è “laico” e, come tale, non è in grado di affrontare storicamente un evento di tipo religioso.
Questa epistemologia fa inevitabilmente venire in mente le pagine illuminanti di Orwell relative al “Bispensiero”. Per accettare le fonti cristiane occorre un atteggiamento di fede che deve restare di fede anche in presenza di dimostrazioni razionali che contraddicono i suoi postulati. “Se il tuo superiore ritiene che il nero sia bianco...”.
Non lo sa Barbaglia che è possibile risalire alla verità anche passando attraverso la falsità? E che, per chi davvero cerca la verità, duemila anni di falsificazioni son come un giorno?
Fonte interna e fonte esterna
Se vogliamo affermare – sulla scia di Barbaglia – che una fonte esterna ai fatti narrati è meno attendibile di una interna, ci sono mille ragioni per sostenere anche il contrario. La verità di una fonte non è cosa che possa essere dimostrata a priori o una volta per tutte, non è data neppure dalla presunta coerenza ch'essa ha coi fatti che intende rappresentare. Generalmente anzi una coerenza troppo stretta o stringente viene vista con sospetto dagli storici.
In astratto si può sostenere che una fonte può essere ritenuta autentica quando si può dimostrare che non è falsa, ma questa dimostrazione, dal sapore tautologico, è puramente tecnica e quasi priva di valore. L'autenticità che ci interessa non è tanto quella di attribuire con certezza la paternità o la data di un'opera, quanto piuttosto quella che offre un'interpretazione sufficientemente verosimile della realtà. Il quarto vangelo, p. es., viene attribuito falsamente a Giovanni, eppure ha alcune versioni dei fatti (la cacciata dei mercanti dal Tempio, la scoperta della tomba vuota ecc.) più convincenti di quelle di Marco, che è fonte primaria di Matteo e Luca.
Non solo, ma la verità dei fatti raramente viene scoperta soltanto attraverso le fonti, autentiche o meno che siano: occorre anche una loro continua reinterpretazione. Se Lenin non avesse scritto una riga e noi avessimo come fonte storica le sole opere di Stalin, noi non avremmo capito la fondamentale differenza tra leninismo e stalinismo. Questo tuttavia non ci avrebbe impedito, in maniera assoluta, di risalire alla verità dei fatti; certo sarebbe stato un lavoro più faticoso, ma alla fine qualcuno ce l'avrebbe fatta.
In ogni caso resta molto significativo che, pur in presenza di tante opere scritte da Lenin, non si sia potuto impedire allo stalinismo di travisarne il contenuto e di far prevalere un'ideologia antidemocratica: questo dovrebbe portarci a credere che una fonte scritta non offre maggiori garanzie di autenticità o minori rischi di falsificazione di una fonte orale.
Una fonte è sempre un'interpretazione dei fatti, anche quando presume d'essere una loro oggettiva descrizione. Dunque quella interpretazione, per essere meglio compresa, va sempre reinterpretata e non semplicemente, come fanno gli esegeti confessionali, chiosata, commentata, motivata. Gli avvocati, nel corso delle loro cause, conoscono benissimo questo principio ermeneutico.
Non ha più senso sostenere che quanto ha detto e fatto Gesù Cristo può essere stabilito solo prendendo le fonti canoniche così come sono (as is): quelle fonti infatti vanno continuamente reinterpretate, a prescindere da altri possibili ritrovamenti archeologici; anzi, nella misura in cui gli storici smetteranno di essere credenti, vi saranno sempre più nuove ipotesi esegetiche, che non avranno certo il timore, discostandosi dalle fondamentali tesi dogmatiche, di apparire “eretiche”.
D'altra parte uno storico non può essere così ingenuo da credere che un'interpretazione degli eventi cristologici, rifiutata dalla Chiesa sin dalle origini e quindi considerata “eretica”, sia di per sé più attendibile di quella canonica. Il trotskismo non costituiva certo una convincente alternativa allo stalinismo, ma questo non significa che non vi possano essere barlumi di verità o elementi che avvicinano alla verosimiglianza negli scritti che la storia ha considerato “minoritari” o “eterodossi”.
Oggi è importante sostenere che una qualunque indagine “critica” della vicenda del Cristo deve necessariamente partire da un affronto laico delle fonti, cioè da un affronto che non considera l'approccio di fede come il più idoneo a interpretare quella vicenda. Un approccio laico, p.es., esclude a priori tutti i racconti di resurrezione o di riapparizione di Gesù come fonti attendibili dei fatti, anche se si guarda bene dal cestinarli come non-fonti in quanto tali. Anche quei racconti vanno reinterpretati: la loro importanza non sta tanto in ciò che volevano dimostrare (nella fattispecie la rivivificazione di un corpo), quanto piuttosto nel modo in cui volevano dimostrare questa tesi.
Il fatto stesso che allora si avvertì l'esigenza di produrre racconti del genere sta necessariamente ad indicare che sulla questione della tomba vuota circolavano tesi diversificate, se non contrapposte, già nell'ambito dei primi discepoli del Cristo, e che al momento in cui quei racconti furono scritti, come tutti quelli inerenti alle cose fantastiche e sovrumane a lui attribuite, non poteva esistere più nessuno in grado di smentirli.
La stesura delle fonti
Indubbiamente sono state più comunità a redigere le fonti neotestamentarie: non sono opera di singoli redattori autonomi. A monte di quei testi vi sono comunità la cui ideologia, ad un certo punto, è divenuta maggioritaria tra i discepoli del Cristo. Lo sviluppo di questa canonizzazione non ha solo comportato profonde fratture tra le versioni laiche e religiose dell'evento Gesù, ma anche tra le stesse versioni religiose (il petrinismo p.es. non è certo uguale al paolinismo).
Se non fosse stato così, sarebbe impossibile spiegare il motivo per cui di tutti i discepoli evangelici alla sequela di Gesù, ne restano pochissimi negli Atti. In particolare risulta ancora oggi del tutto inspiegabile il motivo per cui l'apostolo Giovanni, che nel quarto vangelo viene definito con l'appellativo di “discepolo prediletto”, non abbia alcun ruolo negli Atti degli apostoli, pur essendo vicinissimo a Pietro subito dopo la scoperta della tomba vuota.
Ma di esempi come questi se ne potrebbero fare a iosa. Sicuramente una posizione come quella dell'apostolo Tommaso indicava una corrente realistica o materialistica all'interno della comunità post-pasquale. Molto misterioso è il ruolo politico e umano giocato da un personaggio come Lazzaro, citato solo nel vangelo di Giovanni.
È difficile pensare che la Chiesa, già per mezzo di Pietro, non abbia voluto ridimensionare le pretese politico-rivoluzionarie dei discepoli di Gesù. Pare anzi che l'esaltazione degli aspetti religiosi, in tutte le fonti neotestamentarie, sia direttamente proporzionale alla volontà di censurare gli aspetti politici della predicazione di Cristo. Anzi quella di servirsi di aspetti mistici o sovrannaturali (in primis i miracoli) per censurare o mistificare quelli politici, specie se eversivi, è una peculiarità di tutte le religioni. L'umanesimo religioso, quello con valenza etica, è stato usato dal cristianesimo proprio in contrapposizione al socialismo laico. L'ideologia religiosa, in tal senso, andrebbe considerata come un'interpretazione mistificata della realtà. Essa lo è oggettivamente, a prescindere dalle intenzioni di chi la usa.
Questo ovviamente non significa che un'interpretazione laica non possa essere mistificante (nella sua Storia delle dottrine economiche Marx smontò o decodificò una per una le teorie laico-borghesi dell'economia), ma sicuramente non lo è per i classici motivi religiosi (che sponsorizzano fenomeni mistici, soprannaturali o irrazionali), anche se dietro un'interpretazione laica mistificata spesso si celano condizionamenti di tipo religioso (quante volte si è detto che l'idealismo filosofico tedesco altro non era che una sorta di laicizzazione del protestantesimo?).
In ogni caso la “scientificità” di una ricerca storica non può essere data dall'aderenza alla volontà interpretativa dei fatti che avevano i primi cristiani, proprio perché il significato di quella volontà oggi viene sempre più messo in discussione (lo stesso Barbaglia fa risalire a Reimarus le prime operazioni di smontaggio laico del cristianesimo primitivo). Qualunque storico sa bene che non si è più “obiettivi” interpretando il redattore di una fonte così come lui vuole essere interpretato, anche se questa sua volontà, più o meno dichiarata, non può certo essere trascurata.
L'ebraicità di Gesù
L'ebraicità di Gesù sta nel carattere politico-rivoluzionario del suo messaggio, non certamente nel nesso di politica e religione. L'integralismo politico-religioso, a sfondo nazionalistico, gli era del tutto estraneo. E, se per questo, gli era ancora più estraneo lo spiritualismo mistico-cosmopolitico elaborato da Paolo di Tarso. In un caso non vi sarebbe stato nei vangeli il duro scontro del movimento nazareno con le istituzioni ebraiche (del Tempio: sadducei, sommi sacerdoti, anziani; e delle sinagoghe: scribi e farisei); nell'altro caso non vi sarebbe stato il faticoso e contrastato sviluppo del paolinismo, ben individuabile nelle Lettere e nella seconda parte degli Atti.
Sostenere, come fa Barbaglia, che gli storici laici “sottraggono arbitrariamente la figura di Gesù dal suo contesto giudaico originario”, quando un'operazione del genere è stata compiuta dalla Chiesa cristiana sin dai tempi di Paolo, fa specie in uno studioso qualificato delle fonti cristiane.
Conclusione
La storia non è uno specchio in cui ci si possa riflettere adeguatamente. Gli storici laici che danno interpretazioni non conformi all'obiettivo confessionale delle fonti neotestamentarie, non sono “selvaggi arbitrari disonesti”, ma, con le parole di Paolo, affermano: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia” (1 Cor 13,12). Il che, in parole evangeliche, voleva dire: “Lasciate che il grano e la zizzania crescano insieme fino alla mietitura” (Mt 13,30). Uno che insegna religione dovrebbe sapere queste cose.
(torna su)2) Gli studi di Mauro Pesce e Adriana Destro
I
L'enigma Gesù
È significativo che lo storico del cristianesimo primitivo Mauro Pesce abbia iniziato a revisionare a favore del misticismo le sue tesi laiciste a partire dalla fine degli anni Settanta, cioè proprio a partire dal momento in cui poteva essere considerata fallita l'idea di compiere una rivoluzione sociale in nome di un'idea religiosa, quella cristiana, così come l'avevano elaborata i Cristiani per il Socialismo, i Teologi della Liberazione, le Comunità di Base e tanti altri movimenti (per certi versi anche Comunione e Liberazione), più o meno condizionati o suggestionati dalle idee del socialismo scientifico.
Pesce ha compiuto anche la stessa involuzione che subirono i discepoli di Gesù nei confronti del loro maestro l'indomani della sconfitta del movimento nazareno e soprattutto della guerra giudaica: ciò a testimonianza che ogniqualvolta si rinuncia a trasformare politicamente la società o a porre i presupposti culturali perché se ne avverta la necessità, si finisce col diventare revisionisti, persino in direzione del misticismo.
E quando si diventa revisionisti, inevitabilmente si finisce col dire delle sciocchezze, come ad es. la seguente: “la distinzione tra religione e politica... è troppo contemporanea per essere applicata al mondo antico”.3 Come se il mondo antico non conoscesse minimamente il valore dell'ateismo! Come se gli inizi della filosofia greca siano stati di tipo religioso! Come se Socrate non fosse stato giustiziato proprio per la sua miscredenza! Come se il Buddismo sia nato come “religione per l'aldilà”!
Il vero motivo di questa sua affermazione è che, secondo Pesce, Gesù non poteva non essere “credente”: il che, detto così, è come se si dicesse che oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, non possiamo non dirci cristiani. Poi però, siccome il revisionismo è anzitutto negazione di una qualsivoglia politica o cultura anche solo un minimo eversiva, Pesce arriva ad aggiungere, cercando d'essere più realista del re, che Gesù non era neppure, nello stesso tempo, un uomo “politico” e un “credente”, come poteva esserlo p.es. un fariseo o, ancor più, uno zelote che lottava per la liberazione nazionale in nome della fede giudaica, ma era soltanto “radicalmente sociale e radicalmente religioso”, cioè in sostanza di “politico” non aveva proprio nulla. L'esegesi confessionale dei vangeli naturalmente ringrazia! Il bello è ch'egli spera proprio, in questa singolare maniera, di sfuggire all'accusa di “misticismo”, quella per cui si vuol fare del Cristo un individuo prevalentemente di tipo “religioso”.
Pesce è convinto d'aver trovato finalmente il vero volto di Cristo, che, secondo lui, di “politico eversivo” non aveva nulla e i cui aspetti socio-religiosi in nulla si differenziavano da quelli dei grandi profeti veterotestamentari. A suo dire infatti la spiritualizzazione della figura di Cristo è avvenuta a partire dal III secolo, in seguito alla rinuncia ecclesiastica della componente giudaica della sua vita, per la quale gli aspetti sociali e religiosi non potevano essere disgiunti.
Pur di sostenere l'idea di un Cristo “tutto giudaico” egli arriva a negare ciò che da tempo viene considerata un'evidenza, e cioè che una radicale reinterpretazione dell'evento-Gesù è iniziata con Reimarus. In suo luogo preferisce parteggiare per una delle fonti di d'Holbach: Isaac Ben Abraham di Troki (o Trakai in lituano), secondo cui Gesù “ammetteva l'eterna durata della legge mosaica” (p. 100). In tal modo Pesce non solo mostra di non comprendere la differenza tra cristianesimo ed ebraismo, ma si preclude anche la possibilità di dare del cristianesimo un'interpretazione laicizzata, che è l'unica a porre un minimo di basi scientifiche per distinguere Cristo dal cristianesimo petro-paolino.
Alla fine degli anni Ottanta Pesce ha iniziato a condividere gli studi di Adriana Destro, che sul piano antropo-sociologico davano corpo all'idea di un Gesù tutto giudaico, benché in forma indipendente dal potere costituito.
La novità socio-religiosa del Nazareno sarebbe stata una sorta di “protestantizzazione” del giudaismo ortodosso, nel senso ch'egli avrebbe cercato di recuperare un rapporto più diretto tra uomo e Dio, non mediato dalle corrotte istituzioni “ecclesiastiche” (Tempio e sinagoghe). E questo recupero sarebbe appunto avvenuto in forma “sociale”, costituendo un movimento di discepoli, che avrebbe dovuto rinnovare “spiritualmente” l'intera società, poiché esso non si poneva in maniera separata rispetto a questa (come invece l'essenismo), ma in maniera “interstiziale”, e – si badi bene – non per costruire un nuovo regno davidico (che avrebbe necessariamente implicato l'uso della forza militare), ma semplicemente per porre le basi etiche con cui poi Dio, in seguito, avrebbe potuto rinnovare il mondo.
Se questo non è misticismo, che cos'è? Ha diritto Mauro Pesce ad essere considerato uno “storico laico” solo perché tende a caratterizzare Gesù in maniera più giudaica di quanto abbia mai fatto la Chiesa cristiana? Non si rende conto Pesce che quando cerca d'impostare le cose in questi termini, evitando di riconoscere a buona parte del giudaismo di duemila anni fa il suo carattere fortemente rivoluzionario, mostra di subire un condizionamento di tipo cristiano?
L'idea che ha di Gesù Cristo è quella stessa che lui vorrebbe avere della Chiesa cattolica, cioè quella di uno studioso che nelle proprie indagini non vuole sentirsi in obbligo nei confronti di alcuna istituzione religiosa. Pesce vorrebbe muoversi come una sorta di cristiano protestante, interfacciandosi con una società di tipo cattolico (non integralistica), e, nel fare questo, è convinto di poter esibire una propria originalità, rivendicando al Cristo un'identità fortemente giudaica, eventualmente nella speranza di trovare significativi consensi presso le comunità israelitiche, che, a questo punto, vien da dire, duemila anni fa avrebbero ucciso Gesù a motivo di un tragico malinteso (quello stesso che secondo il vangelo marciano determinò il giustizialismo di Pilato).
Pesce vuole sottrarre alla Chiesa cattolica (che, secondo lui, dovrebbe limitarsi a un'opera di “edificazione spirituale”) il monopolio dell'interpretazione storiografica dell'evento-Gesù, per poi sentirsi libero di trasformarlo in una sorta di esegesi filo-semitica. Facendo questo, però, non conserva del giudaismo classico la parte migliore, quella politicamente più significativa, ma quella peggiore, quella più conservativa, sicché, alla fine, non fa che difendere un'altra istituzione religiosa, quella appunto dell'ebraismo ufficiale, ortodosso.
Pesce sembra non rendersi conto che, nell'ambito del cristianesimo, cioè internamente a questa sola religione, l'unica possibile contrapposizione esistente è quella tra Chiesa cattolica (impostata sulla monarchia pontificia) e Chiesa ortodossa (impostata sulla collegialità sinodale). Sotto questo aspetto la contrapposizione tra cattolicesimo e protestantesimo resta interna al cattolicesimo, soprattutto quando la si vuole configurare in maniera esclusivamente religiosa. Le idee del protestantesimo erano già presenti in eresie del mondo cattolico almeno mezzo millennio prima ch'esso nascesse.
Il protestantesimo non avrebbe fatto altro che “socializzare” un abuso di potere che la Chiesa romana ha cominciato a manifestare sul terreno politico sin da quando aveva pensato di potersi costituire come “Stato”. Il protestantesimo diventa invece interessante per la concezione laica dell'esistenza quando le sue ricerche esegetiche conducono, se svolte in maniera conseguente, a formulare tesi di tipo agnostico o addirittura ateistico. Ma sotto questo punto di vista sono interessanti anche tutte le teologie che, in ambito cattolico, si rifanno alle analisi del socialismo scientifico o anche solo utopistico, pensando di poter realizzare meglio la fede religiosa con una prassi comunitaria di tipo collettivistico.
In ogni caso non c'è alcuna possibilità che un ricercatore sul cristianesimo venga valorizzato dalle istituzioni ecclesiastiche, senza che preventivamente non gli venga chiesto di riconoscerle come autorità dogmatiche. Pesce vuole muoversi come protestante che esalta dell'evento-Gesù la sua componente giudaica, senza rendersi conto che, così facendo, finisce solo col contrapporre all'istituzione cattolica quella ebraica, la quale, proprio come quella cattolica, non può ammettere una fede religiosa senza la corrispondente istituzione (sociale, culturale e politica) che la sostiene.
Pesce vuole rinnovare il cristianesimo con nuove idee religiose mutuate dall'ebraismo, vuole ricondurre Gesù nell'alveo delle più “pure” tradizioni semitiche, e così fa diventare il Cristo uno dei tanti profeti biblici, non più grande certamente del Battista. Egli non pretende di fare un discorso ateistico, ma dice di non voler neppure fare un discorso “confessionale”. All'apparenza, infatti, egli sembra non voler fare un'analisi in senso cattolico tradizionale, però la fa ugualmente, nei panni di uno che la Chiesa romana non avrebbe difficoltà a qualificare come un “protestante”, anche se certamente non come un protestante “radicale” (alla Bultmann per intenderci, che pur non ha mai detto di non credere in Dio).
Ch'egli sia un autore “religioso”, seppur non strettamente confessionale, è lui stesso che lo spiega là dove afferma che non ha alcuna intenzione di compiere delle analisi contro il cristianesimo o la fede cristiana, anzi, al contrario, il suo obiettivo è quello di “contribuire al rinnovamento del cristianesimo” (p. 111). In tal senso appare curiosa la frase in cui dice d'interessarsi “della figura storica di Gesù, non della fede” (ib.), anche perché assume chiaramente come vere cose evangeliche per le quali la fede è obbligatoria.
A suo parere infatti le esperienze più significative di Gesù sono state quelle di tipo “religioso” o “sovrannaturale”, come p.es. i cosiddetti “miracoli”. Tutte le ritrattazioni che nell'arco della sua vita Pesce ha fatto sono state a favore di un'interpretazione confessionale dell'evento-Gesù. Lo dice espressamente a p. 112: Gesù “era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno. Vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava finalmente per prendere possesso del mondo... Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all'unico Dio... Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”.
Pesce insomma è convinto di potersi attirare le simpatie dei non credenti dicendo di non volersi porre come “teologo” ma solo come “storico della religione” (e aggiungiamo anche “filosofo della religione”), servendosi per le sue ricerche di scienze umane come l'antropologia e la sociologia. Non vuole presupporre la fede alla sua ricerca storica, ma, in definitiva, non la mette neppure in discussione; vuol soltanto riservarsi di decidere quando usarla e quando no.
In teoria ammette che la fede non è di alcuna utilità per la ricerca storica, di fatto però non ne contesta i presupposti (il primo dei quali è quello di credere in cose che la ragione non può ammettere). Lui difende le proprie posizioni sostenendo la relatività della conoscenza e non si rende conto che non si può essere così relativisti da rischiare di dover fare gli interessi della religione: non si possono ammettere delle cose che non aiutano minimamente lo sviluppo di una comprensione obiettiva della stessa fede, che di per sé, a prescindere dai comportamenti di chi la pratica, non ha nulla di razionale.
Di fronte all'evento-Gesù – così fortemente strumentalizzato dalle chiese di tutti i tempi in senso mistico – non è possibile sostenere che “la ricerca storica non è né per la fede, né per la non fede” (p. 122). Posizioni del genere o sono false o sono terribilmente ingenue. Gesù Cristo non può essere paragonato a Giulio Cesare o Alessandro Magno. Qui non abbiamo a che fare con un personaggio qualunque della storia, ma con un individuo in cui credono ancora, senza alcuna vera razionalità, miliardi di persone.
Professare equidistanza nei confronti delle chiese o delle fedi religiose o delle teologie, rinunciando a una propria posizione laicistica, significa, inevitabilmente, fare il gioco dei clericali. Il fatto stesso ch'egli dica d'aver avuto come maestri H. Schlier, J. Dupont e R. Schnackenburg, e come fonti ispirative W. G. Kümmel e Ph. Vielhauer, e di tenere costantemente conto di R. Brown, G. Theissen e altri, la dice lunga sulle “fonti laiche” di Pesce.
L'unico, tra quelli citati nella pubblicazione, che avrebbe potuto aiutarlo a fare un minimo di chiarezza nella sua confusa storiografia del cristianesimo primitivo, era S. Brandon, su cui però egli dice di aver scritto decine di pagine di “aspra critica”.
II
L'eccessiva ebraicità di Mauro Pesce
Mauro Pesce è uno di quegli esegeti laici del Nuovo Testamento che, pur avendo studiato tutta la vita la formazione del cristianesimo primitivo, sembra aver capito ben poco di Gesù Cristo, in quanto continua a negargli una caratterizzazione politicamente eversiva, quella della strategia messianica antiromana e antisadducea.
Mostra d'avere una cultura vastissima, di molto superiore a quella dei migliori esegeti confessionali del nostro Paese, eppure son davvero poche le sue tesi che meritano d'essere condivise. Non sembra affatto un esegeta “laico”, ma uno “confessionale” che si limita soltanto a usare strumenti interpretativi differenti, nella fattispecie più sociologici e filologici.4
Nel libretto a più mani, intitolato L'enigma Gesù (ed. Carocci, Roma 2008), vi sono due suoi interventi che sintetizzano bene le sue principali posizioni sul Cristo.
Scrive a p. 112: “Una delle tesi per me fondamentale per comprendere la figura di Gesù è che egli era ebreo ed è sempre rimasto all'interno della religione ebraica”. L'autore dice questo perché vuole contrapporre un Gesù “ebreo” al Gesù “cristiano”, giudicando quest'ultimo un prodotto derivato del paolinismo.
Infatti – prosegue l'esegeta – egli “non aveva alcuna intenzione di fondare una nuova religione”. Come appunto ha fatto Paolo. Questo perché voleva soltanto rendere più equo, più umano, più etico l'ebraismo.
“Egli era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno”. In che maniera però Dio volesse far questo, Pesce non lo dice, perché è totalmente contrario all'idea di un Cristo politicizzato. “[Gesù] vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava per prendere finalmente possesso del mondo”.
Siamo – come ben si può vedere – in pieno misticismo. L'autore considera vere tutte le guarigioni, dando per scontato che Gesù avesse capacità sovrumane; associa la consapevolezza di questa straordinaria capacità terapeutica alla convinzione che si stava realizzando il regno di Dio. Cioè da un lato non capisce che tutti quei miracoli sono stati scritti proprio per mistificare delle azioni di tipo politico; dall'altro compie un collegamento tra terapie e basileia (una politicità religiosa) che per un qualunque ebreo non avrebbe avuto alcun senso. Infine dà per scontato che la realizzazione di tale regno avrebbe dovuto essere opera dello stesso Dio.
“La sua predicazione si limitava solo 'alle pecore perdute della casa d'Israele' e ad esse soltanto dovevano indirizzarsi anche i Dodici (Mt 15,24; 10,6). Anzi, essi non dovevano neanche percorrere la stessa strada dei non ebrei (i gentili) ed entrare nelle città dei Samaritani (Mt 10,5)”.
Queste sono tutte sciocchezze. Gesù ha frequentato con successo i Samaritani, stando al vangelo di Giovanni; ha frequentato luoghi pagani come la Decapoli, Tiro e Sidone e, nell'ultima settimana di Pasqua alcuni Greci volevano parlamentare con lui. La stessa popolazione galilaica, confinante con tutte popolazioni pagane o quasi, veniva considerata ignorante e rozza dalle autorità giudaiche: persino la lettura pubblica delle preghiere le veniva interdetta. E non è che la Perea, ove spesso Gesù si rifugiava, fosse un paese significativo per i Giudei.
Alla samaritana Gesù dichiara di non essere minimamente interessato al primato storico e normativo del Tempio di Gerusalemme, anche perché non ha intenzione di porre delle differenze etniche o tribali tra Giudei, Galilei, Samaritani e Idumei. Tutto il Vicino oriente era caduto sotto il dominio romano: non avrebbe avuto alcun senso cercare di liberare la Palestina rifiutando il concorso delle nazioni pagane ugualmente sottomesse.
Ma l'assurdità maggiore di Pesce viene adesso: “Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all'unico Dio”. L'autore fa tanto l'anti-paolinista, eppure mostra di credere in un concetto, quello del “giudizio universale”, che a Paolo era molto caro, proprio perché con quello aveva potuto sostituire l'idea petrina della parusia immediata e trionfale del Cristo.
Ecco, ora siamo venuti a capire cosa intende Pesce per “regno di Dio”: un qualcosa di assolutamente mistico, non alla portata degli uomini, ma solo della divinità; un qualcosa di “apocalittico”, che Dio avrebbe realizzato solo alla fine dei tempi.
“La speranza di Gesù – prosegue l'autore – non era di fondare un nuovo gruppo, ma la riunione di tutti i popoli nel regno di Dio. Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”. Un sogno – come ben si può vedere – del tutto vago e generico, persino più astruso di quello dei profeti veterotestamentari, che con le loro filippiche si rivolgevano sempre a persone ben precise (generalmente delle autorità), mostrando che una fede religiosa senza la giustizia sociale era ben poca cosa. Gesù invece si deve accontentare di fare il taumaturgo a favore dei reietti della società.
C'è da dire che Pesce ha sempre rifiutato con nettezza l'esegesi del teologo anglicano Samuel Brandon, secondo cui Gesù era un “rivoluzionario politico-militare” (p. 123). A suo parere, infatti, non ha senso parlare di un Cristo “sociale” contro un Cristo “religioso”, in quanto Gesù era “radicalmente sociale” e “radicalmente religioso”. “La sua... è la concentrazione sul Dio ebraico che interviene nel mondo a regnare, a trasformarlo” (p. 97). Il programma di Gesù è tutto nelle Beatitudini, secondo la versione lucana, per le quali “il regno di Dio è totalmente 'di Dio', non è opera dell'uomo...” (ib.).
Questo modo di ragionare di Pesce è davvero curioso: da un lato dice che Cristo era “radicalmente religioso” (in senso ebraico), e dall'altro sceglie, per dimostrarlo, il vangelo meno ebraico di tutti, cioè quello più vicino alle idee di Paolo. Da un lato dice che Gesù era insieme “radicalmente sociale e religioso”, ma dall'altro non spende una parola a favore degli zeloti, che certamente lo erano molto più di lui, essendo Gesù sostanzialmente un ateo. Dice che Gesù era “radicalmente sociale”, e però affida soltanto a Dio il compito di realizzare la giustizia sociale.
Poi, per dimostrare che il Cristo era un ebreo ortodosso al 100%, Pesce, come se egli stesso fosse un ebreo, presenta alcuni argomenti che per lui dovrebbero essere inattaccabili:
1. Gesù non ha mai dichiarato “puri” tutti gli alimenti, altrimenti negli Atti degli apostoli (10,11 ss) Pietro non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a una rivelazione divina per giustificare il proprio comportamento (p. 113). Dicendo questo, Pesce mostra di non aver capito che per Gesù non aveva senso pensare di opporsi efficacemente ai Romani limitandosi a fare distinzioni di principio tra gli alimenti. Una vera etica fa differenza tra forma e sostanza, e quella relativa ai cibi era in fondo ben poca cosa, anche se con questo non si vuole sostenere che Gesù violasse le regole sui cibi per apparire eversivo. Il fatto che Pietro avesse a che fare, negli Atti, con ebrei che ancora ponevano differenze tra i vari cibi, va considerato come una scarsa propensione, da parte dell'apostolo, a proseguire politicamente la strategia insurrezionale del Cristo, il quale aveva semplicemente dichiarato insussistente la questione di poter stabilire una purità interiore (morale) sulla base di una purità esteriore (materiale). Indirettamente quindi l'atteggiamento nei confronti del cibo era del tutto irrilevante: uno poteva continuare a praticare le regole dietetiche o rinunciarvi del tutto, ma non sarebbe stato in virtù di nessuno dei due atteggiamenti ch'egli avrebbe potuto migliorare la propria coscienza e tanto meno la società attorno a lui.
2. Gesù – sostiene Pesce – non ha mai voluto abolire il sabato, ma semplicemente indicare che questo giorno festivo è finalizzato al bene dell'uomo. Semmai si può discutere su quali azioni possono essere compiute in questo giorno, senza rischiare di trasgredirlo. Gesù quindi si opponeva soltanto alle interpretazioni estreme dei gruppi esseni.
A dire il vero le interpretazioni estreme sul sabato le avevano anche i farisei, poiché son proprio questi – e non gli esseni, che invece lo proteggevano quando fuggiva dalla Giudea – che avrebbero voluto vederlo morto quando guariva nei giorni festivi (ammesso e non concesso che fosse davvero un terapeuta). Rispettare il sabato voleva infatti dire essere “credenti”, mentre il trasgredirlo era segno di “miscredenza”.
La violazione del sabato viene sempre associata nei vangeli all'affermazione che Gesù fa circa la propria identità divina. Com'è noto, intorno a questo precetto le falsificazioni redazionali sono sempre state due: la prima era quella di mostrare che Gesù poteva violare il sabato proprio perché era in grado di fare guarigioni straordinarie; la seconda era quella di mostrare ch'egli poteva violarlo in quanto era figlio di Dio.
In realtà la scarsa considerazione in cui Gesù teneva il sabato è sempre relativa al fatto che non si poteva certo pensare di occupare il Tempio o la fortezza Antonia gestita da Pilato limitandosi a rispettare tale precetto. Non solo, ma quando i vangeli giustificano la suddetta violazione dicendo ch'egli era “figlio di Dio”, si dovrebbe leggere tale motivazione in senso addirittura ateistico: Gesù violava il sabato proprio perché riteneva l'uomo superiore a Dio, o meglio un dio di se stesso.
In sostanza il rispetto del sabato è considerato irrilevante dal Cristo proprio in antitesi alla pretesa giudaica di voler fare, in generale, del puro e semplice rispetto della legge la principale condizione della liberazione umana e politica. Concepire il sabato come un feticcio significava essere contrari alla democrazia.
3. Quanto all'amore dei nemici, che – secondo Pesce – è un puro e semplice approfondimento di una tematica levitica (Lv 19,19), stendiamo pure un velo pietoso, poiché, all'interno di una strategia insurrezionale, non avrebbe avuto alcun senso sostenere una cosa del genere. Gesù chiede di vendere il mantello per comprare la spada (Lc 22,36); dice che il regno di Dio si acquista solo con la violenza (Mt 11,12); dice che è venuto a dividere i padri dai figli (Mt 10,21), e di essere venuto a portare fuoco e non pace sulla Terra (Lc 12,49). E afferma tutte queste cose in vangeli che vogliono spoliticizzarlo al massimo! Nei vangeli l'amore dei nemici viene posto in senso reazionario, per impedire la rivoluzione anti-romana, anche se questo non vuol dire che, in astratto, il principio non fosse giusto.
Pesce dà l'impressione di essere un esegeta molto ambiguo, che in apparenza sembra volersi opporre alle esegesi confessionali, quando invece nella sostanza ne conferma i presupposti. Come interpretare, infatti, le seguenti affermazioni?
1. “Il riconoscimento della piena ebraicità di Gesù... non implica una messa in questione del cristianesimo” (p. 115). Ora, se Gesù fosse stato un ebreo ortodosso o non lo fosse stato affatto, non avrebbe comunque avuto nulla a che fare col cristianesimo paolino, che rifiutava l'insurrezione nazionale. Paolo era stato un politico di razza quand'era fariseo, ma quando cominciò a diventare cristiano, tradì non solo i farisei ma anche Gesù Cristo. Ecco perché riuscì a fondare una nuova religione: del fariseismo non aveva più l'ebraicità e del movimento nazareno non aveva più la politicità.
2. “Gesù appartiene a tutta l'umanità e chiunque può ispirarsi a lui perché il suo messaggio, il suo stile di vita hanno una valenza veramente universale” (p. 112). “Universale” un Gesù ebreo che rispetta scrupolosamente il sabato e che fa distinzioni di principio tra i vari cibi? Un Gesù terapeuta che compie guarigioni miracolose al di là della portata di qualunque uomo? Un Gesù che moltiplica dal nulla i pani e i pesci e che cammina sulle acque di un lago? Davvero un individuo del genere può essere considerato una fonte di ispirazione universale?
3. “La riscoperta della figura storica di Gesù è rilevantissima anche per la fede...” (p. 111). Ora, se un cristiano accetta l'idea che Gesù era più ebreo di quanto appaia nel Nuovo Testamento o di quanto fino ad oggi abbiano sostenuto i teologi cristiani, è impossibile ch'egli non si chieda se la propria fede cristiana sia davvero autentica o se non sia invece il caso di abbracciare l'ebraismo. Se invece l'esegesi di Pesce serve per approfondire la fede cristiana, allora bisogna dire ch'essa non ha alcun valore sul piano laico, checché egli ne pensi. Che Gesù vada considerato più un “credente ebreo” che non un “credente cristiano”, è del tutto irrilevante ai fini di un'esegesi laica.
4. Ecco ora alcune frasi che mostrano il livello di coerenza dell'autore:
“Luca è a mio parere colui che ha meglio compreso l'essenza del messaggio di Gesù” (p. 124); “nessuna delle formulazioni sinottiche può pretendere di essere quella sicuramente gesuana” (p. 109); “io non credo affatto che il Gesù storico si trovi nei vangeli gnostici di Nag Hammadi” (p. 124); “il Nuovo Testamento non è uno strumento utilizzabile per lo storico che s'interessa del I secolo, ma solo per lo storico che vuol comprendere i teologi dalla fine del III secolo o dall'inizio del IV secolo in poi” (p. 109); il Vangelo di Tommaso, la Didaché, l'Ascensione di Isaia, la Prima lettera di Clemente, i vangeli giudeo-cristiani, il Vangelo di Pietro e altri vangeli pervenutici frammentariamente “sono fonti molto utili per ricostruire la fisionomia storica di Gesù e delle prime comunità dei suoi seguaci” (p. 107).
Di frasi contraddittorie come queste i testi di Pesce sono pieni. Peraltro i vangeli giudeo-cristiani (degli Ebrei, dei Nazarei e degli Ebioniti) sono andati perduti o ci sono giunti solo attraverso testimonianze indirette e occasionali fornite da alcuni Padri della Chiesa che li contestavano. Il Vangelo di Tommaso contiene solo detti di Gesù e non s'interessa affatto della sua vita. Del Vangelo di Pietro abbiamo solo un frammento fortemente anti-giudaico. Il contesto di origine della Prima lettera clementina è legato a una disputa nella Chiesa di Corinto, il cui contenuto è strettamente religioso. L'Ascensione di Isaia è un apocrifo dell'Antico Testamento interpolato dai cristiani. Sarebbero queste le fonti da utilizzare per una ricostruzione del Gesù storico?
Mauro Pesce vuol fare la parte dell'esegeta che vuol sentirsi libero di credere e di non credere, di utilizzare le fonti che vuole, di dire tutto e il contrario di tutto; e soprattutto gli piace far la parte dell'esegeta filo-ebraico contro quelli dichiaratamente cristiani o laicisti; salvo poi dire, nella sostanza, ciò che il cristianesimo ha sempre sostenuto. Non accetta l'idea che una fede si debba istituzionalizzare in una struttura ecclesiastica, quando questa cosa – se davvero fosse un esegeta ebraico – sarebbe costretto ad accettarla molto tranquillamente.
A che serve dire altro di Pesce? Non abbiamo bisogno di un'altra testimonianza. Si giudica da solo, direbbe Caifa.
III
L'uomo Gesù
A
L'uomo Gesù, del 2008, pubblicato da Mondadori, è una delle ultime fatiche dei coniugi Destro e Pesce, da tempo docenti di Storia del cristianesimo presso l'Università di Bologna (lui, di recente, è andato in pensione). Merita d'essere recensito perché i due autori dichiarano espressamente di non voler fare una storiografia di tipo “confessionale”. Essi infatti prendono le mosse dai lavori antropo-sociologici di Gerd Theissen, alcuni dei quali apparsi in Italia sin dagli anni Settanta.
Una delle tesi più significative, del corposo volume di 250 pagine, è quella secondo cui l'attività del Cristo è stata svolta prevalentemente nelle comunità rurali di villaggio, in antitesi alle città della Palestina. Una tesi, questa, che pescherebbe nel vero se ci si limitasse a riferirla alla tattica della predicazione del Cristo. Viceversa, i due autori preferiscono attribuirle un carattere strategico vero e proprio. E per la semplice ragione che non vedono nell'azione del movimento nazareno un qualcosa di politicamente eversivo.
L'attività del Cristo viene collocata in una prospettiva di recupero delle più autentiche tradizioni giudaiche, che col tempo erano andate perdute, anche a causa d'interpretazioni strumentali da parte del potere religioso, il quale, non per nulla, aveva fatto del contesto urbano il luogo privilegiato della propria affermazione. In realtà se soltanto a questo noi dovessimo ridurre l'attività politica del Cristo, difficilmente potremmo considerarla più significativa di quella p.es. di Giovanni Battista.
All'analisi dei due autori mancano due cose tra loro strettamente collegate: da un lato la convinzione che nell'attività del Cristo vi fosse un obiettivo politico rivoluzionario; dall'altro l'idea che tale obiettivo non potesse realizzarsi se non dopo aver ottenuto il consenso delle città, la prima delle quali doveva per forza essere Gerusalemme.
Assumendo tale prospettiva come realistica, facilmente si sarebbe arrivati a capire che la scelta dei villaggi come luogo principe in cui operare, non era dettata tanto da motivazioni etiche o ideologiche, quanto piuttosto tattiche, poiché il Cristo, sin dalla cacciata dei mercanti dal Tempio (avvenuta, secondo la cronologia giovannea, all'inizio della sua attività politica in Giudea), era considerato dalle autorità costituite (romane e collaborazioniste) un leader pericoloso, che andava quanto prima incarcerato (minacce di morte a suo carico appaiono subito nei vangeli).
Sotto questo aspetto è evidente che i villaggi, posti in zone non facilmente raggiungibili, i cui abitanti soffrivano un rapporto di sudditanza nei confronti delle città, potevano offrire maggiori garanzie di protezione, di assistenza logistica, di complicità anti-istituzionale. Questo anche i due autori lo dicono.
Non dobbiamo dimenticare che dalla Giudea Gesù uscì nei panni dell'esule ricercato dalla polizia del Tempio, per sfuggire alla quale fu costretto ad attraversare la Samaria, evitando di costeggiare il Giordano. E, una volta in Galilea, cercarono di farlo fuori – stando a Marco – sin dalla prima guarigione, ovvero sin dal primo dibattito in sinagoga.
Dunque la scelta di predicare anzitutto nelle comunità di villaggio (come d'altra parte quella di non restare in uno stesso villaggio per più di qualche giorno), se poteva avere motivazioni di ordine etico, secondo cui la gente dei villaggi appariva moralmente più sana di quella urbanizzata, sicuramente era anche determinata da esigenze di sicurezza, della sua persona e dei suoi discepoli più stretti, ai quali mise subito un nome da battaglia, come si fa coi partigiani, perché non fossero immediatamente riconosciuti.
I due autori invece vedono in questa scelta logistica una motivazione di ordine “filosofico”, come se il Cristo pensasse di compiere una riforma di tipo “etico-religioso” attraverso i gruppi sociali meno influenzati dall'ellenizzazione e dalla romanizzazione dello Stato e meno coinvolti nella corruzione delle autorità politico-religiose.
Se si leggono i vangeli come testi politici, senza tralasciare che sono anche testi mistificati, in cui il Gesù “liberatore” viene trasformato in un “figlio di Dio redentore”, appare evidente ch'egli non poteva avere in mente una semplice riforma etico-religiosa di lunga durata, che sarebbe dovuta partire dall'ambito “pre-politico” dell'umiltà e dell'indigenza, lasciando ai suoi successori l'affronto del livello “politico” vero e proprio.
Il suo obiettivo, in realtà, era quello di compiere un'insurrezione politico-nazionale anti-romana, per realizzare la quale il consenso poteva essere trovato sia nelle campagne (dov'era più facile muoversi), che nelle città; dopodiché l'azione decisiva andava assolutamente compiuta a Gerusalemme, in occasione della festa principale della nazione, partendo dall'estromissione delle autorità religiose dalla gestione del Tempio e dalla neutralizzazione della guarnigione romana residente nella fortezza Antonia.
In tal senso i due autori compiono un errore di valutazione quando ritengono che l'epurazione del Tempio (che, ribadiamo, venne compiuta all'inizio e non alla fine dell'attività politica del nazareno) ebbe soltanto uno scopo etico. Quella del Cristo non era semplicemente una critica della strumentalizzazione politica ed economica della fede religiosa da parte delle autorità giudaiche: se fosse stato solo questo, sarebbe impossibile capire la rottura politica tra il movimento nazareno e quello battista.5
Dopo l'epurazione del Tempio Gesù arrivò a dire, in Samaria, una cosa che Giovanni non avrebbe mai avuto il coraggio di dire, e cioè che più importante del luogo o della forma del culto è la libertà di coscienza, sicché egli non sarebbe stato disposto a riconoscere alcun primato né al Tempio di Gerusalemme né ad alcun'altra istituzione o pratica religiosa (quindi neppure a quella del battesimo nel Giordano). Gesù non era affatto interessato a recuperare i fondamenti di una religiosità più autentica o più antica, poiché non sarebbe stato così che il popolo si sarebbe liberato dei sacerdoti corrotti e dei Romani oppressori.
Correlata a questa e altre sviste di Pesce e Destro è, inevitabilmente, quella di non aver intuito quanto il Cristo fosse consapevole che senza il consenso della popolazione giudaica, nessuna insurrezione nazionale sarebbe mai stata vittoriosa. Egli fece capire questo ai Galilei nel corso di quell'episodio che i vangeli hanno mistificato intitolandolo “la moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Il consenso “giudaico” al Cristo giunse invece inaspettato subito dopo la disfatta del movimento eversivo di Lazzaro.
Nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza conquistare anzitutto Gerusalemme, da dove la si sarebbe potuta gestire in maniera centralizzata: cosa che, per essere fatta politicamente e non soltanto militarmente, richiedeva il consenso di tutti i partiti progressisti. Se non si comprende questo, è impossibile capire il motivo per cui Gesù, pur di non cedere alla richiesta eversiva dei cinquemila Galilei di salire a Gerusalemme, fu persino disposto a sciogliere il suo movimento.
Una qualunque analisi dei vangeli non può basarsi unicamente sul tentativo di trovare qualcosa di attendibile tra versioni spesso molto contraddittorie. I vangeli sono nati con intenti mistificatori, offrendo di Gesù l'immagine di un redentore spirituale, non molto diversa da quella del Battista, i cui discepoli, non a caso, si riconcilieranno coi “cristiani petro-paolini”. Da tempo queste cose sono state capite persino da esegeti confessionali come Belo, Brandon, Hengel, Girardet, Maccoby..., che però non vengono mai citati in questo libro.
B
L'affronto metodologico di tipo antropo-sociologico dei vangeli, elaborato dai coniugi Destro e Pesce, merita sicuramente un qualche approfondimento in questa seconda parte della recensione.
Nel II capitolo intitolato “Il camminare di Gesù”, si mette in una relazione di tipo “filosofico-esistenziale” il fatto che Gesù frequentasse i piccoli centri rurali per un periodo di tempo molto breve col fatto che questo era il suo modo di porre continuamente in discussione “le relazioni e i fondamenti dell'esistere” (p. 43).
Ci chiediamo: si può ridurre la figura di Gesù a una sorta di “profeta giudaico itinerante”? Per quale motivo uno dovrebbe fare una cosa del genere senza mai avere in mente di realizzare, entro un certo periodo di tempo, qualcosa di più significativo? Non è possibile pensare che le sue continue peregrinazioni da un villaggio all'altro, avessero semplicemente lo scopo d'instillare nuovi fermenti culturali o nuove suggestioni esistenziali, destinate a maturarsi chissà quando.
Gesù aveva a che fare con popolazioni che soffrivano a causa di varie forme di oppressione sociale e politica, e i ceti rurali difficilmente si sarebbero accontentati di consolazioni dal sapore psicologico, vagamente intellettuali, valide per singoli individui relativamente benestanti o particolarmente ingenui.
In realtà il predicare continuamente in tanti villaggi va visto all'interno di un'esigenza politica molto più stringente, quella di organizzare le masse per preparare il grande evento dell'insurrezione nazionale anti-romana (come già era successo, con un altro nemico “pagano”, all'epoca dei Maccabei, e come succederà, a più riprese, negli anni compresi tra il 66 e il 135).
Nei villaggi Gesù e i suoi più stretti discepoli s'incontravano con la gente non tanto per compiere esorcismi e guarigioni, né per fare semplici discussioni su taluni aspetti della legge (p.es. il sabato, i cibi puri e impuri, ecc.). Se mai egli abbia fatto cose del genere, lo scopo doveva essere di carattere più generale, certamente non quello “ellenistico” di “riflettere filosoficamente sul senso della vita”. Ai poveri andava offerta una speranza concreta di liberazione in tempi ragionevoli.
I vangeli, che non fanno altro che descrivere incontri di tipo socio-religioso, non possono essere presi come testi attendibili, né possono essere “chiosati” senza mettere preliminarmente in discussione l'impianto mistificatorio che li ha generati. Questi sono gravi errori esegetici, tutti provenienti dal fatto che si considera Gesù un semplice “leader religioso” (p. 49), il cui compito primario consisteva semplicemente “nell'aiuto personale al prossimo” (p. 50).
E perché mai – ci si potrebbe chiedere – uno che vuole amare il prossimo sentiva così forte il bisogno di andare a Gerusalemme? I due autori sostengono che il motivo stava nel voler far riconoscere pubblicamente dalle autorità la propria missione. Ma per quale ragione un uomo pio e religioso, interessato unicamente al pre-politico, non avrebbe potuto continuare a svolgere la sua missione lasciando perdere la grande capitale, dove avrebbero fatto molta fatica a capirlo o dove comunque avrebbe incontrato ostacoli superiori alle sue forze?
Gesù aveva forse manie di protagonismo? Voleva fare il martire a tutti i costi? Pensava forse che diventando martire il suo messaggio avrebbe avuto più successo? Quando mai s'è visto qualcuno che, avendo in mente nuove idee religiose, da diffondere ovunque, non abbia ad un certo punto avuto l'intenzione di trasformarle in un'esperienza concreta, di tipo o sociale (entro un'area geografica ben delimitata, autonoma sotto ogni punto di vista), o politica, con l'intento di contestare il sistema?
Dai rotoli di Qûmran e dai testi di Flavio Giuseppe abbiamo capito che un'esperienza sociale di un nuovo modo di vivere la fede religiosa fu chiaramente quella desertica degli esseni, da cui molto probabilmente veniva Giovanni Battista, il quale, però, ad un certo punto, la ritenne insufficiente e decise di andare a predicare e battezzare lungo il Giordano.
Gesù non è mai stato un discepolo del Battista, ma, come lui, doveva aver capito che senza un'esposizione pubblica, le proprie idee restavano lettera morta. Cercò un rapporto col Battista per far sì che le nuove idee religiose scardinassero politicamente la gestione corrotta del Tempio, ma Giovanni non ne volle sapere e i rapporti tra i due si conclusero drammaticamente. Agli occhi del Cristo Giovanni era stato la classica testimonianza che un affronto meramente etico-religioso delle contraddizioni del paese non avrebbe portato da nessuna parte.
In occasione dell'epurazione del Tempio, anche la politica dei farisei (sicuramente più istituzionalizzata di quella del Battista, benché molto meno corrotta di quella del partito sadduceo), apparve a Gesù molto deficitaria nella determinazione politico-eversiva (così come risulta nel dialogo con Nicodemo).
Quando Gesù esce dalla Giudea, ricercato dalla polizia, e si dirige in Galilea, aveva già rinunciato all'idea di poter usare qualunque idea di tipo religioso per compiere un ribaltamento in senso democratico del sistema. La scelta di vivere un'esistenza itinerante (alla san Francesco, per intenderci) non dipendeva da motivazioni misticheggianti, ma era dettata unicamente dalla necessità di creare un movimento eversivo, che ad un certo punto avrebbe dovuto essere disposto a compiere la marcia sulla Città Santa, per la sua conquista politico-democratica (che, non a caso, avvenne in groppa a un asino) e per la liberazione d'Israele.
Se non si legge la vita di Cristo in quest'ottica, si finisce inevitabilmente col ritenere “deicida” il popolo ebraico (la Chiesa romana l'ha fatto per quasi duemila anni); si finisce cioè col credere che gli ebrei non avrebbero mai potuto capire un uomo come Gesù, essendo il suo atteggiamento un'assoluta anomalia rispetto a quei tempi, a quelle tradizioni e a quei territori.
Insomma il libro di Destro e Pesce resta, loro malgrado, “confessionale”, seppur non in senso “teologico” tradizionale. Se c'è infatti una cosa che un laico non può accettare, poiché l'interesse per l'uomo-Gesù si ridurrebbe drasticamente, è che si dica ch'egli voleva realizzare il “regno di Dio”. Infatti se si accetta una tesi del genere, si finisce poi col doverne accettare altre ancora più fantasiose, e cioè che compiva miracoli, operava guarigioni straordinarie, camminava sulle acque, era risorto da morte perché “figlio di Dio”, e così via.
È strano che due autori così ben documentati non si siano accorti di quanto limitata possa essere l'idea di creare un'alternativa, astrattamente filosofica, da opporsi alle esegesi confessionali dei “clericali”, seppur qui usando gli strumenti delle moderne discipline scientifiche.
Che venga trattata in maniera teologica o filosofica, la religione resta sempre una forma di superstizione o, al peggio, di clericalismo. Occorre quanto meno partire dal presupposto che qualunque esperienza religiosa contiene elementi non attinenti alla naturale umanità dell'uomo e che quindi non può essere in questo campo esperienziale che va ricercata la vera originalità del Cristo.
Non è possibile riattualizzare il suo messaggio senza partire dal presupposto che una qualunque esperienza religiosa è una forma di alienazione, a prescindere dalla personalità del credente, e che una qualunque testimonianza di tipo religioso rischia sempre di porsi in maniera mistificante. Questi sono presupposti metodologici irrinunciabili per poter affrontare in una maniera sufficientemente obiettiva dei testi particolarmente tendenziosi come quelli del Nuovo Testamento.
Scrivono gli autori: “una lettura prevalentemente teologica della vicenda di Gesù la svuota di gran parte della sua forza e del suo significato” (p. 207). È vero, ma questo vuoto non può in alcun modo essere colmato da una lettura di tipo psico-antro-sociologico, il cui presupposto fondamentale resti quello “evangelico” della realizzazione del “regno di Dio”.
Se Gesù voleva davvero realizzare una “monarchia teologica”, in opposizione al mondo romano, allora il suo progetto non era molto diverso da quello teocratico degli zeloti, che fu però un progetto politicamente fallimentare proprio perché religioso, cioè destinato non solo a escludere l'apporto di popolazioni non ebraiche (cosa che invece Cristo si guardò bene dal fare), ma anche a impedire la coesistenza pacifica di esperienze diversificate della stessa fede ebraica, come furono appunto quella giudaica, galilaica, samaritana, essenica ecc. (cosa che il Cristo pensò di risolvere proprio rinunciando a fare dell'atteggiamento nei confronti della religione una discriminante ideologica: non a caso ai Samaritani predicò il principio della “libertà di coscienza”).
Insomma gli autori avrebbero dovuto concentrarsi sul fatto che Gesù definiva se stesso col semplice appellativo di “figlio dell'uomo” (Mc 2,10.28; 8,31.38; 9,9.12.31 ecc.) e che a quanti gli chiedevano cosa pensasse della divinità, rispondeva che “tutti gli uomini sono dèi” (Gv 10,34).
C
Un'ultima osservazione su questo volume. Prima, en passant, s'è detto che il Gesù di Destro e Pesce assomiglia a una sorta di san Francesco ante-litteram, il quale, come noto, non tentò mai di realizzare qualcosa sul piano politico (come invece fece, p. es., Arnaldo da Brescia). Francesco andò a Roma, dal papa, affinché il suo movimento venisse ufficialmente riconosciuto e, dopo qualche tentativo infruttuoso, che lo costrinse a modificare la sua “Regola”, vi riuscì.
Gesù invece non ottenne mai alcuna significativa approvazione (se non a titolo individuale e strettamente privato), e questo è abbastanza singolare per uno che, stando ai due suddetti accademici, non aveva alcuna intenzione di fare politica. Se non voleva essere riconosciuto dalle autorità, perché andò a Gerusalemme, rischiando di morire? E se voleva esserlo, possibile che tutte le autorità fossero così sprovvedute da non trovare una sorta di compromesso con un uomo la cui popolarità aveva raggiunto livelli altissimi?
Chi era dunque Gesù? Un visionario? Un presuntuoso? Un ipocrita? Ci rispondono i due autori: “era un uomo sostanzialmente solo, perché autonomo e indipendente. Trovava tutto il sostegno di cui aveva bisogno esclusivamente in un appello al soprannaturale” (p. 211).
Come possiamo definire questo modo di affrontare i vangeli se non come “puro misticismo”? In poche parole Gesù si considerava come una specie di “incompreso” dalla generalità dei suoi stessi compatrioti: ecco perché – dicono gli autori – “si isolava per pregare, per cercare un rapporto diretto con Dio” (ib.). A causa di questa sua solitudine, “parte della sua vita rimase sepolta nel segreto, in cui nessuno è mai penetrato” (ib.).
Rebus sic stantibus, il Gesù di Destro e Pesce non si pone forse in maniera interamente “religiosa”? Loro – abbastanza stranamente in verità – lo vedono “partecipare alla vita cerimoniale e religiosa del suo ambiente d'origine. Non rinnegava il Tempio né i sacrifici. Aveva peraltro sviluppato forme religiose proprie entro l'alveo delle pratiche giudaiche” (p. 212).
Dunque in che senso egli intendeva restaurare “il regno di Dio”? Ed ecco pronta la risposta: semplicemente “invitava ad attendere; confidava solo nel cambiamento interiore e in atti di riparazione da parte d'Israele. Gesù non fece nulla per influenzare le autorità e non cercò di fare pressioni sul potere per impadronirsene” (p. 213).
Un uomo così poteva essere considerato pericoloso per le autorità romane? Qui la risposta è tutta dentro l'esegesi più confessionale: si trattò di un “malinteso”, cioè la decisione di sopprimerlo fu “una valutazione che non comprese le sue intenzioni” (ib.), e Gesù accolse stoicamente il verdetto “come una decisione indiscutibile che Dio aveva preso nei suoi confronti” (ib.).
Ecco dove arriva un'antropo-sociologia non “sulla” religione ma “della” religione: a dire le stesse cose della teologia, che sono poi quelle che i redattori dei vangeli volevano che si dicessero.
(torna su)3) Gli studi di Mac
I
Quale atteggiamento di fronte alle fonti del N.T.?
Presentazione del libro di Mac, Il Vero Profeta, Macrolibrarsi 2006
L'esperienza di Mac è un déjà vu rispetto a quanto, sempre più spesso, accade a chi, nell'ambito della Chiesa cattolica, vuol porsi in maniera divergente, finendo ad un certo punto con l'opporre al tradizionale autoritarismo, politico e ideologico, del potere ecclesiastico la decisione di fuoriuscire dal proprio milieu, sic et simpliciter, magari in punta di piedi ma senza tema di ripensamenti dell'ultima ora.
Tuttavia è anche un qualcosa di inedito, strettamente correlato alle dinamiche, soprattutto tecnologiche, del nostro tempo, che invitano, anch'esse ogni giorno di più, a fare davanti a un pc o in web, le proprie riflessioni critiche e autocritiche, seguendo dei percorsi impensabili fino a qualche decennio fa, in cui ci si limitava a semplici e saltuari scambi epistolari o a confronti vis-à-vis e semiclandestini con chi, come Nicodemo, voleva percorrere strade diverse da quelle abituali.
Oggi un credente che voglia ripensare la propria esperienza e persino i valori in cui un tempo credeva, può farlo in maniera molto creativa direttamente in rete, interagendo spesso con utenti che in capo al mondo han vissuto analoghe vicissitudini.
Resta significativo il fatto che la decisione di rompere col proprio passato avvenga, ancora una volta, quando i valori professati escono dal limbo della loro mistica astrazione e si misurano con l'esigenza di risolvere alcune stridenti contraddizioni sociali del nostro tempo. Di fronte alla grandezza di questi problemi i valori cattolici si palesano in tutta la loro pochezza.
Infatti, finché si resta nell'ambito dei rapporti interpersonali o nelle questioni di coscienza, i valori religiosi sembrano reggere egregiamente le difficoltà del vivere quotidiano, spesso anzi si dimostrano superiori a molti valori laici, ma appena si cominciano ad affrontare i processi della società civile, squisitamente borghesi, ecco che la teologia si sbriciola come certe “case evangeliche” costruite sulla sabbia, mostrando quanto l'uomo abbia bisogno di ben altre scienze, la prima delle quali è senza dubbio – come lo stesso Mac fa capire – l'economia politica ovvero la politica economica, ivi inclusa quella finanziaria.
Ciò è così evidente, e lo è almeno dalla fine degli anni Sessanta, benché per uno storico lo sia da molto prima, che oggi sarebbe come sparare alla Croce Rossa dicendo che la dottrina sociale della Chiesa manifesta tutta la propria debolezza proprio nell'affronto “sociale” dei problemi economici che si sviluppano sotto il capitalismo avanzato.
Ma come spesso accade a chi in gioventù ha nutrito grandi aspettative in quegli ideali che sperava di veder realizzati secondo i princìpi del cattolicesimo romano, la volontà di allontanarsi da tale princìpi, per cercare risposte più convincenti, non sempre si limita a svolgere un'opera di semplice rimozione. A volte accade che il cibo inghiottito da giovani viene ruminato da adulti e reimpastato con nuova saliva, per essere poi ridigerito.
Non basta sostituire una pseudo-scienza, la teologia, con un'altra completamente diversa, l'economia o anche l'antropologia (come lo stesso Mac lascia intendere): a volte si avverte la necessità di fare i conti sino in fondo col proprio passato e, se vogliamo, col proprio inconscio, smontando tutti i pezzi delle infantili costruzioni Lego, esaminandoli uno ad uno, per vedere se si riesce a produrre una costruzione completamente diversa.
Ma con quale idea fare questo? Stando a quanto dice Mac la molla che fece scattare il meccanismo è venuta da un sito web, in particolare da un testo in cui si pretendeva di dare un colpo demolitore a tutte le storie raccontate nel Nuovo Testamento: La favola di Cristo, di Cascioli, uno studioso che ha saputo egregiamente sintetizzare quanto già da tempo noto presso la critica positivistica e mitologistica della religione, di “sinistra hegeliana” memoria, importata e sviluppata sia nella Francia anticlericale (cui Cascioli attinge a piene mani), che nella Russia ateo-scientifica.
Cercando nel web nazionale (poi si allargherà anche a quello internazionale), Mac aveva trovato più informazioni critico-scientifiche sui testi biblici di quante ne potesse trovare nella tradizionale editoria cartacea, a testimonianza di quanta più libertà di pensiero e di espressione nei confronti della religione vi sia nel mondo virtuale rispetto a quello reale, molto più condizionato dai cosiddetti “giochi di potere”.
Leggendo quello e altri testi (specie di Donnini), Mac in sostanza era giunto alla conclusione che la religione qua talis, quindi anche il cristianesimo, è sempre stata più che altro usata come strumento di conservazione di un potere acquisito. Il che apriva le porte a una questione molto complessa da affrontare: il livello di attendibilità delle fonti canoniche.
Qui bisogna dire che forse Mac è stato vittima di quel tentativo, in cui spesso si cimenta chi per la prima volta apre gli occhi sui miti falsi e bugiardi, di cercare non tanto di reinterpretare in maniera critico-testuale le motivazioni storiche sottese a quegli stessi miti (poiché tale operazione è del tutto legittima), quanto di ricostruire per filo e per segno un possibile percorso storico alternativo ai fatti contestati.
Perché questi tentativi sono destinati a fallire, per quanto suggestivi essi possano apparire? Semplicemente perché le fonti religiose sono state così ampiamente e direi anche scrupolosamente manipolate che, in assenza di altre fonti, è materialmente impossibile risalire alla piena verità dei fatti.
Più che tentare delle nuove interpretazioni proprio non si può, e se più di questo non si può, ha davvero ancora un senso – ci si può chiedere – continuare a utilizzare quelle fonti come un'occasione per reinterpretare la realtà in chiave laica e razionalista?
Il fatto che Mac possa cimentarsi a elaborare molte ipotesi storiografiche apertamente in contrasto con la cosiddetta “versione dei fatti” riportata nel Nuovo Testamento, è la riprova che ricostruire la “storia” sulla base delle fonti canoniche è pressoché impossibile, al punto che vien quasi da apprezzare la tenacia con cui la Chiesa orientale ortodossa s'è sforzata di accettare le fonti neotestamentarie così come oggi noi accettiamo i software che usiamo, e cioè “as is, with all faults”, limitandosi a interpretare quelle fonti solo in presenza di posizioni eretiche.
Delle due infatti l'una: o si resta cristiani accettando integralmente tutte le fonti canoniche ricevute dalla primitiva tradizione, oppure si esce dalla Chiesa, rinunciando a scoprire la verità dei fatti con l'ausilio di quelle stesse fonti.
Cioè a dire l'unica ricostruzione storica possibile può essere soltanto frutto di un'interpretazione opinabile con cui si cercherà di far valere il principio secondo cui le fonti del N.T. contengono una buona dose di falsificazioni, motivate dal fatto che dopo la morte del Cristo si volle definitivamente rinunciare all'idea di liberare la Palestina dai Romani. Sicché tutto il misticismo presente nel N.T. è funzionale alla trasformazione del Cristo da liberatore a redentore. Più di così, allo stato attuale delle fonti, è impossibile dire. La verità storica può essere soltanto dimostrata da una prassi più significativa di quella della Chiesa cristiana.
L'iter di Mac è comunque interessante da esaminare proprio perché le sue “scoperte” esegetiche, in senso laicista, sono in linea, pur senza volerlo, con quanto sostenuto dai grandi esegeti eterodossi del cristianesimo, per lo più stranieri, le tesi dei quali in Italia sono molto poco conosciute (anche perché pochissimo tradotte) o molto poco dibattute, meno che mai in ambienti non ultra specialistici.
In tal senso ritengo non sia molto importante sapere chi ci apre gli occhi e come lo fa, ma che gli occhi continuino a restare bene aperti. Io p.es. devo molto a studiosi che Mac non ha mai citato e che, conoscendoli, li avrebbe sicuramente apprezzati: Brandon, Donini, Craveri, Kryvelev, Tokarev, Mitrochin e tanti altri, per non parlare dei classici del marxismo.
Rimboccandosi le maniche – questo è proprio il caso di dirlo, pensando specialmente alle nuove generazioni –, Mac ha studiato a fondo gli Atti degli apostoli, le lettere di Paolo, l'Apocalisse, i testi di Flavio Giuseppe e via via tutti gli altri citati nel libro. Non ha mai dato nulla per scontato, perché è così che si deve comportare un ricercatore, specialmente con questi materiali tendenziosi.
Forse l'unica cosa che dà per definitivamente acquisita, quella che, se vogliamo, dovrebbe stare a monte di tutte le ricerche esegetiche moderne, è la tesi secondo cui i vangeli sono documenti che spoliticizzano al massimo la figura del Cristo e che questi, di conseguenza, doveva necessariamente essere un leader rivoluzionario per la liberazione nazionale d'Israele.
Probabilmente la sua tesi più originale (e di tesi in verità ne propone molte, anche se poi, secondo noi, per motivi indipendenti dalle sue capacità, son soltanto delle “ipotesi”), quella che sicuramente meriterebbe ulteriori approfondimenti, è l'identificazione di Paolo di Tarso col “falso profeta”, contro cui l'autore dell'Apocalisse si scaglia. Ciò peraltro spiegherebbe l'improvvisa scomparsa di scena dell'apostolo Giovanni dai racconti degli Atti.
Non meno interessanti sono i paralleli ch'egli pone tra le memorie di Flavio e gli Atti di Luca. Oggi d'altronde è impossibile sostenere che la storia del cristianesimo primitivo possa essere compresa senza la lettura dei testi di Flavio e della comunità di Qûmran. Ma sono talmente tante le ipotesi esegetiche e filologiche enucleate nel libro che ci vorrebbe uno studio non meno approfondito per esaminarle una ad una. E la nostra vuol semplicemente essere una “presentazione amichevole”, non una “introduzione critica”, anche se non posso esimermi dal notare che forse vien concesso troppo al gioco delle somiglianze-assonanze dei nomi propri di persona per poter elaborare su questo, che è indizio quanto meno precario, soprattutto in riferimento alla Palestina di allora, delle ipotesi storiografiche vere e proprie.
Ora forse non resta a Mac che scrivere qualcosa di impegnativo sul quarto vangelo, cioè sull'unico documento del Nuovo Testamento che presenta nello stesso tempo, con la medesima abilità e disinvoltura, il Cristo più vicino alla realtà e quello più lontano. Chi sarà in grado di capire perché e dove Giovanni, o chi per lui, dica la verità e menta senza ritegno, riuscirà forse a sbrogliare la matassa di una delle vicende più tormentate della storia.
Oltre a ciò vi è nel testo, in maniera trasversale, una serie di vicende e di riflessioni connesse all'esigenza di editare un proprio scritto, o di economia o di critica del cristianesimo.
Su questo devo dire, molto sinceramente, che avrei preferito vedere questo libro, più che pubblicato a parte, posto come ampia introduzione (cronologica e riassuntiva di tutte le sue ricerche) di un bel volumone di 500 pagine!
Ma per capire l'improponibilità di questo progetto basta leggersi quanto lo stesso Mac dice a proposito dell'abuso dell'informazione da parte di chi ne detiene il monopolio. Mac sa bene che la verità storica è sempre, purtroppo, la verità dei poteri dominanti, quelli appunto in grado di manipolare le informazioni. E sa anche bene che contro questa verità ogni dubbio è lecito, anche se la controverità proposta non è sempre supportata da prove convincenti.
Addendum
Da uno scambio di mail con Mac sulla storiografia del cristianesimo primitivo
Affrontiamo prima di tutto le questioni di metodo.
Tu cerchi la verità mettendo a confronto fonti diverse, cercando le varianti, le contraddizioni e parteggiando, tendenzialmente, per Giuseppe Flavio o per autori non cristiani.
Io e te siamo partiti dal presupposto che i vangeli, gli Atti e tutto il N.T. sono pieni di menzogne. Ma abbiamo tirato conseguenze diverse. Anch'io mi sono letto molti apocrifi, ma mi sembravano una sorta di letteratura fantastica, per cui vi ho rinunciato.
Ho letto anche Flavio, ma poi ho smesso, perché Flavio è un ebreo traditore degli ebrei, come gli apostoli sono cristiani traditori del Cristo, e tutti scrivono sotto il diktat di Roma: per quale ragione dovrei dare più ragione a Flavio che non agli evangelisti? Senza considerare che Flavio non ha mai nascosto le sue antipatie verso i seguaci del Cristo. E in ogni caso se leggi Brandon, che conosceva benissimo le opere di Flavio, le tue esigenze possono essere soddisfatte.
Quanto alle fonti pagane, il fatto che non parlino di Cristo non mi dice nulla, non dimostra nulla. Forse hai mai visto un libro che abbia parteggiato per Bruto e Cassio contro Cesare? Eppure l'impero romano è stato una delle più grandi disgrazie dell'umanità. E con questo non voglio certo dire che Bruto e Cassio rappresentassero la quintessenza della democrazia. Voglio solo dire che qualunque fonte va sempre presa cum grano salis.
Secondo me le fonti storiche non servono affatto per determinare la verità storica, poiché esse stesse, in genere, sono false (cioè nate così) o falsificate (cioè interpolate, manipolate, mistificate successivamente). La storia non è maestra di vita ma di falsità più o meno grandi, più o meno sofisticate, più o meno difficili da individuare, proprio perché scritta da chi comanda, direttamente o, come appunto nel caso dei vangeli, indirettamente.
Io di fronte al N.T. mi sono rassegnato e ragiono per così dire e concessis. Cioè non avendo strumenti o fonti differenti da usare per dimostrare le mie tesi, do per scontato che la versione dei fatti del N.T. sia quella più verosimile, pur sapendo che ad essa è sottesa una precisa ideologia, che tende a mistificare la realtà dei fatti o il contenuto che dà a questi fatti un qualche significato.
Cioè io parto sostanzialmente dal presupposto che aveva l'inglese Brandon (un autore che ho letto e riletto assiduamente), secondo cui il N.T., nel complesso, è una menzogna, in quanto i cristiani volevano dimostrare ai Romani che gli unici colpevoli della crocifissione erano stati gli ebrei.6
Detto questo, il mio lavoro si riduce nel cercare di scoprire, usando le stesse fonti cristiane, dove sia possibile rinvenire le tracce del tradimento del messaggio originario del Cristo, cioè le tracce della mistificazione. Facendo questo lavoro mi comporto, più che da storico, da teorico della politica, da critico dell'ideologia, da discepolo dei “maestri del sospetto”.
Se dovessi fare un lavoro da storico, lo farei solo per cercare un supporto concreto a delle tesi astratte. In ogni caso esigo da me stesso una certa coerenza interpretativa, per cui evito di sbilanciarmi in giudizi sull'attendibilità dei fatti narrati, anche dopo averli messi a confronto con altri fatti, analoghi, raccontati da altre fonti. Mi limito semplicemente a dire che in forza di determinate interpretazioni critiche, i fatti esaminati potrebbero essersi svolti diversamente e cerco di dimostrarlo astrattamente.
Purtroppo noi abbiamo a che fare con fonti manipolate da mani abilissime, che hanno saputo mescolare, in maniera molto efficace, episodi veridici con altri del tutto inventati, al punto che un lettore ingenuo finisce col considerare tutto vero, come è appunto successo negli ultimi duemila anni.
Non a caso in Italia – ma su questo ho già scritto molto – non s'è mai sviluppata, se non limitatamente, la cultura ateistica, la critica dei vangeli (che è iniziata con la Sinistra hegeliana), la critica positivistica della religione ecc. Temo che ci porteremo dietro l'inganno dei vangeli (di cui quello giovanneo è il più pericoloso di tutti) ancora per molto tempo.
Insomma, tu vai a cercare le prove del tradimento, io do il tradimento per scontato e mi limito a individuare degli indizi che ne provino la presenza, perché penso che le vere prove non riuscirò mai a trovarle. Qui abbiamo a che fare con dei professionisti della falsificazione. Gli ebrei non sono come i Greci, che s'inventavano favole in cui bisognava fingere di credere. Gli ebrei inventarono storie la cui verosimiglianza è diventata, in virtù della fede, oro colato. Prendono le cose dalla realtà, salvo un particolare, la cui importanza però falsifica tutto il resto.
Trovare il bandolo della matassa è un'impresa disperata, perché non possiamo fare altro che lavorare su dei fantasmi, cioè sul “non detto”, mistificato da un “detto” coerente, non banale. Il “fatto” è stato mistificato da un “non fatto”. E tutto sulla base di un'ideologia che non parla mai da sola, in maniera esplicita, ben individuabile, ma sempre dietro o per mezzo di parole e fatti che alla resa dei conti, cioè alla luce di un'analisi razionale, laico-umanistica, risultano incredibilmente ambigui, non solo o non tanto inverosimili, quanto piuttosto subdolamente manipolati. Sotto questo aspetto la letteratura ebraica resta superiore a qualunque altra letteratura.
II
Cosa ricavare da una fonte storica ritenuta inattendibile?
Riflessioni sul libro di Mac, Giovanni Battista, Macrolibrarsi 2009
Indubbiamente Mac (l'autore del sito Deiricchi) è tra gli esegeti laici del web quello che conosce meglio i testi di Giuseppe Flavio e, più in generale, quanto s'è scritto, nel periodo che va dal I sec. a.C. al II sec. d.C., sull'ebraismo e soprattutto sul cristianesimo. È dunque impossibile entrare nel merito del suo secondo libro, Giovanni Battista, senza avere le sue stesse conoscenze. Siccome però l'autore parla continuamente di “metodo storiografico”, elaborando piste di ricerca a dir poco originali, possiamo arrischiarci in una recensione critica.
Prima di farla però vorrei qui riassumere, in pochissime parole, sulla base delle stesse fonti neotestamentarie, ovviamente reinterpretate in maniera laico-umanistica, un'ipotesi di ricostruzione storica della vicenda che vide coinvolto il movimento nazareno anteriore alla catastrofe del 70.
Dopo l'esecuzione dell'esseno Battista, che predicava un'opposizione morale alla corruzione dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme e che fu ucciso quando iniziò a opporsi giuridicamente al sovrano filo-romano Erode Antipa, Gesù Cristo, con altri discepoli (in parte presi dallo stesso movimento battista), iniziò a organizzare una ribellione armata contro gli occupanti romani e i loro collaborazionisti ebrei (sommi sacerdoti, sadducei ecc.).
Il movimento nazareno si alleò con altri movimenti politici, o frange di essi, come quello zelota, fariseo, quello al seguito di Lazzaro, una parte degli esseni, dei samaritani ecc., ma, nel momento decisivo dell'insurrezione, uno degli organizzatori, Giuda, tradì, permettendo la cattura di Gesù, contro il quale si allestì un processo farsa, in cui i capi romani e i sacerdoti giudei, loro alleati, ebbero la meglio. L'esecuzione capitale fu quella riservata agli schiavi ribelli o agli insurrezionalisti.
Dopo la sua sepoltura uno dei suoi principali collaboratori, Pietro, invece di proseguire la missione liberatrice del movimento, sfruttò il fatto che il corpo di Gesù era scomparso dal sepolcro per sostenere l'idea ch'era risorto e che, per questa ragione, non poteva essere un semplice uomo e che sarebbe tornato quanto prima per liberare Israele, per cui sarebbe stato sufficiente attenderlo passivamente.
Tuttavia, col passare del tempo, vedendo che non tornava, un altro personaggio, Paolo (un ex-fariseo pentito d'aver perseguitato i seguaci di Pietro), cominciò a sostenere che Cristo era l'unigenito figlio di Dio, che sarebbe tornato solo alla fine dei tempi per il giudizio universale e che non aveva senso sperare in una liberazione politico-nazionale della Palestina, in quanto tra ebrei e pagani non vi era più alcuna differenza: tutti potevano diventare “cristiani” senza alcun problema, rispettando le istituzioni vigenti, proprio perché il regno di giustizia che il Cristo voleva realizzare non era destinato a questo mondo ma all'aldilà.
Dunque tutto il Nuovo Testamento non documenta le vere intenzioni del Cristo, ma soltanto l'interpretazione che Pietro e Paolo diedero del suo operato, a partire dalla tomba vuota.
Chiunque può rendersi conto che una tale versione dei fatti non collima minimamente con quella ufficiale della Chiesa cristiana. Eppure essa è stata tratta unicamente dallo studio delle fonti neotestamentarie. Il primo che ha ipotizzato, sulla base di queste fonti, un'esistenza politica del Cristo è stato un docente di lingue orientali, ad Amburgo, H. S. Reimarus, il cui testo fondamentale (Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli) venne pubblicato dal filosofo G. E. Lessing dopo la sua morte (1768). Da allora le strade si sono divaricate: la scuola mitologista ha messo in discussione l'esistenza storica del Cristo dei vangeli, la scuola storicista ha considerato attendibili, approfondendole ulteriormente, le tesi di Reimarus.
Prima di lui era stato l'empirista inglese J. Locke (1632-1704), seguito da molti altri deisti e naturalisti, a dire che per poter interpretare adeguatamente il cristianesimo bisognava preventivamente depurarlo di tutti gli elementi sovrannaturali.
Mac, che appartiene alla scuola mitologista, non solo non si accontenta di queste conclusioni, non solo ha fatto sue le tesi di un negazionista assoluto come Cascioli, circa l'identità del Cristo, ma ha voluto andare oltre, ipotizzando una propria ricostruzione dei fatti. Invece di consolidare l'acquisito, concentrandosi su qualcosa di particolare, ha preferito arrischiarsi in esegesi ardite, riscrivendo quasi completamente la storia che va dal I sec. a.C al II sec. d.C., come se le fonti in nostro possesso, debitamente reinterpretate, ce lo permettessero abbastanza tranquillamente.
Gli storici laici come Mac sanno bene, da tempo, che non solo le fonti neotestamentarie sono tendenziose, ma anche quelle apocrife e persino quelle non cristiane (ebraiche e romane). Da quando il cristianesimo divenne religione di stato, con Teodosio, non solo non comparvero più nuovi scritti (p.es. dopo quelli di Celso e Porfirio) contro il cristianesimo, ma scomparvero dalla circolazione anche quelli già pubblicati, e quelli che non si poterono far scomparire del tutto, vennero abilmente interpolati.
Quindi, per così dire, c'è poco da ballare allo stato attuale delle fonti. Noi possiamo criticare il cesaropapismo e il papocesarismo, possiamo restringere gli spazi di manovra di una Chiesa che ancora oggi pretende un'ampia visibilità mediatica e continue ingerenze nella vita degli Stati, ma per il resto dobbiamo accontentarci di formulare ipotesi. La Chiesa cristiana ha compiuto una grandissima opera di rimozione della verità storica, evidentemente perché sapeva che le tesi mistiche di Pietro e Paolo non avevano nulla a che fare con quelle umanistiche e politiche del Cristo.
Mac però non s'accontenta di formulare “ipotesi”, ha la pretesa di dire che è sicuro al 90% della verità delle proprie affermazioni, le quali, peraltro, vanno ben oltre quelle di qualunque scuola esegetica laica.
Per chi vive la rete con passione è ben noto che l'esegesi migliore sul N.T. è tutta laica e, anche se essa si presenta in maniera variegata, vi sono alcuni presupposti che non si mettono in discussione, il primo dei quali è che le fonti cristiane sono molto tendenziose. Mac è uno di quelli che vuol leggere le fonti, incluse quelle non cristiane, sino in fondo, proprio perché ha voluto rendersi personalmente conto che non esiste fonte che non sia stata in qualche modo manomessa da qualcuno.
Ma qual è stata la conclusione di questa ricerca spasmodica di trovare la verità tra le occorrenze trasversali a tutte le fonti disponibili, facendo confronti sinottici e parallelismi di ogni tipo? Mac è convinto d'aver trovato con un buon margine di sicurezza la verità nella falsità.
Invece di fare come Bultmann, che dopo tanti anni di ricerche arrivò a dire che, stando alle fonti che abbiamo, la verità su Gesù Cristo non la sapremo mai, Mac, anche a costo di postdatare di almeno mezzo secolo gli avvenimenti in questione, attribuendo più persone a uno stesso nome e più nomi a una stessa persona, ha preferito dire come sono andate esattamente le cose, come se volesse a tutti i costi fare i conti con qualcosa che nel suo passato gli avevano voluto far credere come vero pur sapendo ch'era falso. Il suo è un atteggiamento ostinato, caparbio, quello di chi non vuole limitarsi a sostenere che le fonti sono tendenziose, mistificanti, apologetiche, propagandistiche ecc. Mac vuole andare oltre.
Lui non può arrendersi p.es. di fronte al fatto che non sappiamo nulla di certo di quel che accadde ai discepoli più vicini a Gesù dopo la crocifissione. Gli Atti degli apostoli parlano soltanto di Pietro e di Paolo, i veri fondatori del “cristianesimo”. Noi possiamo supporre, con ampi margini di sicurezza, che Giovanni Zebedeo si oppose alle tesi petrine della resurrezione del Cristo, della sua imminente parusia, della necessità divina della sua morte ecc. E possiamo anche supporre, oltre ogni ragionevole dubbio, ch'egli si oppose anche alle tesi paoline che vedevano nel Cristo l'unigenito figlio di Dio, colui che sarebbe tornato alla fine dei tempi ecc. Questo perché il vangelo di Giovanni ha delle parti autenticamente storiche e altre incredibilmente mistiche, frutto di ampie e ripetute manipolazioni redazionali. Ma più di così, allo stato attuale delle fonti (e per noi anche la Sindone è tale), non è possibile andare, a meno che non si voglia fare “storia” ma “romanzo storico”, come tanti prima di Mac.
L'autore, prevedendo una critica del genere, si difende sostenendo che applicare un metodo scientifico a una ricerca storica non ha alcun senso, neppure nel caso in cui si fosse sicuri dell'attendibilità delle fonti. Questo perché – cito testualmente – le realtà non sono più a portata di mano e le testimonianze, anche quando non sono volutamente false, sono spesso frammentarie, lacunose, contraddittorie.
Ma allora perché non limitarsi a formulare delle ipotesi, concentrandosi su aspetti particolari? Ci si lamenta, giustamente, dell'inapplicabilità al passato di un metodo rigorosamente scientifico, ma allora perché si pretende di riscrivere la storia da cima a fondo? Questo poi senza considerare che quella inapplicabilità spesso vale anche per il presente. Se si ascoltano le versioni di due testimoni oculari di un medesimo incidente stradale, spesso ne vengono fuori contraddizioni insormontabili. Nei processi, civili o penali, la difesa non si preoccupa affatto di dimostrare la verità delle cose, ma solo di ottenere un verdetto di non-colpevolezza per il proprio cliente: di qui l'uso strumentale degli accertamenti tecnico-scientifici.
La scienza assoluta è un'invenzione che si sono dati coloro che volevano far credere che esiste una sola verità dei fatti. Può certamente esistere una verità oggettiva, altrimenti sarebbe assurdo parlare di mistificazione, ma la verità “assoluta” non è mai stata alla nostra portata.
La cosa curiosa è che Mac è perfettamente consapevole di questo, tant'è che dice di aver voluto applicare non un metodo “scientifico” ma semplicemente uno di tipo “storico-investigativo”; allora per quale motivo aggiunge ch'egli s'era posto il compito di scoprire a tutti i costi una qualunque verità nascosta? E qual è stato il risultato di questa faticosa ricerca?
La sua critica delle fonti è impostata come se avesse in mano il cubo di Rubik. Posto un elemento centrale che aggancia tutti i singoli pezzi, questi possono essere ruotati a piacere, nella direzione che si vuole, sino ad arrivare alla soluzione del rompicapo.
Il suo testo (vedi anche quello precedente qui recensito) non è un giallo vero e proprio, anche se all'apparenza ne sembra avere l'impostazione. I personaggi principali infatti sono pochissimi: se diventano più di tre o quattro o se anche sono tre o quattro i nomi ad essi attribuiti, si rischia d'entrare subito in confusione. Sembra di stare dentro un labirinto con gli specchi girevoli, per cui alla fine l'uscita viene trovata in maniera casuale, seguendo un percorso incredibilmente complicato, che a ritroso sarebbe molto difficile ripercorrere; sempre poi che l'uscita si riesca a trovare, perché il rischio è proprio quello, come nel labirinto di Minosse, di farsi mangiare dal Minotauro delle proprie forzature, della propria ricercata originalità.
Per Mac è relativamente facile uscire dal labirinto: lui ha a disposizione decine di personaggi intercambiabili, una sorta di “mutanti”, che possono trasformarsi all'occorrenza. Quando il nemico (la fonte falsa) ostacola il cammino di uno di questi personaggi, Mac lo trasforma in un altro, e così via sino alla fine del percorso. Sicché p.es. un individuo come Giuseppe Flavio può arrivare ad assumere ben sedici identità diverse, da quella di Erode Antipa a quella di Paolo di Tarso, da quella di Barabba a quella di Seneca, e così via, come se si fosse presenti a una sorta di videogame o a un film di fantascienza o di fantasy. Non si ha più a che fare con persone reali ma con personaggi fiabeschi.
L'attribuzione multipla di più persone a uno stesso nome o di più nomi a una stessa persona, che Mac dice d'aver preso da Abelard Reuchlin, congiuntamente alla postdatazione degli avvenimenti, sono i due criteri fondamentali ch'egli segue sin dai suoi esordi. E sono gli stessi che hanno adottato quanti pensano che tutto ciò che sul cristianesimo ci è stato tramandato sia falso: iniziò a farlo D. F. Strauss, della Sinistra hegeliana, ma lo fecero anche F. Ch. Baur, R. J. Vipper... sino alle tesi assurde di N. A. Morozov, che spostò la data dei vangeli ai secoli VI-IX!
Naturalmente qui non si vuole contestare il valore dell'attribuzione multipla dei nomi o la necessità di postdatare gli avvenimenti o il momento redazionale dei testi canonici. Bisogna però stare attenti a non incorrere in quel fenomeno che in psicologia viene chiamato “effetto alone”, per cui sulla base di un solo elemento si vizia un intero metro di giudizio. Cioè non si può, partendo dall'assunto che tutti i testi sono tendenziosi, far dire loro ciò che si vuole. Non è questo il modo di “sbugiardare” la Chiesa. È troppo comodo sfruttare il fatto che le fonti sono inaffidabili per inventarsi delle storie che non potrebbero essere smentite da quelle stesse fonti. Questo non è un metodo storiografico ma letterario.
Chiunque, anche un lettore profano in materia, si rende conto che è molto facile far quadrare il cerchio attribuendo una molteplicità di nomi a un determinato personaggio. È la stessa situazione che si verifica quando in un qualunque gioco tutti i partecipanti si mettono d'accordo nell'usare un pezzo o una carta o un tassello fingendo che sia identico a quello mancante. Questo metodo ha peraltro il vantaggio di ridurre i veri protagonisti solo a poche unità, mentre con quelli fittizi, che sono delle decine, si possono costruire le storie più fantasiose, come la lunga saga di Harry Potter.
Non ha senso pensare che sia esistita una regia occulta in cui tutti erano d'accordo, registi e attori, e che quindi tutta la storia del cristianesimo primitivo debba essere vista come una incredibile macchinazione in cui tutto è stato falsificato a bella posta: questo metodo d'indagine appartiene alla fiction di qualche romanziere catastrofista, in cerca di scoop editoriali. Magari le cose fossero così semplici! Magari si avesse a che fare con tante Donazioni di Costantino!
La ricostruzione, quanto meno arbitraria, che degli avvenimenti fa Mac è la riprova che dalle fonti che abbiamo non si può ricavare in maniera certa né una sequenza logica (causa/effetto) dei fatti, né una di tipo temporale e spesso neppure una contestualizzazione spaziale. D'altra parte se fra mille anni uno storico trovasse casualmente l'intera annata di un nostro qualunque quotidiano o, peggio ancora, di un qualunque nostro telegiornale, riuscirebbe forse a capire i rapporti di dipendenza economica che oggi legano il Terzo mondo all'occidente? Per nascondere questi rapporti, che permettono a noi una ricchezza esagerata, ci è sufficiente non parlarne: non è neppure necessario interpolare i documenti. Semplicemente non ne parliamo in nome della nostra sbandierata libertà di espressione!
In realtà più che di falsificazioni noi abbiamo a che fare con delle mistificazioni, cioè con aspetti falsi dentro ricostruzioni vere. Lo storico è come un cercatore d'oro, con in mano un setaccio: deve scoprire nuovi giacimenti prima di arrivare alla pepita che lo soddisferà davvero.
Nei confronti delle fonti ci vuole un atteggiamento meno rigido di quello di Mac, più duttile. Certo le fonti mentono ma le facciamo parlare lo stesso e siamo anche disposti a credere che in molti aspetti dicano la verità, e questo ovviamente non ci impedirà di dire la nostra, di fare le nostre interrogazioni investigative.
Quando uno storico scrive un testo mistificato, non ha di mira un target di lettori molto lontani da sé. Quel che più gli preme è ingannare la sua generazione, eventualmente facendo in modo, attraverso il potere politico, che non possa esservi alcun altro storico o alcun altro testo in grado di contraddirlo. I vangeli canonici, in tal senso, sono nati quando tutti i protagonisti degli avvenimenti raccontati o erano morti o non erano in grado di opporsi a quella versione mistificata dei fatti.
Se una mistificazione del genere ha successo con una determinata generazione, quella più difficile da ingannare, essendo più o meno coeva agli stessi fatti raccontati, è molto probabile che continuerà ad apparire credibile anche alle generazioni successive, le quali non avranno più gli strumenti per smentire la versione mistificata dei fatti. Eventualmente anzi i nuovi falsificatori di turno potranno ulteriormente ritoccare il testo, anche a distanza di secoli, accentuandone gli aspetti devianti.
Esiste tuttavia un importante problema da risolvere: la prima generazione (quella contemporanea allo storico falsificazionista) non può essere ingannata raccontandole dei fatti completamente inventati. Questo storico deve per forza attenersi a una certa verità oggettiva e, sulla base di questa, introdurre elementi di mistificazione.
Ora, se le cose stanno in questi termini, bisogna per forza dare credibilità ad almeno alcune parti del racconto mistificato, poiché, nel caso in cui si preferisca considerare inattendibile l'intero testo, pensare di poter ipotizzare una versione dei fatti completamente autonoma da esso è impresa del tutto illusoria. O vi si rinuncia a priori, limitandosi a sostenere che la fonte, siccome in più punti mente, non può essere considerata attendibile in alcun aspetto; oppure si fa un tentativo di ricostruzione della verità dei fatti che, per quanto razionale sia, non può mai uscire dall'ambito delle mere ipotesi. Quello che Mac deve capire è che questa seconda alternativa possiede un elemento destabilizzante per le sorti della Chiesa di molto superiore a quello dell'altra.
Mac probabilmente sembra nutrire ampie sicurezze sulla validità del proprio metodo d'indagine e sulle scoperte acquisite, poiché sa bene quanto sia naturale, nella storia dell'umanità, credere vera per migliaia di anni una determinata cosa e poi improvvisamente scoprire ch'era falsa. Mac però dovrebbe anche sapere che tutte le scoperte fatte da quando sono esistite le civiltà o non sono affatto servite a farci recuperare quell'essenza umana che avevamo prima della nascita delle civiltà, oppure ci hanno dimostrato l'importanza di quanto abbiamo perduto proprio a partire dalla nascita delle civiltà. Bisogna stare attenti, quando si fanno nuove scoperte, a non considerarle troppo nuove.
Il cristianesimo può essere nato da mille falsificazioni, ma, oggettivamente, presentava un livello di eticità superiore al paganesimo, che non conosceva i concetti di persona, di libertà di coscienza, di separazione tra Stato e Chiesa, di riscatto degli oppressi, di uguaglianza degli uomini e dei generi sessuali davanti a Dio, di collettivismo solidale ecc. E questo nonostante che il cristianesimo petro-paolino sia stato una forma di tradimento mistico del messaggio umano e politico del Cristo.
Che poi il cristianesimo abbia tradito tutto appena finite le persecuzioni, questo è un altro discorso. Gli storici dovrebbero limitarsi a contestare la svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, che furono immediatamente accettate dai vertici ecclesiastici, e senza alcun ripensamento, almeno fino a poco tempo fa. Qui sicuramente c'è meno possibilità di sbagliare.
III
La recensione di Galavotti al Giovanni Battista
Domanda: Cosa pensi della critica al Giovanni Battista?
Enrico Galavotti ci ha comunicato la sua recensione al libro Giovanni Battista. La storia mai raccontata. Nel suo sito homolaicus.com ospita anche pagine di Deiricchi: quelle sul cristianesimo sono una settantina risalenti al 2005. Da allora in Deiricchi le pagine sono aumentate tanto da superare il migliaio. Galavotti non conoscendo tutta questa produzione di studi, ammette che è “impossibile entrare nel merito” del libro di Mac “senza avere le stesse conoscenze”. Quindi si concentra su una singola appendice di questo libro e cerca in qualche modo di proporne una critica. Se non che per farlo deve partire (e terminare) adducendo “ipotesi” di ricerca, e questo dimostra che non si può parlare di “metodo” se non avendo presente l'oggetto di ricerca. Che le invenzioni che noi facciamo siano ottenute spesso anche a costo di cambiare gli strumenti di lavoro è un dato non difficile da dimostrare. Tutta la recensione di Galavotti dimostra di non focalizzare questo imprescindibile legame tra strumento e oggetto della ricerca. Pur enfatizzando un elevato livello culturale dell'autore di Deiricchi, finisce col non tenerne conto nel prosieguo, arrivando a scivolare su incomprensioni legate proprio alla mancata conoscenza di gran parte degli studi già pubblicati da Mac.
Andiamo per ordine.
Secondo Galavotti, Mac parla continuamente di “metodo storiografico”, il che non corrisponde al vero. Nel libro infatti il termine “metodo storiografico” non compare mai, mentre si fa riferimento alla “storiografia ufficiale” per indicare la storia raccontata normalmente nelle nostre scuole. E da cui Mac, nelle sue ricerche, prende le distanze, almeno per quanto riguarda il I secolo della nostra Era.
Poi Galavotti introduce una sua versione dei fatti riguardanti Gesù della quale “chiunque può rendersi conto che non collima minimamente con quella ufficiale della Chiesa cristiana. Eppure essa è stata tratta unicamente dallo studio delle fonti neotestamentarie.” Affermazione sacrosanta. Quella stessa visione infatti era stata considerata all'inizio anche da Mac, ma poi l'ha abbandonata. Il motivo di questo distacco è legato all'allargamento delle fonti sulle quali ha sviluppato la sua ricerca. Non più solo Nuovo Testamento, ma una miriade di altri testi, tra l'altro non a caso abiurati dalla Chiesa.
Di questa diversa base di studio abbiamo ben discusso nel libro, ma Galavotti non la considera e commette così un secondo fraintendimento: “Mac, che appartiene alla scuola mitologista, non solo non si accontenta di queste conclusioni, non solo ha fatto sue le tesi di un negazionista assoluto come Cascioli, circa l'identità del Cristo, ma ha voluto andare oltre, ipotizzando una propria ricostruzione dei fatti.” Poco prima Galavotti aveva intravisto due strade: “la scuola mitologista ha messo in discussione l'esistenza storica del Cristo dei vangeli, la scuola storicista ha considerato attendibili e ha ulteriormente approfondito le tesi di Reimarus.” Sempre nel libro, oltre che nel sito, abbiamo cercato di spiegare che Mac non nega l'esistenza del Gesù. Associarlo alla “scuola mitologica” è un grossolano errore, ma per noi serve a dimostrare ancora quanti fraintendimenti nascano quando si vuole commentare a tutti i costi quello che non si conosce.
Pur abusando del termine “esegesi”, Galavotti ha inteso che il lavoro di Mac ha condotto a riscrivere “completamente la storia che va dal I sec. a.C al II sec. d.C.”, e tra le righe ammette che siamo legittimati a fare ciò a causa del fatto che “le fonti neotestamentarie sono tendenziose, ma anche quelle apocrife e persino quelle non cristiane (ebraiche e romane)”. Anzi puntualizza che “la Chiesa cristiana ha compiuto una grandissima opera di rimozione della verità storica, evidentemente perché sapeva che le tesi mistiche di Pietro e Paolo non avevano nulla a che fare con quelle umanistiche e politiche del Cristo.” Continuando, in modo per noi piacevole, a rimarcare la volontà di Mac di “leggere le fonti, incluse quelle non cristiane, sino in fondo, proprio perché ha voluto rendersi personalmente conto che non esiste fonte che non sia stata in qualche modo manomessa da qualcuno.”
Galavotti però rimane contrariato dal fatto che questa ricerca conduca più in là della formulazione di semplici “ipotesi”, andando cioè “ben oltre quelle di qualunque scuola esegetica laica”. Confrontando Mac con Rudolf Bultmann, il che non può che renderci onore, egli afferma del primo che ha “un atteggiamento ostinato, caparbio, quello di chi non vuole limitarsi a sostenere che le fonti sono tendenziose, mistificanti, apologetiche, propagandistiche ecc. Mac vuole andare oltre.”
Dopo aver in qualche modo evidenziato la differenza dei risultati ottenuti da Mac, nuovamente ripropone una propria versione “laica” dei fatti affermando che “più di così, allo stato attuale delle fonti (e per noi anche la Sindone è tale) non è possibile andare, a meno che non si voglia fare 'storia' ma 'romanzo storico', come tanti prima di Mac.”
Questa conclusione permette di evidenziare il leit motiv di tutta la recensione. Ovvero, secondo Galavotti, le origini del cristianesimo sappiamo che furono riscritte dalla Chiesa a proprio uso e consumo, ma quello che possiamo dire, da “laici”, è la versione dei fatti sintetizzata da lui stesso oltre la quale non si può andare, a meno di non scadere nel “romanzo storico”.
In altri termini: non c'è altra verità, per quanto magra o incoerente, al di fuori di quella a cui sono giunti i “laici” partendo da Reimarus fino a Bultmann (che era un teologo...). Sull'altra sponda, per chi non si allinea, rimane ovviamente la storia raccontata dalla Chiesa, altrimenti si scade nelle mere invenzioni.
Domanda: Quali incongruenze si evincono dalla tesi di Galavotti?
Francamente, dopo i dogmi cattolici non ci saremmo aspettati anche quelli “laici”. Mac infatti non sta né sulle posizioni ufficiali né su quelle dichiarate da Galavotti, che sicuro com'è cade in un altro equivoco quando afferma che Mac “si difende sostenendo che applicare un metodo scientifico a una ricerca storica non ha alcun senso”. Nel libro invece si può leggere (p. 92) “il cosiddetto metodo scientifico non è sufficiente per assicurare la bontà delle ricostruzioni storiche normalmente divulgate.” Difficile non distinguere la differenza tra le due affermazioni, ma evidentemente quando si vuol difendere una propria posizione si legge anche quello che non c'è scritto.
A nulla valgono a questo punto gli esempi citati per rafforzare queste tesi “laiche”. Che fanno precipitare Galavotti in un baratro epistemologico nel momento in cui sentenzia che “scienza assoluta è un'invenzione che si sono dati gli illusi o coloro che volevano far credere che esiste una sola verità dei fatti”. Mischiando termini solo per produrre una frase d'effetto che speriamo nessun “scienziato” debba prendere come postulato alla propria ricerca. Tanto più che appena poche righe dopo Galavotti chiama in causa il famoso cubo di Rubik per smentire la ricerca di Deiricchi, non accorgendosi che proprio questo ne dimostra al contrario la validità. Per il cubo è infatti possibile pervenire ad una configurazione ordinata delle sue facce, anche se inizialmente i quadrati sembrano disposti in modo casuale. Galavotti, negando il valore dei risultati di Deiricchi, nega in pratica sia che esista la configurazione ordinata (la verità) sia che vi siano altri metodi oltre a quelli da lui suggeriti per giungervi. Siccome con questi metodi non si è pervenuti in tutti questi secoli alla “verità”, allora né questa esiste né altri metodi sono proponibili. Aiuto!
Apostrofando quindi le ricerche di Mac come un labirinto, “un percorso incredibilmente complicato”, poco dopo Galavotti afferma che “per Mac è relativamente facile uscire dal labirinto”. Anche questa contraddizione spiega molto. Prima di tutto conferma che Galavotti non ha letto la maggior parte delle ricerche di Deiricchi, perché altrimenti anche per lui sarebbe “facile uscire dal labirinto”. Secondo, Mac non nega affatto che le sue ricerche siano particolarmente complesse (più che complicate). Ci sono voluti anni per dipanare la matassa di informazioni a disposizione. È facile recitare a memoria il Credo; ben maggiore è l'impegno necessario per leggersi e confrontare tutti i testi elencati ad esempio qui.7 Se qualcuno pensa di farlo nel tempo in cui ci scrive due pagine di critiche, allora non può certamente apprezzare alcunché.
Ma è proprio a causa di questa impertinente sottovalutazione delle fatiche altrui che Galavotti considera alla stregua di artificiosi trucchi la coincidenza di più personaggi in uno solo quando afferma che Mac “ha a disposizione decine di personaggi intercambiabili, una sorta di 'mutanti', che possono cambiare aspetto all'occorrenza.” Anche qui la sua fretta di declassare il lavoro non compreso gli fa dire un'altra scorrettezza: “L'attribuzione multipla di più persone a uno stesso nome o di più nomi a una stessa persona, che Mac dice d'aver preso da Abelard Reuchlin”. Nel libro invece Mac ha scritto riguardo a Reuchlin (pag. 60): “Quando l'ho letto per la prima volta nel 2007, ho capito che anche lui aveva scoperto nei testi antichi il metodo della duplicazione dei nomi, per indicare gli stessi personaggi.” La frase di Mac era ancora una volta ben diversa dall'interpretazione di Galavotti, e stava a significare quello che abbiamo rimarcato sul cubo di Rubik, ovvero che è incoraggiante che due studiosi arrivino alla stessa soluzione, pur partendo da punti diversi.
Per non scadere nell'accanimento, Galavotti poco dopo abbassa il tiro scrivendo “Naturalmente qui non si vuole contestare il valore dell'attribuzione multipla dei nomi o la necessità di postdatare gli avvenimenti o il momento redazionale dei testi canonici.” Ma ormai il suo pensiero è stato chiaramente espresso contro quelli che Mac considera due pilastri della sua ricerca.
Più avanti Mac viene additato di “far dire ciò che si vuole” ai testi storici, cosa che l'autore invece nega più volte: la verità è quella che è, che ci piaccia o no. Certo è condivisibile la frase “È troppo comodo sfruttare il fatto che le fonti sono inaffidabili per inventarsi delle storie che non potrebbero essere smentite da quelle stesse fonti. Questo non è un metodo storiografico ma letterario.” Ma bisogna saper distinguere le storie “inventante” da quelle “ricostruite”, specie quando queste ultime sono ottenute vagliando accuratamente più fonti possibili. La leggerezza con cui Galavotti usa il primo termine è solo comprensibile considerando che ammette di non conoscere le ricerche di Deiricchi, se non nei riassunti letti nei libri Il vero profeta e Giovanni Battista.
Domanda: Come giudichi i cosiddetti “catto-comunisti”?
Fino a che punto dobbiamo continuare a giustificare gli scivoloni di Galavotti? Anche quando afferma che non può esserci stata una “regia occulta” che ci ha fornito il cristianesimo, mentre cita il famoso falso della Donazione di Costantino? Oppure quando, per insistere a portare esempi secondo lui a favore delle sue ipotesi, afferma: “D'altra parte se fra mille anni uno storico trovasse casualmente l'intera annata di un nostro qualunque quotidiano o, peggio ancora, di un qualunque nostro telegiornale, riuscirebbe forse a capire i rapporti di dipendenza economica che oggi legano il Terzo mondo all'occidente?”. La risposta anche in questo caso è “sì, quello storico ci riuscirebbe”. Ma la domanda è talmente retorica che immaginiamo Galavotti abbia ben poca fiducia degli storici più giovani di lui non solo di questo secolo, ma anche tra mille anni.
Galavotti è convinto che la Sindone non sia un falso medievale (anzi, essa sarebbe a suo avviso la prova di come andarono i fatti), per cui si comprende come facilmente apostrofi la ricerca di Mac come una “ricostruzione quanto meno arbitraria degli avvenimenti”. Troppo spesso chi non conosce l'oggetto che gli si propone o lo esalta oppure lo sminuisce. Sarebbe ora che invece cominciasse a preoccuparsi di valutarlo più in profondità. Certo, non pretendiamo che gli interlocutori di Deiricchi si sobbarchino tanta fatica, ma ci sentiamo in dovere di difendere le pagine pubblicate da critiche costruite su infondati pregiudizi.
E ci fermiamo qui per il momento nell'analisi di quanto è uscito dalla tastiera di Galavotti, perché insistere nello sviscerare le argomentazioni successive sarebbe quanto meno noioso.
Preferiamo aprire una parentesi rifacendoci a un articolo di un altro studioso laico, Walter Peruzzi, che cerca anche lui di veicolare studi specialistici sulla realtà del Cattolicesimo. Nella sua pagina si legge la difficoltà di far accettare il “cattolicesimo reale” alla diversificata marea di cattolici che lo praticano. Anche tra quelli che si dichiarano di “sinistra”. Mac nel libro “Giovanni Battista” ha riflettuto sulle capacità di convincimento della Chiesa. E, a suo parere, l'individuo “catto-comunista” è forse il parto migliore della manipolazione mentale operata dai “ministri” cristiani. Sono infatti riusciti a convertire al cristianesimo il comunista che si diceva ateo e proclamava “le religioni sono l'oppio dei popoli”. Questa è la più grande vittoria della Chiesa. Fare amare Dio, partendo dall'amore per il suo “figlio”.
Tanti “comunisti” ci sono cascati, finendo con l'enfatizzare la figura “buona” o “rivoluzionaria” di Gesù. Al massimo continuano a ripetere che il cristianesimo iniziale era una cosa, mentre quello della gerarchia ecclesiastica è un'altra. Insomma, a questi “catto-comunisti” è gradita la storia di Gesù (magari leggermente rivista a modo loro, come fa Galavotti), ma non la Chiesa che gliela trasmette. Come se il giovane nipotino dicesse alla sua nonna: “Mi piace la favola che mi stai raccontando, ma tu mi stai veramente antipatica”. Dovrebbero nutrire più di qualche dubbio proprio su quella storia, visto che è proprio la Chiesa che gliel'ha confezionata.
Ritorniamo ancora al libro di Mac, dove viene spiegato come la Bibbia che i cristiani leggono è ben diversa da quella che avrebbero avuto a disposizione se Giovanni Battista non fosse stato ucciso. E viene ribadito anche come il personaggio “buono” che è nascosto nei Vangeli è ancora il Battista, mentre Gesù era di tutt'altra tempra. Tutte cose che si leggono chiaramente, ma di cui Galavotti, tra gli altri, non fa alcun cenno. Un laico in meno che ci aiuterà nella difficile strada di svegliare le menti di questo e dei prossimi secoli? Le stesse menti che credono che le stimmate di Padre Pio siano dovute ad un intervento divino, piuttosto che pensare che siano frutto dell'uso di acidi sulla pelle?
Galavotti preferisce glissare rispetto all'urgenza di un impegno sociale che parta proprio dalla critica alla storia che ci viene raccontata. Preferisce forse pensare alle origini del cristianesimo come ad un'epoca ideale poi avvelenata dalla Chiesa? Sembra di sì, a leggere le parole di chiusura della sua recensione: “Il cristianesimo può essere nato da mille falsificazioni, ma, oggettivamente, presentava un livello di eticità superiore al paganesimo, che non conosceva i concetti di persona, di libertà di coscienza, di separazione tra Stato e Chiesa, di riscatto degli oppressi, di uguaglianza degli uomini e dei generi sessuali davanti a dio, di collettivismo solidale ecc. E questo nonostante che il cristianesimo petro-paolino sia stato una forma di tradimento mistico del messaggio umano e politico del Cristo. Che poi il cristianesimo abbia tradito tutto appena finite le persecuzioni, questo è un altro discorso. Gli storici dovrebbero limitarsi a contestare la svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, che furono immediatamente accettate dai vertici ecclesiastici, e senza alcun ripensamento, almeno fino a poco tempo fa. Qui sicuramente c'è meno possibilità di sbagliare.” Frasi che fanno eco a quelle precedenti: “Mac però dovrebbe anche sapere che tutte le scoperte fatte da quando sono esistite le civiltà o non sono affatto servite a farci recuperare quell'essenza umana che avevamo prima della nascita delle civiltà, oppure ci hanno dimostrato l'importanza di quanto abbiamo perduto proprio a partire dalla nascita delle civiltà.” Ci pare di leggere il racconto biblico sulla cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre!
Noi abbiamo un alto rispetto dell'impegno profuso da tanti studiosi per muoversi al di fuori della strada tracciata nel passato. Però, vediamo che molti intellettuali che si proclamavano “laici” si sono adattati ad una quieta convivenza con un pensiero reazionario, dimenticandosi del pericoloso oscurantismo che esso cela. Nella fattispecie pensiamo che il pensiero “laico” debba superare un'analisi storica, e sociale, che qua e là, anche quando meno te l'aspetti, non sa andare oltre gli stilemi insegnati proprio dall'istituzione verso la quale più vorrebbe essere critico, ovvero la Chiesa cattolica.
Per fortuna, ci sono nuovi lettori che, sollecitati anche da crisi in essere per certi versi molto più profonde di quelle vissute dalle generazioni precedenti, possono dedicarsi agli studi di Mac con molti meno preconcetti e un giovanile desiderio di conoscenza.
Piccola controreplica
1) Il fatto che uno storico dichiari di non avere alcun “metodo storiografico” non può di per sé voler dire che non ne abbia alcuno. Se questa aspirazione alla neutralità o alla scientificità vien fatta valere al fine di non essere etichettati ideologicamente, allora è bene sapere che nessuno sfugge alla necessità d'avere una propria ideologia né, tanto meno, all'inevitabilità d'essere “etichettato” da parte degli altri. Quante volte tra storici di professione o esegeti del Nuovo Testamento si sentono frasi del genere: “questa cosa è già stata detta” o “quali sono le tue fonti”? Lo stesso Mac mi definisce “catto-comunista”, quand'io avrei preferito “ateo-comunista”, pur nella consapevolezza che su entrambi i termini, “ateismo” e “comunismo”, ci sarebbe da scrivere un libro intero, in quanto diversissime sono le interpretazioni che se ne danno.
Questo per dire che non esiste un'interpretazione “scientifica” che possa sottrarsi a un giudizio sulla propria “ideologia”. Il problema infatti non è certamente quello di avere delle “idee” e, se vogliamo, neppure quello di avere delle “idee fisse”, quanto piuttosto quello di dimostrarne la fondatezza, scegliendo le forme e i modi che più si ritengono adeguati; e la fondatezza di queste idee non necessariamente la si ricava da una conoscenza enciclopedica dei fatti, ovvero dalla propria erudizione. Essere “scientifici” significa soltanto saper esprimere giudizi che colgano l'essenza delle cose.
Che esistano evidenti tracce di “illuminismo” nelle ricerche di Mac lo si nota anche laddove egli sostiene che di un esegeta non si può dir nulla finché non si è letto tutto quanto ha scritto. Ora, se un esegeta, ogni volta che scrive, non riesce a sintetizzare il meglio del suo pensiero, la responsabilità per un'eventuale incomprensione dei significati della sua ricerca, non può ricadere unicamente sul lettore che lo interpreta. Ai fini di una ricostruzione sintetica della vicenda del Cristo (e delle sue falsificazioni) non sarebbero forse stati sufficienti i due vangeli di Marco e di Giovanni? Hanno forse aggiunto qualcosa di veramente significativo gli altri due? in grado davvero di colmare delle lacune fondamentali? Anzi, non siamo forse addirittura disposti ad ammettere che tutto il significato della vicenda del Cristo e delle sue falsificazioni sta unicamente nel quarto vangelo?
Se poi Mac voleva dire che un'interpretazione politica favorevole al comunismo (come in molti ambienti lo era negli anni Settanta) condiziona inevitabilmente e pesantemente un'esegesi che vede in Gesù un leader politico-rivoluzionario, questo non può di per sé significare che l'esegesi sia sbagliata. Noi stessi ci rifiutiamo di pensare che l'esegesi di Mac sia in difetto proprio perché egli propende per la posizione filosofica di Bertrand Russell.
2) Non si diventa più “scientifici”, come storici, soltanto perché si prendono in esame “testi abiurati” dalla Chiesa cristiana. Non è questo che, di per sé, può dare maggiori garanzie. Si può essere “scientifici” anche soltanto avendo un atteggiamento circospetto nei confronti dei testi considerati “canonici” dalla Chiesa. Non esistono testi che, di per sé, siano più “veri” di altri. Ogni testo deve sempre essere sottoposto a indagine critica. La verità non sta nelle parole in sé, ma in quello che loro possono o riescono a comunicare, che va al di là delle stesse parole. Ciò può sembrare un approccio tautologico al problema ermeneutico, ma è l'unico che aiuta a trovare soluzioni non schematiche, non scontate.
3) Che nei confronti dell'interpretazione della vicenda di Gesù Cristo, esistano due scuole fondamentali, sin da quando s'è iniziato a mettere in dubbio l'attendibilità dei vangeli, è assodato: o il Cristo dei vangeli, per come viene descritto, non è mai storicamente esistito (cioè è una costruzione mitologica), oppure, se è esistito, bisogna cercare di capire i motivi per cui s'è voluto darne, in molti punti di quei racconti, una versione falsificata. Le due scuole possono ovviamente coesistere solo nella misura in cui non ci si ferma a constatare la tendenziosità delle fonti, ma si comincia a ipotizzare una ricostruzione attendibile dei fatti, in virtù della quale si possono poi spiegare le scelte mistificanti.
Mac dichiara di non negare l'esistenza di Gesù, ma dalla sua ricostruzione delle vicende, ciò, in ultima istanza, sembra risultare del tutto irrilevante. In compenso egli pare non avere dubbi nel considerare “confessionale” un'esegesi che vede nel Cristo un leader politico, laico e rivoluzionario.
4) Mac ha la pretesa di dire cose assolutamente inedite su un fatto che da circa due secoli e mezzo viene interpretato, dalla miglior critica, in maniera laica e razionalista. Un atteggiamento del genere si addice poco a uno studioso che aspira a compiere “ricostruzioni storiche” e non “romanzi di fantascienza”. Ci vuole rispetto per chi ci ha preceduti. Uno poi si sceglie le proprie fonti ispirative e pensa di proseguire in direzioni già tracciate, eventualmente proponendo nuove piste di ricerca, nuove ipotesi interpretative, in tutta umiltà.
Io stesso penso d'aver aggiunto alle ricerche già fatte, soltanto l'interpretazione della politicità del Cristo sulla base del reperto della Sindone e il lato del tutto “umanistico” del suo messaggio, privo di qualunque riferimento religioso. Inoltre sono convinto che la catastrofe della guerra giudaica non sia un motivo sufficiente per ritenere destinata alla sconfitta l'insurrezione del movimento nazareno. Le condizioni del successo stavano appunto nella ricomposizione delle rivalità interetniche tra Giudei, Galilei e Samaritani, che il Cristo aveva compiuto, in maniera convincente, solo dopo la morte del leader giudeo Lazzaro.
5) Che la “verità” sui fatti della vicenda di Gesù non possa, al momento, andare oltre una semplice ricostruzione ipotetica, è per noi del tutto pacifico ed è strano che Mac non voglia prenderne atto. Se fosse vero il contrario, non avremmo a che fare con miliardi di persone ancora devote all'interpretazione dominante. Se scoprissimo un'altra biblioteca come quella di Qûmran, forse potremmo aggiungere un tassello in più, magari anche solo per convalidare ipotesi di tipo falsificazionista. Ma forse sarebbe meglio limitarsi a dire che non può esistere alcuna fonte che, di per sé, possa attestare una verità inequivocabile. La verità non sta in qualcosa di “materiale”, ma nell'interpretazione che se ne può dare e su cui si deve avere il coraggio e la possibilità di confrontarsi liberamente. Questo perché non è solo la verità che rende liberi, ma è anche la libertà che rende vere le cose.
6) Forse l'errore maggiore nella storiografia di Mac sta nell'aver pensato che quando in una fonte si trovano aspetti falsi o mistificati, allora tutta la fonte diventa inattendibile. Un atteggiamento del genere sarebbe però sbagliato anche se si esaminassero testi del tutto inventati come i miti greci o le favole dei fratelli Grimm. Dietro qualunque testo vi sono riferimenti storici molto realistici, anche quando i testi sono prodotti a tavolino da autori singoli o collettivi, della cui identità non si sa nulla. Non si deve aver paura di riconoscere al proprio “nemico” il valore di certe sue esperienze. Anzi, bisogna cercare di appropriarsene, e non per motivi tattici, ma proprio nella convinzione che, non facendolo, ci si priverebbe di qualcosa d'importante.
(torna su)4) Grandezza e limiti di Samuel Brandon
Samuel Brandon è stato uno degli esegeti che meglio di chiunque altro s'è avvicinato alla comprensione del lato politico-rivoluzionario del vangelo di Cristo (vangelo che, beninteso, non coincide certamente coi vangeli canonici e ancor meno con quelli apocrifi). La sua opera, Gesù e gli Zeloti, pur scritta nel 1967 (pubblicata in Italia nel 1983 dalla Rizzoli e riedita da Pgreco nel 2014) resta assolutamente fondamentale per poter comprendere come uscire dalle secche dell'esegesi confessionale. Essa anticipò il meglio dei teologi della liberazione e dei cristiani per il socialismo.
Brandon riconosce i suoi debiti nei confronti di Reimarus, R. Eisler, E. Stauffer e soprattutto M. Hengel, per la sua opera sugli Zeloti; e, per quanto anche Kautsky avesse scritto un'opera di notevole valore storico sul cristianesimo primitivo, le analisi di Brandon si leggono in maniera più suggestiva, anche perché ha un'ottima conoscenza di Giuseppe Flavio.
Brandon è stato uno di quegli esegeti ad aver capito perfettamente che la predicazione del Cristo non solo non aveva nulla a che fare con quella di Paolo di Tarso (il vero fondatore del cristianesimo), ma non trovava neppure la minima rispondenza nel primo vangelo che su di lui era stato scritto: quello di Marco, discepolo di Pietro.
Dopo essersi concentrato enormemente su questo vangelo, l'esegeta anglicano arrivò a dire ch'esso era politicamente tendenzioso, in quanto, pur di far apparire al lettore pagano un Cristo politicamente inoffensivo, si sentì indotto a fare professione di antisemitismo, scaricando sulla sola classe sacerdotale giudaica il peso della crocifissione di Gesù.
Brandon non ebbe dubbi nel sostenere che quella esecuzione capitale fu dettata da motivazioni che non erano solo “religiose” (e quindi spiacevoli per i sommi sacerdoti), ma anche strettamente “politiche”, invise a un tutore dell'ordine pubblico come il prefetto Ponzio Pilato. Cristo era stato giustiziato perché “sedizioso”, sovversivo e, in questo, egli assomigliava straordinariamente ai patrioti del partito zelota, principali protagonisti della guerra giudaica trent'anni dopo la morte di Gesù, fino al suicidio di massa nella fortezza di Masada.
Un grave errore compiuto da Brandon (ma considerando ch'era un sacerdote possiamo perdonarglielo molto facilmente) è stato quello di credere che il Cristo volesse realizzare in Palestina una sorta di “regno di Dio”, proprio come gli zeloti.
In realtà la più recente esegesi laica è arrivata alla conclusione che Gesù non solo non era un “cristiano”, ma non era neppure un “ebreo osservante” (a differenza di quanto sostengono i coniugi Pesce-Destro), quindi è da escludere che volesse fare un'insurrezione armata che avesse una connotazione religiosa. Gesù non rispettava il sabato, le regole alimentari, non frequentava il Tempio ma pubblicani e peccatori, e dalle sinagoghe veniva facilmente espulso. Non lo si vede mai pregare o istituire dei sacramenti, né fare guarigioni appellandosi a forze che non fossero umane (ammesso e non concesso che ne abbia mai fatte). Insomma, tutto quanto lo fa apparire come un “dio” va considerato una mistificazione.
Se il vangelo manipolato di Giovanni viene letto tra le righe, si scopre addirittura che Gesù viene giudicato “empio” agli occhi dei Giudei non tanto perché si dichiarava “figlio di Dio” in via esclusiva, quanto perché si professava “ateo”, soprattutto quando diceva che “tutti gli uomini sono dèi” (Gv 10,34), nessuno escluso.
L'errore fondamentale di Brandon è stato quello di non accogliere la versione cronologica dei fatti che offre il quarto vangelo. Se l'avesse fatto si sarebbe accorto che l'epurazione del Tempio, all'inizio dell'attività politica del Cristo, segna la rottura definitiva con la politica religiosa dei sommi sacerdoti e del loro partito sadduceo, ma anche con l'idea che si potesse superare la loro vergognosa corruzione attraverso semplici riforme religiose (come p.es. quella del Battista) o confidando nelle antiche tradizioni ebraiche (come volevano i farisei).
Brandon dà per scontato che Gesù fosse uno zelota che volesse compiere un'insurrezione politico-religiosa (in quanto per gli ebrei di allora non si faceva differenza tra politica e religione). In realtà Cristo voleva compiere una rivoluzione nazionale di tutta la Palestina (galilaica, giudaica e samaritana), perché sapeva che in caso contrario i Romani avrebbero vinto. Ma per farne una “nazionale” doveva necessariamente soprassedere alle differenze religiose che dividevano etnie e tribù, ovvero chiedere che si rinunciasse ai primati storici che ogni nazione (specie quella giudaica) rivendicava. Per superare gli odi etnico-tribali Gesù predicò la libertà di coscienza in materia di fede religiosa, al fine di costruire un regno che non fosse anzitutto caratterizzato religiosamente. Lo attesta, in maniera inequivocabile, l'incontro coi Samaritani.
Ma forse l'errore più grave di Brandon sta nel fatto ch'egli non credeva possibile che una minuscola nazione come Israele avrebbe potuto sfidare con successo la potenza di un grande impero come quello romano, che s'era già imposto vittoriosamente su altri popoli, assai più forti e numericamente più consistenti degli ebrei. Su questo la pensava proprio come Giuseppe Flavio e i sommi sacerdoti, che pur critica duramente.
D'altra parte anche Kautsky, nella sua Origine del cristianesimo (ed. Samonà e Savelli, Roma 1970), la pensa alla stessa maniera. A questo punto però ci si potrebbe chiedere: perché il Vietnam sì e la Palestina no? Davvero Israele non aveva alcuna possibilità di non farsi dominare da Roma? Dobbiamo quindi credere che tutti i tentativi insurrezionali, incluso quello del Cristo, erano fatalmente destinati alla sconfitta? I Romani riuscirono forse a sottomettere i Germani al di là del Reno?
La storia dimostra, in realtà, che esistono alcune condizioni favorevoli all'insurrezione armata contro l'invasore, che si possono riassumere nelle seguenti:
nel momento dello scontro decisivo occorre far valere aspetti di natura più tattica e strategica, politica e organizzativa, che non di natura ideologica: le questioni di principio, che inevitabilmente tendono più a dividere che a unire, vanno rimandate a momenti successivi, quando la pace è assicurata;
è necessario cercare l'appoggio di alleati contro il nemico comune, evitando di porre condizioni troppo onerose per la realizzazione delle intese;
una guerra difensiva è sempre meno difficile da combattere di una guerra offensiva, ed è anche meno costosa;
una guerra condotta sul proprio territorio è sempre più facile da gestire di una guerra su territori altrui;
contro un nemico più forte sul piano tecnico e militare non c'è possibilità di vittoria senza una guerra di popolo;
nel corso della guerra, e finché essa dura, la direzione degli eventi deve essere centralizzata.
Si può semmai discutere se non fosse il caso di liberare prima la Galilea e poi la Giudea e tutta la Palestina, visto che in Galilea il movimento di resistenza armato aveva radici più solide. La Galilea aveva già tentato di insorgere contro Roma in occasione del censimento, ma senza l'appoggio della Giudea tutti i suoi tentativi erano falliti. Quando il movimento nazareno prende le mosse in senso rivoluzionario, quello zelota era già uscito sconfitto dallo scontro coi Romani, e trent'anni dopo la crocifissione del messia sarà di nuovo il partito zelota a scatenare la guerra contro Roma, partendo questa volta non dalla Galilea ma dalla stessa Giudea, ancora una volta però compiendo gli stessi errori di massimalismo e di settarismo di mezzo secolo prima.
La scelta del messia Gesù di partire da Gerusalemme era strategica per varie ragioni:
la capitale era riconosciuta da tutta la Palestina, anche se i Samaritani non la frequentavano per il culto nel Tempio;
durante la pasqua era caratterizzata da un enorme afflusso di persone, su cui si sarebbe potuto contare nel caso di un'occupazione della Fortezza Antonia, ove era acquartierata la coorte romana;
senza una popolazione del genere sarebbe stato impossibile resistere all'assedio delle legioni romane;
la città aveva mura imponenti;
al suo interno sarebbe stato molto facile controllare l'aristocrazia sacerdotale che teneva rapporti di collaborazione coi Romani, e quindi estrometterla da qualunque tipo di gestione degli affari pubblici e soprattutto impedirle un controllo spregiudicato delle forze politiche presenti nel Sinedrio;
se Gerusalemme avesse dimostrato di saper resistere ai Romani, non solo tutta la Palestina sarebbe insorta, ma anche tutto il Medio Oriente, e se questo fosse riuscito nell'intento, altre regioni dell'impero si sarebbero ribellate: germaniche, danubiane, sarmate... L'impero aveva già raggiunto la sua massima estensione: poteva soltanto essere progressivamente ridimensionato. La sconfitta di Israele sarà invece l'ultima grave disfatta di una nazione occupata da Roma, che permetterà all'impero di sopravvivere per altri tre secoli.
Brandon infine non è mai arrivato a dire che, nel mentre operava per la liberazione della Palestina dalla dominazione straniera, Gesù voleva realizzare anche la democrazia e un socialismo analogo a quello che in Palestina si viveva prima dello sviluppo dello schiavismo. Gesù voleva ripetere l'impresa dei Maccabei, evitando però il confessionismo statale e superando nettamente il potere dell'aristocrazia sacerdotale: cosa che si sarebbe potuta fare dando alla società civile la possibilità di tornare alle proprie origini collettivistiche.
Secondo Brandon i cristiani, durante la guerra giudaica, si unirono al movimento zelota e perirono tutti e tutti i loro archivi andarono dispersi. È difficile tuttavia pensare che i cristiani seguaci di Pietro e di Paolo si siano comportati così. Perché mai avrebbero dovuto prendere le armi per seguire un messia diverso da quello che già avevano avuto, il cui ritorno stavano attendendo in maniera del tutto pacifica?
(torna su)5) Tranfo e La croce di spine
Questioni preliminari
I
Si potrebbe iniziare questa recensione al libro di Giancarlo Tranfo, La croce di spine, Chinaski ed. 2008, parafrasando in maniera scherzosa il Prologo giovanneo:
In principio era Cascioli
E Cascioli era presso il web
E Cascioli era ateo
L'ironia in realtà è relativa, poiché effettivamente Luigi Cascioli risulta essere, per il web laicista, un terminus a quo obbligato, non tanto per la sua controversia legale col parroco di Bagnoregio, quanto per i suoi studi ateistici sul cristianesimo primitivo, come documentano il suo sito e il suo fondamentale testo: La favola di Cristo (2001), che però trova un'anticipazione, seppur non così radicale, nel volume di David Donnini, Cristo. Una vicenda storica da riscoprire, ed. ErreEmme, Roma 1994.
Ciò a dimostrazione che gli studiosi italiani presenti in rete seguono un percorso del tutto autonomo rispetto a quello dell'editoria cartacea specializzata nel trattare argomenti del genere. Il web nazionale si sta conquistando un proprio spazio, spesso di rilievo sul piano dei contenuti, anche se ancora lontanissimo dalla scientificità filologica degli esegeti tedeschi, e sicuramente di più ampia risonanza rispetto a quanto avviene, sul tema dell'ateismo, nell'editoria tradizionale italiana.
Webmaster del sito www.yeshua.it Tranfo è uno degli esempi più eloquenti di quanto sia forte in rete la cosiddetta “interazione-utente”; anzi, nel suo caso, non l'unico in verità, è stata addirittura l'editoria cartacea che ha ritenuto meritevole di pubblicazione un prodotto digitale nato per il web e, se vogliamo, nato anche per essere “politicamente scorretto”, come spesso succede in rete a quei webmaster che hanno il coraggio di affrontare il fenomeno del cristianesimo su basi non confessionali. Un plauso quindi al coraggio della casa editrice.
Forse l'unico webmaster che, a tutt'oggi, ha preso seriamente in considerazione questi studi ateistici, partendo da quelli di Cascioli, è stato, sul versante cattolico, mons. Silvio Barbaglia, un docente che ha al suo attivo varie pubblicazioni e che, criticando Cascioli, ha più volte ribadito, peraltro giustamente, che le tesi dell'“agronomo” (come lui stesso lo chiama per dileggio) non sono supportate da citazioni di precedenti fonti ateistiche. Il che, per il Barbaglia, è motivo sufficiente per squalificare l'intero impianto dimostrativo del Cascioli e, quindi, indirettamente – aggiungiamo noi –, quello di tutti i suoi epigoni, tra cui inevitabilmente lo stesso Tranfo, che considera Cascioli “maestro e amico”.
Ma è stato proprio qui l'errore di Barbaglia: l'aver sottovalutato enormemente il fatto che a partire dagli studi di Cascioli, dipendenti da ricerche ultramontane, la rete si è sentita stimolata ad affrontare la questione del cristianesimo primitivo in una direzione opposta a quella solita del clericalismo nazionale. La croce di spine è un esempio eloquente di cosa voglia dire, in campo storiografico, muoversi in maniera indipendente e con sufficiente rigore dalle tesi dell'ufficialità confessionale e, per molti versi, anche da quelle dell'ufficialità “collaterale”, che resta non confessionale solo per difendere la laicità dello Stato, ma che poi non apre bocca quando si tratta di svolgere ricerche culturali controcorrenti.
Non si può squalificare l'opera di seri studiosi italiani, solo perché il loro background culturale non può essere definito come “ortodosso” (in riferimento agli studi biblistici, esegetici, ermeneutici, linguistico-redazionali... che vanno per la maggiore) o solo perché – come Barbaglia ha più volte detto – le loro tesi non aggiungono nulla a quanto già detto, in chiave laicista, dalla Sinistra hegeliana ad oggi.
Anche la Chiesa romana (salvo le differenze, tutte interne al clericalismo, dalle confessioni ortodossa e protestante) non ha mai aggiunto nulla di nuovo alle proprie interpretazioni: sono duemila anni che ripete sempre le stesse cose e che ostacola la libertà di pensiero, probabilmente perché si rende conto che una qualunque lettura “eretica” finisce sempre non con lo stimolare una personalizzazione della fede ma, al contrario, con l'ingrossare le fila del secolarismo (nonostante ancora oggi in Italia si faccia fatica a trovare, a livello universitario, una lettura chiaramente “ateistica” del cristianesimo).
Qui però, invece di svelare le possibili fonti di Cascioli, o invece di ricordare la straordinaria storiografia ateistica sovietica, sviluppatasi a ridosso di quella positivistica francese, cui lo stesso Cascioli attinge a piene mani, preferiamo ribadire la tesi di fondo dell'esegesi storicistica, in senso laicista, relativa alla figura di Gesù Nazareno.
Va considerato come un dato assolutamente acquisito – e Tranfo ne prende intelligentemente atto, a differenza degli esegeti di tutte le confessioni cristiane, che si ostinano a negarne l'evidenza – il fatto che le fonti neotestamentarie non sono sufficienti per comprendere l'evento-Cristo, in quanto pesantemente manipolate negli aspetti più significativi, quelli che appunto avrebbero potuto mettere in cattiva luce i cristiani nei confronti del potere romano dominante.
Da tempo vado affermando che l'unica fonte “certa” che abbiamo di Cristo è la Sindone, la cui attendibilità è la riprova che i vangeli e tutto il Nuovo Testamento mentono. L'intera impostazione evangelica che vede in Cristo un pacifico redentore morale universale è falsa, e la Sindone sta proprio lì a dimostrare che il Cristo era in realtà un leader politico-nazionale che lottava per la liberazione della Palestina dai Romani.
Si può anche non credere nella Sindone – la stessa Chiesa romana, non a caso, la ritiene ufficialmente un falso medievale, pur insistendo, di tanto in tanto, a mostrarla al pubblico come una reliquia –, ma non si può non partire oggi, per fare un'indagine un minimo seria e meritevole di ulteriori sviluppi, dalla tesi secondo cui il Cristo è stato crocifisso proprio in quanto costituiva una pericolosa minaccia per gli equilibri di potere che Roma aveva costruito nella Palestina col giudaismo collaborazionista.
In tal senso non val neanche la pena discutere con quelle posizioni religiose che insistono nel sostenere il lato meramente “spiritualistico” della missione del Cristo: non ci si comprende neppure sul significato delle parole che si usano.
Detto questo, bisogna andare avanti, e dovrà farlo anche Tranfo, perché, nonostante la grande fatica spesa per scrivere questo libro, sarebbe sciocco pensare che il suo pregio stia più nelle risposte date alla controversia su chi ha davvero fondato il cristianesimo, che non invece nelle nuove domande che quelle risposte suscitano.
Una volta appurato il lato “politico-rivoluzionario” del Cristo, quali erano i contenuti del suo messaggio? Questi contenuti possono ancora avere un valore per il presente o ci si deve limitare ad analizzarli da un punto di vista meramente storico? Siamo sicuri che la crocifissione sia stata causata solo dalla volontà reazionaria dei poteri costituiti (romani e giudaici) o non dobbiamo forse pensare che sia esistita anche una sorta di “concausa” da parte del popolo ebraico e persino dei seguaci del Nazareno? Il Cristo presente a Gerusalemme nel periodo pasquale aveva davvero la possibilità di realizzare una rivoluzione vittoriosa, oppure vi era andato nella speranza che il proprio martirio sarebbe servito per sobillare le masse e scuotere il potere costituito? Davvero una piccola nazione come la Palestina avrebbe avuto la possibilità di abbattere il colonialismo romano in quella regione? Cosa sarebbe successo se il Cristo, invece di morire in croce, fosse effettivamente riuscito a disarmare la guarnigione comandata da Pilato?
Sono talmente tante le domande da fare “che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (Gv 21,25).
II
Un qualunque studioso delle origini del cristianesimo oggi non può non scrivere un apposito capitolo dedicato al movimento esseno di Qûmran. Anche Giancarlo Tranfo lo fa, nel suo La croce di spine, intitolando il capitolo 2 forse in una maniera che a un esegeta provetto potrà apparire eccessiva, in quanto pare davvero impossibile scorgere nelle tesi ivi esposte qualcosa di veramente originale rispetto a quanto già detto sul tema nell'ultimo mezzo secolo: “Nuove luci sulla vicenda messianica: i rotoli di Qûmran e i Vangeli di Nag Hammadi”.
Senza risalire alle grandi diatribe scoppiate negli anni Cinquanta e Sessanta tra A. Dupont-Sommer, W. F. Albright, I. De Fraine, R. de Vaux, J. M. Allegro, C. Roth, M. Hengel, basterebbe infatti leggersi i testi di S. Brandon, tradotti peraltro nella nostra lingua, per avere già un quadro generale delle ipotesi interpretative più significative che ancora oggi attendono riscontri oggettivi convincenti.
Qui tuttavia non vogliamo mettere al vaglio le tesi di Tranfo, facendo pesare le argomentazioni di quegli illustri esegeti che hanno visto nei rotoli di Qûmran una nuova occasione per dimostrare le falsificazioni del Nuovo Testamento. Preferiamo invece limitarci a fare semplici osservazioni, nella speranza che uno studioso laico come Tranfo, di cui certamente il web ha bisogno, ne approfitti per proseguire le sue ricerche in maniera ancora più approfondita.
Il sillogismo fondamentale di Tranfo, sulla scia p.es. di altri studiosi che l'han preceduto in rete, come L. Cascioli e D. Donnini, sembra essere il seguente: a Qûmran si respirava un clima eversivo, in quanto gli esseni, nel I sec. d.C., erano molto vicini agli zeloti; nei vangeli si riscontrano varie cose che sembrano derivare direttamente da quella comunità (come p.es. la pratica del battesimo e il rito dell'eucaristia, ma anche l'elogio della povertà, l'obbligo di non giurare, i toni apocalittici ed escatologici ecc.); dunque Cristo era un rivoluzionario.
Ecco perché – prosegue Tranfo – nei vangeli non vi è alcun cenno esplicito né agli esseni né agli zeloti; ed ecco perché ancora oggi la Chiesa romana tende a negare questo diretto collegamento, salvo l'ammissione probabilistica (fatta di recente anche da papa Ratzinger) di un certo legame, privo però di alcun contenuto politico.
Ora proviamo a fare altre supposizioni e vediamo se Tranfo sarà in grado di coglierle e di svilupparle ulteriormente, confermandole o negando ad esse un vero valore:
– la risposta essenica alla crisi di credibilità delle istituzioni politico-religiose palestinesi era stata sì faticosa (zona desertica, rinuncia ai beni personali, disciplina ferrea, isolamento sociale), ma in fondo pessimistica, in quanto politicamente rassegnata, almeno sino al momento in cui la comunità non decise di lasciarsi coinvolgere nella guerra giudaica scoppiata nel 66 d.C. e capeggiata dagli zeloti;
– prima di quella guerra gli esseni avevano subìto l'importante defezione dei battisti, guidati da Giovanni (detto poi, dai cristiani, il Precursore), il quale volle porre all'ordine del giorno una predicazione ad extra della setta, in grado di coinvolgere le masse urbane. La differenza tra lui e il Cristo, che gli fu coevo, stava proprio in questo, che il Nazareno frequentava le masse urbane nelle loro stesse città, senza chiedere loro di uscirvi per andare a compiere un gesto di penitenza morale che avrebbe rischiato di porsi come fine a se stesso. Il Battista infatti, per dare uno sbocco operativo alla propria missione, ad un certo punto cominciò a contestare la validità giuridica del matrimonio di Erode Antipa. Non arrivò mai a organizzare un movimento popolare di protesta politica.
– Il Precursore era uscito dal deserto per stabilirsi in un fiume (il Giordano), per dare maggiore visibilità e incidenza agli ideali essenici, e aveva proposto un battesimo di penitenza per gli umili e per i potenti, nella speranza che si potesse trovare un'intesa comune contro i Romani e i collaborazionisti sadducei. Tuttavia, quando il Cristo gli propose di compiere coi discepoli dello stesso Battista un'azione dimostrativa contro la corruzione del Tempio di Gerusalemme, al fine d'indurre la popolazione a emanciparsi dalla sudditanza nei confronti del clero e della religione in generale, il Battista rifiutò, ritenendo il gesto troppo “rivoluzionario”. Ciò gli fu fatale, in quanto una parte dei discepoli lo abbandonò per partecipare col Cristo alla cosiddetta “purificazione del Tempio”.
– Finché Gesù resterà vivo, fra nazareni e battisti non vi saranno più rapporti significativi. Ma dopo la disfatta del 70 d.C., che determinerà la scomparsa delle istanze rivoluzionarie sia dei cristiani che non si riconoscevano nel petrinismo, né, tanto meno, nel paolinismo, sia degli stessi esseni, i cui esponenti più irriducibili perirono nell'ecatombe di Masada, insieme agli ultimi zeloti, le cose mutarono rapidamente e, inevitabilmente, a favore del revisionismo storico. Le Lettere di Paolo, il testo più antico della cristianità a noi giunto, che fino a quel momento non costituivano che una variante minoritaria dell'ideologia petrina, rivolta esclusivamente ai Gentili, divennero la base su cui costruire i vangeli, il primo dei quali, attribuito a Marco, venne redatto subito dopo il trionfo dei Flavi.
– Pur avendo sempre evitato qualunque riferimento storico alle vicende del Cristo, la cui morte veniva interpretata in un modo squisitamente mistico, portando alle estreme conseguenze la tesi petrina della “morte necessaria” e della “resurrezione”, Paolo si trovò improvvisamente, dopo la propria morte, ad essere considerato come principale ispiratore di una ricostruzione storica (per noi altamente falsificata) dell'intera vicenda cristica. Avendo a che fare prevalentemente coi Gentili o con ebrei ellenisti (quelli della diaspora), Paolo s'era reso conto che un riferimento storico particolareggiato al Cristo non l'avrebbe aiutato di un millimetro a propagandare il proprio vangelo (certamente molto diverso da quello del Cristo e persino in parte divergente anche da quello di Pietro), proprio perché un qualunque discorso “storico” sulla figura del messia Gesù non poteva non implicare un discorso “politico” circa il suo messaggio, strettamente connesso a questioni di “indipendenza nazionale” da Roma. Ma quando le istanze rivoluzionarie vennero meno, i redattori cristiani poterono cominciare a parlarne in chiave mistica, senza rischiare che i propri lettori non le accettassero. Di qui il fatto che i Sinottici presentano un Gesù storico, sovversivo nei confronti di Israele, che in realtà si basa sul Cristo della fede di matrice petro-paolina. Il vero “Gesù storico”, quello ostile a Roma, verrà definitivamente rimosso.
– Siccome gli Atti degli apostoli parlano soprattutto degli “atti” di Pietro e di Paolo, noi non sappiamo quale atteggiamento tennero i seguaci del Cristo presenti a Gerusalemme sino alla disfatta del 70, cioè non sappiamo se aderirono alla rivolta armata del 66 o se invece preferirono emigrare dalla città santa e da altre località della Palestina. Possiamo però supporre che quando i primi vangeli cominciarono a circolare, la generazione che aveva seguito direttamente Gesù o che aveva partecipato alla guerra giudaica, era già definitivamente scomparsa o comunque non aveva alcun potere per mettere in discussione le tesi apologetiche (filo-romane) esposte in quei testi. Paradossalmente quindi i redattori dei testi più “storici” del N.T. (i vangeli e gli Atti) sono enormemente influenzati, nelle loro tesi di fondo, dalle posizioni antistoricistiche di Paolo. La storia di Gesù Cristo e della comunità di Gerusalemme fu scritta quasi sotto dettatura dei discepoli di Paolo.
– Ciò non poteva non avere ripercussioni sulla ricostruzione redazionale dei rapporti tra il Battista e Cristo e, più in generale, tra i cristiani e gli esseni. Dopo aver spoliticizzato al massimo la figura di Gesù, seguendo le indicazioni di Paolo, in modo che sui cristiani non pesasse alcun sospetto di sovversivismo antiromano, si poteva anche riavvicinare il Battista al Cristo sul piano etico-religioso, prendendo persino dagli esseni alcuni aspetti mistico-rituali (il primo dei quali fu l'eucaristia) che potevano essere messi a capo della nuova configurazione religiosa della comunità cristiana.
– La riabilitazione del Battista e quindi, pur senza dirlo, degli esseni rientra nella linea revisionistica inaugurata da Pietro e proseguita da Paolo; è una riabilitazione puramente simbolica, avente uno scopo meramente etico-religioso. Nei vangeli il Battista riconosce Gesù come messia quando questi non ha più alcuna sembianza politica. Fa eccezione il IV vangelo, ove viene detto in maniera sufficientemente chiara, nonostante le evidenti interpolazioni e manomissioni, che tra Gesù e Giovanni non vi fu alcun rapporto politico organico, in quanto il Battista non accettava il lato rivoluzionario della strategia politica del Cristo. E di quest'ultimo viene detto espressamente che non battezzò mai nessuno: il che lascia supporre che Cristo non abbia mai avuto alcun vero rapporto né con gli esseni né coi battisti. La miglior critica esegetica esclude tassativamente che Giovanni abbia mai battezzato Gesù.
– In virtù dei risultati della critica ateistica sarebbe banale oggi sostenere che il riconoscimento, da parte del Battista, della messianicità del Cristo in quanto dipendente dalla sua “figliolanza divina”, è cosa del tutto inverosimile sul piano storico. Oggi forse si può fare un passo avanti azzardando un'ipotesi che farà molto meno piacere alla Chiesa romana di quella che invece considera gli aspetti mistico-rituali del cristianesimo come originari del mondo essenico. E l'ipotesi potrebbe essere questa: Giovanni non fu in grado di riconoscere nel Cristo il messia politico-nazionale non solo perché lo riteneva troppo “rivoluzionario”, ma anche perché lo riteneva assolutamente “ateo”.
– Se questo è vero, allora dobbiamo dire – contro Tranfo – che tutti i possibili agganci evangelici alle tradizioni esseniche non sono una dimostrazione del lato “politico-rivoluzionario” del Cristo, ma, al contrario, il tentativo di negare proprio questa caratteristica eversiva. Infatti egli non istituì alcun sacramento (il IV vangelo, proprio nel descrivere l'ultima cena, parla soltanto di “lavanda dei piedi”); il “comunismo primitivo” descritto dagli Atti è sì di derivazione essenica, ma esso non ha nulla a che fare col tentativo di una insurrezione armata contro Roma e il potere collaborazionista giudaico; tutte le piccole “apocalissi” dei Sinottici (il “Discorso” sul Getsemani) sono indubbiamente influenzate dall'escatologia esseno-zelotica, ma non a caso si presentano come la sublimazione di una sconfitta politica in chiave mistico-simbolica. Insomma, se è vero che i più fedeli continuatori del messaggio etico-religioso degli esseni sono stati proprio i cristiani, che di quella comunità presero gli aspetti più religiosi, integrandoli con quelli petrini e paolini, è anche vero che questa operazione poté avvenire soltanto dopo aver depurato di ogni riferimento politico sia il Cristo che gli stessi esseni.
Ora però dobbiamo porci alcune domande invitando Tranfo a proseguire le sue ricerche:
– il tentativo insurrezionale del Cristo, per come fu impostato, può essere considerato in Palestina l'ultimo tentativo possibile di un'insurrezione antiromana vittoriosa, oppure esisteva ancora questa possibilità dopo la sua morte?8
– Poiché questa possibilità rimase lettera morta, si deve pensare che ciò dipese dal fatto che non si vollero applicare le direttive che il Cristo aveva indicato, oppure perché in realtà anche il suo tentativo (troppo prematuro?) non aveva in sé alcuna possibilità di successo?
– Di questo insuccesso furono responsabili anche i suoi più stretti seguaci? Cioè possiamo sostenere l'ipotesi che i principali responsabili della disfatta del cristianesimo politico antiromano furono proprio quelli che a tutt'oggi vengono considerati i fondatori del cristianesimo: Pietro e Paolo?
– Gli esseni furono distrutti una ventina d'anni dopo il fallimento del tentativo insurrezionale del Cristo: quando aderirono alla rivolta giudaica degli zeloti lo fecero forse con lo stesso settarismo con cui rifiutarono di accettare quella proposta dal Cristo? (Quel settarismo che sicuramente caratterizzò il movimento zelota, che al tempo del Cristo s'era limitato a operazioni di tipo terroristico o di guerriglia limitata nello spazio e nel tempo).
– È possibile sostenere che sino al 135 d.C., data della definitiva distruzione di Gerusalemme ad opera di Adriano, che eliminò il messia Simone ben-Koseba, esisteva la possibilità concreta di una riscossa nazionale contro Roma?
III
Che i grandi storici dell'epoca di Cristo non riportino quasi nulla delle vicende di questo personaggio, non può essere considerato motivo sufficiente per negargli un'esistenza storica o per sostenere che tutto quanto è stato scritto intorno alle sue vicende rientra nel genere letterario del mito.
Noi non sappiamo quasi niente delle insurrezioni schiavili avvenute in epoca romana, eppure difficilmente le metteremmo in dubbio, anche se Spartaco non fosse mai esistito; come oggi, d'altra parte, consideriamo assodato l'olocausto antisemita dei nazisti, per quanto vi siano storici che, con documenti alla mano, ne negano del tutto l'esistenza.
Sappiamo bene infatti che gli intellettuali che “scrivono la storia” scrivono sempre la storia dei “potenti”, cioè di chi permette loro semplicemente di “scrivere” e di “divulgare” i loro testi o addirittura di “vivere” grazie ai compensi dovuti a quella diffusione. Se dovessimo basarci su quanto Tacito scrive a proposito dei Germani, ne avremmo una visione sicuramente molto riduttiva, benché Tacito venga considerato ancora oggi un grandissimo storico. Questo per dire che l'esistenza di un ribelle come Gesù non ci sarebbe apparsa più credibile storicamente neppure se egli avesse scritto, di suo pugno, un centinaio di rotoli nascosti in qualche grotta di Qûmran: inevitabilmente qualcuno si sarebbe sentito autorizzato a metterne in dubbio l'autenticità.
Tutto ciò è acquisito da un pezzo. Probabilmente se il tentativo insurrezionale del Cristo avesse avuto buon esito, i “media” dell'epoca l'avrebbero registrato diversamente. Ma non possiamo illuderci neppure su questo. Se fra mille anni gli storici trovassero soltanto le registrazioni dei nostri telegiornali (infinitamente più potenti e diffusi di quelli di duemila anni fa), difficilmente avrebbero l'impressione che nel nostro paese, pur basato sulla progressiva terziarizzazione, esiste una classe operaia composta da milioni di lavoratori.
Sbaglia quindi chi vuol mettere in dubbio l'esistenza del Cristo, sostenendo non essere rinvenibile alcun cenno di essa nella letteratura non cristiana dell'epoca; né ci si può meravigliare di questi assordanti silenzi per sostenere, contro le verità della Chiesa, che la grande attività terapeutica compiuta dal Cristo non poteva in alcun modo passare sotto silenzio.
È vero, gli storici non potevano registrare un'attività miracolistica che in realtà non era mai avvenuta (al massimo si può concedere qualche guarigione psico-somatica, alla portata di chiunque s'intenda d'interiorità umana), ma è anche vero che l'attività soprannaturale descritta nei vangeli rientra in una strategia falsificazionista che non può essere considerata tipica soltanto dei redattori dei vangeli. Essa in realtà appartiene a tutti gli autori di quei documenti che ad un certo punto le correnti maggioritarie o dominanti di determinati movimenti politici han voluto far passare come “ufficiali”. In tal senso i Vangeli sono un'opera di falsificazione come gli Annali di Tacito o le Vite parallele di Plutarco, e non per questo qualcuno sostiene che Cesare non sia mai esistito.
Tranfo queste cose le sa benissimo. Il fatto è, purtroppo, che gli studiosi laici del cristianesimo, essendo da tempo consapevoli di avere a che fare con fonti evidentemente tendenziose e manipolate a più riprese, al punto da rendere faticosissima una ricostruzione anche solo ipotetica di come veramente poterono andare i fatti, cedono spesso alla tentazione di considerare i personaggi del Nuovo Testamento, nel migliore dei casi, come semplici personificazioni di scontri ideo-politici avvenuti tra opposte correnti ebraiche. In questo assomigliano da vicino agli esegeti laici dell'Antico Testamento, i quali effettivamente, a giusto titolo, si sentono legittimati ad ammettere che personaggi come Adamo, Abramo, Noè ecc. altro non sono che “personificazioni di distinzioni tribali”.
Tuttavia, se nei confronti di vicende e problematiche di 4000 anni fa è normale limitarsi a considerazioni di carattere storico-sociologico generale, in quanto ormai la verità storica è sepolta nei deserti del Sinai, viceversa, nei confronti del cristianesimo primitivo, le cui fondamenta ideali trovano ancora oggi milioni di persone disposte a edificarci sopra le loro sovrastrutture superstiziose e/o clericali, l'atteggiamento dello studioso laico non può essere così remissivo. Egli anzi ha il dovere di scuotere queste fondamenta sino ai livelli di massima profondità, azzardando ipotesi interpretative che mettano allo scoperto ogni possibile falsificazione e proponendo stili di vita decisamente alternativi a quelli religiosi.
In tal senso dovrebbe da tempo essere acquisito che spendere le proprie energie a dimostrare l'inesistenza del Cristo9 o a ricondurla a semplice variante di vicende allora consuete (il ribellismo antiromano), non porta a risultati più apprezzabili a favore dell'ateismo di quanto possa fare il delineare, partendo dalle stesse fonti neotestamentarie, il percorso mentale che ha portato alla nascita e allo sviluppo della falsificazione mistica.
Qui infatti non abbiamo soltanto il dovere di smascherare delle mistificazioni, ma anche di scoprire, con un faticoso lavoro interpretativo, che cosa questi processi hanno voluto nascondere. Noi non abbiamo a che fare con impostori che hanno strumentalizzato un evento storico, presentandocelo in maniera deformata, per acquisire un potere personale o per fare un favore ai loro committenti: anche se ci fossero stati casi del genere, non ci interessano.
Qui è presente un dramma storico, i cui protagonisti sono passati da una posizione favorevole a istanze di liberazione nazionale a una che le ha totalmente negate. Un dramma del genere non può essere affidato soltanto alla “storia” e tanto meno alla “Chiesa”, che l'ha trasformato in una parodia. Ci riguarda tutti da vicino, poiché fa parte del nostro modo di essere.
Di fronte a noi non abbiamo un semplice caso di “invenzione”, come generalmente accadeva per gli dèi pagani, ma un caso molto complicato di “falsificazione”, in cui un messia politico-nazionale è stato trasformato dagli stessi suoi discepoli in un redentore morale-universale. Delle due quindi l'una: o tutto quanto dicono i vangeli è falso, per cui è impossibile risalire a quanto il Cristo ha veramente detto e fatto, oppure la verità viene detta in mezzo a tante bugie e forse esiste ancora la possibilità di scoprire qualche suo barlume.
Se vogliamo sostenere che di fronte a una documentazione tutta manipolata è praticamente impossibile stabilire una qualche “verità storica”, se non al massimo fare delle supposizioni, noi non faremo un passo avanti in direzione del superamento del cristianesimo. D'altra parte non possiamo neppure cercare, a tutti i costi, una “verità storica”, altrimenti rischiamo di dover fare delle concessioni a qualche aspetto religioso offertoci dalle stesse fonti dell'epoca, le uniche a nostra disposizione, tutte più o meno manipolate dai poteri dominanti, i quali, a un certo punto, sono divenuti essi stessi “cristiani”.
Tranfo cade in questa contraddizione laddove p.es. non si limita ad affermare che l'istituzione dell'eucaristia fu un prodotto derivato dall'essenismo, ma aggiunge ch'essa fu voluta dal Cristo nell'ultima cena, memore appunto dei suoi trascorsi nella comunità di Qûmran, già trasformata in una base dell'insurrezione nazionale. Una tesi del genere non ci fa uscire dall'interpretazione “religiosa” delle fonti. Noi dobbiamo invece partire dal presupposto che l'esperienza dei nazareni era stata soltanto umana e politica e non aveva nulla di religioso.
Altro esempio. La cacciata dei mercanti dal Tempio è sbagliato situarla sulla linea del tempo voluta dai Sinottici (che peraltro racchiudono tutta l'attività del Cristo nell'arco di un anno, quando per la preparazione di un'insurrezione nazionale forse non saranno stati sufficienti neppure i tre anni descritti da Giovanni). Quella “purificazione” non voleva esaltare la figura di un re davidico, che aspira sia al potere religioso che politico: cosa che il Cristo rifiuterà nettamente anche in occasione della “moltiplicazione (falsificata) dei pani”, scandalizzando non poco i suoi seguaci galilei, moltissimi dei quali lo abbandonarono.
L'espulsione dei mercanti va invece vista come il tentativo di dimostrare che la popolazione poteva fare a meno di credere nel clero per una liberazione nazionale. Essa fu così radicale nel proprio laicismo che non venne condivisa neppure dal Battista, il quale infatti dovette subire la defezione di molti importanti discepoli, decisi a passare nelle file del movimento nazareno. Quando il Cristo entra a Gerusalemme la domenica delle Palme, in groppa a un asino, era già chiaro a tutti da un pezzo che nella guerra contro Roma i sommi sacerdoti e i sadducei andavano considerati come il nemico interno collaborazionista, il cui potere, ancora considerevole, andava definitivamente abbattuto.
Questo per dire che più che cercare una impossibile “verità storica” forse sarebbe meglio limitarsi a cercare una “verità umana e politica” nelle vicende del Cristo, ovviamente dopo averle depurate da tutte le incrostazioni di tipo mistico. Questa metodologia è anche l'unica efficace per sostituire l'odierno cristianesimo con un umanesimo laico e democratico.
Il cristianesimo impiegò quasi quattro secoli a vincere definitivamente il paganesimo e vi riuscì usando non solo la forza del potere politico (a partire da Teodosio), ma anche la persuasione ragionata, l'esempio pratico e soprattutto la capacità propagandistica e insieme psicopedagogica di far credere vero il falso e falso il vero. Prendiamo p.es. la festa del Natale. I pagani festeggiavano simbolicamente un dio che muore e risorge, rapportandolo al ciclo dell'anno e delle stagioni. I cristiani riuscirono a convincerli che l'unico vero dio in grado di risorgere era stato Cristo, il Sole che risorge dopo la lunga oscurità delle giornate di dicembre. I cristiani seppero togliere al paganesimo l'aspetto del ritualismo connesso ai processi della natura, mostrando che le vicende del Cristo contenevano un aspetto di più alta dignità morale e spirituale, rispetto alle vicende degli dèi pagani, dal carattere volubile, prepotente, vanitoso...
I laici devono compiere un'operazione analoga, ma senza infingimenti, semplicemente dimostrando che l'umanesimo laico, democratico e naturalistico è superiore alle “verità cristiane”, qualunque esse siano. In tale compito, l'esigenza di andare a cercare la “verità storica” del cristianesimo tradito può risultare un'operazione meramente intellettuale, che non riuscirà a convincere né gli esegeti cristiani né le grandi masse che ancora hanno bisogno di simboli in cui credere. Il mondo laico farebbe meglio a recuperare i significati “pagani” della natura, trasfigurandoli in maniera tale che l'umano non venga tradito dal religioso.
Se non compiamo un'operazione del genere, noi rischiamo di relegare il Cristo alla storia anche nel caso in cui venissimo a scoprire come sono andate veramente le cose. È infatti facile immaginare che anche quando ci sentiremo pienamente autorizzati a esprimere, con dati alla mano, un parere opposto sull'interpretazione dei fatti evangelici, noi non avremo fatto alcun vero progresso circa la soluzione della diatriba che oppone un'opinione a un'altra.
Viceversa noi dobbiamo dimostrare che la posizione religiosa è falsa proprio in quanto non sufficientemente umana e democratica come quella laica. Il compito che spetta agli storici atei non è soltanto quello di sostenere delle tesi esegetiche opposte a quelle ufficiali, ma anche e soprattutto quello di dimostrare che la verità delle tesi religiose non sta nel misticismo ma nel laicismo. Dobbiamo quindi trovare nelle fonti neotestamentarie quegli aspetti che ci permettono di valorizzare l'orientamento laico-democratico, che è insieme umano e politico. E la base da cui partire è il vangelo di Giovanni, nei cui confronti lo stesso Tranfo è costretto ad ammettere la necessità di “un'analisi molto approfondita”.
IV
Cos'ha capito Tranfo del IV vangelo, cui dedica le pagine 71-100 del suo volume? Una cosa importantissima, ch'esso è la chiave per comprendere gli altri. È “una fonte che non condivide con le altre alcuna comune radice” (p. 71). Questa semplice constatazione è più profonda di quel che non si pensi.
Il vangelo di Giovanni può essere stato scritto prima o dopo dei Sinottici, scrive Tranfo. Molti esegeti ritengono sia stato scritto dopo, ma sulla base di una testimonianza più diretta, più oculare di quella degli autori dei Sinottici, dei quali, in definitiva, soltanto quello di Marco ha un certo valore, essendo la fonte principale degli altri due.
Il IV vangelo è insieme il più vicino e il più lontano dalla realtà dell'evento-Cristo. La falsificazione operata ai suoi danni è stata di una gravità proporzionale al suo valore. La storia del Nazareno è stata qui crocifissa con robusti chiodi d'acciaio, forgiati da una raffinata ideologia spiritualistica.
Chi riuscirà a demistificare interamente questo capolavoro della letteratura di tutti i tempi, avrà l'onore non solo di aver inferto un colpo demolitore alla Chiesa cristiana, la cui identità e credibilità si regge appunto su quella falsificazione, ma avrà anche il merito di aver riproposto alla considerazione storica un personaggio i cui valori umani e politici possono ancora insegnare qualcosa all'umanità contemporanea.
Dunque quali sono le particolarità del vangelo di Giovanni che saltano agli occhi, una volta messo a confronto coi Sinottici? Quelle elencate da Tranfo sono tutte giuste. Ma dal punto di vista squisitamente umano e politico quali sono? Qui ci saremmo aspettati da Tranfo un'analisi più puntuale e convincente. D'altra parte però lui stesso è ben consapevole delle difficoltà esegetiche che comporta una lettura del genere. “Occorre un'analisi molto approfondita (che meriterebbe uno studio specifico), condotta da un esegeta in grado di decifrare certe chiavi interpretative e quel simbolismo dal sapore iniziatico che governa l'intero testo”, così a p. 81.
Ebbene, proviamo a delineare, per sommi capi, i temi fondamentali che meriterebbero “uno studio specifico”, in chiave ovviamente laicista.
Anzitutto il rapporto tra nazareni e battisti, con cui esordisce il vangelo. Nei Sinottici è quasi idilliaco, in Giovanni invece è molto controverso. La cacciata dei mercanti dal Tempio rappresenta una sorta di spartiacque tra un critica etica del collaborazionismo filo-romano del potere religioso giudaico e una critica direttamente politica, che mette fortemente in dubbio la simbiosi di religione e potere. Il movimento battista si spacca in due e una metà segue i nazareni.
L'essenismo presente in maniera così evidente nel vangelo di Giovanni, è servito, insieme alla gnosi, per mistificare la natura politica di questo testo, anche se gli elementi che vengono presi dall'essenismo venivano usati dalla comunità di Qûmran in maniera politica (i “figli della luce e delle tenebre” ecc.), mentre quelli che di questa comunità vengono presi dai Sinottici venivano usati in maniera religiosa (battesimo, eucaristia ecc.). Nel IV vangelo i contenuti essenici vengono svuotati del loro contenuto politico e riempiti di contenuto filosofico-religioso; nei Sinottici invece vengono svuotati dei loro riferimenti giudaici per essere riempiti di nuovi significati pagani (p.es. la resurrezione).
In secondo luogo il rapporto tra nazareni e farisei. Nei Sinottici è conflittuale in maniera aprioristica; nel IV vangelo invece è dialettico, a volte addirittura possibilistico di un'intesa politica non solo anti-romana ma anche anti-sadducea. Il caso di Nicodemo è eloquente: in occasione della cacciata dei mercanti dal Tempio egli è costretto ad ammettere che l'iniziativa dei nazareni era stata del tutto opportuna.
In terzo luogo il rapporto tra Giudei e Galilei. Quest'ultimi vogliono che il Cristo entri a Gerusalemme con la forza delle armi e si autoproclami “messia”; viceversa i Giudei si aspettano che il messia si faccia proclamare tale dal popolo. Infatti, mentre nel racconto dei pani (falsamente) moltiplicati Gesù rifiuta il titolo galilaico di “messia autoritario”, anche a costo d'essere abbandonato quasi da tutti; durante l'ingresso trionfale nella città santa, seduto in groppa a un asino, egli accetta invece il titolo di “messia democratico” e una grande moltitudine lo porta in trionfo, mettendo nel panico i poteri costituiti.
In quarto luogo il rapporto tra ebrei e gentili e, in particolare, quello tra ebrei ortodossi (i Giudei) ed ebrei eterodossi (i Samaritani). Mentre nei Sinottici l'anti-ebraismo politico-nazionale è netto, sconfinando persino nell'anti-semitismo, nel IV vangelo invece i nazareni cercano rapporti paritetici, finalizzati al riscatto della Palestina dal giogo straniero, con qualunque etnia e nazionalità, senza mai far pesare ciò che divide (molto significativo in tal senso il racconto della samaritana al pozzo di Giacobbe o la presenza dei Greci a Gerusalemme nel momento decisivo dell'insurrezione).
In quinto luogo il rapporto tra nazareni e Romani. Mentre nei Sinottici i Romani appaiono come esecutori materiali indiretti di una volontà omicida contro il Cristo, espressa da tutto il Sinedrio, nel IV vangelo invece esiste un accordo esplicito, consensuale e predeterminato tra forze romane e forze collaborazioniste, intenzionate a por fine a tutto il movimento nazareno.
Oltre a questi rapporti politici vi sono altre cinque questioni da esaminare in maniera approfondita.
La questione della professione di ateismo. Mentre nei Sinottici Cristo dichiara d'essere “figlio di Dio” in maniera esclusiva e vi sono persino testimonianze umane (Battista, centurione ecc.) e mistiche (Dio, Spirito santo ecc.) che ne danno conferma; nel IV vangelo, al di là delle ben note manipolazioni gnostiche, egli si equipara a Dio semplicemente per dire che tutti gli uomini sono “dèi” (Gv 10,34). Inoltre, mentre nei Sinottici egli ha atteggiamenti chiaramente religiosi e istituisce persino il sacramento dell'eucaristia, viceversa nel IV vangelo non esprime mai alcun atteggiamento di tipo religioso (non lo si vede mai pregare nel Tempio o svolgere funzioni ecclesiastiche e neppure discutere in sinagoga).
La questione dei miracoli. Nei Sinottici essi servono per dimostrare che Gesù è “Dio” o per mistificare aspetti di tipo più etico ed esistenziale che politico; nel IV vangelo invece servono sempre per mistificare eventi di tipo politico (quello più evidente è la resurrezione di Lazzaro, ma significativi sono anche quelli della guarigione del figlio di Cuza e la moltiplicazione dei pani).
La questione della messianicità. Nei Sinottici viene rifiutata dal Cristo perché rischia di compromettere l'interpretazione religiosa che si deve dare, secondo la versione petro-paolina, della sua missione, nel senso ch'egli è sì “messia” ma non in senso “davidico”; nel IV vangelo la messianicità in senso “davidico” è rifiutata perché non la si vuole in forma autoritaria ma democratica; inoltre non la si vuole unita alla religione ma separata.
La questione del tradimento. Nei Sinottici Giuda è predestinato a tradire, al punto che si ritiene “necessario” il tradimento, onde permettere al Cristo di “morire e risorgere”, e quindi di non diventare “messia politico” e di favorire l'uguaglianza morale di fronte a Dio dei gentili con gli ebrei (a quest'ultimi viene tolto qualunque primato politico, etico e ideologico). Nel IV vangelo invece Giuda sembra rappresentare l'ala moderata dei nazareni, quella che non ritiene ancora giunto il momento giusto per la rivoluzione (e che quindi si scandalizza al vedere la sorella di Lazzaro anticiparne simbolicamente a Betania il successo). Giuda tradisce soltanto quando si accorge che la rivoluzione era davvero imminente e lo fa temendo che la reazione romana sarà disastrosa per le sorti della nazione. Egli in sostanza esprime le stesse paure del fariseismo dominante.
L'ultima questione è quella della successione apostolica, ovvero quella delle consegne per la prosecuzione del tentativo insurrezionale. Mentre nei Sinottici appare chiaro che il successore di Cristo è Pietro (e ciò viene confermato anche negli Atti), viceversa nel IV vangelo il successore avrebbe dovuto essere Giovanni Zebedeo. Pietro è dunque all'origine della falsificazione del messaggio originario del Cristo, e il primo momento in cui nasce questa falsificazione è all'interno della tomba vuota: Pietro interpreta quell'evento nel senso che Cristo è “risorto”, per cui, secondo la “prescienza divina”, “doveva morire”.
V
L'intero capitolo 9, l'ultimo del libro di Tranfo, merita un commento a parte, essendo quello decisivo per la comprensione della tragica settimana del Nazareno a Gerusalemme.
Anzitutto una precisazione di merito relativa a una preoccupazione di fondo che attraversa l'intero volume, che, ricordiamo, supera le 450 pagine ed è frutto di molti anni di studi. Ormai l'esegesi laica dei vangeli non ha più bisogno di dimostrare che quella confessionale è viziata in partenza, essendo apologetica dei testi che esamina. Una qualunque interpretazione “religiosa” del Nuovo Testamento è falsa in partenza o è comunque molto limitata, poiché non arriva mai a mettere in dubbio le fondamenta mistiche dell'impianto cristiano.
Tranfo sarebbe dovuto partire da questo presupposto metodologico, limitandosi a un confronto meno polemico e più concreto con tesi afferenti al laicismo, che appartengono a tantissimi esegeti, citati solo in parte nella sua bibliografia, e che danno per scontato un ruolo messianico del Cristo non da redentore morale-universale ma da liberatore politico-nazionale.
Equiparare Gesù a un leader zelota è già stato fatto assai prima di Tranfo (sono dei classici i testi di Reimarus, Eisler, Hengel, Brandon, Belo ecc.), suscitando sempre molte perplessità. Non pochi esegeti si sono sentiti autorizzati a proporre tale identificazione in virtù del fatto che il partito zelota effettivamente è stato il principale protagonista della guerra giudaica. Oltre a questo è ben noto che tra gli stessi apostoli del Cristo alcuni provenivano proprio da quegli ambienti.
In realtà il movimento nazareno si costituì sulle ceneri di quello zelota, che nel 6 d.C. aveva subìto una pesante sconfitta contro i Romani: Giuda di Galilea, insieme all'ala più radicale dei farisei, guidata da Sadok, s'erano opposti al censimento ordinato da Quirino per la ripartizione dei tributi. Il partito degli zeloti, nato appunto in quella occasione, era caratterizzato da un'ideologia nettamente farisaica e, dopo la sconfitta del movimento nazareno, riprenderà la propria ultima battaglia nel 66 d.C. con la grande guerra giudaica, senza mai mutare la propria ideologia.
All'interno del movimento nazareno erano dunque confluiti zeloti e farisei sconfitti, nonché quella parte di esseni-battisti che giudicava l'operato del Precursore insufficiente per una rivoluzione nazionale.
È importante affermare questo, proprio per evitare il rischio di equiparare l'identità politica dei nazareni a quella degli zeloti, che, stando alle fonti extra-bibliche, appaiono come i più intenzionati a cacciare i Romani dalla Palestina. E non solo per questo, ma anche per convincersi dell'idea che la rappresentazione fatta nei vangeli del partito fariseo non corrisponde esattamente alla realtà, in quanto i farisei, al tempo di Cristo, erano non meno disposti degli zeloti a un'insurrezione armata (lo dimostra anche il fatto che quando il fariseo Saulo di Tarso perseguitava i cristiani lo faceva perché – secondo lui, e non a torto – con la predicazione del “Cristo risorto” s'infiacchiva la volontà di resistenza anti-romana). I farisei avevano già subìto pesanti sconfitte ai tempi di Erode il Grande, cioè prima ancora che si costituisse il partito zelota.
Dunque quali erano le differenze fondamentali tra i nazareni e gli zeloti-farisei? Stando ai vangeli se ne ravvisano almeno cinque:
1. i nazareni rifiutavano le forme di guerriglia extra-urbana o gli atti urbani di terrorismo politico, preferendo la predicazione pubblica, nelle campagne e nelle città della Palestina, col proposito di educare il popolo a tenersi pronto in caso di insurrezione armata nazionale;
2. i nazareni non hanno mai associato organicamente le questioni politiche a quelle religiose, proprio perché aspiravano a ottenere il consenso di tutte le etnie e nazionalità oppresse da Roma, a prescindere dall'atteggiamento che ognuna di esse aveva nei confronti della religione. Gli atteggiamenti di tipo “mistico” che si riscontrano nei vangeli sono sempre frutto di un'evidente mistificazione redazionale, quella appunto conforme a una politicità regressiva, rassegnata, almeno nei confronti dell'obiettivo della liberazione nazionale;
3. i nazareni non hanno mai professato un'ideologia nazionalistica che escludesse per principio la diversità non ebraica o che esaltasse l'ortodossia giudaica (basta leggersi l'episodio della samaritana al pozzo di Giacobbe o la stessa parabola del buon samaritano per convincersene);
4. i nazareni non hanno mai manifestato un attaccamento fanatico nei confronti della legge mosaica (sono ben note le critiche al primato del sabato, al divorzio facile da parte maschile, alla priorità delle offerte al Tempio rispetto ai doveri dell'assistenza sociale, alla legge del taglione e alla pena di morte, ecc.);
5. i nazareni, nella loro predicazione pubblica, si rivolgevano a tutti, senza fare distinzioni di ruoli, di censo, di appartenenza sociale, di sesso, di religione, di provenienza geografica, etnica o tribale. Sono molteplici gli episodi evangelici che attestano questi atteggiamenti laici, democratici e pluralisti.
Questo per dire che per i nazareni non si poneva all'ordine del giorno soltanto la liberazione politico-nazionale della Palestina, ma anche una profonda revisione dei princìpi etici e culturali su cui quella società antichissima si reggeva (Gesù contestava persino la differenza tra cibi puri e impuri, e, pur non avendo mai messo in discussione la circoncisione, aveva però posto le basi del suo superamento: cosa che infatti farà Paolo di Tarso, distinguendo tra circoncisione della carne e dello spirito).
Quando il Cristo entrò in pompa magna a Gerusalemme, seduto significativamente su un asino e non su un cavallo, nell'imminenza della Pasqua, fu accolto da migliaia di seguaci, pronti a muoversi in modo insurrezionale. Le autorità romane e giudaiche si trovarono letteralmente spiazzate e furono assalite dal panico: “tutto il mondo gli va dietro!”, si legge nel vangelo di Giovanni (12,19). Persino i non-ebrei (Greci) erano disposti ad associarsi coi nazareni in funzione anti-romana (Gv 12,21). Anche tra i leader non-nazareni molti credevano in lui in quel momento (Gv 12,42).
C'erano insomma tutte le premesse per compiere una vittoriosa insurrezione armata, il cui protagonista principale sarebbe stato l'intero popolo (unica condizione peraltro per poter resistere all'inevitabile controffensiva imperiale).
Seguendo la cronistoria dei Sinottici, la prima cosa che fece Gesù, una volta entrato nella città santa, fu quella di cacciare i mercanti dal Tempio. Tuttavia questa azione di aperta sfida sarebbe stata del tutto irrilevante in quel momento, poiché i nazareni avevano già il consenso necessario per compiere la rivoluzione: i sommi sacerdoti, gli scribi, i sadducei, i farisei conservatori sapevano che se la guarnigione romana lì stanziata fosse stata disarmata, non avrebbero avuto di fronte a loro che due alternative: o aderire alla rivoluzione, o farsi da parte, rinunciando a ogni forma di potere. Non c'era alcun bisogno di occupare il Tempio preventivamente. La tesi marciana è stata quella di circoscrivere la politicità eversiva antiromana a una teopoliticità eversiva antigiudaica.
Quando si hanno dei dubbi circa la scansione temporale degli eventi, è sempre bene preferire quella giovannea, la quale, in tal caso, pone l'espulsione dei mercanti all'inizio e non alla fine della carriera politica di Gesù, esattamente nel momento in cui i nazareni vollero porre in atto un gesto dimostrativo che li distinguesse politicamente sia dai farisei (che pur in parte, con Nicodemo, condivisero l'iniziativa) che dagli esseni-battisti, i quali, pur accettandola sul piano etico, preferirono non appoggiarla politicamente in maniera diretta.
Veniamo ora al tradimento di Giuda. La motivazione di questo gesto può essere compresa analizzando l'atteggiamento tenuto dall'apostolo in occasione dell'arrivo di Gesù a Betania, dopo la morte di Lazzaro. Proprio a motivo di quella sconfitta (Lazzaro può essere stato ucciso in uno scontro armato tra i suoi seguaci e i Romani), Giuda ritenne prematuri i tempi per un'insurrezione nazionale; di qui la sua riprovazione nei confronti di Maria, sorella di Lazzaro, che cospargendo di profumo il Cristo voleva anticipare simbolicamente il trionfo di lui come messia.
Tuttavia, proprio la morte di Lazzaro (che probabilmente era un leader zelota) convinse molti giudei ad affrettare il momento dell'insurrezione generale, anche a motivo dell'imminente Pasqua, sicché si misero d'accordo col Cristo per preparare il suo ingresso nella festività delle palme (Sukkot), benché egli, poco prima della morte di Lazzaro, fosse stato costretto a rifugiarsi “oltre il Giordano” (Gv 10,40), per evitare la cattura, sua e dei suoi più stretti discepoli.
Giuda entrò nella capitale insieme agli altri apostoli. Non aveva ancora deciso di tradire la causa rivoluzionaria, e certamente, di fronte a quella imponente accoglienza, non avrà neppure pensato di farlo.
Sbaglia tuttavia Tranfo a considerare Giuda un estremista zelota, un appartenente alla “setta dei sicari”, poiché se ciò fosse stato vero, il tradimento avrebbe avuto motivazioni opposte a quelle che risultano leggendo il IV vangelo. Giuda non tradì perché vedeva nel Cristo un insopportabile temporeggiatore, ma, al contrario, perché nel proprio moderatismo (farisaico) egli temeva che la decisione di compiere in quel momento l'insurrezione non avrebbe sortito l'effetto sperato.
Giuda era più vicino ai farisei che agli zeloti, e lo dimostra anche il fatto che quando il Cristo lo incarica di compiere la missione decisiva per organizzare l'assalto alla guarnigione romana (“Quello che devi fare, fallo presto”, Gv 13,26s.), il target di riferimento non poteva certo essere il partito zelota (già convinto sul da farsi), ma solo quello fariseo, diviso al proprio interno tra favorevoli e contrari. Che il partito zelota “scalpitasse” lo dimostra anche l'episodio di Barabba, che rischiò di mandare tutto all'aria col proprio atteggiamento terroristico.
Giuda insomma non eseguì l'ordine di Gesù coll'intenzione di tradirlo, ma lo tradì nel mentre lo eseguiva, condizionato dal parere avverso dei farisei. Il ritardo con cui compì la sua missione fu dovuto al fatto che le autorità giudaiche andarono ad avvisare la guarnigione romana di tenersi pronta a uno scontro armato notturno; e lo stesso ritardo indusse Cristo e gli apostoli a intuire il pericolo imminente e a rifugiarsi sul Getsemani, come altre volte avevano fatto, anche insieme a Giuda.
Che i Romani fossero d'accordo sin dall'inizio nell'eliminare quel leader pericoloso chiamato Gesù Nazareno, disperdendo tutto il suo movimento, è dimostrato non solo dalla presenza della coorte al momento della cattura, ma anche da tutta la messinscena del processo pubblico, attraverso cui le autorità giudaiche e romane dovevano far risultare che il Cristo veniva giustiziato col consenso popolare, anzi, dalla stessa volontà popolare.
Infatti la sua fama era ormai diventata troppo grande perché la si potesse eliminare in gran segreto (come p.es. accadde nel caso del Battista). Se gli scherni della soldataglia possono essere stati improvvisati, certamente non possono esserlo stati né la flagellazione né lo scambio con Barabba, che dovevano servire per saggiare il livello di partecipazione popolare alla decisione di eseguire una condanna a morte.
Tranfo si è scandalizzato del fatto che la popolazione che aveva accolto Gesù come un messia liberatore nella festività delle palme, sia stata la stessa che lo condannò a morte una settimana dopo. In realtà la condanna a morte non avvenne affatto nella convinzione di dover rinunciare alla liberazione nazionale. Semplicemente in quel momento si riteneva che uno come Barabba o un partito come quello zelota avrebbe dato maggiori garanzie di successo rispetto a quello nazareno. Per poter eliminare il Cristo, Pilato fu costretto a liberare Barabba, che la folla fu indotta in quel momento, dalla maestria politica dei poteri giudaici costituiti, a ritenere più pericoloso per i Romani. Al massimo dunque ci si potrebbe meravigliare della brevità dei tempi con cui è avvenuto questo capovolgimento di fronte.
Certo, la folla avrebbe dovuto insospettirsi che la decisione di condannare Gesù trovasse all'unisono le autorità giudaiche e quelle romane. Tuttavia, per fugare il dubbio della complicità, le autorità giudaiche affermarono ad un certo punto ch'egli meritava di morire non perché voleva la liberazione della Palestina, ma perché faceva professione di “ateismo”. Questioni politiche e questioni ideologiche si sono trovate sullo stesso binario quando si dovette prendere la decisione di giustiziarlo.
(torna su)6) Il patibolo di Ajtmatov
Il patibolo di Čingiz Ajtmatov (ed. Mursia, Milano 1988) è un romanzo impegnato, immerso in problemi sociali, alla ricerca di una mediazione tra passato naturalistico-rurale e presente tecnologico-industriale. Ciò che qui si vuole prendere in esame è il sogno o la visione dell'allucinato Avdij Kallistratov, ex-seminarista in odore di eresia, che, sulla scorta del celebre modello di Bulgakov in Il maestro e Margherita, s'immagina un ipotetico dialogo fra Cristo e Pilato, prima che questi emetta la sentenza capitale.
D'altra parte i tempi erano molto diversi dai nostri: si pensi che per il politeismo pagano (in questo nettamente inferiore al giudaismo) la semplice adorazione di un Dio invisibile (non rappresentato da statue o altri simulacri), già costituiva una forma di “ateismo”, e sulla base di questo assunto il potere romano perseguitava i cristiani, anche perché erano proprio gli imperatori che ad un certo punto presero a fregiarsi in maniera esclusiva del titolo di “figlio di Dio”.
7) Ida Magli e i vangeli
Commento a Ida Magli, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2004
Impressiona abbastanza, nei vangeli, la negazione dei valori parentali operata dal Cristo, tanto più che per la società ebraica di allora i legami di etnia sangue tribù clan erano considerati fondamentali per l'identità stessa dell'individuo.
A tale proposito Ida Magli fa delle affermazioni molto giuste: “Alla propria madre in quanto madre Gesù non riconosce nulla”.11
Sintomatico l'episodio riportato da Mc 3,31ss. Allorché giunsero sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle a prenderlo per riportarlo a casa, “poiché dicevano: È fuori di sé” (3,21), Gesù rispose pubblicamente, indicando quei discepoli intenti ad ascoltarlo in quel momento: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (3,34). Col che dava ancor più l'aria di uno uscito di senno.
La Magli prosegue dicendo che questi passi vengono riportati dagli evangelisti “senza commenti, proprio perché non ne capivano i motivi”. Il che in realtà non è vero, poiché lo stesso Marco, subito dopo, sostiene che i parenti più stretti di Gesù sono coloro che compiono “la volontà di Dio” (3,35). E lasciamo qui perdere le due osservazioni che alcuni esegeti sono soliti fare su questo versetto, e cioè che al posto di “volontà di Dio” si dovrebbe intendere la realizzazione di un regno libero dalla dominazione romana, e che Maria, essendo stata vicina alle posizioni politiche dell'apostolo Giovanni (come testimonia il duplice affidamento sulla croce), non godette di alcun favore da parte di Pietro, che è fonte di Marco.
È noto infatti che la subordinazione dei legami di sangue ai legami politici, Marco la spiega semplicemente trasformando quest'ultimi in legami religiosi, in coerenza alla sua visione mistica del Cristo, il quale così, nella fattispecie della pericope suddetta, si limiterebbe semplicemente a fare un'affermazione di tipo metaforico, nel senso che non si può anteporre alla volontà divina quella umana.
Se dovessimo leggere i vangeli per come essi vorrebbero essere interpretati, non capiremmo nulla della vita di Gesù, il quale, in tale occasione, avendo la pretesa di porsi come leader di un movimento politico, quello nazareno, può in realtà aver sostenuto la necessità di far valere gli interessi generali di una liberazione nazionale su quelli particolari di chi voleva rinchiuderlo in una visione privatistica o personalistica del problema.
Nello spazio di due versetti Marco fa dire a Gesù una cosa: il pubblico è più importante del privato e, in un certo senso, il suo contrario: la religione è più importante della politica.
Ma prosegue la Magli: “l'affidamento reciproco fra Maria e Giovanni che Gesù fa sulla croce: non è 'figlio' il figlio di sangue, non è 'madre' la madre di sangue. Non si tratta soltanto di un messaggio [che però la Magli non spiega] ma anche di un'azione contraria alla legge ebraica, che prescriveva che una donna vedova rimanesse coi figli e, in mancanza di questi, coi parenti del marito”.
Come noto – non però agli esegeti cattolici – il Cristo ebbe almeno quattro fratelli (di cui uno abbastanza importante per i destini della Chiesa primitiva, Giacomo il Giusto) e un paio di sorelle (Mc 3,32; Mt 13,55). Maria non avrebbe certo avuto problemi di “abbandono”. Se il Cristo in croce affidò sua madre al discepolo prediletto, il motivo doveva esser chiaro: o Gesù stava protestando contro i fratelli e altri fidati discepoli che l'avevano abbandonato nel momento più difficile della sua vita, oppure voleva consegnare a Giovanni le chiavi della successione nella guida politica del movimento, dimostrando che il reciproco affidamento fattuale tra madre e discepolo prediletto, andava interpretato anche in chiave simbolica, come una sorta di ultimo testamento.12 Ciò di cui Pietro, intento a spiegare la crocifissione secondo la categoria della “necessità storica” o della “prescienza divina”, non poté certo tenere in considerazione.
Tuttavia le affermazioni più interessanti della Magli vanno oltre queste pur giuste considerazioni, e riguardano in particolare quell'umanesimo integrale che il Cristo voleva sostenere contro la cultura religiosa giudaica.
“Gesù – dice l'antropologa –, eliminando qualsiasi forma di rituale, ha eliminato le basi del sacrificio, ha negato la necessità della 'vittima' e ha, di conseguenza, messo in crisi tutta la struttura del potere nelle sue più profonde e nascoste radici” (p. 105). Cioè ha voluto eliminare il “sacro” e quindi la religione, o comunque ha cercato di togliere a questi aspetti l'esercizio del potere civile e politico, con cui gli uomini vengono illusi e oppressi.
“In un mondo che attribuiva l'unica possibilità di salvezza all'adempimento ossessivo delle tecniche di purificazione... rompere il 'sabato' significava... farsi simili a Dio, ossia eliminare l'opposizione 'sacro-profano'...” (p. 104).
Riflessioni del genere, se sviluppate in maniera conseguente, porterebbero direttamente alla tesi che nel messaggio originario del Cristo vi era molto più ateismo di quanto l'esegesi laica riesca a immaginare, cioè una weltanschauung che oggi definiremmo col concetto di “umanesimo laico”, da viversi in maniera naturale quando politicamente ci si oppone all'oppressione sociale e nazionale. Non so quanto la Magli sia consapevole di questo: probabilmente essa preferisce immaginare un Cristo che rivendica “il diritto a credere in una divinità senza religioni, senza mediazioni, ossia senza il potere” (p. 105).
Tuttavia una posizione del genere, che riflette maggiormente quella delle migliori esegesi protestantiche, non farebbe giustizia alla radicalità del messaggio cristico, che pur la Magli stessa individua, con sufficiente chiarezza, là dove afferma che Gesù non ha mai sostenuto l'onnipotenza del Dio-padre, bensì il potere del singolo uomo, cioè la sua “volontà di amore che nega il dominio sull'altro, in quanto l'altro è assoluto” (p. 106). Frase, questa, che, per evitare la caduta nell'astrattezza, dovrebbe essere meglio declinata in un determinato contesto storico-politico.
Ci si può chiedere, in tal senso, se l'umanesimo integrale affermato dal Cristo (che ovviamente nulla ha da spartire con quello di memoria maritainiana) non debba essere visto come strettamente correlato alla proclamata uguaglianza dei sessi.
In effetti, non poco coraggio occorreva per superare la categoria della contaminazione che relegava le donne mestruate e puerpere nell'ambito della diversità intoccabile: per fare ciò si doveva comunque preliminarmente operare una rottura di quel collaudato meccanismo istituzionale che sulla base di primitive distinzioni tra “puro” e “impuro”, stabiliva, in ultima istanza, ciò ch'era “sacro” da ciò che non lo era.
È vero che tale meccanismo, ai tempi del Cristo, era entrato irrimediabilmente in crisi: già il Battista, d'altra parte, aveva promosso una torsione esistenziale di non poco conto, trasferendo nell'ambito della sola coscienza la battaglia tra “puro” e “impuro”.
Ma è anche vero che per demolire l'edificio della falsità, in cui ancora risiedeva il potere religioso giudaico, occorreva un'energica e risoluta azione politica (contro p.es. il primato del Tempio): cosa di cui il Precursore non fu mai capace. E per la Magli neppure i discepoli del Cristo riuscirono mai ad andare oltre la semplice sostituzione di un “sacro” con un altro: anche su questo è difficile darle torto.
(torna su)8) Il mitologismo di Pier Tulip
Pier Tulip13 mi ha chiesto di recensire la sua ultima fatica, Krst. Gesù un mito solare, autoprodotto presso Youcanprint nel 2014. Il sottotitolo ha la pretesa di sostenere che si tratta di una “nuova esegesi” che svela “contenuti mitici e allegorici dei vangeli”. Come tale, in realtà, il testo si inserisce in quella storiografia mitologistica dei vangeli che è di matrice positivistica, cui noi abbiamo sempre preferito quella storicistica.14 Il motivo di questa preferenza per noi resta sempre lo stesso: se i vangeli sono dei testi puramente mitologici, perdono tutto il loro interesse politico, e quel che già si è detto di loro è sufficiente per squalificarli come testi storici. Messi poi a confronto coi miti dell'odierno capitalismo, essi sono destinati a essere subissati. Viceversa, se decidiamo di considerarli dei testi storici, allora bisogna cercare di capire in che modo sono stati falsificati, o meglio, in che modo essi presentano in maniera mistificata degli eventi (politici) realmente accaduti.
Rebus sic stantibus mi chiedo comunque se sia possibile riuscire a trovare nelle esegesi di tipo mitologistico qualche elemento utile per capire dove si è formata la falsificazione. Il testo di Tulip, in tal senso, ho voluto leggerlo con curiosità, in quanto si sforza di dettagliare i motivi per cui i vangeli vanno interpretati come testi mitologici; e, per quanto esso sia stato scritto non come un manuale scientifico, ma come una sorta di diario personale, soggetto a ulteriori revisioni, devo dire che mi ha aiutato a fare chiarezza su alcune fondamentali questioni di ordine metodologico nell'affronto esegetico dei vangeli cristiani.
Qui tralascio volutamente di commentare le fonti ispirative dell'autore, nonché i nessi di questo volume col precedente da lui scritto. Non proverò neppure ad analizzare la congruità delle sue tesi in materia “mitologistico-pagana”, poiché esse sono davvero tante, spesso controverse e tra loro contraddittorie, e poi perché non avrei le sufficienti competenze per farlo, e in fondo neppure l'interesse, in quanto non sono mai stato uno studioso delle religioni. I vangeli, per me, sono testi di natura politica, o meglio, essendo delle mistificazioni, di natura teologico-politica. Ci concentreremo quindi sull'efficacia dell'analisi mitologistica ai fini dello smascheramento della mistificazione sottesa a questi testi cristiani.
La tesi fondamentale di Tulip è riassunta in fondo al libro: “Il Gesù della storia è stato il primo Gran Maestro, nell'era volgare, di una setta iniziatica che pose al centro della propria dottrina la magia egizia, creando aspettative di rigenerazione e risurrezione per i propri adepti e riproponendo nel mondo ebraico la restaurazione dell'antico mito solare modificato tramite lo pseudo-monoteismo persiano. Il cristianesimo, dopo una primitiva setta mitraica, si differenziò in numerose derivazioni gnostiche e fu reso 'cattolico', o universale, solo dopo il Concilio di Nicea, rinunciando ai suoi caratteri misterici ideali” (p. 162).
Quindi in sostanza il cristianesimo primitivo avrebbe falsificato un Cristo “massone” proveniente (non solo geograficamente ma anche culturalmente) dall'Egitto pagano, e prima ancora dal mondo esoterico persiano (mazdaico-mitraico), con un altro Cristo religioso, in forza del quale la cristianità, in accordo con l'imperatore Costantino, avrebbe voluto esercitare un dominio politico. Chi ha resistito alla svolta del Concilio Niceno sarebbe entrato nella clandestinità e avrebbe proseguito il messaggio originario del Cristo tramite la moderna “massoneria” (nel senso di umanistica o rinascimentale). In sostanza Gesù sarebbe soltanto “una figura letteraria forgiata sul personaggio reale Ormus”; quindi “Ormus-Gesù è semplicemente venuto dalla Persia, si è formato ad Alessandria d'Egitto, dove, pur essendo un sacerdote di Serapide, è venuto in contatto coi Terapeuti” e avrebbe creato “una nuova religione che fonde il mito solare egizio e persiano col monoteismo esseno-terapeutico-ebraico, già impregnato di un proprio simbolismo astrologico simile a quello egizio” (p. 157). Per sostenere una tesi del genere ovviamente Tulip è convinto che esista un vangelo originario ben custodito negli archivi segreti del Vaticano.
Mi chiedo se sia più fantastica questa tesi che non quella implicita negli stessi vangeli, la cui forte tendenziosità è già stata messa in luce da tanti esegeti non confessionali, molti dei quali citati dallo stesso Tulip. D'altra parte l'autore non lascia molto spazio a possibili convergenze verso l'interpretazione storicistica, in quanto sostiene che “l'ipotesi di un rivoluzionario zelota, riferita a Cristo, è labile”, poiché, se anche egli fosse stato “un primogenito asmoneo della stirpe di Davide”, disposto a condividere “la lotta dei Galilei per la liberazione dalla dominazione romana”, lo zelotismo resta comunque – scrive Tulip – “un aspetto secondario e marginale del profilo di Gesù” (p. 134).
È vero, lo zelotismo rimase marginale nella concezione politica di Gesù, nonostante che tra gli apostoli alcuni provenissero proprio da quegli ambienti (incluso probabilmente lo stesso Pietro), ma non tanto perché egli preferiva predicare un verbo mistico (misterico, iniziatico, gnostico ecc.), quanto perché riteneva lo zelotismo ideologicamente e politicamente superato. In particolare l'idea di restaurare un regno davidico di matrice teologico-politica doveva considerarla del tutto improponibile in un territorio come quello della Palestina di allora, in cui le differenze religiose venivano considerate prioritarie rispetto alla necessità di realizzare un fronte comune contro Roma.
*
Ma veniamo ora alle questioni della metodologia mitologistica che il libro di Tulip solleva, ritenute dal sottoscritto di un certo interesse.
Una volta ammesso che i vangeli non possono essere considerati una fonte storica, e non tanto perché gli autori non concepiscono la storiografia secondo i nostri parametri, quanto perché danno dei fatti una lettura particolarmente tendenziosa15, diventa problematico usare gli stessi vangeli come una fonte storica per avvalorare proprie tesi mitologistiche. Cioè si può anche sostenere che il significato dei vangeli sia di tipo “allegorico ed ermetico”, ma se poi si pensa di dover rinchiudere in questo significato tutto il loro contenuto, si finisce col non capire che una parte del loro contenuto mistificato è anche e soprattutto di tipo teologico-politico e che proprio in questa peculiarità “teologica” sta la falsificazione degli aspetti “politici”.
Tutta la mistificazione dell'evento-Gesù ruota attorno al tentativo di dimostrare ch'egli non era solo di natura umana ma anche divina; in particolare gli autori dei vangeli hanno cercato di dimostrare che la natura “divina” del Cristo non era identica a quella umana. Se infatti si fossero limitati a sostenere che la predicazione del Cristo era finalizzata a far capire che tutti gli esseri umani hanno una natura divina, forse potremmo anche considerare non particolarmente grave la suddetta mistificazione. Il fatto è però che essi, da un lato, han voluto attribuire al solo Cristo una particolare “natura divina” (tant'è che parlano di unigenito figlio di Dio), mentre, dall'altro lato (e questo è l'aspetto peggiore in assoluto), hanno indotto gli uomini a credere che la loro liberazione sulla Terra da nessuno può dipendere se non da Gesù Cristo, il quale la prevede soltanto nel cosiddetto “regno dei cieli”. In sostanza l'attribuzione di una esclusiva natura divina al Cristo ha portato i credenti a svalutare enormemente le capacità operative della natura umana.
Ora, se questo è vero, bisogna dire che quasi tutta l'analisi di Tulip non viene a scalfire di un millimetro l'impianto mitologistico su cui si reggono i vangeli. In altre parole, l'analisi può anche servire per capire quali sono state le fonti pagane che gli autori dei vangeli hanno utilizzato per avvalorare la loro impostazione surreale, ma non serve per capire che l'oggetto della mistificazione era di natura politica.
Tulip, peraltro, non tiene conto del fatto che gli autori dei vangeli, nel momento in cui li scrivevano, avevano già alle spalle una cultura più che millenaria; sicché, per falsificare l'evento-Gesù non avevano bisogno di attingere a piene mani dalla cultura egizia o persiana o di altro genere. Sarebbe stato per loro più difficoltoso mistificare un Cristo religioso con una cultura misterica molto più antica del loro tempo storico, che non servirsi degli ultimi addentellati di quelle culture misteriche, presenti nei territori pagani confinanti con loro, per dare corpo a una mistificazione che partiva dall'interno della loro stessa cultura ebraica.
È difficile inoltre pensare che una popolazione avente la politica nel proprio DNA storico-culturale perda così tanto tempo nel trasformare un soggetto mistico in un altro soggetto mistico. Quindi l'unica cosa che si può accettare nell'analisi di Tulip è la possibilità che i redattori dei vangeli si siano ispirati a fonti mitologiche pagane per dare corpo alle loro mistificazioni di natura teologico-politica. Nessun libro dell'Antico Testamento può essere considerato di natura esclusivamente mitologica, proprio perché l'esigenza che muove gli scrittori ebrei è generalmente di natura politica o etico-politica (lo si vede persino nei Salmi, che pur vengono recitati con intenti religiosi). Anzi, sotto questo aspetto si potrebbe sostenere che, col loro Dio irrappresentabile, gli ebrei sono molto più atei dei cristiani, anche se indubbiamente la coincidenza di umanità e divinità nella persona del Cristo costituiva una forma di religiosità più concreta di tutte quelle rappresentazioni statuarie della mitologia pagana.
Questo naturalmente non vuol dire che gli scrittori ebraici non abbiano mai utilizzato spunti o ispirazioni tratte dalle mitologie pagane a loro coeve. Vuol semplicemente dire che la letteratura mitologistica è tipica del mondo pagano, dove gli aspetti storici, i riferimenti sociali, etnici, tribali ruotano attorno alle vicende di un individuo singolo, generalmente considerato un eroe. Viceversa, nella letteratura ebraica si percepisce immediatamente che, anche quando si parla di personaggi singolari, dietro di loro o attorno a loro il vero protagonista è sempre un collettivo, delle cui esigenze si fanno carico, il più delle volte, i profeti, che non a caso vengono spesso eliminati o messi a tacere dal potere costituito.
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Vediamo ora di scegliere un esempio tra i tanti che Tulip usa per dimostrare che i vangeli sono testi che nascondono le loro origini culturali. Scrive alle pp. 54-55: “Se Gesù non era un Esseno, aveva però attinto da essi molti elementi che caratterizzano il suo pensiero e le sue azioni. Probabilmente in gioventù è stato molto vicino allo zio (o cugino) Giovanni e ha attinto dagli Esseni tutta la filosofia ermetica e il loro cerimoniale. Negli anni della sua giovinezza o prima maturità, prima d'intraprendere la sua missione, potrebbe essersi anche recato ad Alessandria, dove vi era una nutrita colonia di ebrei, ed aver appreso la magia e la dottrina dei riti egizi”.
Ora, qui ci sono alcune cose che collimano assai poco con l'interpretazione storiografica “non confessionale” dei vangeli canonici. Infatti nel vangelo di Giovanni è detto chiaramente che Gesù non battezzava e che in occasione dell'epurazione del Tempio si consumò la sua rottura col Battista, tant'è che una parte della comunità di quest'ultimo preferì mettersi alla sequela dello stesso Gesù. Il fatto che questi venga battezzato dal Precursore è riportato solo nei Sinottici, e ciò è indubbiamente una conseguenza della riconciliazione tra esseni (o battisti) e cristiani successivamente alla morte del Cristo, quando ormai era prevalsa la linea mitologistica di Pietro e Paolo. In virtù di quella riconciliazione si decise di attribuire al Cristo l'istituzione dell'eucarestia nell'ultima cena, che è chiaramente un rito di tipo essenico (e che gli stessi esseni possono aver preso dalla mitologia egizia). Tulip infatti accetta molto tranquillamente l'idea di un Cristo taumaturgo e miracolistico.
Tantissimi esegeti (persino tra quelli confessionali) sostengono che Gesù non avesse nulla di “religioso”, così come si sarebbe dovuto intendere il termine in senso ebraico (relativamente a riti, funzioni, credenze, festività ecc.): p. es. egli partecipa a varie festività ebraiche ma non lo si vede mai compiere dei riti inerenti ad esse. Tutto quanto di “religioso” gli viene attribuito dagli autori dei vangeli è generalmente considerato come una sorta di ricostruzione mistica della sua personalità (che comportò una netta distinzione tra “Gesù storico” e “Cristo della fede”), elaborata in un momento in cui il suo movimento aveva definitivamente rinunciato a lottare politicamente per liberare la Palestina dai Romani.
Se si passa da un Cristo essenico a uno egizio, solo per sostenere che gli autori evangelici hanno voluto nascondere il fatto che la predicazione di Gesù aveva contenuti del tutto pagani, si compie un'operazione quanto meno forzata, poiché ci si serve di una falsificazione per avvalorare una tesi che, in ultima istanza, risulta essere soltanto una variante della medesima falsificazione. In entrambi i casi non si esce dall'intenzione redazionale originaria di elaborare dei testi che potessero non dispiacere alle autorità romane. Sappiamo tutti, p.es., che l'Apocalisse di Giovanni è infarcita di una mitologia di derivazione pagana, eppure non è certo per questo motivo che la storiografia marxista la ritiene il testo più sovversivo di tutto il Nuovo Testamento.
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Il libro di Tulip sembra essere, in definitiva, un testo favorevole alla massoneria (non a caso sono ampi i riferimenti a Raimondo di Sangro): una corrente misterica di pensiero (ch'egli fa risalire addirittura a Salomone), il cui misticismo è riservato solo a pochi eletti, ma che, nella sostanza, non presenta alcun carattere eversivo, se non rispetto alla religione dominante. Se Cristo fosse stato davvero un soggetto religioso, nel senso voluto da Tulip, Pilato, al massimo, l'avrebbe considerato alla stregua dei seguaci del culto di Dioniso e non gli avrebbe per nessuna ragione comminato una punizione che si poteva dare solo agli schiavi ribelli o sediziosi. Non a caso su questo Tulip è tassativo: “Ponzio Pilato non processa nessuno e Gesù non è stato crocifisso” (p. 154).
Sotto questo aspetto è abbastanza singolare che chiunque veda nei vangeli dei testi influenzati dalle religioni pagane, sia poi disposto ad accettare qualunque tipo di influenza provenga da queste fonti. Tulip infatti, pur di negare il contenuto politico (vero e mistificato) ai vangeli, è disposto ad ammettere che in essi siano confluiti influssi pagani provenienti non solo dall'Egitto, ma anche dall'oriente mesopotamico (mitraismo, orfismo, dionisismo, mazdaismo...). Cioè invece di sostenere la possibilità che alcuni seguaci delle religioni pagane abbiano voluto aggiornare le loro idee alla luce di quelle diffuse dalla nuova religione cristiana, ha fatto l'operazione inversa: ha cercato nei vangeli delle analogie con tutte le religioni pagane.
In questa maniera però gli è sfuggita la specificità del cristianesimo rispetto a tutte le altre religioni pagane. È come se oggi qualcuno sostenesse che tutta l'essenza del socialismo scientifico era già inclusa in quella del socialismo utopistico. Sarebbe una tesi che nessuno prenderebbe in seria considerazione, neanche i nemici più irriducibili del comunismo. Paradossalmente Tulip non ha capito neppure la specificità dell'ebraismo rispetto alle religioni pagane. Infatti scrive: “il cristianesimo delle origini era una religione solare e quindi pagana come tutte quelle che l'avevano preceduta, incluso l'ebraismo” (p. 167). A questo punto si faceva prima a dire che tutte le religioni, anche quelle pagane, provengono dall'animismo-totemismo, visto che queste, cronologicamente, sono state le prime ad apparire nella storia dell'uomo. Cosa che se Tulip avesse fatto, avrebbe peccato di una grossa ingenuità, in quanto l'animismo-totemismo, a differenza del politeismo pagano, non è figlio della civiltà schiavistica. In ogni caso se di fronte a un Cristo equiparato al Sole si pensa d'aver trovato un sicuro indizio dell'origine pagana del cristianesimo, non si deve poi tralasciare l'interpretazione opposta, quella secondo cui si può essere in presenza di una progressiva cristianizzazione del paganesimo.
Sia il cristianesimo che il socialismo non sono nati dal nulla. È evidente che entrambi hanno dovuto tener conto di un background culturale già sufficientemente strutturato. Ma questo non ha impedito loro di modificarlo in alcuni aspetti essenziali. Se oggi non sono più le culture pagane che prevalgono nell'immaginario collettivo, significa che le nuove culture, pur avendo desunto molti elementi dalle precedenti, hanno saputo riformularli in maniera innovativa, costituendo uno spartiacque da cui non è stato più possibile prescindere. Lo stesso socialismo si pone come una svolta irreversibile del pensiero liberale, il quale, a sua volta, costituiva una riformulazione significativa del pensiero cristiano.
Insomma, per concludere, la tesi che vogliamo sostenere può essere la seguente: i vangeli sono testi di teologia politica di derivazione ebraica, in cui la teologia che si è utilizzata per mistificare la politicità dell'evento-Gesù si è servita di elementi tratti dalle religioni pagane ch'essa ha saputo rielaborare in maniera creativa, facendo nascere una nuova religione. Esisterà sempre un corrispettivo pagano a un qualunque evento reale del giudaismo, ma non per questo dovremmo considerare quell'evento come del tutto allegorico. Anzi, più in generale, il fatto che un qualunque evento reale venga rappresentato con immagini o idee di derivazione pagana (che hanno, si badi bene, circa 4000 anni di storia!), non significa che quell'evento non sia stato reale. Noi stessi non possiamo sapere se i miti pagani, a loro volta, non siano nati come interpretazioni di eventi reali.
Dunque il massimo che si può sostenere è che ogni religione è una mistificazione della realtà e che tutte le religioni s'influenzano a vicenda, in quanto tutte sono forme oppiacee di esistenza. In tal senso si può forse azzardare una tesi ulteriore, e cioè che la mistificazione precede sempre la falsificazione: p. es. di fronte alla tomba vuota del Cristo dire che è “risorto” è sicuramente una mistificazione di un'interpretazione molto più semplice, quella secondo cui il suo corpo era stranamente scomparso. La falsificazione invece viene quando si scrivono racconti sulla sua riapparizione.
Addendum
Noi occidentali abbiamo un concetto di storia che presume d'essere scientifico. Pertanto, quando esaminiamo i vangeli, diciamo che sono testi mistici, catechetici, edificanti, teologici, mitologici: mai diremmo che sono storici.
In realtà non esiste affatto un criterio univoco con cui poter stabilire quando un testo è “storico” e quando non lo è. Tutto può essere soggetto a mistificazione o fraintendimento o falsificazione vera e propria. Qualunque evento può essere interpretato in maniera tendenziosa o capziosa. Non vi è sicurezza matematica su nulla, proprio perché se vi fosse, verrebbe violata la libertà di coscienza, che è quella che permette di aderire alla verità di qualcosa sulla base della propria volontà e non perché esiste una costrizione esterna, foss'anche qualcosa che s'impone per la propria evidenza.
Ciò implica che quando si afferma che i vangeli non rappresentano il Gesù storico, si sta dicendo soltanto una banalità. Infatti, anche se lo facessero in maniera per noi adeguata, ci sarebbe sempre qualche esegeta disposto ad affermare il contrario.
I vangeli sono testi mistificanti non perché non sono stati scritti secondo i nostri parametri storiografici, ma per una motivazione intrinseca, di sostanza: il Gesù che rappresentano è un personaggio prevalentemente irreale, nel senso che compie cose al di fuori della portata umana. Sotto questo aspetto è scontato sostenere che ognuno tende a formarsi un'immagine “soggettiva” di Gesù. Anche i vangeli ne offrono una, in relazione alle comunità d'appartenenza dei vari autori. Il fatto che ognuno di loro sia frutto di un consenso collettivo non lo rende per questo più credibile.
L'unica immagine oggettiva di Gesù è quella che lui stesso ci ha fornito: la Sindone, che però i vari esegeti interpretano come vogliono, non essendovi nulla che possa obbligare a credere nella verità di qualcosa. O la verità chiede d'essere creduta in libertà, o è falsa.
(torna su)9) Le ricerche di Bultmann e l'attuale esegesi laica
I
Rudolf Bultmann (1884-1976) è stato un teologo evangelico che ha elaborato e sviluppato la teoria della Formgeschichte (“storia delle forme” o “critica delle forme”), cioè il metodo storico-morfologico applicato prevalentemente ai vangeli sinottici, le cui premesse vanno ricercate in una intuizione di J. Wellhausen (1844-1918), secondo cui è possibile distinguere nei Sinottici la tradizione antica dall'apporto redazionale.16
A capo della Formgeschichte non vi è solo Bultmann ma anche Karl Ludwig Schmidt (1891-1956), secondo cui, in Marco, l'apporto redazionale è ben visibile nei collegamenti spazio-temporali posti tra una pericope e l'altra, sicché la tradizione originaria doveva essere composta da singole unità brevi, prive di nessi redazionali o di coordinate storiche.
E poi vi è Martin Dibelius (1883-1947), per il quale tutti gli aspetti “soprannaturali” dei racconti evangelici vanno considerati come semplici “teologumeni” introdotti dagli evangelisti, indipendentemente dalla loro storicità. Sia lui che Bultmann non si accontentarono di sapere che dietro il vangelo marciano (cui diedero grande importanza) c'è una tradizione più antica, prevalentemente orale, di quella di Matteo e di Luca, cui Marco poté attingere per primo e che in parte si ritrova anche nella fonte Q. Essi cercarono anche di dimostrare come sia avvenuto il passaggio dalla tradizione antica alla sua forma letteraria.
Senonché chi sperava di trovare, da questi studi, la vera personalità di Gesù, i suoi veri intenti in quella che veniva definita la “tradizione pre-marciana”, rimase profondamente deluso, in quanto le conclusioni dei loro lavori si rivelarono piuttosto sconcertanti. Gli esegeti infatti dovettero ammettere che la suddetta tradizione più antica non mostrava alcun interesse per la vita o la personalità di Gesù, ma, al massimo, solo per i suoi detti. La vita interiore di Gesù o l'evoluzione della sua autoconsapevolezza praticamente non esistono nei vangeli, poiché ogni cosa non viene raccontata come se fosse Gesù stesso a raccontarla, ma come se ci fosse un filtro redazionale che non permette di vedere oltre. Al massimo si possono distinguere, nella sua predicazione, gli strati greco-ellenistici da quelli aramaico-palestinesi, ma senza avere la certezza che quest'ultimi risalgano effettivamente al Cristo.
Quindi sarebbe meglio dire che i vangeli costituiscono soltanto ciò che la comunità protocristiana pensava di Gesù. Ma se è così, all'esegeta non resta che individuare il contesto vitale, la collocazione socioculturale (Sitz im Leben) delle diverse comunità, le quali, non avendo le medesime esigenze o i medesimi interessi, riproducevano in forma autonoma (scritta) ciò che avevano ricevuto dalla tradizione orale. Ovviamente proprio tale diversità rende impossibile stabilire in quale forma esatta Gesù aveva pronunciato un determinato detto. Anzi, si poteva addirittura sostenere che molti detti non provenivano affatto da Gesù, quanto piuttosto dalle stesse comunità che li avevano divulgati.
Alla fine della loro ricerca, se non si voleva approdare su posizione ateistiche, si doveva per forza dar ragione alle tesi di Martin Kähler (1835-1912), per il quale i vangeli non ci permettono di conoscere tutti i dettagli della vita del Gesù storico, per cui bisogna resistere all'impulso di speculare troppo su questa vita e limitarsi ad apprezzare il “Cristo della fede”. Ciò in quanto alla comunità cristiana non interessava far dipendere la convinzione religiosa su Gesù dalla ricostruzione della sua vicenda storica. La fede non dipende dalla storia, per cui non è possibile ricavare la storia dai vangeli. E d'altra parte non è possibile sostenere che non potremmo risalire al Gesù storico neanche se lo volessimo, poiché questo significa trasformarlo in uno dei tanti miti pagani.
Fu a questo punto che Bultmann iniziò a produrre una teologia esistenzialistica, con cui cercò di valorizzare quella kerygmatica prodotta nel IV vangelo. La critica delle forme si era illusa di poter trovare dietro ai testi evangelici una forma originaria, una realtà storicamente recuperabile, non toccata dalla fede, ma alla fine si era accorta che non c'è nulla nei vangeli che non dipenda dalla fede.
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Bultmann ha sempre insegnato teologia e i suoi principali allievi (come lui di fama mondiale) sono stati tutti dei credenti in qualche religione. Praticamente il meglio di sé egli l'ha dato dagli anni '30 alla metà degli anni '50.
Viene definito il “teologo della demitizzazione”, in quanto ha separato il “Gesù storico” dal “Cristo teologico” che i vangeli han voluto trasmettere. Il “Cristo teologico” sarebbe stato – secondo lui – un'invenzione di Paolo di Tarso, sotto l'influenza di una cultura ellenistica. In questo deve molto al B. Bauer e allo D. Strauss della Sinistra hegeliana.
Tuttavia Bultmann non ha mai smesso di credere in Dio, non ha mai fatto professione né di ateismo né di agnosticismo, anche se dal suo “manifesto sulla demitizzazione” sorgeranno numerosi movimenti radicali, alcuni dei quali confluiranno nella teologia della “morte di Dio”.
La sua filosofia rientra in quell'esistenzialismo religioso a-confessionale che si può ritrovare anche in Heidegger, che lui, non a caso, considerava come proprio maestro. Quando la Chiesa evangelica tedesca nel 1952 pensò a misure disciplinari a suo carico, fu difeso da un altro grande teologo, Karl Barth (1886-1968).17 Non a caso Bultmann aveva considerato di notevole spessore la teologia kerygmatica di quest'ultimo, tant'è che quando prese a esaminare il vangelo di Giovanni la fece propria.
Egli ha praticamente ridotto il cristianesimo (anche quello primitivo) a una filosofia di tipo esistenzialistico, in cui il misticismo è comunque rimasto, seppure in forma meno accentuata rispetto alle classiche teologie. Ha cercato, in sostanza, di rendere il cristianesimo più attuale, spogliandolo di tutte quelle sovrastrutture ideologiche ormai divenute incompatibili con la mentalità tecnico-scientifica del nostro tempo.
Quindi egli ha sottoposto a critica soltanto le “forme” in cui il mito cristiano si è presentato, non tanto le “intenzioni” con cui lo si era creato, proprio perché tali intenzioni – secondo lui – fanno parte dell'uomo comune, bisognoso di credere in un essere superiore che dia significato alla propria esistenza, limitata sotto ogni punto di vista. In altre parole ha voluto compiere un'opera di aggiornamento, facendo della filosofia religiosa qualcosa di più importante, perché di natura più universale, rispetto alla tradizionale teologia, che implica aspetti di divisione come dogmi, strutture ecclesiastiche, sacramenti ecc.
Bultmann era forse riuscito a capire che, nell'ambito del capitalismo, anche la cultura scientifica può essere usata in chiave mitologica? No. Era forse riuscito a capire che la dimensione religiosa in sé, a prescindere dalle forme che si dà, è oggettivamente una forma di alienazione? Meno ancora. Conseguenza di ciò? I suoi testi protestanti sono stati ampiamente tradotti anche delle case editrici cattoliche del nostro paese.
Possiamo tuttavia sostenere ch'egli è stato un grande teologo, che ha favorito un approccio di tipo “laicistico” ai vangeli? Sì, lo è stato. A distanza di oltre mezzo secolo dalle sue principali opere esegetiche, l'esegesi laica contemporanea può forse dare per acquisita la tesi della demitizzazione, con cui si rinuncia a credere a tutto ciò che nei vangeli appare di sovrumano o d'innaturale? Indubbiamente sì. È dai tempi di Reimarus che si è proceduto a demitizzare i vangeli (l'ebreo Spinoza l'aveva già fatto con l'Antico Testamento). Sarebbe assurdo rinunciare a un patrimonio culturale del genere.
Detto questo, rispondiamo ora alla seguente domanda: l'esegesi laica deve forse oggi sentirsi in dovere – come fanno taluni esegeti della cosiddetta “Terza ricerca” – di approfondire l'ebraicità del Cristo, cioè di scoprire quanto il “Gesù storico” fosse sostanzialmente “giudaico”, più spiritualmente “giudaico” degli stessi farisei, che, al suo confronto, dovremmo ritenere dei “formalisti” o “legalisti”? No, non ha l'obbligo di approfondire un argomento del genere. Non c'interessa sapere se Gesù aveva una fede più “pura” di tanti altri Giudei. Meno che mai c'interessa trovare, su questa cosa, dei punti di contatto con quella recente esegesi ebraica che ha iniziato a riscoprire il lato giudaico del Cristo.
Sembra che il cristianesimo di questi esegeti confessionali abbia sempre più bisogno dell'ebraismo per sostenere la tesi evangelica del “Cristo teologico”. Sembra che un esegeta debba simbolicamente “circoncidersi” se vuole far parte della suddetta “Terza ricerca” su Gesù.18 A questo punto vien da chiedersi: sostenendo che Gesù può essere considerato un ebreo in tutto e per tutto, la cosiddetta “Terza ricerca” rappresenta forse il tentativo di dimostrare che, sul piano teologico, se gli ebrei fossero più cristiani sarebbero più ebrei, e se i cristiani fossero più ebrei sarebbero più cristiani?
L'esegesi laica deve forse cercare di capire che lo stesso giudaismo conteneva aspetti di misticismo, tali per cui non vi era alcuna necessità di andarli a chiedere in prestito alla cultura ellenistica per poter fondare la nuova religione cristiana? No, non ha bisogno di cercare di capire questa cosa, proprio perché l'esegesi laica non ha bisogno d'interessarsi di “religione”.
La religione va considerata come una sovrastruttura mistificata qua talis. Su questo assunto non ha alcun senso mettersi a discutere. È del tutto irrilevante sapere, tanto per fare un esempio, se l'idea di “resurrezione” sia stata presa dalle mitologie pagane o se l'ebraismo l'aveva elaborata in proprio. Questi sono aspetti che non ci aiutano minimamente a comprendere la natura democratica, umanamente laica e politicamente rivoluzionaria, del movimento nazareno messo in piedi del Cristo.
Se davvero si vuole attualizzare il suo messaggio, bisogna farlo in rapporto ai due contenuti fondamentali che possono aiutarci ad affrontare efficacemente il nostro presente, altrimenti è meglio lasciar perdere “il caso Gesù”. Questi due contenuti sono appunto l'umanesimo laico e il socialismo democratico. Altri non ve ne sono.
Oggi possiamo tranquillamente affermare che Bultmann, in tal senso, non è di alcun aiuto alla comprensione dell'ateismo e della strategia politicamente eversiva del Cristo. Al suo confronto, molto meglio l'opera del teologo anglicano Samuel Brandon.
Se nei testi canonici del Nuovo Testamento o in quelli apocrifi che sono stati scartati dalla Chiesa; se nei testi ebraici in generale, canonizzati nell'Antico Testamento o esclusi da esso, o sviluppati in quella straordinaria raccolta chiamata Talmud, vi sono elementi che possono aiutare a capire l'importanza fondamentale di quei suddetti contenuti, bene! Vorrà dire che la “religione” avrà ancora qualcosa da insegnare all'umanità. In caso contrario non avremo perso nulla.
II
Quando Rudolf Bultmann diceva che “allo storico non spetta né fare dell'apologia né dimostrare la verità del cristianesimo”, in quanto ciò “resta sempre questione di libera decisione personale”; quando diceva che non è compito dello storico “dare un 'giudizio di valore' sui fenomeni storici dopo averli descritti”, in quanto “il suo compito è di interpretare i fenomeni della storia passata alla luce delle possibilità dell'interpretazione dell'esistenza umana, in modo tale da far acquisire queste possibilità alla coscienza anche come possibilità di un'interpretazione dell'esistenza attuale”19, da un lato faceva professione di positivismo o di sociologismo weberiano; dall'altro riproduceva un modo di pensare simile a quello esistenzialistico di Kierkegaard e di Heidegger.
All'apparenza – pur insegnando teologia – aveva la pretesa di fare un discorso neutrale o, come dice lui, “da storico”; di fatto però si preoccupava di come attualizzare il cristianesimo per l'uomo moderno. Era una sua caratteristica, quella di far passare dei contenuti “religiosi” non direttamente attraverso la teologia, bensì attraverso una filosofia cripto-mistica, servendosi della mediazione storiografica relativa al cristianesimo primitivo.
Oggi un tale modo d'impostare la storiografia (generalmente intesa, ma ancora più se in riferimento a quella cristologica) dovremmo considerarlo del tutto superato per almeno due ragioni: anzitutto perché lo storico non può scindere in se stesso il ruolo del ricercatore dalla sua condizione umana, che inevitabilmente si basa su determinati valori etici e politici; in secondo luogo perché quando si esamina un evento caratterizzato politicamente come quello gesuano, sarebbe molto riduttivo pensare di farlo soltanto come “storico”.
Se non ci si vuole pronunciare anche politicamente, poiché si pensa che l'evento-Cristo avesse solo una connotazione etico-religiosa, automaticamente si finisce col fare proprio quell'apologia che si voleva evitare, cioè ci si pone dalla parte di quella rappresentazione di Gesù che è stata data dalla teologia petro-paolina. Sicché, in men che non si dica, tutta la propria pretesa equidistanza storica viene a cadere come un castello di carte. Anche contro la propria volontà, si arriva a fare gli interessi di una religione che, per quanto depurata dalle proprie incrostazioni dogmatiche ed ecclesiastiche che col tempo si sono sedimentate, resta pur sempre una “religione”.
Rifare il maquillage della fede, rendendola più idonea all'homo technologicus dei tempi moderni, è un'operazione legittima da parte di quello storico che premette di dichiararsi ideologicamente situato. Viceversa, nell'esegesi bultmanniana – che pretende d'essere “scientifica” –, diventa un'operazione subdola, indegna di un ricercatore impegnato a trovare la verità delle cose. A meno che Bultmann non vada considerato come uno di quei tanti ricercatori confessionali che, pur essendo giunto col tempo su posizioni “laicistiche”, non ha avuto il coraggio di “rompere” in maniera definitiva con le scelte compiute in gioventù e, con fare opportunistico, ha cercato di far convivere, come meglio poteva, le garanzie offerte dalla docenza universitaria con una visione delle cose che, in teoria, sarebbe dovuta apparire eretica all'ufficialità protestantica.
III
Perché la teologia di Bultmann, che tendeva a separare la predicazione di Gesù da quella evangelica, ovvero la storia dall'escatologia, poteva portare all'ateismo? Per il semplice motivo che se del Gesù storico non possiamo sapere nulla di preciso, essendo le fonti che ne parlano viziate da contenuti teologici, e di questi contenuti non siamo più interessati a causa del laicismo dominante, diventa inutile cercare di capire chi fosse realmente Gesù: per saperlo, infatti, si sarebbe costretti a esaminare proprio le fonti che ne deformano l'identità e l'operato, sicché, inevitabilmente, si finirebbe col formulare soltanto delle ipotesi.
Bisognerebbe invece andare oltre Bultmann, ma non come han fatto gli esegeti fino ad oggi, che partono sempre da un presupposto sbagliato, quello secondo cui per poter esaminare le fonti del Nuovo Testamento è impossibile rinunciare a usare i concetti religiosi che vi sono delineati.
In realtà bisognerebbe partire dal presupposto che il Cristo era ateo e politicamente sovversivo. Dopodiché si dovrebbe cercare di capire non solo dove, come e perché le fonti neotestamentarie hanno negato queste sue caratteristiche, ma anche se da esse è possibile ricavare, in maniera assolutamente laica, dei suggerimenti utili per l'uomo contemporaneo, che certamente non si trova a vivere in una situazione migliore di quella della Palestina di duemila anni fa. Sono soltanto cambiate le forme, le dimensioni, l'intensità, ma la sostanza dello sfruttamento e dell'oppressione è rimasta la stessa, con l'aggiunta – questa sì tipicamente odierna – della cosiddetta devastazione ambientale.
Posto questo, bisogna dire che Bultmann non è in grado di aiutarci minimamente a capire il lato ateistico e politicamente rivoluzionario del Cristo. Semplicemente perché, per lui, Gesù non era altro che un maestro e profeta ebraico, interessato quanto si vuole alla realizzazione di un regno divino, ma non a una specifica modalità politico-messianica con cui conseguire tale obiettivo. E i discepoli del Cristo, in tal senso, erano ancor meno capaci di lui di produrre una strategia eversiva, in quanto, credendo nell'idea di resurrezione, restavano soltanto in passiva attesa di un suo imminente e trionfale ritorno, trasformando così Gesù da “annunciatore” (del regno) ad “annunciato”.
Bultmann capì bene anche la differenza tra la teologia petrina e quella paolina, ma non ne trasse le conseguenze più radicali. Indubbiamente Paolo di Tarso non solo accettò la crocifissione di Gesù come occasione per credere nella sua parusia, che pur rimandò alla fine dei tempi, ma seppe anche trasformare quella morte violenta in uno strumento salvifico con cui reinterpretare tutta la storia umana, facendo cioè del Cristo il nuovo Adamo che riconcilia Dio con una umanità perduta, incapace di bene a causa del peccato originale. Pietro non aveva gli strumenti intellettuali e, se vogliamo, neppure l'interesse per svolgere un'interpretazione così metafisica della tomba vuota.
Semmai li aveva Giovanni, il cui vangelo, non a caso, viene considerato dall'esegeta tedesco una prosecuzione sofisticata, in senso spiritualistico, della teologia paolina. Infatti, in questo vangelo Dio viene a coincidere strettamente col Cristo, per cui non esiste più un rapporto tra uomo e Dio che non passi per il Logos. L'incarnazione del Verbo è già attestazione di sicura salvezza, è già parusia e giudizio finale, a prescindere non solo dall'atteggiamento umano nei suoi confronti (che comunque implica una decisione esistenziale), ma anche dalla stessa croce, che viene scelta non in chiave etica (per riconciliare il Padre col genere umano), ma proprio per dimostrare che l'unico regno possibile è quello ultraterreno.
Nell'orizzonte mondiale Cristo realizza il regno proprio sulla croce, mediante la quale dimostra sino a che punto può arrivare l'impotenza umana, nei cui confronti egli non si vuole minimamente sottrarre, proprio perché non vuole illudere gli uomini che la liberazione sia possibile su questa Terra. Il peccato originale ha reso gli uomini strutturalmente incapaci di bene; tuttavia l'incarnazione del Verbo assicura loro che in un'altra dimensione, indipendentemente dalla loro volontà, esiste una condizione di beatitudine sempiterna, cui essi possono attingere, già da adesso, mediante la fede. Ciò è sufficiente per essere salvati. La rappresentazione dolorifica del Cristo crocifisso non aggiunge nulla a questa convinzione. Ecco perché il Cristo di Giovanni non ha bisogno di trasmettere alcuna dottrina, alcuna teologia, e non crede nel valore salvifico dei sacramenti: la “nuova alleanza”, di cui si parla nell'eucaristia, è sostituita dal comandamento dell'amore.
Quanto all'analisi dei rapporti tra gnosticismo e cristianesimo, che occupa un grande spazio nelle opere di Bultmann, bisogna dire ch'essa è piuttosto superata. Il motivo sta nel fatto che l'esegeta usa il cristianesimo (riveduto e corretto in forma esistenzialistica, dove il momento personale della “decisione di fede” resta centrale) contro l'astratto e dualistico gnosticismo, senza vedere che entrambi vanno superati dall'ateismo e dalla politica democratica e rivoluzionaria. Non ha capito che se si rinuncia all'idea di un Cristo politico, si finisce per forza su posizioni gnostiche, anche se queste, avendo radici ebraiche, non saranno uguali a quelle di origine pagana.
D'altra parte è proprio in questa analisi ch'egli più dimostra la propria dipendenza della filosofia di Kierkegaard e di Heidegger. Egli non fa che applicare l'esistenzialismo religioso alla comprensione del Nuovo Testamento. Si è sforzato di dire qualcosa di diverso, di più attuale in campo esegetico, ma ha soltanto mostrato che l'esegesi neotestamentaria, quando presume di dire qualcosa di “diverso”, rispetto alle tradizionali esegesi confessionali (quelle patristiche, scolastiche, riformistiche e controriformistiche), deve per forza appoggiarsi a scienze o discipline estranee alla teologia.
Bultmann arriva a un passo dal capire che la stretta identificazione tra Gesù e Dio, posta nel IV vangelo, poteva anche essere interpretata in chiave ateistica (nel senso che nessun Dio esiste che non sia umano), ma questo passo non lo fa. Egli si meraviglia alquanto che Gesù dica di essere inviato dal Padre per trasmettere agli uomini ciò che ha visto e udito da lui, e poi, di fatto, non dica mai nulla di concreto. Tuttavia, invece di concludere che in questo vangelo i redattori avevano operato una sorta di “ateizzazione mistica” del Cristo, in quanto il concetto di Dio, pur essendo del tutto coincidente con la figura del Verbo incarnato, restava comunque un concetto religioso, che distoglieva l'uomo da un impegno fattivo in politica; invece di smontare questa forma mistica di ateizzazione del messaggio di Gesù, mostrando che il Cristo ateo era politicamente sovversivo, preferisce affermare una cosa del tutto astratta e, in fondo, non meno mistica (a testimonianza che l'esegesi religiosa, oltre un certo livello d'intelligenza delle cose, non può andare).20 Egli cioè sostiene che la salvezza del Cristo stava semplicemente nel fatto che “parlava” ai suoi discepoli, a coloro ch'erano disposti ad ascoltarlo senza mettere in discussione quanto diceva. Gesù e il mondo, nel IV vangelo, parlano due linguaggi completamente diversi (il mondo confonde la verità con l'apparenza), per cui l'unico modo per diventare suoi discepoli è quello di ascoltarlo anche senza capirlo.
In pratica, secondo Bultmann, la predicazione fine a se stessa, a prescindere dal suo contenuto, doveva costituire per i discepoli, mentalmente sprovveduti, una vera e propria “parola di vita”. In tal modo gli è sfuggita la motivazione fondamentale per la quale i manipolatori di questo vangelo hanno identificato completamente Gesù con Dio: quella per cui egli si dichiarava ateo.
(torna su)10) È attendibile Jossa come esegeta del N.T.?
Si prenda di Giorgio Jossa un libro qualunque, tanto le sue tesi di fondo son sempre le stesse e certamente non sgradite agli ambienti di area cattolica, che lui stesso peraltro frequenta ben volentieri: p.es. Il cristianesimo ha tradito Gesù? (ed. Carocci, Roma 2009). Siccome ha sempre svolto il mestiere di “storico del cristianesimo”, anche in questo libro deve necessariamente partire dalla questione delle fonti.
Ora, per dimostrare che quelle canoniche sono (purtroppo, bisognerebbe precisare) assolutamente prevalenti su tutte le altre, cita, per farlo capire indirettamente, le frasi che Giuseppe Flavio scrive nelle Antichità giudaiche a favore di Gesù Cristo: “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti Giudei e anche molti dei Greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denuncia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani”.
Chiunque sa (anche un profano in materia) che il Testimonium Flavianum è un falso patentato almeno per tre ragioni: 1. lascia credere che Gesù avesse una natura sovrumana e compisse miracoli; 2. sostiene ch'egli attirò a sé anche “molti Greci”, come se fosse stato un seguace della teologia paolina; 3. attribuisce, insensatamente, allo stesso Flavio, e non ai cristiani, la convinzione che Gesù era il messia, ch'era risorto e riapparso ai suoi seguaci, adempiendo le profezie divine.21
Queste affermazioni sono così inverosimili che non appaiono neppure nella versione araba del X sec. dello stesso testo. Neppure una sola parola un ebreo avrebbe mai potuto dire, né una parola che non sia stata desunta dai vangeli canonici. Non solo quindi è una falsificazione in piena regola ma è anche di basso livello.
Cosa fa invece Giorgio Jossa di fronte a un testo del genere? Afferma che: 1. è “fortemente sospetto d'essere almeno parzialmente interpolato da mano cristiana” (p. 23); 2. “esso conferma indubbiamente l'esistenza di Gesù e le modalità della sua morte” (p. 24). Detto altrimenti, l'esegeta sostiene che l'interpolazione non è totale ma solo “parziale”, e che, pur essendoci una falsificazione, il testo può essere usato come “prova” di ciò che viene detto nelle fonti canoniche! Ci chiediamo: può un testo chiaramente falsificato confermare il valore di un altro? Come può uno storico del suo livello non sapere che si può rispondere affermativamente a tale domanda se anche l'altro testo è falsificato? E che tale conferma permane almeno fino a quando non si scoprono gli “altarini” di entrambi i testi?
Perle di questo genere ve ne sono tante nei suoi libri, le cui idee di fondo assomigliano, molto da vicino, a quelle di Mauro Pesce (un altro esegeta confessionale travestito da laico). La seguente, tanto per fare un altro esempio a caso, è ancora più incredibile: “io credo che siano state realmente le apparizioni di Gesù, e la conseguente fede nella sua resurrezione, a infondere coraggio ai discepoli impauriti e a dare l'avvio alla tradizione di Gesù” (pp. 30-31).
Ora, se c'è una cosa su cui non si dovrebbe neppure discutere è che i racconti di apparizione di Gesù risorto sono tutti inventati: il vangelo originario di Marco neppure li prevedeva. Se vi sono esegeti che ancora vi credono, sono in malafede. Come può uno studioso, che si qualifica come “laico”, non sapere che una qualunque “riapparizione” di una persona chiaramente morta violerebbe la libertà di coscienza di una persona viva, inducendola a credere in qualcosa con la forza dell'evidenza? La stessa parabola lucana del ricco epulone e del povero Lazzaro (16,19-31) dice espressamente che tra i vivi e i morti viventi “è stabilito un grande abisso”, sicché non vi è alcuna possibilità di contatto. Paradossalmente basterebbe questo racconto “evangelico” per far saltare la credibilità dei racconti di apparizione del Cristo.
In parte anche Jossa si rende conto di queste cose, là dove scrive: “lo storico naturalmente non può dire in che cosa esattamente [tali apparizioni] siano consistite” (p. 33). Tuttavia, siccome qui non si può parlare né di riapparizioni fisiche, né di miraggi o di allucinazioni (singole o collettive), uno storico davvero laico avrebbe dovuto trarre la conseguenza che tutti quei racconti sono soltanto delle invenzioni di tipo redazionale (poetiche quanto si vuole, ci mancherebbe!).
D'altra parte la prima di queste assurdità non appartiene neppure ai vangeli, ma è stata rivendicata da Paolo di Tarso, che nelle sue lettere ribadiva con forza di aver avuto una “rivelazione diretta” (una visione mistica) da parte di Gesù Cristo. Ora, è evidente che se il fondatore del cristianesimo ha potuto far passare un'idea del genere, chiunque avrebbe potuto sentirsi in diritto di imitarlo. In questo sta anche la differenza tra petrinismo e paolinismo, in quanto per Pietro era sufficiente credere nella “resurrezione” per poter sperare nell'imminenza della parusia trionfale del Cristo. Viceversa, per Paolo la “resurrezione” rimandava al “giudizio universale” della fine dei tempi. Se l'uno pensa al “Cristo risorto” secondo una finalità ancora politica, l'altro invece ha già smaterializzato e spoliticizzato tutto.
In ogni caso non è affatto vero che la fede nella resurrezione è stata una “conseguenza” delle apparizioni di Gesù. Semmai, redazionalmente, è avvenuto il contrario: i racconti di riapparizione sono stati inventati proprio perché la “fede nella resurrezione” non la si riteneva sufficiente come criterio per diventare cristiani. Anche perché se davvero le riapparizioni avessero preceduto la “fede” nella resurrezione, non si sarebbe creduta in questa per “fede”, ma secondo “ragione”. Nel ragionamento di Jossa vi è quindi un'incongruenza lapalissiana.
Un altro evidente errore ermeneutico appare subito dopo, là dove l'autore sostiene che i discepoli di Gesù hanno cominciato a credere nella sua “messianicità” solo dopo aver constatato la sua “resurrezione”, in quanto prima, mentre era vivo, si erano limitati ad accettarlo come “profeta e maestro” (p. 31).
Come può uno storico di chiara fama cadere in sviste del genere? Sin dall'inizio del suo ministero pubblico Gesù si era posto come “politico” e non semplicemente come “profeta e maestro”: proprio in questa differenza sta la sua rottura col movimento del Battista. Poiché aveva in mente di liberare la Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale del Tempio, facilmente veniva considerato dagli ebrei un “messia”. Semmai il problema stava nel cercare di chiarirsi sul significato della messianicità. Ciò in quanto il modello ideale degli ebrei era quello davidico, mentre il Cristo voleva contrapporre l'idea di democrazia a quella di monarchia, ovvero l'idea di volontà popolare a quella del sovrano autocrate, seppur confermato (unto) dal pontefice.
Se si sostiene che la messianicità del Cristo fu una conseguenza della sua resurrezione (p. 35), si deve per forza togliere al Cristo qualunque caratterizzazione politica; e se anche questa la si volesse accettare, pensando a una sua parusia trionfale imminente (come fece appunto Pietro), le si negherebbe inevitabilmente il suo presupposto democratico, in quanto la messianicità del Cristo non aveva affatto lo scopo di negare l'autodeterminazione al popolo ebraico. Cosa che invece verrebbe negata da una qualunque parusia, tanto più se questa fosse “trionfale”. Le due assurdità del petrinismo – resurrezione e parusia – si giustificavano a vicenda, e hanno continuato a farlo nel paolinismo, benché la fede stringente nell'imminenza sia stata trasformata in una vaga fede degli “ultimi tempi”.
Se la messianicità è un requisito della resurrezione, è evidente che il Gesù storico non aveva nulla di politico. Sostenere – come fa Jossa – che il cosiddetto “segreto messianico” è stata una scelta dello stesso Gesù e non un'invenzione del vangelo marciano, significa non capire la differenza tra Gesù storico e Cristo teologico. Senza poi considerare che un atteggiamento del genere rischia di portare su posizioni antisemitiche, in quanto si finisce col credere che gli ebrei non erano in grado di capire la messianicità di Gesù finché lui restava in vita.
Non si può pensare neanche per un momento che Gesù aveva imposto il silenzio sulla sua natura messianica perché non voleva esser capito sino in fondo. L'unica cosa che legittimamente si può sostenere è che egli aveva una concezione democratica della messianicità, mentre molti ebrei l'avevano di tipo monarchico, oppure che lui l'aveva di tipo laico (come fa capire alla samaritana), mentre gli ebrei non riuscivano a dissociare la religione dalla politica. Se non avesse avuto alcuna concezione di messianicità, non avrebbe organizzato l'ingresso trionfale a Gerusalemme; e tanto meno, per far capire la differenza tra le due concezioni politiche, avrebbe usato un asino (simbolo di mitezza) al posto del cavallo, usato dai generali, con al seguito un esercito bene armato, intenzionati a occupare le città con la forza.
Sostenere inoltre che la prima predicazione missionaria dei discepoli di Gesù, compiuta oralmente, abbia riguardato la sua attività di “taumaturgo che guariva malati e cacciava demoni, di profeta che annunciava la venuta del regno di Dio e narrava parabole immaginose, di maestro che insegnava a commentare la legge di Mosè” (p. 32) – tutto ciò è assolutamente irreale.
Se davvero i primi discepoli si sono comportati così, la loro predicazione orale non ha affatto “preceduto” la stesura dei vangeli, ma semmai è avvenuto il contrario. Essi hanno potuto raccontare delle cose ch'erano già state messe per iscritto dai dei redattori mistificatori o comunque già decise in qualche consesso di natura privata: infatti son tutte cose che nulla hanno a che vedere col Gesù storico, sia perché egli non ha mai compiuto “miracoli” che non fossero alla portata dell'uomo, sia perché era un ateo e non avrebbe potuto predicare un “regno divino”, sia perché non era un rabbino che commentava la legge mosaica e le sue successive interpretazioni.
I vangeli non sono stati scritti per “ricordare” Gesù, ma per farlo dimenticare nella sua autentica storicità, tant'è che lo presentano con caratteristiche sovrumane, del tutto immaginifiche. Essi avevano lo scopo di divulgare l'interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione” e l'interpretazione paolina del Cristo risorto come “unigenito figlio di Dio”, morto per salvare l'umanità dagli effetti devastanti del peccato originale e quindi per riconciliarla col Creatore, che voleva sterminarla come ai tempi di Noè.
Anche le antiche tradizioni “ellenistiche” rappresentate da Stefano, e quelle dichiaratamente giudaico-cristiane rappresentate da Giacomo il Giusto (parente stretto di Gesù) possono essere tranquillamente considerate come una forma di “tradimento” dell'originario messaggio gesuano. La prima perché focalizzava la strategia eversiva del Messia nell'unica direzione dell'opposizione contro il Tempio, dimenticando completamente quella contro la presenza romana. La seconda perché fingeva di non sapere che Gesù aveva già considerato irrilevante il culto presso il Tempio nel suo dialogo coi Samaritani. Al Cristo non interessava alcun tipo di culto religioso. Lo stesso quarto vangelo, benché profondamente teologico, in nessun luogo lascia capire che Gesù fosse una persona intenzionata a istituire dei “sacramenti” o dei riti mistici da reiterarsi periodicamente. I sacramenti del battesimo e dell'eucaristia sono stati presi dal mondo essenico quando i cristiani si riconciliarono coi battisti.
In ogni caso non si può assolutamente sostenere che “la predicazione apostolica ha certamente il suo fondamento nella storia di Gesù” (p. 33). Di tutti gli apostoli di Gesù soltanto Pietro appare attivamente negli Atti di Luca, e dopo di lui il protagonista è Paolo. Non c'è alcuna “predicazione apostolica” su temi comuni. Ciò che predica Pietro è già una forma di “tradimento” del messaggio originario del Cristo; e il fatto che gli altri apostoli non appaiano negli Atti, lascia pensare che la sua predicazione non sia stata affatto condivisa.
Quando i vangeli vengono messi per iscritto, non facevano che riflettere un'unica teologia, quella petro-paolina, di cui anche il quarto vangelo, debitamente manipolato, dovette tener conto. Se è stato scritto qualcosa in controtendenza, è andato distrutto. Già al momento della stesura definitiva del protovangelo marciano, non esisteva più la generazione ch'era stata “testimone oculare” del Cristo: un po' perché già eliminata o costretta alla fuga dal giudaismo (come dimostrano le persecuzioni che Saulo di Tarso compiva quand'era fariseo) un po' perché scomparirà nel corso della guerra giudaica scoppiata nel 66.
D'altra parte Jossa è convinto che, siccome le fonti apocrife non hanno nulla di storico, le uniche che possono aiutarci a delineare una figura realistica di Gesù sono soltanto quelle canoniche. Dicendo ciò non si rende conto che tra le due tipologie di fonti la differenza sta solo nella diversa entità e configurazione del mito. Queste cose si sanno dai tempi di Reimarus e della Sinistra hegeliana (D. Strauss e B. Bauer).
Insomma Giorgio Jossa non è molto diverso, nella sua esegesi moderata, dalla coppia Pesce-Destro. In base ai principi della cosiddetta “Terza ricerca”, essi accettano di qualificare Gesù come un autentico ebreo, nel senso che la sua predicazione era “radicata nella tradizione giudaica” e la sua religiosità era debitrice “della spiritualità giudaica del suo tempo (nell'importanza attribuita alla preghiera, nel riferimento costante alla Scrittura, nell'osservanza alle prescrizioni della legge, nel rispetto delle regole del culto)” (p. 86).
Col che si confonde completamente la posizione di Gesù con quella di Giacomo il Giusto, che sostituì ben presto Pietro nella direzione della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme. In realtà Gesù non può aver elaborato alcuna preghiera, in quanto la preghiera in sé è uno strumento di automortificazione della volontà umana a vantaggio della onnipotenza divina.
Lo stesso riferimento alle Scritture non è mai stato “costante” nella sua predicazione, e, in ogni caso, quando lo ha usato, non aveva certo una funzione apologetica della propria messianicità, proprio perché questa andava dimostrata sul campo, col proprio impegno politico, non in una maniera del tutto intellettualistica, servendosi – come faranno gli evangelisti molto tempo dopo – di profezie interpretate nella maniera più fantasiosa. Tanto meno, ovviamente, si servì delle Scritture per dimostrare la propria divinità.
Quanto all'osservanza della legge, non pare proprio che Gesù rispettasse il sabato o le abluzioni o le minuziose prescrizioni alimentari, come si vantavano di fare i farisei, coi quali sembra interfacciarsi di continuo nei vangeli. Non parliamo poi delle regole del culto, poiché non lo si vede mai fare sacrifici al Tempio.
Jossa esclude categoricamente che Gesù sia stato un politico: “che l'ingresso di Gerusalemme sia stata una manifestazione politica tale da impensierire i Romani è certamente da escludere” (p. 91). Quanto siamo lontani dalle tesi di S. Brandon o di F. Belo!
Sulla base di cosa Jossa può sostenere questa sua certezza? 1. Sul fatto che mentre egli entrò nella Città Santa, i Romani non mossero un dito. E come avrebbero potuto – ci si può chiedere – se, a fronte di alcune migliaia di seguaci del Nazareno provenienti da tutta la Palestina, Pilato disponeva soltanto di una coorte di 600 militari? 2. Sul fatto che non fu Pilato a prendere un'iniziativa in proprio a carico di Gesù; semplicemente egli reagì a una denuncia da parte delle autorità giudaiche. Ecco un bel modo d'interpretare i vangeli come gli evangelisti volevano! Non solo, ma egli aggiunge che l'ingresso in Gerusalemme e la purificazione del Tempio non avevano affatto un contenuto messianico, come invece l'ebbe la dichiarazione di Gesù davanti a Caifa durante il processo giudaico riportato nel protovangelo.
Così facendo, però, Jossa diventa più “realista” del “re Marco”, dietro cui si cela Pietro. Per quest'ultimo, infatti, Gesù avrebbe anche potuto vincere se i sadducei non si fossero opposti, benché in quel vangelo tendenzioso la guerra contro i Romani venga completamente assorbita nella battaglia contro Caifa: tant'è vero che l'epurazione del Tempio viene collocata alla fine della carriera politica del Cristo, quando invece il quarto vangelo la colloca all'inizio, in un contesto di rivalità coi battisti.
Al dire di Jossa, invece, Gesù entrò nella capitale semplicemente per farsi ammazzare. Questo perché il suo ingresso non fu “così chiaramente messianico (e trionfale) come lo presentano gli evangelisti successivi” (p. 99). L'esegeta napoletano non capisce che se è vero che quell'ingresso non era “trionfale”, come avrebbe potuto farlo un qualunque re d'Israele o un qualunque generale romano o ellenistico, era comunque “trionfale”, poiché migliaia di persone erano entrate insieme a lui e avevano il compito di proteggerlo e di realizzare l'obiettivo dell'insurrezione nazionale. Semmai gli evangelisti han fatto di tutto per attenuare la portata eversiva di quell'evento: i Sinottici, riducendola alla purificazione moralistica del Tempio; i manipolatori del quarto vangelo facendo parlare Gesù come un teologo incomprensibile.
Jossa ritiene che Gesù abbia affermato la propria messianicità solo davanti a Caifa, mentre questi lo interrogava, quindi proprio nel momento in cui Gesù associa la parola “messia” al titolo religioso di “figlio di Dio”!
Come può uno storico non rendersi conto che quel processo religioso (non riportato nel quarto vangelo) è stato completamente inventato da Marco, che non a caso pone solo Pietro come testimone? Come può uno storico sostenere che “non si spiegherebbe la condanna come re dei Giudei da parte dei Romani se Gesù di fronte al Sinedrio non avesse avanzato la pretesa d'essere il messia, e quindi il re d'Israele...” (p. 99)?
Come fa Jossa a non capire che Gesù non aveva bisogno di “dichiarare” alcunché per dimostrare ch'era il messia, in quanto gli sarebbero bastati i fatti? Come può non rendersi conto che proprio sulla base di questi fatti evidenti, Pilato aveva intenzione di farlo fuori? Secondo Jossa Gesù sarebbe stato giustiziato semplicemente perché “dichiarò” d'essere il messia (una volta entrato nella capitale), mentre all'apparenza si comportava solo come un profeta e un maestro. Ci voleva una sua “dichiarazione personale” (quella che p.es. il Battista si rifiutò di fare), altrimenti gli avversari politici non l'avrebbero capito e non avrebbero avuto motivo per eliminarlo. Può uno storico essere così ingenuo? Sono stati forse i suoi studi universitari in Giurisprudenza a condizionarlo così pesantemente?
Peraltro, quando mai gli ebrei erano contrari all'attesa di un messia anti-romano? Persino dopo averlo crocifisso, le autorità giudaiche si preoccuparono di chiedere a Pilato di cambiare il titolo della croce: non doveva scrivere “Il re dei Giudei”, ma “Io sono il re dei Giudei”. Potevano infatti le autorità del Tempio far vedere che l'avevano fatto giustiziare perché erano contrarie all'idea di aspettare un messia liberatore? Semmai avversavano un'idea di messianicità non conforme ai loro parametri.
Secondo Jossa invece l'idea di messia gli ebrei non potevano averla perché questa, per loro, era “una figura ideale lontana, e in un certo senso mitica...” (p. 100). Dicendo così, l'autore sposa le tesi di Mauro Pesce o quelle di Giuseppe Barbaglio, secondo i quali il regno di Dio doveva essere realizzato non dagli uomini ma da Dio stesso. Facendosi ammazzare, Gesù doveva semplicemente dimostrare che gli uomini, con le loro forze, non sono in grado di liberarsi delle loro contraddizioni.
Naturalmente Jossa si rende conto che una tesi del genere può fare acqua da tutte le parti, per cui inevitabilmente è costretto a chiedersi: “se Gesù non era un pericoloso ribelle politico, come quasi tutti gli studiosi riconoscono, che cosa avrebbe dovuto giustificare una iniziativa nei suoi confronti da parte dell'autorità romana?” (p. 102). E “se era un ebreo rigorosamente osservante e un pacifico dottore della legge, perché l'autorità giudaica avrebbe dovuto consegnarlo ai Romani?” (ib.).
Ed ecco la risposta “originale” dell'esegeta: la colpa della sua esecuzione ricade soprattutto sui sadducei, non sui farisei, per avere egli occupato il Tempio! I Romani ritenevano Gesù un “personaggio abbastanza innocuo” (p. 104), la cui predicazione in Galilea era passata “quasi inosservata”. Essi non si erano particolarmente preoccupati né dell'ingresso messianico né dell'occupazione momentanea, simbolica, del Tempio, in quanto non avevano avvertito il bisogno d'intervenire militarmente.
Pur di salvare la faccia ai farisei e fare un favore ai moderni esegeti ebraici dei vangeli, Jossa fa passare per dei mentecatti persino i Romani, obbligandoli, inspiegabilmente, a intervenire in maniera categorica non sulla base dei fatti che un imputato ha effettivamente compiuto, ma sulla base di una semplice dichiarazione sulla propria identità e sulla base di una falsa denuncia da parte delle autorità religiose (che avevano “invidia” di lui, come dice Marco); e Pilato lo manda al patibolo pur sapendo che materialmente non lo meriterebbe, non essendo colpevole di nulla, se non delle proprie “stravaganti” dichiarazioni. Anzi, addirittura lo crocifigge pur subodorando che un tipo come lui avrebbe potuto tornare comodo alla strategia imperialistica di Roma contro le obsolete tradizioni nazionalistiche d'Israele!
(torna su)11) È ancora attuale Fernando Belo?
Il libro di circa 400 pagine che rese famoso il filosofo portoghese Fernando Belo fu Lecture matérialiste de l'évangile de Marc. Récit, pratique, idéologie (ed. Cerf, Paris 1974), parzialmente tradotto nel 1975 dalla Claudiana di Torino22 col titolo Una lettura politica del Vangelo. Anche la versione integrale in spagnolo apparve nello stesso anno, mentre quella in inglese nel 1981, A materialist reading of the Gospel of Mark (ed. Orbis Books).
Belo lo scrisse dopo un percorso abbastanza tortuoso: nato nel 1933, si laureò dapprima a Lisbona in ingegneria civile nel 1956. Poi diventò sacerdote a Baixa da Banheira, ma, a contatto col proletariato della parrocchia, abbracciò idee di sinistra e si spretò. Finì in esilio in Francia, a causa del regime fascista portoghese, e si laureò in teologia a Parigi nel 1968, dove scrisse il suddetto libro in cinque anni, riscuotendo subito un notevole successo, tanto che ottenne un incarico honoris causa dalla Facoltà di Teologia protestante di Parigi. Infine, dopo la caduta della dittatura di Caetano, passò a insegnare filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Lisbona, dove il dottorato di ricerca lo fece sull'epistemologia della semantica in F. de Saussure.
Belo dunque non è mai stato un teologo e, se vogliamo, è stato un esegeta laico per caso, in quanto i suoi veri interessi erano di tipo filosofico, e spaziavano da Althusser a Derrida, da Heidegger a Kristeva, da Husserl a Prigogine, da Freud a Lacan e molti altri ancora. Difficilmente infatti si potrebbe definire il suo testo su Marco un trattato vero e proprio di esegesi; è semmai un'analisi linguistico-strutturale che parte da presupposti di tipo materialistico-storico (J.J. Goux, J. Baudrillard), non senza riferimenti alle discipline socio-antropologico-religiose (uno per tutti M. Eliade).
Quando lo scrisse Belo era particolarmente influenzato dalle idee del marxismo, mediato dallo strutturalismo (molto famoso nella prima metà degli anni Settanta), ma egli simpatizzava anche per talune idee anarco-socialiste e maoiste: non gli interessava il leninismo, semmai la prassi di figure come A. Cabral, Che Guevara, Ho Chi Minh... Molte delle sue posizioni erano in linea con la sudamericana teologia della liberazione, importata in Italia da Giulio Girardi nella forma del cristianesimo per il socialismo.
Anche da noi il suo testo fece un certo scalpore, poiché era da molto tempo23 che non si leggevano cose così approfondite su un vangelo scritte da un esegeta non confessionale e non professionista, tanto che la Claudiana produsse nel 1976 un altro libro: Dibattito sulla Lettura politica del Vangelo. Il 'Gesù' di Fernando Belo. Da allora però, dato anche il crollo del cosiddetto “socialismo reale” e la crisi teorica del marxismo, la sua analisi non è stata ripresa in maniera significativa da esegeti laici di grande spessore. L'attuale e cosiddetta “Terza ricerca” si sta concentrando di più nel cercare di riscoprire il giudaismo del Cristo, coinvolgendo, in questo tentativo, non pochi studiosi di fede ebraica.
Praticamente egli si poneva su una linea interpretativa che vedeva nel Cristo un politico sovversivo e che, partita da Reimarus, finiva col grande teologo anglicano S. Brandon (che nel 1967 pubblicava Gesù e gli Zeloti, ristampato da Pgreco nel 2014), preceduto dal teorico del marxismo K. Kautsky (L'origine del cristianesimo, un'opera del 1908, che Lenin volle subito tradurre in russo e che in Italia lo sarà soltanto nel 1970, tramite Samonà e Savelli, e da allora mai più ristampata). Tale linea oggi dagli esegeti laici, disposti ad accettare la storicità del Cristo, viene considerata sufficientemente acquisita, al punto che non ci si preoccupa più di dimostrarne la fondatezza e non ci si mette neppure a discutere, su questo aspetto, con gli esegeti di tipo confessionale, ma ci si limita a capire la natura o le caratteristiche salienti della messianicità del Cristo.
Diversamente però dalla posizione di Belo, oggi è rarissimo trovare in occidente qualche esegeta intenzionato a dimostrare che se i vangeli vengono interpretati in chiave politica o materialistica, si può tranquillamente essere cristiani e marxisti a un tempo. Ciò in quanto gli esegeti laici nutrono idee prevalentemente ateistiche e non si richiamano più esplicitamente al marxismo. Questo per dire che se si vogliono approfondire le sue analisi bisogna farlo con intenzioni completamente diverse dalle sue.
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Vediamo ora non solo le tesi di fondo del suo libro, ma anche quali vanno considerate superate e quali invece meritano d'essere valorizzate.
1. Anzitutto è molto interessante il fatto che Belo giudichi l'economia della Galilea, rispetto a quella giudaica, più condizionata dall'economia di tipo schiavistico introdotta in Palestina prima da Alessandro Magno poi dai Romani, e quindi maggiormente influenzata dalla cultura ellenistica. Egli infatti vede l'economia giudaica vera e propria ancora legata al modo di produzione cosiddetto “subasiatico”, cioè a quel modo in cui la proprietà della terra non appartiene a nessuno in particolare, se non per un periodo limitato, in quanto il vero proprietario è la comunità in generale o, se si vuole, Jahvè, così come voleva il cap. 25 del Levitico, il quale prevedeva negli anni giubilari il riscatto delle proprietà impegnate (a causa dei debiti) e degli schiavi (ch'erano stati costretti a vendersi sempre per i debiti).24 Anche il Deuteronomio prevedeva varie agevolazioni a favore dei poveri.
“La formazione di una società classista, subasiatica25, si ebbe intorno all'anno 1000 a.C. – scrive Belo – e a questa svolta restano legati i nomi di Davide e Salomone. Questa società si ristrutturò attraverso una corte monarchica che andò a cercare nelle campagne i giovani agricoltori per assoldarli come soldati e servi, che si impadronì di molte delle loro terre (la proprietà è collettiva in Israele) per affidarle ai grandi funzionari della casa reale, creando un sistema di imposte che gravavano sui contadini per far fronte alle spese della corte” (p. 60).
2. Correlata a questa tesi è l'altra, quella secondo cui in Israele e quindi in modo particolare in Giudea vigevano due sistemi diversi di proibizioni o di regole: quello della differenza tra puro e impuro, e quello, relativo alla giustizia sociale, basato su dono e debito (offesa e peccato).
Il primo serviva per impedire la morte: di qui il divieto di mangiare carne di maiale, di venire a contatto con il sangue o con i cadaveri o con certi tipi di malati, di praticare l'incesto o la sessualità tra parenti o l'omosessualità, ecc. Anche gli animali per i sacrifici non potevano avere difetti o tare. I sacerdoti, fisicamente normali, potevano sposare solo donne israelite di sangue puro, altrimenti non potevano accedere agli altari dei sacrifici. E così via.
Le altre interdizioni, quelle del dono/debito, dovevano servire per scongiurare la violenza, l'aggressione: di qui il divieto di rubare, di compiere adulterio o di sposarsi coi pagani, di diffamare, di impedire che la povertà potesse creare dei conflitti sociali, di non abbandonare gli ammalati, gli anziani, le vedove e gli orfani, ecc.
I sacerdoti tenderanno col tempo, soprattutto dopo il rientro da Babilonia, a mettere sempre più in contrapposizione il sistema dell'impurità (strettamente legato al culto, come appare nel Levitico) al sistema del dono/debito (come appare nel Deuteronomio). Questo perché furono loro ad assumere tutte le funzioni del potere politico e a difendere le classi dominanti. Di qui il fatto che i profeti si schierassero a favore del sistema sociale-egualitario del dono/debito.
3. Belo è ben consapevole che, dopo l'esilio babilonese (587-38 a.C.), il vero centro di potere di tutta la Palestina, quello in grado di controllare la produzione attraverso il sistema delle decime, delle primizie, delle imposte, del commercio degli animali destinati ai sacrifici, ecc., era diventato esclusivamente il Tempio, il quale, col Sinedrio, aveva assunto la funzione di centro del potere politico e ideologico anche per gli ebrei della diaspora.
Di fronte a un monolite del genere, supportato dalla presenza romana, egli ritiene che la lotta di Gesù contro i meccanismi dello sfruttamento non avrebbe potuto portare a una trasformazione radicale della struttura sociale esistente. Questo perché, a causa delle contraddizioni tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, non era oggettivamente possibile un'effettiva rivoluzione.
Essendosi lasciato influenzare troppo dal marxismo degli anni Settanta, Belo riteneva possibile una rivoluzione sociale solo in conseguenza di uno sviluppo capitalistico, quello che dà “al fattore economico un peso decisivo nella struttura sociale” (p. 75). Il che lo portava a considerare l'iniziativa del Cristo come una semplice “rottura” contro il sistema dominante, la cui importanza stava nel fatto ch'essa poteva costituire una delle tappe per la realizzazione del socialismo futuro. Il fallimento, nell'immediato, della sua iniziativa è dimostrato – secondo Belo – dal fatto che la guerra scatenata dagli zeloti nel 66 fu assolutamente perdente; anche perché essi si limitarono a bruciare gli archivi degli atti giuridici sui debiti dei poveri e a mettere al posto di sommo sacerdote un loro affiliato di estrazione sociale non aristocratica. Nessuno quindi poté essere, per motivi oggettivi, un “rivoluzionario”: né Gesù, né il partito degli zeloti e neppure i cristiani.
Col che però Belo non riesce a distinguere la strategia politico-democratica del movimento nazareno da quella politico-estremistica del movimento zelota, il quale p.es. contrapponeva l'identità galilaica a quella giudaica, mentre Gesù aveva cercato un'intesa paritetica. Per non parlare del fatto che gli zeloti volevano imporre con la forza l'idea di realizzare un “regno di dio” in stile davidico, concedendo ampi spazi al terrorismo nei confronti dei collaborazionisti con l'invasore romano e non concedendo nulla alle ideologie pagane e samaritane. Di sicuro non avrebbero mai accettato la presenza di un pubblicano come Levi-Matteo, ancorché pentito, nelle loro fila. Né avrebbero mai accettato di parlare alle folle in parabole, cioè usando un linguaggio indiretto; o di entrare a Gerusalemme in groppa a un asino quando le stesse folle armate al seguito di Gesù avrebbero potuto occupare militarmente la città e imporsi con un colpo di stato.
Belo non riesce assolutamente a comprendere che la capacità di liberarsi politicamente dalle ingiustizie sociali o dall'oppressione nazionale non può dipendere dal livello di sviluppo delle forze produttive, ma unicamente da una determinata strategia politica, la più possibile democratica e partecipata. È molto strano che non si sia reso conto che nella storia le più significative rivoluzioni comuniste sono avvenute in paesi arretrati sul piano industriale. Ancora più strano che non abbia mai fatto riferimento alla prassi leninista. Se il tentativo insurrezionale del Cristo fallì miseramente, ciò non può essere imputato ad altro che a una scarsa partecipazione politica delle masse, a una loro insufficiente consapevolezza rivoluzionaria. Non a caso furono indotte, da subdole autorità religiose, a preferire l'estremismo zelotico di uno come Barabba, ciò di cui l'astuto Pilato fu ben contento, poiché sapeva che il terrorismo può essere vinto più facilmente della democrazia.
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Nella storia dell'uomo preistorico il comunismo è stato un sistema di vita che è durato molte migliaia di anni, quando esisteva l'artigianato in luogo dell'industrializzazione, o comunque quando non esisteva alcuna specializzazione nel lavoro, e quando in luogo della stanzialità si praticava il nomadismo, o quando la vita era vissuta nelle foreste. Che Gesù volesse ripristinare un sistema del genere, in cui l'uomo era se stesso e rispettoso delle leggi di natura (come nell'Eden primordiale), appare piuttosto scontato.
Se questo è vero, non è possibile sostenere – come fa Belo: 1. che Gesù non entrò a Gerusalemme per compiere l'insurrezione nazionale, ma soltanto per dimostrare la necessità di un mutamento sostanziale delle cose; 2. che la sua principale intenzione era quella di rivolgersi alle genti non ebraiche, al fine di universalizzare il suo messaggio, dopo aver posto un seme del cambiamento nella Città Santa (una strategia che verrà ripresa successivamente da Paolo di Tarso); 3. ch'egli non riuscì in questo intento soltanto perché fu tradito da un apostolo zelota o non abbastanza appoggiato dai suoi stessi discepoli; 4. che il suo messaggio fu comunque recepito come una forma di socialismo egualitario (un “comunismo ecclesiale” come quello di At 2,42 ss.; 4,32), che sostituisce i rapporti di classe con la condivisione del bisogno e il valore di scambio con quello d'uso e con l'autogestione, benché la cosa non sia così esplicita nei vangeli, avendo essi riprodotto solo in parte il suo pensiero. Infatti, la parte più politicamente rivoluzionaria è stata censurata, affinché i vangeli venissero letti come testi fondamentalmente religiosi, tant'è che in Marco l'economia del vangelo opposta a quella del Tempio è rappresentata unicamente dal racconto della povera vedova (12,41 ss.) e dall'espulsione dei mercanti (11,15 ss.).
Uno degli errori più comuni che compiono gli esegeti, sopratutto quelli che si concentrano sul solo testo marciano, come fa Belo, è di accettare l'idea che l'epurazione del Tempio sia avvenuta subito dopo l'ingresso messianico: “una specie di occupazione non armata ma violenta, con l'appoggio della folla” (p. 109). Tutte le volte che si considera Marco superiore a Giovanni, si è costretti a rifiutare l'idea che Gesù abbia compiuto l'epurazione (che in realtà fu un tentativo insurrezionale contro i sadducei) all'inizio della propria carriera politica, e quindi l'idea che, col suo ingresso messianico, egli non volesse fare soltanto una manifestazione contro i sadducei e i sommi sacerdoti, ma anche contro i Romani acquartierati nella Fortezza Antonia. Una volta catturato dai Romani il suo destino era segnato, a meno che una buona parte della popolazione non fosse insorta.
Il Gesù di Belo è, tutto sommato, non molto diverso dal Gesù di Marco: un ribelle pacifista e sostanzialmente anarchico, un nemico delle istituzioni religiose corrotte, che vuole un Tempio aperto a tutti, anche ai pagani credenti, senza distinzioni di classe o di ceto o di cultura o provenienza geografica, anzi indifferente al luogo ove ognuno può pregare il proprio dio, in quanto ciò che più gli preme è realizzare una società comunistica. Questo obiettivo si poteva realizzare nell'immediato, senza porre all'ordine del giorno la questione dell'occupazione romana, che sarebbe stata affrontata successivamente.
Naturalmente Belo non è così stupido da non capire che la tesi fondamentale del vangelo marciano, secondo cui Cristo “doveva morire” è “una perversione del cristianesimo” (p. 115), che ha soffocato la carica sovversiva della strategia gesuana. La necessità di una predestinazione è contraddittoria con la prassi messianica. D'altra parte Marco scriveva per cristiani di origine pagana residenti a Roma, i quali erano informati sulla distruzione di Israele e si sentivano eredi di una civiltà in procinto di scomparire, nonché ideatori di una nuova religione, che i poteri costituiti della capitale pagana consideravano inaffidabile (quegli stessi poteri che, con Nerone, iniziarono a perseguitare proprio la comunità destinataria dello stesso vangelo marciano). Le caratteristiche messianiche del Cristo dovevano essere ridotte al minimo, accentuando quelle universalistiche: di qui l'invenzione del cosiddetto “segreto messianico”.
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Insomma, noi pensiamo che l'analisi di Belo possa essere proseguita soltanto in queste direzioni:
a) sul versante religioso, dimostrando che il Cristo era sostanzialmente un ateo. Non basta sostenere ch'egli voleva realizzare strutture “ecclesiali” ma non “ecclesiastiche” o che “la giustizia ha il primato sulla religione”. Frasi come le seguenti, per quanto trasgressive possano apparire, non hanno alcun senso: “L'eucarestia non è un atto di culto religioso, ma una prassi economica di poveri che condividono e sono saziati” (p. 126); “Gesù e gli zeloti sperano che quando il fallimento starà per sopraggiungere, il Regno di Dio interverrà e trasformerà i rapporti di forze” (p. 130). Non abbiamo bisogno di andare a ricercare dei significati reconditi o simbolici in senso sociale all'interno di gesti o intenzioni, riti o sacramenti appartenenti alla fede. Il “riscatto apocalittico di una situazione politica d'impotenza” – come dice Belo – non è un'esigenza in grado di uscire da una visione mistica delle cose.
b) Sul versante politico occorre invece dimostrare che la strategia insurrezionale del Cristo poteva risultare vincente anche nella Palestina di duemila anni fa, esattamente come quella germanica al tempo della disfatta di Varo nella foresta di Teutoburgo, da cui i Romani non riuscirono più a riprendersi, decidendo di fissare il Reno come confine nord-orientale dell'impero.
L'idea che il socialismo possa essere realizzato solo in virtù di un preventivo sviluppo capitalistico delle forze produttive, è una forma di ingiustificato determinismo; così come l'idea di unire il cristianesimo al socialismo, per cercare di rendere più pura la fede religiosa, non tiene conto del fatto che la religione in sé, a prescindere dai comportamenti personali dei credenti, resta sempre una forma di alienazione.
Il fatto che Gesù volesse un'insurrezione pacifica non può essere letto come rinuncia ad usare una resistenza armata nel caso in cui l'opposizione dei poteri dominanti fosse stata netta e risoluta. Il pacifismo, senza dubbio, è un segno di democraticità, ma una rivoluzione che non si sa difendere vale forse qualcosa? È quindi del tutto sbagliata l'idea secondo cui il Cristo voleva solo un'insurrezione pacifica contro i sadducei e i sommi sacerdoti, e che se l'avesse voluta armata contro Roma, avrebbe fatto la fine degli zeloti durante la guerra giudica, non essendoci le condizioni, a quel tempo, per fare una cosa del genere. Belo tuona contro la classe sacerdotale del Tempio, che vede molto simile a quella a lui coeva, ma alla fine ne riproduce quasi il pensiero politico.
È vero che Belo, ad un certo punto, arriva a dire che “ogni lotta politica che abbia per obiettivo la trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali deve essere violenta, contro la violenza dominante. A questo livello parlare di non-violenza è una mistificazione... L'occupazione del Tempio da parte di Gesù è un processo violento contro la violenza che vi si era installata” (p. 131).
Tuttavia la violenza a cui Belo si riferisce è soltanto di tipo simbolico: è infatti una rivoluzione priva di armi, caratterizzata solo da una certa determinazione in carattere. È soltanto il potere che usa le armi, perché senza di quelle sarebbe debole. E qui Belo cita tutta una serie di casi di rivoluzioni o di resistenze all'oppressione basate anzitutto non sulla forza delle armi, bensì sulla volontà soggettiva dei rivoluzionari: il maoismo, la resistenza vietnamita contro gli Stati Uniti, la lotta del PAIGC in Guinea Bissau, la caduta del fascismo lusitano, senza lotta armata, dopo 48 anni di dittatura, il Movimento de Esquerda Socialista, successivo alla “rivoluzione dei garofani” del 1974.
Su ognuno di questi casi ci sarebbe da dire qualcosa: basti pensare che la suddetta “rivoluzione dei garofani” fu in realtà un colpo di stato attuato da militari dell'ala progressista delle forze armate del Portogallo, quindi non proprio una “rivoluzione”. Ma ciò esula dall'economia del nostro discorso. In via del tutto generale si può soltanto affermare che una volontà autorevole e popolare che non preveda l'uso delle armi, nel caso in cui i poteri dominanti non si rassegnino a mettersi da parte, è soltanto una forma d'illusione.
Particolarmente errata, in tal senso, è la motivazione (troppo dipendente, peraltro, dallo stesso vangelo marciano) che Belo dà per spiegare l'esecuzione capitale del Cristo. Le autorità religiose decisero di eliminarlo “per il modo come occupò il Tempio, con l'appoggio della folla insorta...”; “egli fu consegnato al potere imperialista romano, che era l'unico autorizzato a emettere condanne capitali di carattere politico” (p. 135). Nel processo davanti al Sinedrio gli argomenti trattati si riferivano esclusivamente al Tempio – prosegue Belo –, e il fatto che Gesù dichiarasse d'essere “il Messia, il Figlio del Benedetto” fu considerato sufficiente per condannarlo a morte. Per le autorità giudaiche questa era una bestemmia vera e propria, in quanto nessuno poteva farsi come Dio. Gesù non dichiara di voler combattere contro i Romani, né di voler conquistare lo Stato ebraico come gli zeloti, né pretende di riformare Israele, ma vuole semplicemente far capire che tra ebrei e pagani non ci può più essere alcuna differenza e che il regno di Dio verrà realizzato solo alla fine dei tempi, quando saranno stati superati i rapporti di classe. Tant'è che nel vangelo di Marco – continua Belo – il regno di Dio verrà costruito in Galilea, essendo la Giudea una nazione maledetta, meritevole della distruzione del Tempio.
Perché questo progetto non riesce a realizzarlo, visto che aveva così tanta popolarità? Perché – secondo Belo – i suoi seguaci giudaici erano “piccolo-borghesi”, dipendenti economicamente dai poteri del Tempio; non volevano ch'egli si opponesse agli zeloti nazionalistici, tant'è che lotteranno al loro fianco quando scoppierà la guerra nel 66. Ecco perché Gesù appare come uno zelota mancato, non sufficientemente determinato sul piano politico. Il suo messaggio internazionalistico verrà però ripreso da Paolo di Tarso, il quale non aveva alcuna intenzione di far diventare i cristiani “dei comunisti emarginati come gli esseni” (p. 167).
In conclusione, per Belo “la prassi di Gesù è radicalmente comunista [in senso sociale], anche se non è rivoluzionaria [in senso politico]” (p. 167). Tutto il contrario della borghesia francese del XVIII sec. D'altra parte – prosegue lo studioso lusitano – se è vero che la prassi messianica è internazionalistica per definizione, è altrettanto vero ch'essa non può essere rivoluzionaria, come neppure lo erano le comuni hippies o le comunità di base degli anni Sessanta. In altre parole, Belo ha fatto bene a sostenere che ciò che è “teologico” nei vangeli è “sovrastrutturale”, e quindi rappresenta un tradimento della prassi messianica del Cristo, ma poi non è riuscito a capire che tale prassi voleva davvero essere insurrezionale contro Roma e la classe sacerdotale, senza concedere nulla alla religione.
(torna su)12) La vita di Gesù, secondo Hegel
L'ateismo del giovane Hegel è abbastanza evidente nella prima organica opera della sua vita, La vita di Gesù (1795, pubblicata per la prima volta nel 1906 a Jena), in cui già nella prima riga egli scrive, sotto l'influenza di Kant e Fichte: “La ragion pura incapace di ogni limite è la divinità stessa” (Scritti giovanili, Guida Editori, Napoli 1993, p. 331). E nella stessa pagina: “Lo sviluppo della ragione è l'unica sorgente della verità”.
Indubbiamente se in Germania non vi fosse stata, quasi tre secoli prima, la riforma protestante e, nello stesso periodo del giovane Hegel, la rivoluzione in Francia, i cui principi filosofici (non politici) erano stati ereditati e sviluppati appunto dall'agnostico Kant e dall'ateo Fichte, Hegel non avrebbe mai potuto scrivere in quel momento parole che sul piano formale non potevano certo essere definite come “confessionali”; non per nulla le sue tre opere fondamentali dedicate al cristianesimo, scritte in gioventù, non furono mai pubblicate, temendo egli conseguenze per la propria carriera accademica (e dimostrandosi in questo meno coraggioso di Fichte).
L'esegesi biblica di Hegel è tuttavia poco coerente con questi presupposti filosofici vicini all'ateismo, e infatti i suoi critici parleranno di “criptoateismo”.
Anzitutto perché egli non ha capito il rapporto politico conflittuale tra il Cristo e il Battista, ovvero l'esigenza del movimento nazareno di superare il rigorismo ascetico del movimento esseno compiendo un gesto politico eversivo contro le autorità religiose del Tempio, la cui corruzione aveva raggiunto livelli inusitati. Tale incomprensione è d'altra parte naturale, in quanto l'immagine di Gesù offerta dal giovane Hegel è semplicemente quella di un saggio filosofo e non certo quella di un politico rivoluzionario. Gesù non è molto diverso da Socrate, nella cui concezione di vita dominano la ragione filosofica e la coscienza morale (stando almeno alla ricostruzione, per molti versi falsata, che ne diede Platone).
La tesi hegeliana è che Gesù voleva limitarsi a superare i “pregiudizi nazionali” del suo popolo, che si riteneva “eletto”, migliore degli altri per meriti storici, ereditati da un lontano e glorioso passato. Hegel non avverte mai come legittima l'esigenza ebraica di dotarsi di uno Stato politicamente libero dall'oppressione straniera. La libertà è questione soltanto interiore, da acquisire moralmente.
In tal senso un soggetto come Gesù non poteva che essere fortemente osteggiato, proprio in quanto, da un lato, non dava sufficienti garanzie per la restaurazione del mitico regno davidico, mentre dall'altro minava, con la propria indifferenza al modo consueto di trattare le questioni religiose, le fondamenta dell'ultimo regno giudaico a lui coevo. Lo stesso giovane Hegel vedeva il cristianesimo del suo tempo come strumento principale della conservazione del regime prussiano, dispotico e aristocratico.
Gesù dunque s'era proposto il compito di approfondire la libertà di coscienza, l'interiorità della morale personale, la facoltà della ragione per il conseguimento della verità delle cose, cioè esattamente le stesse cose che avrebbe fatto Hegel al suo posto. Tutto ciò doveva servire – sempre secondo l'Hegel giovane, che, avendo scarsa dimestichezza con le esigenze della politica, non riuscirà mai, neppure da adulto, a evitare i propri pregiudizi antisemitici – a superare gli angusti limiti della legge.
Su questo La vita di Gesù è molto netta: la legge, per essere rispettata, va interiorizzata, obbedendo non tanto per dovere (cioè perché qualcuno dall'esterno lo impone) ma per intima convinzione. La liberazione sociale, economica, politica, in una parola “terrena”, è del tutto inutile se non vi è quella morale, interiore, dello spirito.
Hegel evita di parlare, in senso confessionale, di fede e di religione, ma finisce col racchiudere l'emancipazione socio-nazionale (non solo degli ebrei ma degli uomini in generale) entro i limiti angusti della coscienza individuale, ricadendo così in quel misticismo para-religioso (a sfondo deistico), ch'egli pur vorrebbe evitare, laicizzando i contenuti della cristianità in forma filosofico-idealistica.
Da un lato quindi vi è la critica dell'esegesi clericale dei vangeli, dall'altro lo sviluppo di un tipo di esegesi che, pur partendo da presupposti filosofici filo-ateistici, non conduce ad alcuna transizione politica positiva; sicché in definitiva egli finisce coll'accettare l'interpretazione mistificata che i redattori cristiani avevano voluto dare all'intera “vicenda nazarena”, secondo cui l'eversivo Gesù politico-nazionale altro non era che un innocuo redentore morale-universale.
Interessante comunque resta il fatto che il giovane Hegel aveva già capito come l'ateismo si manifestasse nel Cristo proprio nel rifiuto di sottostare a leggi e realtà esteriori coercitive, che negavano, in nome della fede, la libertà della coscienza interiore, dal cui sviluppo autonomo poteva appunto dipendere la verità dell'uomo e ovviamente il bene comune, che di quella libertà sono – secondo Hegel – la massima aspirazione.
Dunque dio sembra non esistere come realtà esterna, oggettiva, imprescindibile, ma al massimo come esigenza interiore: l'uomo è dio di se stesso quando agisce in piena autonomia, nella convinzione di poter compiere il bene per il bene. Tutto quanto è eteronomo, estrinseco alla natura umana, risulta fuorviante, nocivo. L'uomo deve agire conformemente alla sua natura, senza sperare in premi ultraterreni.
Gesù voleva fare degli ebrei un popolo di filosofi, di liberi pensatori e di moralisti, privi di religiosità istituzionale, di ritualismo formale, di vetuste tradizioni, di prescrizioni obsolete, come quelle relative all'alimentazione, al sabato, ai giuramenti ecc.; e soprattutto un popolo dotato di spirito universale, con cui andare oltre i limiti geografici della propria nazione, con cui considerare “fratelli” i pagani eticamente sani. Lo scontro quindi non poteva avvenire – secondo il giovane Hegel – tra Gesù e i Romani, bensì tra lui e i capi del giudaismo.
Tale analisi però fa piombare il testo hegeliano in un equivoco di fondo, che è poi lo stesso dei vangeli canonici: i sacerdoti ostacolarono Gesù perché le folle lo volevano messia nazionale anti-romano, ma lui non aveva alcuna intenzione di diventarlo. Che senso ha una tesi del genere? In genere anche i sacerdoti (di sicuro i farisei) volevano un liberatore emulo di Davide; semmai erano quelli del Tempio a preferire legami di convenienza con gli occupanti stranieri. E se il Cristo si riteneva un semplice profeta, al pari del Battista, perché considerarlo un pericoloso sovversivo? Il Precursore fu ucciso da Erode Antipa non da Caifa.
Il giovane Hegel lascia intendere una soluzione a questa aporia incentrandola non su questioni politiche ma su questioni religiose. Invece di invitare Gesù a diventare messia, per cacciare i Romani, i sacerdoti temevano che se lui davvero fosse riuscito nell'impresa, il loro destino di mediatori tra uomini e dio avrebbe perduto ogni ragion d'essere, proprio perché se fosse passato l'assunto che ogni uomo giusto ha il diritto di sentirsi dio, le sinagoghe e il tempio avrebbero anche potuto chiudere.
Detto altrimenti, secondo Hegel Gesù non venne perseguitato dai Romani per motivi politici, ma dalle autorità ebraiche per motivi religiosi, in quanto il suo atteggiamento eticamente indipendente avrebbe portato prima o poi all'ateismo. Ovviamente non è questa la tesi dei vangeli, ma indubbiamente le è molto vicina.
Quanto a Gesù, non potendo egli tacere ciò che pensava in materia di fede religiosa, si aspettava di essere eliminato, anche perché egli non aveva alcuna intenzione di difendersi a mano armata. Il Gesù di Hegel è pacifista ad oltranza, unilateralmente non-violento, in totale dispregio persino dell'elementare principio della legittima difesa.
Il vero cristiano, per Hegel, è il cittadino virtuoso, in pace con la propria coscienza, consapevole d'aver fatto il proprio dovere. È un cittadino “illuminato”, che agisce individualmente e che concepisce il senso della collettività solo idealmente, astrattamente. Gesù non è seguito da un “movimento”, ma da pochi “amici” che devono ancora imparare l'abc dell'idealismo soggettivo.
La politica in sé viene vista dal giovane Hegel come momento di corruzione, come fonte di degrado morale; le viene contrapposta la filosofia idealistica, la morale soggettiva. Persino le istituzioni (specie quelle ecclesiastiche) vengono viste come un limite allo sviluppo della coscienza personale.
Odiato dall'arroganza del potere giudaico, Gesù venne tradito dalla cupidigia di un apostolo, ma si guardò bene dal considerare questo un ostacolo alla propria missione. Tutto era stato previsto: la morte cruenta era inevitabile.
D'altra parte questo destino viene considerato un bene sia per se stesso, poiché in tal modo Gesù avrebbe potuto partecipare a un regno ultraterreno, privo di limitazioni, sia per i suoi discepoli, che così avrebbero potuto mettere alla prova la loro autonoma capacità di movimento, il movimento della libertà interiore, della verità filosofica delle cose, dell'amore universale.
Hegel insomma, seppur con sfumature laiciste, accetta la tesi petrina della “morte necessaria”, anche se non fa della “resurrezione” un motivo per attendere, in maniera miracolistica, la parusia imminente del Pantocratore, o un motivo per credere nell'apocalittico giudizio universale.
Gesù viene condannato a morte perché la sua posizione appare come una “bestemmia” agli occhi degli ebrei: lui, che è uomo, si fa dio. Il ruolo di Pilato è meramente funzionale alla decisione di eliminare uno che col proprio carisma destabilizzava in maniera preoccupante le già traballanti tradizioni giudaiche. Pilato è necessario proprio perché l'ascendenza sulle masse da parte di Gesù era talmente grande che le autorità sinedrite non avrebbero potuto giustiziarlo senza scatenare proteste a non finire.
Il governatore romano viene dunque raggirato dalla perfidia dei sacerdoti giudei, i quali ovviamente, dopo aver catturato il messia grazie all'aiuto insperato di Giuda, non glielo consegnarono sulla base dell'accusa di ateismo, ma per aver compiuto ogni sorta di crimine politico contro Roma.
Sulla scia dei vangeli, il giovane Hegel evita di chiedersi il motivo per cui un sovversivo così “pericoloso” per gli ebrei non avesse mai suscitato alcun interesse – stando almeno ai vangeli canonici – da parte delle forze occupanti d'Israele. E ovviamente non può trarre la conseguenza fondamentale secondo cui il processo voluto da Pilato fu in realtà una studiata farsa per cercare di estorcere al popolo il consenso per eliminare davvero un “pericoloso sovversivo”, senza che ciò causasse un moto spontaneo di ribellione popolare.
La trama delineata da Hegel è in sostanza analoga a quella evangelica: i mandanti di questa esecuzione furono i fondamentalisti giudei (per i quali il crimine era sì politico ma solo in quanto teologico); l'esecutore romano, pur rendendosi conto che dal punto di vista strettamente politico l'accusa teologica era insussistente (anche se in realtà lo scontro tra cristiani e impero verterà anche sul rifiuto di riconoscere all'imperatore una propria divinità) e che quindi il Cristo non meritava di morire, nondimeno, per mero opportunismo, accettò l'idea di condannarlo a morte. La fustigazione e il tentativo di scambio con Barabba furono soltanto dei deboli tentativi per cercare di liberarlo, quando in realtà l'esegesi laica oggi è arrivata alla conclusione che proprio quei due tentativi dimostrano eloquentemente che la popolarità raggiunta da Gesù era stata davvero grande, per cui un processo sommario o a porte chiuse andava escluso a priori e tanto più un'affrettata esecuzione.
Del tutto errata la ricostruzione della sepoltura. Hegel non sa neppure che esiste la sindone e arriva persino a credere come vera l'inumazione con mirra e aloe, di cui si parla nel vangelo di Giovanni, ove essa è chiaramente interpolata per mettere in risalto la figura di Nicodemo, altro fariseo filo-cristiano, al pari dell'Arimatea, che cominciò a uscire allo scoperto solo dopo la crocifissione e solo dopo l'interpretazione mistica della tomba vuota.
A proposito di questa interpretazione, e qui concludiamo, il giovane Hegel, pur evitando giustamente di avvalorare i racconti fantastici della resurrezione, non arriva a capire che sulla base di tale mistificata interpretazione della tomba vuota si fece nascere non solo il cristianesimo leggendario del figlio di dio, di matrice petro-paolina, ma anche tutto quel misticismo filosofico a sfondo idealistico di cui lo stesso Hegel fu fervente seguace.
(torna su)13) Bloch e la politicità del cristianesimo
Di sicuro Ernst Bloch non ha un bel modo di scrivere, almeno non in Ateismo nel cristianesimo, che vuole porsi come un'opera saggistica (ed. Feltrinelli, Milano 1971). Mescolare continuamente una prosa filosofica con un tono poetico, quasi mistico, può risultare piuttosto fastidioso, soprattutto nelle pagine dedicate a spiegare il titolo di “Figlio dell'uomo”, dove, per sostenere la tesi che l'essenza umana è originaria a tutto, si perde nei mille rivoli della letteratura ebraica, cercando di trovare dei precedenti significativi al moderno ateismo, quando invece sarebbe stato sufficiente dare per scontata quella tesi, in quanto non c'è modo, per l'essere umano, di andare oltre se stesso senza rischiare di perdersi.
Vien sempre da chiedersi, leggendo un testo del genere, come mai Bloch non abbia scritto un poema alla Esiodo: sarebbe stato più coerente. Un lettore saprebbe prima cosa l'aspetta e non avrebbe l'impressione di trovarsi di fronte a un filosofo che si atteggia a santone buddista o a profeta anticotestamentario. Anche Nietzsche aveva un po' questo modo oracolare di scrivere, dove l'oggettivo si mescola continuamente col soggettivo, tanto che alla fine non si capisce più se si deve credere alle parole dell'autore per una forza argomentativa intrinseca o per la magia con cui vengono pronunciate.
Uno dovrebbe mettersi in pace con la propria coscienza e fare una scelta di campo: o faccio prosa o faccio poesia, o scrivo un saggio o un romanzo; in ogni caso rispetto i generi letterari e non li confondo per apparire originale; o almeno cerco d'imitare l'Hegel della Fenomenologia dello spirito, dove la parte esistenziale dell'autore, che pur indubbiamente si vede, è assorbita magistralmente da quella filosofica, per cui il lettore può anche tenerle tranquillamente separate, senza perdere un grammo del valore di quell'opera.
Detto questo, ci limiteremo a esaminare un unico capitolo, piuttosto corposo, Aut Cesar aut Christus, in cui l'autore si cimenta nel ruolo di esegeta neotestamentario, naturalmente sui generis, per le cose dette sopra, non avendo egli una competenza specifica a riguardo, tant'è che spesso mescola arbitrariamente l'esegesi con la filosofia.
Consideriamo che questo è un libro scritto nel 1968, in pieno fermento utopico-contestativo, in cui le idee di sinistra cercavano anche una mediazione col cristianesimo non-allineato alla Chiesa istituzionale. Consideriamo inoltre che Bloch è di origine ebraica e simpatizza per il marxismo “umanistico”, quello in cui la critica alla religione ha un certo peso. Egli infatti ritiene, come dice il curatore dell'opera, che la critica della religione è un passaggio obbligato alla critica dell'economia politica.
Ciò è indubbiamente vero, almeno in Marx, ma se il lettore pensa di trovare in questo testo un esame della religione partendo dall'economia politica, si troverà presto deluso. In Bloch il marxismo è solo una cornice superficiale, che viene utilizzata per spogliare l'ebraismo del proprio tradizionale misticismo, seppur fino a un certo punto; inoltre il marxismo gli serve per reinterpretare la Bibbia come una protesta a favore dei poveri.
Tuttavia Bloch i “conti” con la religione non li ha mai fatti, preferendo limitarsi a laicizzarne i contenuti, piuttosto che passare a qualcosa di più concreto e di più utile per l'umanità. Marx il passaggio l'aveva compiuto. Bloch invece, pur avendo visto l'altra sponda del ponte, ha preferito non attraversarlo. Ecco perché di questo libro prenderemo in esame solo un capitolo, e neanche per intero, e lo metteremo a confronto con l'idea di fondo con cui andiamo a interpretare soprattutto i vangeli, cioè quella secondo cui Cristo era ideologicamente ateo e politicamente sovversivo, giusto per far capire, a chi ancora nutrisse idee di tipo “cristiano”, che un confronto culturale, per essere proficuo, può avvenire solo nell'ambito della laicità.
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Che Gesù sia stato un sovversivo, Bloch non ha difficoltà ad ammetterlo; anzi, secondo lui lo è stato anche il cristianesimo primitivo – e qui ci sarebbe già qualcosa da dire. Infatti la prima regola, per un esegeta laico, è quella di far subito una netta distinzione tra movimento nazareno, caratterizzato politicamente, e movimento cristiano, quello post-pasquale, la cui principale connotazione era religiosa o, se si preferisce, socio-religiosa e quindi pre-politica.
Il cristianesimo primitivo, nell'ambito del paganesimo romano, aveva di “rivoluzionario” solo il monoteismo di origine ebraica e l'idea paolina di separare lo Stato dalla Chiesa, impedendo all'imperatore di considerarsi un'entità divina. Viceversa, il movimento nazareno, guidato da Gesù, si poneva il compito di cacciare i Romani dalla Palestina e i sadducei dal Tempio. Era un'altra cosa, e solo dopo il fallimento di questo progetto è nato l'altro movimento. Bisogna fare attenzione a questo, altrimenti si rischia di non comprendere che il Cristo fu un politico rivoluzionario e non tanto un profeta apocalittico, come p.es. il Battista.
Riguardo al “caso Gesù” bisogna trovare suggerimenti utili per l'oggi, altrimenti, dovendo lavorare su testi enormemente falsificati, si rischia di perdere il proprio tempo. L'utilità può svolgersi in due direzioni: la prima, e più immediata, è quella di cercare di scoprire come la suddetta falsificazione si è svolta, quali motivazioni ha avuto; la seconda, più complessa, è quella di riuscire a ricostruire come le cose effettivamente andarono, cercando altresì di individuare se in esse possono esserci degli insegnamenti utili per l'uomo contemporaneo, il quale, come duemila anni fa, è ancora alle prese, pur in forme mutate, con sistemi sociali non meno oppressivi e alienanti. Se si prescinde dall'ateismo del Cristo e/o dal lato eversivo della sua condotta politica, si finisce col fare gli interessi di quell'apparato di potere che è stato costruito sopra la mistificazione del suo messaggio originario.
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Bloch dunque vuole recuperare il Cristo politico. Negli anni Sessanta e Settanta andava di moda. Anche Fernando Belo ci provò con la sua famosa Lettura materialistica del Vangelo di Marco. Ci provò tutta la teologia della liberazione, il socialismo cristiano, il cristianesimo per il socialismo, il movimento delle comunità di base... Prima di queste correnti ci avevano provato il modernismo, il catto-comunismo e, a livello teologico, le opere di R. Eisler, E. Stauffer e S. Brandon, di cui però Bloch sembra non sapere nulla, in quanto si limita a citare pochissimi esegeti: Schweitzer, Wellhausen, Käsemann, Bousset...
Insomma, non si è mai smesso di parlare del “Cristo politico”; semmai non si è mai messo in discussione un certo legame tra teologia e politica, in riferimento alla predicazione gesuana, su cui invece oggi è bene nutrire dei dubbi, in quanto la rappresentazione di un “Cristo ateo” non pare essere infondata. Lo stesso Bloch riconferma il suddetto legame, seppur cercando di togliere alla teologia gli aspetti più mistici.
Di notevole, nelle prime pagine del capitolo, è che egli intuisce che tra il Battista e Gesù non c'era affatto l'intesa di cui parlano i vangeli, altrimenti il Precursore avrebbe accettato di diventare suo discepolo. Tuttavia conferma che Gesù si fece battezzare da lui: il che non è stato, proprio perché non poteva esserlo. Discepoli del Battista erano stati, tra gli apostoli più stretti di Gesù, soltanto Giovanni e Andrea, e proprio Giovanni, nel suo vangelo, non parla di “battesimo di Gesù”, anzi, afferma chiaramente che Gesù non battezzava mai. Evidentemente non riteneva sufficiente questo gesto simbolico, sul piano etico, come premessa per compiere l'insurrezione nazionale. Egli infatti preferì, decisamente, compiere l'epurazione del Tempio contro la casta sacerdotale, cosa a cui il Battista non partecipò. Di qui la rottura tra i due leader.
Bene comunque fa Bloch a considerare Gesù un “giudeo” e non un “galileo”; e benissimo a togliere dalla mente del Cristo la convinzione d'essere il “figlio di Dio”. La rappresentazione ch'egli dà di questo leader politico è abbastanza chiara: la missione era indirizzata contro Roma (p. 169). Se i vangeli l'han trasformata in “un puro fatto interiore”, la responsabilità è la loro. Una volta entrato a Gerusalemme, egli si professa come messia e re d'Israele, e per questo motivo fu crocifisso (punizione romana per i rivoltosi).
Bloch attribuisce anche a certi esegeti laici, come gli “illuministi” e i “teologi liberali”, l'idea confessionale di staccare Gesù “dal sogno giudeo del messia, cioè a dire dalla escatologia anche politica” (ib.). Secondo lui, a partire da Renan, Holtzmann, Wellhausen, Harnack si finì col creare “il Cristo della pura interiorità” (ib.) – limitandosi a eliminare dai vangeli, si potrebbe però aggiungere, gli aspetti più sovrannaturali.
Strano però che Bloch non ricordi le tesi di Reimarus, che vedevano nel Cristo una figura politicizzata. Si limita a dire che fu Albert Schweitzer a ricollocare l'etica del Cristo all'interno di un escatologia eversiva, benché questa trovi il suo compimento definitivo, sempre secondo Schweitzer (e qui è impossibile dar torto a Bloch), in una dimensione ultraterrena. Gesù invece era convinto – secondo Bloch – d'essere “il portatore del nuovo eone” (p. 171), che doveva essere imminente, in quanto “impulso sociale nazireo-profetico” (ib.).
Ottimo, dobbiamo dire, questo modo di usare l'aggettivo “nazireo”, che nulla ha a che fare con l'altro, “nazareno”, fatto passare nei vangeli come una indicazione di tipo geografico (peraltro inverosimile, in quanto di Nazaret fino al III sec. d.C. nulla si sa) in luogo di una identità etico-politica. La stessa parola “vangelo” indicava, per Bloch, qualcosa di politico-sociale. Difficile non vedere, in questo modo di affrontare il “caso Gesù” una convergenza di culture che in Bloch risultano prevalenti: il marxismo e l'ebraismo, da lui usate come istanze di giustizia terrena.
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A p. 173 Bloch prova a cimentarsi nel difficile ruolo dell'esegeta, che nel suo caso vuole essere di tipo “laico”, senza concedere nulla alle rappresentazioni mistiche del Cristo. E la prima cosa che ribadisce è inequivoca: Gesù voleva realizzare un regno in questo mondo, non ultraterreno, un regno avverso sia ai Romani che alla casta sacerdotale.
In tal senso, di tutti i vangeli egli è costretto a squalificare quello giovanneo, che in effetti, di primo acchito, appare come il più teologico. Nondimeno è pure convinto che l'evangelista abbia soltanto cercato di rispondere alle esigenze della propria comunità, timorosa d'essere perseguitata dai Romani. Ciò facendo, l'evangelista avrebbe dato del Cristo una rappresentazione bislacca, assai poco credibile, troppo filo-romana e troppo anti-giudaica per essere vera; anche se essa servirà quando lo stesso potere romano si cristianizzerà, sfumando del tutto le pretese terrene del cristianesimo.
Bloch aveva sicuramente capito la natura politica del Cristo e, in questo, la sua interpretazione è migliore di tutte quelle confessionali, e anche di quelle più recenti della cosiddetta “Terza ricerca” sul Nuovo Testamento, che mirano a sottolineare l'ebraicità del Cristo, riducendo la carica eversiva del suo messaggio a delle semplici invettive di tipo profetico, senza alcuna strategia rivoluzionaria.
Egli tuttavia non aveva gli strumenti per compiere un'approfondita analisi esegetica dei vangeli, che sono opere molto complesse, frutto di molteplici aggiustamenti, tutti dipendenti (non solo il quarto) dalla teologia petro-paolina e, insieme, dalle esigenze specifiche che le rispettive comunità di appartenenza avevano, essendo esse le vere redattrici di quei testi collettivi e sostanzialmente anonimi.
Inoltre Bloch non poteva sospettare, essendo un'acquisizione recente, che il quarto vangelo fu scritto, in origine, contro quello marciano e che, per poter essere ammesso come ortodosso, dovette essere profondamente revisionato.
Di originale, nell'interpretazione di Bloch, vi è altro. Dopo aver premesso che Gesù non poteva essere accusato di blasfemia dalle autorità giudaiche solo perché si era proclamato messia, in quanti altri l'avevano già fatto e continueranno a farlo, almeno sino alla rivolta contro l'imperatore Adriano, senza per questo apparire dei bestemmiatori; dopo di ciò, che risulta ineccepibile, Bloch si chiede: che cosa aveva di diverso Gesù rispetto agli altri messia “davidici”, da meritarsi l'accusa di blasfemia? Lo dice in una frase laconica, che dovrà spiegare nel prosieguo del capitolo, senza però riuscirvi: Gesù “si pose in Dio come uomo” (p. 178). Una frase con cui si può già iniziare a capire il titolo del libro: Ateismo nel cristianesimo. “Chi vede me vede il Padre”, nonché il senso di uno dei suoi incipit: “Solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”.26
Tuttavia, siccome l'autore si limita a porre un problema senza riuscire a risolverlo, anche noi, per il momento, non vogliamo anticipare nulla, se non queste brevi domande: 1) quando si parla di politica rivoluzionaria, davvero se ne può parlare adeguatamente in maniera filosofica? 2) Quando si fa filosofia basta davvero dichiararsi favorevoli all'ateismo per darle una veste rivoluzionaria? 3) Che cos'è che distingue una prassi rivoluzionaria compiuta per realizzare, secondo la mentalità giudaica, il “regno di Dio”, da una prassi rivoluzionaria compiuta per realizzare, secondo la moderna mentalità socialista, il “regno dell'uomo”?
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Al dire di Bloch la morale delle Beatitudini (o il Discorso sulla montagna di Gesù) non può avere alcun senso se non in rapporto a una “speranza escatologica” di un regno imminente, così come il detto di dare a Cesare e a Dio ciò che loro spetta, non aveva alcun “significato dualistico”, ma voleva semplicemente dire che se si danno i propri averi ai poveri, per poter realizzare il regno, l'importanza di Cesare perde di valore, per cui può anche essere eliminato.
Detto altrimenti, se i vangeli non vengono visti come testi politici (in cui purtroppo la mistificazione dei redattori, influenzata dal paolinismo, ha giocato un ruolo pernicioso), la morale ch'essi predicano risulta incomprensibile, in quanto non proponibile, a motivo delle sue esigenze estreme (vedi p.es. ciò che chiede Gesù al giovane ricco), in una dimensione terrena pacificata, priva di conflitti, o, al contrario, all'interno di una comunità che al male sociale, visto come realtà ad essa esterna, si sente rassegnata. A prescindere da una tensione chiliastica i precetti morali di Gesù possono valere per un periodo di tempo molto limitato o in comunità di adepti molto ristrette: in caso contrario porterebbero alla rovina qualunque società. Quei precetti potevano avere un senso solo se il fine era quello di rovesciare il sistema, non quello di resistervi passivamente, come se si vivesse in una sorta di cittadella assediata.
Più fattibile, rispetto alla morale delle Beatitudini, che richiede un “mostruoso annientamento del soggetto attraverso l'amore” (p. 181), è – scrive Bloch – il “comunismo dell'amore al di là dei secoli, anche senza l'avvento del regno” (ib.), così come viene predicato negli Atti degli apostoli, là dove si dice che i cristiani avevano tutto in comune (4,32), che è quella prassi che i marxisti han sempre definito come “socialismo non della produzione ma solo della distribuzione”.
Bene fa però Bloch ad aggiungere che quel “comunismo dell'amore” ebbe il fiato corto, proprio perché privo di dimensione escatologica, privo di desiderio di un'apocalisse imminente. Responsabile di questo snaturamento della predicazione gesuana è stato – secondo Bloch – Paolo di Tarso, il quale, non a caso, chiedeva agli schiavi di stare sottomessi ai loro padroni. Con lui “interiorità e culto dell'aldilà cominciarono a prendere il posto del regno dei cieli che discende sulla terra. Persino i ricchi vennero perdonati e si assicurò loro il cielo, se avessero fatto elemosine” (p. 183).
Trasversale, in questo capitolo dedicato al cristianesimo primitivo, è la critica che Bloch rivolge a Lutero, ch'egli considera vero discepolo di Paolo, mentre il suo rivale Müntzer (il principale protagonista della rivolta contadina anti-feudale) lo paragona a un moderno seguace di Cristo, così come i Montanisti.
In effetti per Paolo l'unico regno possibile da realizzare era quello oltremondano, considerato peraltro come semplice premio di una fede terrena nella resurrezione di Cristo, non come esito di uno sforzo etico personale, da viversi ora e sempre. Sulla Terra il credente doveva soltanto aver fede che nei Cieli avrebbe ottenuto facilmente tutto ciò di cui necessitava, fatta salva la pazienza con cui attendere l'agognato premio e ovviamente la condotta di una vita irreprensibile, moralmente ineccepibile. Il più, infatti, era già stato fatto con l'accettazione della croce da parte del figlio di Dio: anche per l'uomo più virtuoso del mondo sarebbe stato impossibile andare oltre questo spirito di sacrificio, questa autoimmolazione. “La vita dei cristiani – dice Bloch – è essenzialmente un'attesa della rivelazione di Cristo” e, insieme, il desiderio di affrettare il momento culmine “attraverso la morte intesa come sacrificio” (p. 183).
Su come conciliare queste due cose, da parte dei cristiani, Bloch resta però lacunoso, in quanto non arriva a capire che “la teologia della morte come sacrificio”, predicata da Paolo, se indubbiamente non voleva essere “un'apologia del suicidio”, era però una forma subdola con cui istigare i poteri dominanti a intervenire con la repressione. Infatti nella mente contorta di Paolo la persecuzione, da parte delle autorità costituite, veniva considerata come una forma di garanzia sull'autenticità dei contenuti della propria teologia. Sicché se da un lato egli predicava la non resistenza al male; dall'altro però non riconosceva alle istituzioni pagane alcun valore religioso, mettendole in condizioni di dover sospettare fortemente dell'affidabilità dei cristiani.
Paolo in sostanza aveva posto le basi ideologiche di una sostituzione sia del giudaismo che del paganesimo in virtù di una nuova religione, il cristianesimo, che lui stesso aveva elaborato, con cui l'unico modo che si aveva di affrontare il problema dell'antagonismo sociale era quello soggettivo del comportamento etico. Poi, col tempo, per tenere in piedi il nuovo ideale utopico della conciliazione delle classi opposte in nome di Gesù Cristo, la Chiesa si renderà conto d'aver bisogno di un forte potere politico cristianizzato. Il cristianesimo paolino, a partire da Costantino, diventerà, previa la rimozione degli orpelli superati del giudaismo nazionalistico, l'istituzionalizzazione della vecchia ipocrisia farisaica, in conformità allo spirito universalistico dell'impero romano-cristiano.
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Vorremmo ora rispondere alle tre domande formulate sopra, in considerazione del fatto che tutte le argomentazioni svolte da questo autore sedicente “marxista” intorno al titolo che, secondo lui, Gesù diede a se stesso, cioè “figlio dell'uomo”, a noi appaiono piuttosto stucchevoli, prive di costrutto.
Siccome Bloch ha visto, giustamente, nel Cristo un politico rivoluzionario, inevitabilmente siamo portati a chiederci: si può affrontare un argomento del genere in chiave meramente filosofica o esegetica? Non è già questo un modo di tradire il suo messaggio? Si può parlare di un qualunque politico rivoluzionario senza individuare quali delle sue strategie possono avere ancora un significato per l'uomo contemporaneo? Non è limitativo sostenere che l'aspetto più rivoluzionario della filosofia è l'ateismo?
Neanche il giovane Marx arrivò mai a pensare che in nome dell'ateismo si sarebbe potuto edificare il socialismo. Anzi, diceva che quando il socialismo sarà stato realizzato, non vi sarà più né la religione né l'ateismo, ma soltanto uno spontaneo umanismo, privo di qualunque forma di alienazione. Bloch, in sostanza, sembra essersi fermato a una forma di ateismo pre-marxista, quella che si può ricavare da certi filosofi del mondo greco-ellenistico o rinascimentale.
Quello che manca, in questo capitolo, è l'analisi della differenza tra la prassi rivoluzionaria del Cristo e quella degli altri partiti o movimenti politici dell'ebraismo a lui coevo. Bloch si perde in considerazioni astratte sul tema dell'ateismo, senza riuscire a focalizzare l'attenzione sulla natura politicamente democratica del movimento nazareno. Non ha capito che ciò che più conta, quando si esamina il “caso Gesù”, è cercare d'individuare il motivo per cui la sua strategia politica è risultata fallimentare (sempre che davvero lo sia stata, poiché, quando vi è di mezzo la democrazia, cioè l'idea di maggioranza o di partecipazione popolare o di responsabilità personale, non si può addebitare a qualcuno in particolare il fallimento di una qualsivoglia iniziativa politica).
Oggi infatti è molto più facile dare per acquisiti i princìpi puramente teorici dell'ateismo che non quelli pratici della democraticità rivoluzionaria. Ma se noi non riusciamo a capire il motivo per cui tale democraticità non è riuscita a conseguire il suo scopo, rischiamo di ripeterne gli errori o le manchevolezze, come d'altra parte abbiamo fatto in questi ultimi duemila anni di storia. E non possiamo certo dire che la maggiore consapevolezza del valore dell'ateismo ci abbia aiutato in maniera decisiva a superare i limiti della nostra politica rivoluzionaria. In due millenni di storia sono stati compiuti molti tentativi per uscire dalle secche dell'antagonismo sociale, ma gli scarsi risultati ottenuti non li possiamo certo compensare con una maggiore consapevolezza del valore dell'ateismo.
Sotto questo aspetto Bloch sembra essere rimasto fermo ai dibattiti di un secolo prima della Sinistra hegeliana, quelli dai quali Marx ed Engels si vollero sottrarre ben volentieri, in quanto li percepivano come fini a se stessi, ad esclusione ovviamente della polemica contro lo Stato confessionale tedesco, che imponeva, p.es., una precisa selezione nella scelta dei docenti universitari. Se l'ateismo viene concepito come qualcosa di autoreferenziale, diventa noioso e inconcludente non meno della fede religiosa. Bisogna semplicemente darlo per scontato, cominciando ad affrontare quegli argomenti che possono risolvere le contraddizioni sociali.
Sicché non possiamo limitarci a dire – come fa Bloch – che il Cristo sostituisce Dio, senza poi specificare bene come riesca a farlo in una dimensione terrena, che nella Palestina di due millenni fa implicava anche una buona dose d'impegno politico-eversivo. Questo perché, se ci si comporta in una maniera troppo astratta, il rischio è quello di assumere lo stesso atteggiamento degli antichi cristiani, che attendevano il ritorno del “figlio di Dio”. Con una piccola differenza, che gli atei attenderebbero il ritorno di un “figlio d'uomo”, senza natura divina esclusiva. Entrambi però non riuscirebbero a capire che qualunque “ritorno” di un qualsivoglia “figlio”, che si ponga come risolutore definitivo dell'antagonismo sociale, costituirebbe una disgrazia peggiore dello stesso antagonismo, proprio perché ridurrebbe a un nulla l'esigenza di assumersi delle responsabilità personali nell'ambito della propria libertà di coscienza. Il fatto d'aver smesso di credere in Dio non ci rende, di per sé, meno fatalisti delle persone religiose, né ci autorizza a credere che non lo siamo. È la prassi il criterio della verità.
In tal senso ci si può anche servire del quarto vangelo – come fa Bloch – per sostenere l'idea che l'uguaglianza di Cristo e Dio va guardata soltanto dal punto di vista di Cristo, per cui quella identità è in realtà un'affermazione di tipo ateistico. Ma se ci si limita a dire che quella identità costituisce soltanto una “speranza” per una liberazione definitiva dalle contraddizioni irriducibili, non si esce dal perimetro del proprio misticismo.
La filosofia blochiana della speranza sembra quella di un detenuto rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, con una finestra nella sua cella posta molto in alto, che gli permette di vedere solo il cielo. Dopo molti anni il detenuto, che non ha perso il desiderio di fuggire da quella prigione, riesce a costruirsi uno sgabello e a procurarsi una piccola lima. Dopo ancora molti anni riesce finalmente a segare tutte le inferriate della finestra e a fuggire. Lui però è già molto invecchiato e, per di più, mettendosi a girare nei dintorni del carcere, scopre di trovarsi in un'isola semidesertica, circondata da un mare sconfinato; scopre cioè che la realtà esterna è molto diversa da come l'aveva immaginata.
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Ora però dobbiamo rispondere a una domanda fondamentale, quella a cui Bloch non è stato capace di trovare alcuna risposta: perché il tentativo insurrezionale del Cristo è fallito? Cosa non funzionò nella sua strategia eversiva? Tentò forse di compiere qualcosa che, per i tempi in cui egli viveva – come sostiene Fernando Belo – non poteva che finire male, in quanto mancavano le condizioni oggettive per compiere una rivoluzione di successo?
Di sicuro non si può sostenere ch'egli volesse compiere un semplice gesto dimostrativo, demandando ai posteri il compito di realizzare sino in fondo la liberazione dalle ingiustizie sociali e dall'oppressione politica. Non è possibile pensare né ch'egli volesse cercare il martirio per dimostrare il proprio valore, né che volesse rischiare di compromettere la vita dei propri seguaci per compiere un gesto puramente simbolico. In gioco vi era l'obiettivo della liberazione nazionale sia dai Romani che dalla casta sacerdotale corrotta e collusa.
Il fallimento dei suoi tentativi insurrezionali, contro il Tempio e contro la fortezza Antonia, non aveva certamente lo scopo di porsi come un insegnamento pedagogico, al fine di dimostrare agli uomini – come vogliono gli esegeti confessionali – che senza un intervento divino è impossibile risolvere le contraddizioni antagonistiche. Se una qualche pedagogia vi era, connessa a quei fallimenti, non aveva alcun contenuto mistico.
Il fallimento di quei tentativi non dipese da un difetto fondamentale della strategia politica del Cristo. Non fu determinato da una approssimativa valutazione delle reali forze in campo, cioè da una sottovalutazione delle forze del nemico o da una sopravvalutazione delle proprie. Questo perché non c'è alcun motivo per ritenere Gesù uno sprovveduto avventurista o un megalomane che aspirava al ruolo di messia senza averne i titoli o le capacità. E neppure si può pensare che mancassero agli ebrei di allora quelle virtù che tipicamente s'incontrano negli scontri armati tra opposti schieramenti: il coraggio, l'abnegazione, il sacrificio di sé, il patriottismo, il valore militare, la fedeltà ai patti, il rispetto delle regole, l'obbedienza ai superiori, la resistenza al dolore o alla fatica, lo spirito di corpo, la disciplina... Tutte queste qualità gli ebrei le avevano come i Romani, anche se non avevano avuto bisogno di macchiare la loro terra del sangue di interminabili guerre civili. Il passaggio dalla repubblica all'impero era stato per i Romani alquanto doloroso, e spesso le conquiste militari compiute all'estero servivano soltanto per alleggerire il peso delle tensioni interne, distogliendo l'attenzione delle masse.
Noi dobbiamo dare per scontato che esistessero sia le condizioni oggettive che quelle soggettive per compiere una insurrezione vittoriosa. Non dimentichiamo che se la guerra giudaica vera e propria durò dal 66 fino al 70, la resistenza armata contro Roma durò quasi un secolo e mezzo, cioè dai tempi di Pompeo a quelli dell'imperatore Adriano. La guerra contro gli ebrei fu, per i Romani, non meno faticosa di quella contro i Cartaginesi, i Germani, i Parti. Anzi, si può addirittura sostenere che, benché essi l'abbiano stravinta sul piano militare, l'hanno strapersa sul piano culturale, poiché, obbligando, in un certo senso, a far perdere all'ebraismo il suo connotato nazionalistico, lo costrinsero a trasformarsi in un cristianesimo universale, cioè in una religione che sostituirà completamente il politeismo pagano, inducendo gli stessi imperatori a farsi battezzare.
Dunque per quale motivo l'umanità ha dovuto accontentarsi della trasformazione di un movimento politico-rivoluzionario, come quello nazareno, in un movimento religioso, politicamente revisionista, come quello cristiano? Gesù Cristo, sul piano politico, è stato un maestro di democrazia. Ha insegnato ai suoi discepoli come compiere un'insurrezione armata contro gli occupanti Romani e i collaborazionisti ebrei rispettando i princìpi della democrazia politica e i valori umani universali. Non è stato fermato da questi nemici, ma da alleati traditori, sia prima della sua cattura che dopo la sua morte.
Giuda e i farisei, Pietro e Paolo, Giacomo il Giusto e tanti altri hanno affossato l'obiettivo politico della liberazione nazionale, trasformandolo nell'obiettivo teologico della redenzione universale. Al posto della parola “insurrezione” han preferito parlare di “resurrezione”. Han sostituito il titolo di “messia politico” con il titolo di “figlio di Dio”. Hanno in sostanza creato una nuova “religione”.
Tale processo revisionistico è durato circa una quarantina d'anni e dopo la distruzione del Tempio, nel 70, si è imposto senza soluzione di continuità, almeno finché, con l'illuminista Reimarus, non si è cominciato a dire che tra il Gesù storico e il Cristo teologico vi è un abisso.
Il motivo per cui sia avvenuto un tale ribaltamento di prospettiva non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la democrazia entra in contraddizione con se stessa se si cerca d'imporla con la forza. Conosciamo la differenza tra insurrezione popolare e colpo di stato militare. Possiamo anche capire la differenza tra violenza e legittima difesa, tra rispetto della legalità e arbitrio poliziesco. Col tempo, grazie soprattutto al socialismo, abbiamo anche imparato a distinguere, tra loro, gli interessi oggettivi delle varie classi sociali che si fronteggiano, ovvero a distinguere le contraddizioni naturali tra rapporti e forze produttive dalle contraddizioni assolutamente inconciliabili, in quanto fondate sull'antagonismo sociale correlato all'uso della proprietà. Siamo in grado oggi di distinguere la proprietà personale da quella sociale o pubblica e quella statale. Siamo in grado di determinare quando una ricchezza proviene dall'uso di risorse proprie o dallo sfruttamento di risorse altrui.
Non abbiamo difficoltà ad accettare l'idea che molte di queste acquisizioni, o anche tutte, erano già state assimilate duemila anni fa dal movimento nazareno. Quello che però non riusciamo a capire è il motivo per cui, ad un certo punto, è emersa una sorta di tendenza autodistruttiva che ha indotto gli uomini a negare le esigenze più forti della libertà. Piuttosto che essere liberi in maniera democratica, partecipando personalmente a una liberazione sociale, culturale e politica, gli uomini han preferito rinunciare all'uso della propria responsabilità. Hanno usato la loro facoltà di scelta per negare se stessi. Si sono illusi di poter diventare liberi in forza degli atteggiamenti estremistici tipici degli zeloti. Volevano libero Barabba, poiché, secondo loro, offriva maggiori garanzie di successo. E Pilato, che aveva capito bene la differenza tra i due condannati, non esitò a liberarlo.
(torna su)14) Zarcone e il Cristo teo-politico
Ogniqualvolta si sostiene – come p.es. fa Pier Francesco Zarcone in Il Messia armato, Massari editore, Bolsena 2013 – che “Gesù predicava la realizzazione in nome di Dio di un regno di giustizia sulla terra che era anche regno di libertà...” (p. 168), si finisce col cercare un compromesso tra socialismo e cristianesimo, che è più deleterio per il socialismo che non per il cristianesimo.
L'idea di Dio, infatti, nega quella dell'uomo. Anche quando, in nome di Dio, il credente vuol compiere qualcosa di politicamente rivoluzionario, sarà difficile ch'egli possa trovare degli alleati tra chi non crede nel suo medesimo Dio. Il concetto di “Dio” unisce i credenti che hanno la stessa fede, ma li divide da tutti gli altri. Pertanto, siccome tale concetto è un assoluto, è quasi impossibile che i credenti di varie religioni possano trovare delle intese su aspetti sostanziali della vita. Dopo mille anni di separazione, cattolici e ortodossi non si sono ancora riconciliati, se non su aspetti marginali. Lo stesso si può dire dei rapporti tra cattolici e protestanti, tra ebrei e cristiani, tra cristiani ed islamici, tra buddhisti e induisti, e così via.
Nella Palestina di duemila anni fa, tutta sottoposta, in maniera diretta o indiretta, al dominio romano, i Giudei consideravano eretici i Samaritani e disprezzavano Galilei e Idumei. I Galilei detestavano i Giudei e avevano scarsi rapporti coi Samaritani. Quando Gesù incontrò la samaritana al pozzo di Giacobbe, le fece capire subito che le questioni religiose andavano nettamente subordinate a quelle politiche, se si voleva realizzare l'obiettivo della liberazione nazionale. In caso contrario sarebbe stato meglio lasciar perdere, in quanto contro Roma le divisioni per motivi ideologici avrebbero di sicuro portato alla sconfitta.
Oltre a ciò va detto che l'idea di Dio, in sé e per sé, tende a rendere gli uomini poco propensi a compiere delle insurrezioni nazionali. Essa infatti tende a instillare nella coscienza del credente la convinzione d'essere migliore degli altri; cioè i credenti sono portati a separarsi dalla collettività nazionale o dalle istituzioni pubbliche, a meno che queste non siano una diretta emanazione della loro stessa fede, ma in tal caso s'impongono le separazioni tra una nazione e l'altra.
Il credente, per sua natura, si sente un “diverso”, una persona speciale, amata da Dio, un eletto, per cui fa molta fatica a conciliare i suoi interessi religiosi con quelli di uno Stato laico (meno che mai se questo Stato è favorevole al regime di separazione). Il credente è disposto a sacrificarsi e anche a morire per lo Stato, se questo però dimostra di possedere la sua stessa fede religiosa.
Non basta quindi dire che Gesù era un politico sovversivo, nemico irriducibile dell'occupante romano e della casta sacerdotale corrotta e collusa. Bisogna anche dire che era ateo, cioè estraneo all'idea di riconoscere a questo o a quel modo di vivere l'ebraismo un qualsivoglia “primato”.
Gesù chiedeva agli ebrei di realizzare la liberazione nazionale e la democrazia sociale, usando gli strumenti della politica. Neanche una volta mostra di utilizzare strumenti di tipo religioso. Non si comporta mai come un sacerdote. Non compie alcun sacrificio, non pratica né istituisce alcun sacramento (l'eucaristia, a lui attribuita, è una mistificazione post-pasquale). Non lo si vede mai pregare al Tempio o in una sinagoga. Non invoca mai il nome di Dio quando compie le sue guarigioni psicosomatiche. Tutte le espressioni religiose che gli sono state attribuite, dovevano servire per censurare o falsificare eventi o messaggi di tipo politico.
Sotto questo aspetto è assurdo sostenere – come fa Zarcone – che Gesù “condivideva con i farisei la credenza nella resurrezione dei morti, ma voleva sulla terra la resurrezione dei vivi” (p. 168). Infatti, se c'è un'idea che al tempo di Gesù non era certamente favorevole alla strategia dell'insurrezione nazionale del popolo d'Israele è stata proprio quella di resurrezione cosmica del genere umano, fatta propria dai farisei, la cui concezione della democrazia si è rivelata del tutto fallimentare nel corso dell'ultima Pasqua di Gesù.
La loro idea è stata poi ereditata dagli stessi cristiani, prima con Pietro, poi con Paolo, con cui si porrà fine, una volta per tutte, a qualunque obiettivo politico-rivoluzionario. L'idea di resurrezione è fatalistica per definizione, in quanto o sposta nel regno dei cieli la realizzazione degli ideali di giustizia che hanno gli oppressi, oppure demanda a qualche Dio il compito di realizzarli.
Tuttavia il limite dell'analisi politica di Zarcone è ancora più evidente là dove afferma che Gesù sbagliò a “puntare tutte le carte sulla caduta di Gerusalemme e fare poi di ciò l'inizio della ribellione palestinese” (p. 169). Cosa avrebbe dovuto fare, secondo lui? Avrebbe dovuto promuovere una parallela rivolta in Galilea, in quanto qui il movimento insurrezionale era più forte che in Giudea. Detto altrimenti, Giudei e Galilei avrebbero dovuto muoversi all'unisono.
In realtà era proprio questo che Gesù stava facendo, sin dal momento in cui aveva rifiutato la proposta dei cinquemila Galilei di marciare su Gerusalemme senza cercare un preventivo accordo coi Giudei. Quand'egli entrò per l'ultima volta nella Città Santa, con l'intento di occuparla democraticamente, il seguito popolare, al momento dell'ingresso, era composto prevalentemente da Galilei, cui però, una volta entrato, si unirono subito numerosi Giudei.
Se la coorte romana stanziata nella fortezza Antonia fosse stata immobilizzata, i Romani avrebbero avuto bisogno di consistenti rinforzi da parte dell'imperatore (per vincere la guerra Vespasiano e Tito avranno bisogno di 60 mila militari). Se la Giudea avesse accettato d'insorgere, tutta la Palestina sarebbe stata facilmente liberata, anche perché la rivolta in Galilea sarebbe venuta da sé, così come nella Samaria. Erode Antipa, privato dell'appoggio romano, non avrebbe potuto far nulla.
E poi non è affatto vero che la Galilea fosse più combattiva della Giudea. Sono molti gli episodi, tratti dai testi di Giuseppe Flavio, che dimostrano il contrario. Archelao, uno dei figli di Erode il Grande, che aveva ereditato Giudea, Samaria e Idumea, eliminò tremila rivoltosi a Gerusalemme; si ribellarono a lui persino duemila veterani dell'esercito di Erode il Grande, in quanto veniva visto troppo collaborazionista con Roma.
Quando l'imperatore Augusto mandò Quintilio Varo a occupare Gerusalemme, il suo compito fu quello di reprimere soprattutto le rivolte giudaiche: non a caso i territori di Archelao passarono sotto il controllo romano. La rivolta più significativa in Galilea scoppiò solo in occasione del censimento voluto dal legato di Siria, Sulpicio Quirinio. Furono i procuratori romani che gestivano la Giudea, tutti venali e violenti, a porre le condizioni perché i Giudei facessero scoppiare la guerra. Prima dell'arrivo di Vespasiano e di Tito tutta la Palestina era stata occupata dal movimento zelota, gestito prevalentemente da Giudei e Idumei (lo stesso Flavio Giuseppe venne mandato in Galilea a governarla).
In ogni caso le insurrezioni vanno fatte in momenti e luoghi strategici: non si possono disperdere le forze del movimento. Il problema maggiore, semmai, sarebbe stato quello di come organizzare le difese, su tutto il territorio nazionale, contro la ritorsione romana.
Ci si può inoltre chiedere come sia stato possibile che il movimento nazareno non abbia fatto nulla – stando almeno ai vangeli – per liberare Gesù al momento dell'arresto o per compiere l'insurrezione anche dopo la sentenza capitale, visto che erano già tutti pronti per farla.
Zarcone comunque mostra un certo scetticismo sulle effettive chances che avevano gli ebrei di vincere l'esercito più forte del mondo. A suo parere una qualche possibilità ci sarebbe stata se Israele fosse stata aiutata dai Parti (che però non riuscirono mai a sottrarre la Siria ai Romani) o se la guerra che Roma aveva intrapreso contro i Germani, avesse sfiancato le sue legioni (come in effetti era avvenuto nella foresta di Teutoburgo). In caso contrario non vi sarebbe stata alcuna possibilità, in quanto i Romani erano in grado di distruggere qualunque fortificazione (p. 56).
Davvero gli ebrei avrebbero avuto bisogno dell'aiuto dei Parti per immobilizzare un migliaio di Romani? Semmai ne avrebbero avuto bisogno per resistere all'attacco delle legioni. In ogni caso Gesù, a più riprese, cercò alleanze nel mondo pagano (i vangeli parlano delle sue sortite in Fenicia e nella Decapoli e di un suo rapporto con taluni Greci, come dice Gv 12,20). L'aiuto dei Parti sarebbe potuto servire per liberare tutto il Medioriente dall'ingombrante presenza romana e sempre che gli stessi Parti non avessero avuto intenzione di sostituirsi a loro (non dimentichiamo che si fregiavano del titolo di “Re dei Re”). Su questo però bisogna dire che già al tempo dell'imperatore Traiano i Parti erano profondamente in crisi, travagliati da continue guerre civili e costretti a cercare compromessi con gli imperatori romani. Quando scoppiò l'ultima significativa rivolta ebraica contro Roma, quella di Simon bar Kokheba, nel 132-135, gli aiuti che i Giudei si aspettavano da parte della Persia non arrivarono minimamente.
Quanto alle sconfitte dei Romani contro i Germani, che portarono alla decisione di porre il Reno come confine nord-orientale dell'impero, quelle sì che avrebbero potuto favorire la resistenza ebraica, ma sempre molto indirettamente.
(torna su)15) Il Cristo ribelle di Reza Aslan
Reza Aslan, divenuto improvvisamente famoso perché primo esegeta islamico contemporaneo a scrivere un intero libro su Gesù Cristo27, è uno di quegli studiosi che può aiutarci a capire, seppur indirettamente, la differenza tra “mistificazione” e “falsificazione”.
Siccome è una differenza sottile, non sempre facilmente individuabile nei vangeli, cerchiamo di spiegarla analizzando alcune frasi dello stesso autore. Scrive a pag. 19: “i vangeli non sono e mai hanno voluto essere una documentazione storica della vita di Gesù. Non sono testimonianze dirette di ciò che Gesù disse e fece, riferite da coloro che lo conobbero personalmente. Sono testimonianze di fede composte da comunità di fede, scritte molti anni dopo gli eventi che descrivono. Detto semplicemente, i vangeli parlano di Gesù il Cristo, non dell'uomo Gesù”; “con la possibile eccezione del vangelo di Luca, nessuno dei vangeli è stato scritto dalla persona da cui ha preso il nome”.
Perché Aslan sostiene una tesi del genere? L'obiettivo è quello di dimostrare che tra il Cristo della fede e il Gesù storico vi è un abisso incolmabile, in quanto la punizione della croce veniva data dai Romani agli schiavi ribelli o ai rivoltosi politici (privi di cittadinanza) avversi al loro imperialismo. Il Cristo dei vangeli, invece, appare soltanto anti-giudaico, non anti-romano, e lo dimostra il fatto che, nell'ultimo suo ingresso a Gerusalemme, cercò – secondo la versione sinottica, non quella giovannea – di occupare il Tempio, non la fortezza Antonia, ove era di stanza la coorte romana in occasione delle grandi festività ebraiche.
Gli autori dei vangeli si comportano così perché appartenevano a una comunità che voleva convivere pacificamente con l'impero romano. E, purtroppo, stando le cose in questi termini e non avendo altre fonti cui attingere, la ricerca sul Gesù storico incontra dei limiti invalicabili, al punto che il rischio diventa quello di crearsi un'immagine di Cristo a proprio uso e consumo. In teoria basterebbe leggersi questa introduzione per capire tutto il contenuto del libro di Aslan.
Ora, cosa c'è che non va in questa impostazione ermeneutica? Fondamentalmente una cosa: se non è possibile distinguere il Gesù storico dal Cristo della fede, tutta la vicenda del “caso Gesù” finisce col perdere qualunque interesse per lo studioso che non professa alcuna fede. Se i vangeli sono frutto d'immaginazione religiosa, d'invenzione mistica e quindi di falsificazione dei fatti, lo studioso ha mille altri argomenti storici più interessanti che può esaminare.
L'esegesi critica è iniziata mettendo in discussione che il Cristo della fede fosse quello reale. H. S. Reimarus (1694-1768) è stato il primo ad arrivare a questa conclusione partendo proprio dai vangeli; quindi doveva per forza aver individuato degli indizi che l'avevano fatto sospettare dell'attendibilità di quella coincidenza.
Se si arriva ad affermare che non è possibile risalire al Gesù storico basandosi unicamente sui vangeli e, nonostante ciò, si vuole continuare a fare dell'esegesi, sarà impossibile evitare di fare delle ricostruzioni romanzate, oppure sarà impossibile non ricadere nella versione romanzata degli evangelisti.
Fino ad oggi le alternative “laiche” sono state due: o si esaminano i vangeli come se fossero esclusivamente le testimonianze di fede delle comunità cristiane che li hanno prodotti, dando per scontato che dette testimonianze non ci dicono nulla di assodato sul Gesù storico; oppure è meglio evitare l'argomento, in quanto le fonti che ne parlano sono troppo inquinate, troppo tendenziose.
A partire dalla cosiddetta “Terza ricerca” esegetica (nata nel 1985) si è cominciato a studiare l'ebraicità del Cristo, cercando di capire se in quello che diceva o faceva vi erano motivi plausibili perché meritasse la condanna a morte da parte del Sinedrio o, quanto meno, da parte delle autorità religiose. È una ricerca (cui contribuiscono studiosi di origine ebraica) che non vede di buon occhio né il lato politicamente eversivo del Cristo, né la sua estraneità alle questioni o alle diatribe di tipo meramente religioso. Quindi, dal nostro punto di vista, è una ricerca che lascia il tempo che trova, in quanto costituisce un passo indietro rispetto sia alla Prima che alla Seconda ricerca.
Ma torniamo alle affermazioni di Aslan riportate sopra. Se un esegeta non capisce la differenza tra falsificazione e mistificazione, e vuole comunque scrivere un testo su Gesù Cristo, inevitabilmente sarà costretto a far proprie le tesi fondamentali (almeno alcune) degli stessi vangeli. Potrà eliminare quelle più mistiche, inconcepibili per la nostra mentalità razionalistica, ma alla fine sarà ugualmente caduto nella trappola dei redattori.
P. es. una delle sue tesi fondamentali è la seguente: escluso forse quello di Luca, i vangeli sono stati scritti da autori anonimi, lontani dagli eventi che raccontano. Ora, se ciò fosse vero, uno storico quale conclusione potrebbe trarre? Che tutti i vangeli sono falsi per definizione, in quanto non si sa nulla neppure su chi li ha scritti. Sbagliato! Dietro Marco, che ha inventato il genere letterario del “vangelo”, c'è l'ideologia petrina, riveduta e corretta da quella paolina. Matteo e Luca copiano da Marco e riscrivono i testi sulla base delle loro esigenze, più giudaiche per l'uno, più ellenistiche per l'altro. Luca è chiaramente un discepolo di Paolo, per cui il suo vangelo è come se fosse stato scritto dallo stesso Paolo, benché le lettere paoline contengano temi più vicini alla cultura giudaica che non a quella ellenistica. La cosiddetta “fonte Q”, cui attingono Matteo e Luca, non aggiunge nulla di significativo a quanto già scritto da Marco. Quanto al quarto vangelo, quello originario, scritto in aramaico e andato perduto, sappiamo bene che ci è giunto in una versione greca profondamente revisionata, in quanto la sua opposizione al vangelo marciano i redattori han cercato di ridurla al massimo.
Quindi a monte dei quattro vangeli vi sono almeno tre fondamentali ideologie che si fronteggiano: quella petrina, quella paolina e quella giovannea. Un'altra ideologia è rinvenibile nel vangelo matteano, ed è quella dei giudeo-cristiani, che, dopo la morte di Gesù, era rappresentata da Giacomo il Giusto e che scomparirà dopo la catastrofe del 70.
Da ultimo si può affermare che nel quarto vangelo sono confluite tradizioni provenienti dall'essenismo, dallo gnosticismo e dall'ellenismo di Filone Alessandrino (sono note le affinità con alcuni testi dei manoscritti di Qûmran e dei papiri egiziani di Nag Hammâdi).
Di tutte queste tradizioni la prevalente è una sola: quella paolina. Paolo di Tarso è vissuto al tempo di Gesù; era un fariseo fanatico; poi, siccome credeva nell'idea di resurrezione, si convertì alla tesi petrina, con cui veniva interpretata la tomba vuota del Cristo; credette anche lui, per un certo tempo, a una parusia imminente e trionfale di Gesù; infine, quando vide ch'essa non si verificava, decise di posticiparla al momento del giudizio universale. Di rilievo in lui il fatto che, di fronte al netto rifiuto ebraico di credere a questa idea farisaico-cristiana, decise di rivolgersi esclusivamente ai pagani, e fu così che nacque il cristianesimo pagano.
Se tale ricostruzione dei fatti (esposta qui molto sinteticamente) può essere considerata giusta per cercare di capire come sono nati i vangeli, allora è evidente che il compito dell'esegeta diventa uno solo: come smontare tutta la teologia paolina per ritrovare l'autentico Gesù Nazireo.28 È stato in grado Reza Aslan di fare una cosa del genere nel suo libro? Purtroppo no, e proprio perché non è riuscito a capire la differenza tra “falsificazione” e “mistificazione”.
Poniamoci una domanda: di tutta la teologia paolina, qual è l'argomento principale? La resurrezione di Gesù Cristo. Paolo aveva già in mente l'idea di resurrezione, ma la riferiva a un tempo remoto, quando, alla fine della storia, Jahvè avrebbe risorto i giusti, gli uomini e le donne di fede, gli eletti. Non poteva accettare l'idea di Pietro secondo cui Gesù aveva anticipato i tempi e che, per questo motivo, andava considerato il messia tanto atteso. Gli appariva una posizione disfattista contro i Romani, a meno che ovviamente non fosse ritornato da vincitore, ma in tal caso anche molte autorità giudaiche avrebbero dovuto rinunciare al loro potere.
Peraltro, in tutto e per tutto Gesù appariva come uomo: per quale motivo bisognava credere che fosse risorto? Paolo diede una risposta a questa domanda che Pietro non aveva previsto: se Gesù è davvero risorto, allora non può essere considerato un uomo come gli altri, se non all'apparenza; nella sostanza è “figlio di Dio”, in via del tutto esclusiva, nel senso che nessun altro può esserlo come lui. Quindi, se ha ragione Pietro, questo essere divino-umano deve per forza tornare, dimostrando d'essere superiore a tutti, anche ai Romani; e se non lo fa subito, lo farà comunque quando lo riterrà opportuno. Poi sul momento della parusia sono state fatte varie ipotesi: lo deciderà Dio-padre, poiché neppure il Figlio sa il momento preciso; avverrà quando gli ebrei si convertiranno; o quando accadrà “l'abominio della desolazione”, preannunciato da catastrofi di varia natura.
Il legame tra Pietro e Paolo appare evidente. Ora, dove sta la “falsificazione”? E dove la “mistificazione”? Per comprendere la prima, bisogna partire dalla seconda. La mistificazione presuppone un fatto reale interpretato male. Il fatto reale era la tomba vuota; l'interpretazione sbagliata è quella della resurrezione del corpo. Non si può parlare di “resurrezione” se il corpo morto non viene rivisto vivo, ma questo non poteva accadere, poiché la libertà umana di coscienza sarebbe stata violata, cioè indotta a credere per forza in un evento (tant'è che il vangelo originario di Marco non contempla alcun racconto di riapparizione di Gesù). Nell'idea di resurrezione bisogna credere per fede, a prescindere persino dalla tomba vuota: infatti, in quel vangelo le donne che la vedono vuota, fuggono impaurite.
Questa è dunque la mistificazione originaria. Invece di parlare di “strana scomparsa del cadavere”, Pietro volle dare una spiegazione mistica dell'evento. La falsificazione viene dopo, ed è appunto quella di Paolo. Se Gesù Cristo è risorto, allora non era un semplice uomo: era una persona divino-umana, era l'unigenito figlio di Dio. Questa è una falsificazione al cento per cento, poiché dall'idea di “resurrezione” non si può ricavare assolutamente l'idea di “esclusiva figliolanza divina” del Cristo. Cioè nulla lascia pensare che un'entità a lui esterna abbia potuto determinare la resurrezione del suo corpo.
Neppure la Sindone è in grado di “dimostrare” alcunché, anche dando per scontato che quel lenzuolo abbia realmente avvolto il corpo di Gesù e che la sua proiezione su di esso sia avvenuta in una maniera poco comprensibile.
A parte tutto ciò, resta da dimostrare che la storiografia moderna abbia delle caratteristiche scientifiche che quella evangelica di duemila anni fa non poteva avere. In una civiltà antagonistica come la nostra si è semplicemente passati da categorie esplicitamente mistiche, come appunto “resurrezione”, “figliolanza divina”, “regno dei cieli”, “sacramenti”, ecc., a categorie indirettamente mistiche come “libertà di mercato”, “libertà del mercato di lavoro”, “esigenze del profitto”, “primato del valore di scambio”, e così via. Detto banalmente: si è passati dal dio uno e trino al dio quattrino, e la storiografia si è piegata alle esigenze di entrambi.
(torna su)16) La dimensione politica dell'attività di Gesù
Abbiamo scelto come titolo di questo articolo lo stesso che ha usato Gerd Theissen, noto esegeta tedesco di fede luterana, uno dei maggiori esperti di storia e sociologia del cristianesimo delle origini, in un suo articolo apparso nel libro Il nuovo Gesù storico (ed. Paideia, Brescia 2006), a cura di W. Stegemann, B. J. Malina e G. Theissen.
Theissen premette subito che se si vuole pensare a un Gesù politicizzato, è bene sapere che nel tempo e nei luoghi in cui lui è vissuto era impossibile separare la religione dalla politica. Una tesi, questa, che per noi può essere vera per gli zeloti o i farisei o gli esseni, ma che non ci sentiamo di applicarla al Cristo, poiché sin dal momento del suo rapporto coi Samaritani si ha l'impressione che la questione religiosa, in sé e per sé, non rientri negli argomenti da affrontare per risolvere il problema della liberazione nazionale dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta e collusa. Coi Samaritani Gesù semplicemente si limita ad affermare il principio della libertà di coscienza in materia di atteggiamento da tenere nei riguardi della fede religiosa; per il resto, tutto ciò che dice in chiave teologica va considerato “redazionale”.
Dopodiché l'autore delinea alcune caratteristiche molto generali della politicità del Cristo, che andrà a sviluppare successivamente: 1) egli “non paga nessuno, ma promette vantaggi” dalla sua predicazione etico-religiosa e teo-politica; 2) “rifiuta decisamente qualsiasi ricorso alla forza di coercizione, ma è disposto, a scopo dimostrativo, a farsi vittima della violenza e dell'aggressione”; 3) “Gesù esercita la propria influenza su altre persone mediante la persuasione”. Poi aggiunge, in maniera molto mistica: “Il suo carisma si basa sul 'regno di Dio': sulla fede nell'unico e solo Dio che ben presto si imporrà”. Tuttavia, siccome in Gesù non vi è alcuna forma di violenza, “la politica simbolica prende il posto della politica violenta”.
Queste sono le premesse, delineate dal suddetto esegeta alla pag. 152, e, sulla base di queste, si potrebbe anche rinunciare a proseguire la lettura del suo articolo. Infatti vi è un preliminare aspetto metodologico completamente sbagliato. Prima di mostrarlo però, si presti attenzione al curioso ragionamento fatto dall'esegeta: Gesù Cristo sarebbe stato un pacifista ad oltranza, in quanto l'unico titolato a “imporre” il proprio regno è soltanto Dio. Lui l'avrebbe semplicemente anticipato, e in una maniera tale da indurre gli uomini a non tentare neppure di costruire un regno autonomamente, senza l'aiuto di una forza superiore, quale appunto può essere quella del Padre eterno.
Si noti che, da un lato, molti esegeti come Theissen pretendono di dire che Gesù era un ebreo purosangue; dall'altro però lo fanno comportare come se di ebraico non avesse nulla, cioè come se fosse un santone delle religioni orientali, tant'è che – si sostiene – la sua politicità non aveva affatto le caratteristiche del realismo ma soltanto quelle del simbolismo. D'altra parte come avrebbe potuto essere diversamente, visto che qualunque azione politica comporta sempre l'uso della forza?
Ora, cosa c'è di sbagliato in questo modo di ragionare? È proprio l'idea di non violenza unilaterale, cioè l'incapacità di distinguere la violenza autoritaria dalla legittima difesa. Sappiamo tutti che la persuasione si esercita per ottenere consensi da parte delle masse popolari, ma quando si svolge attività politica, lo si fa per cambiare le cose, cioè per rovesciare i rapporti di classe, per abbattere i privilegi di casta, per affermare la giustizia sociale, l'uguaglianza, la democrazia... Se i poteri dominanti rifiutano tutte queste cose, gli scontri violenti non diventano forse inevitabili? Non ha senso sostenere che Gesù era un “pacifista ad oltranza”, poiché, se lo fosse stato, avrebbe compromesso, irresponsabilmente, l'incolumità fisica dei propri discepoli. Quando mai, infatti, la violenza esercitata dai poteri dominanti contro un determinato leader, non ha preso di mira anche i suoi seguaci?29
Il fatto che Gesù sia morto in croce non deve essere interpretato come se egli fosse stato favorevole a un astratto pacifismo non violento. Non sono pochi i passi evangelici in cui egli mostra un atteggiamento risoluto, disposto anche a usare la forza e persino le armi nel caso in cui le circostanze l'avessero costretto a farlo; e questo senza considerare che i vangeli han fatto di tutto per rappresentare un Cristo mistico e spoliticizzato.
Gesù non era un filosofo o un teologo, bensì un politico, e se avesse predicato la non violenza unilaterale si sarebbe inevitabilmente comportato come un incosciente o un imperdonabile ingenuo. Neppure gli esseni, che pur s'erano ritirati nel deserto a vivere un'esistenza molto simile a quella del comunismo primitivo, vollero astenersi dal partecipare attivamente alla grande guerra giudaica del 66-70 d.C. Non a caso i Romani, con le loro legioni, posero fine anche alla loro esperienza comunitaria.
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Fatte le sue debite precisazioni metodologiche, l'autore passa a elencare le quattro tesi fondamentali che, a suo parere, si possono proporre per capire la politicità del Cristo: 1) Gesù “attivò nel suo ambiente la speranza ch'egli avrebbe esercitato il potere in veste di messia. Egli fu crocifisso... in base all'imputazione politica di essere il re dei Giudei, il messia. Ciò non vuol dire, però, ch'egli abbia ritenuto d'essere il re messianico”. Il che, detto altrimenti, starebbe a significare che Gesù era sì un politico, ma non come la gente comune si aspettava. Era un politico sui generis, difficile da capire, in quanto, tanto per fare un esempio, il “suo regno” non voleva essere di questo mondo.
Tuttavia, siccome Theissen non vuol perorare l'opinione di chi ritiene che Gesù sia stato ucciso soltanto per un errore d'interpretazione circa il suo operato (anche perché un'opinione del genere indurrebbe a credere che lo stesso Gesù non sia stato sufficientemente chiaro nell'esporre le sue intenzioni), ha bisogno d'inventarsi qualcos'altro. In altre parole, se fosse vera l'idea del fraintendimento, e dando per scontato che Gesù non poteva essere ambiguo quando parlava, bisognerebbe capire su chi far ricadere la principale responsabilità della sua morte: sui suoi seguaci, che pretendevano da lui cose che non avrebbe mai potuto né voluto concedere? Oppure sui suoi nemici, che credevano di vedere nella sua predicazione una minaccia che nella realtà non esisteva? Due atteggiamenti, questi, che ricorderebbero sia quello dei discepoli di Emmaus, i quali si aspettavano da Gesù la liberazione della Palestina, senza capire che il suo mandato era più teologico che politico; sia quello di Pilato, che l'avrebbe giustiziato solo perché posto sotto pressione da parte delle autorità religiose.
A parere di Theissen è fuori discussione che si debba sostenere la tesi della politicità assolutamente non violenta da parte del Cristo. Di conseguenza non si può accettare l'idea ch'egli volesse porsi in maniera strettamente messianica. Infatti, secondo l'opinione dominante (alleata o nemica del Cristo) una qualunque pretesa messianica sarebbe stata inconcepibile senza l'uso della forza militare. Gesù quindi veniva considerato un “messia tradizionale” esclusivamente dai suoi seguaci o dai suoi nemici, ma in lui dominava un'idea più vicina a quella del “segreto messianico”, delineata nel vangelo marciano, nel senso ch'egli si sentiva sì un politico, in quanto aveva accettato di predicare pubblicamente, ma non secondo i criteri dominanti.
Ora, chiunque può rendersi facilmente conto che questo modo di ragionare è molto ambiguo. O Gesù non aveva alcuna intenzione di cacciare i Romani dalla Palestina e i sadducei dal Tempio, e allora tutto il discorso sulla sua politicità è fuori luogo, oppure se aveva davvero questa intenzione, non poteva rinunciarvi solo perché tra la popolazione oppressa vi era chi pensava che dovesse farlo secondo le tradizionali caratteristiche, molto violente, di un sovrano di tipo davidico. Se l'obiettivo della liberazione nazionale viene considerato giusto da una forza popolare sufficiente a realizzarlo, non ci si può far condizionare da chi ha in mente delle strategie diverse dalla propria. Semmai ci si confronterà su tali strategie, facendo p.es. capire ai tanti ebrei desiderosi di un leader autoritario, che la liberazione nazionale doveva vedere impegnato l'intero popolo o quantomeno un'ampia maggioranza, cioè doveva essere qualcosa di altamente democratico, anche perché solo così si sarebbe potuto affrontare il peso delle legioni che sicuramente Roma avrebbe inviato per sedare la rivolta. Quindi al massimo si può pensare che Gesù non avvalorasse l'idea infantile di un messia autoritario, che s'impone con la forza del proprio carisma e delle armi dei propri seguaci sull'intera Palestina, ma non che fosse contrario a porsi come messia liberatore in senso esplicitamente politico.
Sotto questo aspetto la seconda tesi, riportata da Theissen, si squalifica da sola: “Gesù ha rifiutato la costrizione e la forza in quanto era solo un propugnatore dell'etica dell'intenzione apolitica”. Infatti, se è vero che nessuna rivoluzione, che voglia durare nel tempo, può essere imposta con la forza o con la volontà autoritaria di qualcuno, è anche vero che sono soltanto le circostanze concrete che possono decidere quando e dove è il momento di compierla; e in queste circostanze è decisiva la volontà popolare, che è l'unica a poter garantire, con un minimo di sicurezza, la riuscita dell'impresa.
La terza tesi proposta da Theissen è la spiegazione definitiva delle precedenti: Gesù non è stato giustiziato “per un equivoco politico. Egli piuttosto sostituì la politica di violenza con la politica simbolica” (p. 152). Theissen si rende conto che se si sostiene la tesi dell'equivoco politico si fa degli ebrei e persino dei Romani un popolo di mentecatti, che non sa quello che fa. Sicché propone una soluzione ambigua, che duemila anni fa si sarebbe potuta capire, secondo lui, con un certo sforzo intellettuale (magari cercando di avere un atteggiamento più disponibile al dialogo): Gesù era sì un politico, ma come avrebbe potuto esserlo un “teologo della politica”, cioè solo in maniera indiretta o pre-politica. Egli avrebbe gettato un sasso, che altri poi avrebbero dovuto raccogliere.
Un bel modo, questo di Theissen, di arrampicarsi sugli specchi. Alla fine del suo ragionamento vien spontaneo chiedersi se davvero gli ebrei avrebbero potuto capire un leader così arzigogolato. Che cos'è infatti una “politica simbolica” se non una forzatura intellettualistica? Invece di discutere se e in che misura la politicità del Cristo si poneva in maniera democratica rispetto alle concezioni della politica del suo tempo, si preferisce impegnarsi in disquisizioni sofistiche circa la natura violenta o non violenta del suo messaggio rivoluzionario, come se il carattere violento di una qualsivoglia ideologia politica possa essere deciso filosoficamente, cioè in astratto, a prescindere dalle situazioni oggettive di spazio e di tempo.
Alla fine, se davvero il Gesù di Theissen fosse reale (ma appare piuttosto una sua proiezione da teologo), sarebbe impossibile invalidare la tesi secondo cui egli è stato eliminato per un “equivoco politico”. Solo che, se si volesse restare coerenti alle elucubrazioni di Theissen, bisognerebbe aggiungere che Gesù è stato equivocato proprio per colpa sua, avendo egli proposto un tipo di politicità di livello troppo elevato (nella sua simbolicità) per essere facilmente compresa. E non è che la colpa può essere attenuata dicendo ch'egli era così convinto del valore di tale simbolicità da essere persino disposto a farsi ammazzare.
Chi sostiene l'inevitabilità della morte del Cristo o è un antisemita o è un mistico. Delle due infatti l'una: o la politica simbolica del Cristo non poteva essere compresa da un popolo pervicacemente attaccato a concezioni superate della politica, o non poteva essere capita da nessun popolo, poiché con essa s'introduceva l'idea che nessuna politica, essendo semplicemente di natura umana e non divina, può realizzare sulla Terra i propri obiettivi.
Di qui il senso della quarta tesi di Theissen, la più assurda: Gesù voleva proporre alla “gente semplice” l'immagine “di un re ideale clemente” che esige “un'autolimitazione del potere”. Un modello di sovranità – come si può ben notare – del tutto utopistico, che al massimo potrebbe funzionare in una società priva di conflitti di classe, dove però non avrebbe alcun senso nemmeno la presenza di un “re”. Questi sono ragionamenti abbastanza patetici, che possono venire in mente soltanto a docenti cattedratici, a teologi che certamente non possono mettersi dalla parte della gente che soffre e che ha bisogno di riscattarsi qui ed ora.
Ecco un esempio del misticismo di Theissen, che pur viene osannato dagli esegeti per aver introdotto nello studio dei vangeli importanti elementi di sociologia (weberiana): “Nella generazione precedente la nostra si era praticamente tutti concordi nel ritenere che Gesù non si fosse considerato il messia e che sarebbe divenuto il messia agli occhi dei suoi discepoli soltanto in virtù delle apparizioni di Pasqua” (p. 154). Si notino i due livelli di misticismo, di cui uno palese: gli esegeti credevano reali le apparizioni del Cristo risorto; e l'altro implicito: gli esegeti, influenzati da una plurisecolare storia della Chiesa, non credevano possibile che Gesù si fosse posto come messia politico, per cui prendevano i vangeli alla lettera.
E come avrebbe superato Theissen questo limite dovuto alla propria educazione religiosa? Dicendo appunto che Gesù accettava sicuramente il titolo di messia, ma non secondo le aspettative dei suoi discepoli. Può esser vera questa cosa? Sì, ma non secondo quanto pensa Theissen, per il quale Gesù voleva essere soltanto un messia simbolico, pacifista à tous prix, disposto anche al martirio. Bisognerebbe piuttosto dire che Gesù voleva essere un messia politico-democratico, cioè un liberatore nazionale che non può far nulla senza un significativo consenso popolare. Se non si accetta una definizione del genere, inevitabilmente, anche quando si dice di ammettere l'idea di un Cristo politico, cioè messianico, si è poi costretti ad associare tale messianicità a qualcosa di mistico, nel senso che il Cristo annunciava la venuta del “regno di Dio” o che egli stesso si sentiva “figlio di Dio”, e altre amenità del genere, tutte inventate dalla Chiesa post-pasquale.
Theissen infatti conferma il proprio misticismo dicendo che era Gesù stesso a sostenere che la sofferenza del messia sarebbe stata inevitabile. Col che egli non comprende la differenza tra “possibile” e “inevitabile”, e dà per scontato che gli apostoli non fossero armati: riprendendo il versetto di Lc 22,38, sostiene che al massimo le spade, a disposizione del movimento, fossero soltanto due! “Con due spade non si può certo fare la rivoluzione, ma bastano a spiegare l'equivoco per il quale Gesù venne messo erroneamente 'nel numero dei malfattori' (Lc 22,37=Is 53,12)” (p. 158). Davvero due sole spade erano sufficienti a considerare Gesù, agli occhi di Roma, rappresentata da Pilato, come un pericoloso sovversivo? Per due sole spade fu necessario inviare l'intera coorte ad arrestare Gesù sul Getsemani? E l'occupazione del Tempio, come interpretarla? Per Theissen la stessa parola “occupazione” è fuori luogo, in quanto si trattò di una semplice “purificazione”, avente appunto un carattere simbolico.
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Vediamo ora la seconda parte dell'articolo, che è un approfondimento della prima.
Le domande sulla politicità di Gesù, sintetizzate da Theissen, sono le seguenti: 1) Gesù era forse tanto impolitico da non essere minimamente consapevole dell'inconciliabilità della non violenza col potere politico? 2) Politicamente venne frainteso da tutto il suo ambiente (seguaci e avversari insieme)? 3) Era politico in un modo diverso?
Ovviamente Theissen si vuole concentrare sull'ultima domanda al fine di sostenere la tesi (intellettualistica) della politica messianico-simbolica. Quest'ultima però risulta così difficile da capire che Theissen suppone che debba esserci stato un minimo di fraintendimento. Forse “Gesù proclamava il regno di Dio, ma questa proclamazione venne interpretata come ispirazione a impadronirsi egli stesso del potere” (p. 160). Perché dice questo? Perché secondo lui anche Flavio Giuseppe aveva frainteso l'operato di Giuda ben Ezechia, che da “maestro” favorevole a una teocrazia radicale sarebbe stato considerato un vero e proprio sobillatore che fece piombare la Galilea nel caos.
Di conseguenza Theissen si chiede, facendolo passare per uno sprovveduto, se anche Pilato non sia stato oggetto, nei confronti del Cristo, di un medesimo malinteso. Cioè Pilato avrebbe eliminato uno che non aveva alcuna intenzione di diventare sovrano d'Israele, in quanto il suo obiettivo era semplicemente quello di porre alcuni gesti simbolici per far capire al nemico che doveva comportarsi diversamente: un po' come quando, in un rapporto d'amore, ci si limita a dei preliminari soltanto per far capire al partner che teoricamente si potrebbe anche andare oltre. Lo stesso Pilato – osserva Theissen – si fece propugnatore di tale politica quando cercò di far entrare a Gerusalemme sia degli stendardi con emblemi imperiali, che degli scudi votivi, e anche quando iniziò a coniare monete con simboli culturali pagani.
Theissen non si rende conto che la rivoluzione non è un gioco. Quando un popolo opprime militarmente un altro popolo, prima o poi lo scontro violento diventa inevitabile. La sopportazione delle sofferenze, oltre un certo livello, non va. Si può stuzzicare il nemico in varie maniere, per far capire che non si è delle pecore da tosare, ma poi viene il momento in cui vanno prese delle decisioni irrevocabili. In tal senso il torto degli ebrei non sta nel fatto di non aver capito che Gesù era un messia politico-rivoluzionario, ma sta nel fatto di non averlo sostenuto con forza e decisione nella sua idea di democrazia popolare, secondo cui, di fronte a un intero popolo disposto a ribellarsi, non c'è oppressione che tenga. Quando infatti decideranno di reagire militarmente contro quella romana, lo faranno in maniera scomposta, con fare anarchico o autoritario, votandosi a sicura sconfitta. A quel tempo, infatti, nell'ambito dell'autoritarismo, nessuno era più organizzato dei Romani. La democrazia rivoluzionaria può vincere solo se sostenuta da una volontà popolare.
Quali sarebbero stati – secondo Theissen – i gesti simbolici compiuti da Gesù? Gli esorcismi (sic!), l'istituzione di una sorta di “governo-ombra” quando scelse i Dodici apostoli, l'ingresso messianico a Gerusalemme in groppa a un asino, la cacciata dei mercanti dal Tempio. Secondo l'esegeta Gesù non cercò mai di attaccare direttamente le istituzioni giudaiche e romane. Questo perché – si potrebbe chiosare l'autore con un linguaggio moderno – Gesù era un semplice “riformista”, non un rivoluzionario vero e proprio, era uno cioè che preferiva la tattica morbida, progressiva, prudente, non necessariamente radicale, se non appunto negli aspetti simbolici o metaforici. Gesù sarebbe stato uno stratega dello “step by step” ad libitum, sicché non avrebbe mai potuto prendere una decisione risoluta, unilaterale, per far capire che la fase uno, quella diplomatica, era finita.
In altre parole il Gesù del teologo luterano avrebbe confidato nell'intelligenza del nemico, nel buon senso di chi deve capire che, se si vuole restare al potere, non si deve tirare troppo la corda, non si devono esasperare gli animi, e soprattutto non si devono andare a toccare gli elementi sensibili che caratterizzano l'identità culturale di un popolo, i suoi valori etico-religiosi, etnico-linguistici, ecc. Insomma Gesù non ebbe mai intenzione di occupare né il Tempio dei sacerdoti, né la fortezza Antonia dei Romani, né il palazzo di Erode; e tanto meno sarebbe stato disposto a compiere un'insurrezione nazionale partendo dall'occupazione della Città Santa e cercando poi una collaborazione fattiva, su un piano paritetico, con tutte le popolazioni oppresse della Palestina, a partire da quelle giudicate “eretiche” come i Samaritani, a quelle considerate poco ortodosse come gli Idumei, sino a quelle dichiaratamente pagane come i cittadini della Decapoli, della Siria, della Fenicia, ecc.
La realizzazione dell'obiettivo della liberazione nazionale si poteva fare in modo non violento? È proprio questo il punctum dolens di tutta la costruzione artificiosa di Theissen. Non è chi compie la rivoluzione che decide se essere o no violento. È semmai chi non vuole rassegnarsi a rinunciare all'oppressione che lo decide. La non violenza non può essere ipostatizzata, come se fosse un idolo da adorare. Se e quando l'obiettivo della democrazia è ritenuto giusto dalla volontà delle masse popolari, la violenza diventa solo una legittima difesa contro chi vuole imporre la dittatura. Questo è l'abc della rivoluzione popolare. In caso contrario si fa solo del terrorismo o si fanno i colpi di stato militari. Una qualunque politica simbolica deve prima o poi diventare reale, se vuole apparire credibile. Non si può illudere una popolazione oppressa, non la si può prendere in giro, non si può pretendere ch'essa non abbia diritto a trarre le debite conseguenze operative davanti a determinati e reiterati gesti simbolici dal sapore eversivo.
L'ultima parte dell'articolo di Theissen è semplicemente indegna di un esegeta che presume di vedere nella volontà del Cristo un'intenzione politica. Sarebbe stato meglio continuare con le solite esegesi confessionali che negano al Cristo una qualunque caratterizzazione eversiva o sediziosa, e si limitano a considerarlo un maestro di vita o un profeta escatologico o un martire non violento di una giusta causa etico-religiosa. Dire infatti che Gesù voleva realizzare l'ideale del “sovrano clemente”, che vorrebbe amare i propri nemici, e concepire la politica come puro servizio altruistico, considerando la pace come valore supremo della politica, significa prendersi gioco non solo di lui, ma anche di tutti i popoli oppressi dalla storia. È ora di finirla col dire che il ricorso alla forza per realizzare il bene contraddice la natura stessa del bene. Sostenere aprioristicamente che non si ricorrerà mai alla forza per difendere il bene, significa, sic et simpliciter, mettersi dalla parte di chi compie il male. Non capire la differenza tra un bene vissuto nella pace e un bene da viversi nell'oppressione, vuol dire non capire niente della vita o, nel peggiore dei casi, stare dalla parte del nemico, anche quando si pensa che non sia vero.
(torna su)17) Il Gesù “comunista” di Costanzo Preve
I
Mi chiedo dove Costanzo Preve, allorché parla su “Marx 101” (n. 7/1989), di riprendere il confronto tra marxisti e credenti, abbia mai letto che il “marxismo non sia, almeno dal punto di vista teoretico, una forma di ateismo”: forse nei Manoscritti del 1844, laddove Marx sostiene che “l'ateismo è sì una negazione di dio e pone attraverso questa negazione l'esistenza dell'uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha bisogno di questa mediazione”?
Se è così, allora bisogna subito precisare che il socialismo, specie quello “qua talis”, cioè quello democratico, non s'è mai realizzato, né nell'Europa dell'est, né, ancor meno, in quella dell'ovest. O forse Preve intendeva dire che se l'esigenza di costruire il socialismo democratico dipende dall'atteggiamento assunto nei confronti della religione, allora è preferibile non parlare di “ateismo”, onde permettere ai credenti di meglio coinvolgersi nell'impresa?
Persino un ente “insospettabile” come il “Pontificio Consiglio per il dialogo coi non-credenti” sa comportarsi con maggiore coerenza. Infatti, nei due simposi organizzati con alcuni specialisti est-europei, su “scienza e fede” e “società e valori etici”, non si è per nulla preoccupato di mascherare le diversità; anzi, ha chiesto che gli interventi fossero il più espliciti possibile, anche in direzione dell'ateismo, nella consapevolezza che sul piano ideologico la convergenza resta alquanto improbabile.30
Ma allora – ci si può chiedere – perché dialogare? Per due semplici ragioni: la prima è che ci sono molti problemi comuni da risolvere (la pace, i diritti umani, l'ecologia, i valori della vita ecc.); la seconda è che il dialogo fa bene alla “salute spirituale”, nel senso cioè che cura taluni malesseri tipici dell'uomo moderno: la sclerosi intellettuale, le fissazioni maniacali, i complessi di superiorità o di persecuzione.
In definitiva, la sostanza del problema qual è? È possibile dialogare coi credenti in qualità di non-credenti, oppure il dialogo è possibile solo quando non è in gioco la weltanschauung? Il suddetto Consiglio ha risposto di “sì” ad entrambe le domande; Costanzo Preve invece vi ha risposto di “no”. “No” alla seconda perché, ovviamente, un dialogo che si limitasse a questo finirebbe con l'impoverirsi; ma “no” anche alla prima perché, a suo giudizio, le posizione ateistiche sono superate.
Qual è la sua proposta? Quella di riprendere le idee, molto apprezzate dai cattolici, del neo-marxista Ernst Bloch, il cui marxismo – lascia intendere Preve – non è così “esplicito”, così “immediato”, così “fastidioso”. Il suo stesso ateismo è più che altro una provocazione a “credere meglio”, una sfida, non certo una convinzione autenticamente laica. “Non ci sono in Bloch gli estremi per separare teologia e politica” – dice Preve con soddisfazione (oggi neppure la peggiore ideologia borghese aspira a tenerle unite).
L'eclettismo di Costanzo Preve, tuttavia, non finisce qui. Con pregiudizio e una punta di vanità, egli squalifica la “demitizzazione” iniziata da Bultmann soltanto perché la ritiene inutile “per una fondazione di una prassi di liberazione”. Errore madornale, in quanto tutta la critica che nell'ambito della religione porta all'ateismo può essere molto utile a tale prassi, seppure indirettamente. La Chiesa infatti l'ha capito e ha tradotto le opere di Bultmann solo quel tanto che bastava per non fare una meschina figura di provincialismo.
Preve inoltre sostiene che nella teologia della liberazione non c'è quasi traccia di marxismo. Altro errore madornale. Senza il marxismo non esisterebbe neppure la TdL, la quale, se ha un limite non è certo quello di non usare categorie strettamente marxiste, ovvero di non rifarsi in toto al marxismo (il che oggi, semmai, è un pregio), bensì quello di avere la pretesa di superare o inverare il marxismo dal punto di vista della religione (che fu poi la pretesa di Comunione e Liberazione agli inizi degli anni Settanta). Nelle sue espressioni migliori (in questo CL non l'ha mai eguagliata), la TdL è rimasta affiliata al marxismo teorico, tanto che ancora oggi costituisce una delle correnti ecclesiali più significative con cui dialogare. Gli Usa e altri governi sudamericani da tempo l'hanno capito e da tempo emanano direttive per eliminarla.
Preve critica aspramente anche un luogo comune, da lui ritenuto il “più noto”, che a me pare, in verità, assai poco “comune” e addirittura privo di un vero “luogo”. Eccolo: “il marxismo può essere radicale nei confronti della fede religiosa solo a condizione di riaffermare senza compromessi il proprio ateismo”. Ora, quando mai un marxista democratico ha affermato una sciocchezza del genere? E se l'ha fatto, in quanti gli hanno creduto? L'ateismo marxista è volgare o scientifico? È un'interpretazione razionale del fenomeno religioso o una bandiera da conficcare nella testa dei credenti?
Inoltre è davvero singolare che Preve voglia limitare la vasta critica della religione compiuta da Marx al rapporto tra “feticismo religioso” e “feticismo economico”, così come appare nel Capitale. Sia la religione che l'ateismo sono fenomeni molto complessi, tanto che lo studio dei loro reciproci rapporti si può dire che sia appena uscito dalla culla. Se poi si ha addirittura il coraggio di sostenere che la nozione di “feticismo religioso” non è “una vera e propria categoria scientifica”, bensì una “metafora per comprendere la divinizzazione e l'eternizzazione abusiva delle categorie economiche vigenti nel modo di produzione capitalistico” – allora si sono fatti “due passi indietro”, poiché non si è compreso che l'esigenza della religione è strutturale al capitalismo, come ad ogni società basata sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Preve non sarà per caso uno di quelli che ritiene impossibile qualificare come “scientifico” l'ateismo, in quanto non sarebbe possibile dimostrare l'inesistenza di dio? Se è così (e su questo andrebbe esaminata attentamente tutta la polemica che ha indotto “La nuova ragione” – la rivista dell'Associazione Giordano Bruno – a separarsi dalla “Ragione” “tradita”), non si può fare altro che ricitare il Marx dei Manoscritti di Parigi, il quale, a chi gli chiedeva, con fare sofistico: “Chi ha generato il primo uomo e in generale la natura?”, rispondeva, serafico: “La tua domanda è essa stessa un prodotto dell'astrazione”.
Viceversa, per Costanzo Preve tale domanda “non è affatto ingenua”, poiché essa “presuppone un universo d'interesse, entro cui quell'interrogativo ha un senso”. Perfettamente vero, ma questo non toglie che la domanda, in modo oggettivo e reale, cioè a prescindere dalle intenzioni di chi la pone, vada considerata per quello che è: una forma di alienazione. Che poi “in molte tradizioni religiose il problema dell'ateismo non si sia mai posto” – come vuole Preve e, con lui, molti altri ideologi che non sanno scorgere accanto alla religione anche la sua “critica” –, ciò non può certo significare che le domande religiose siano di per sé più interessanti di quelle ateistiche o che debbano essere considerate come più “sentite” dagli uomini. In Italia, p.es. non esiste ancora il socialismo, ma si può forse dire che nessuno ne avverta l'esigenza o che tale esigenza sia meno significativa rispetto a quella, ancora dominante (stando ai principali media), del capitalismo? Forse gli uomini primitivi che per un milione di anni hanno vissuto senza religione, si ponevano, solo per questa ragione, meno domande o domande meno importanti dei credenti di oggi?
O forse Preve ci vuole suggerire – ma questo sarebbe davvero grave – che è possibile vivere una forma di religiosità per così dire “purificata”, “arazionale”, tale per cui il sorgere dell'ateismo sarebbe molto improbabile? Se questa non è la sua preoccupazione perché citare in nota, condividendolo, l'articolo di C. Sini apparso su “Rinascita” (19/07/1986), il quale, con l'astuzia di uno che per evitare una trappola difficile cade in una facile, sostiene (cito le parole riportate da Preve) che “non si può decidere fra teismo e ateismo, perché i termini tradizionali della questione sfumano oggi nell'insensato”. Sulla vuotaggine del “teismo” in effetti si potrebbe anche essere d'accordo, ma un “ateismo problematico” – come Sini va predicando – non è altro che un “agnosticismo di maniera” (tanto più ridicolo quanto più pretende d'essere di “sinistra”).
Lo dimostra anche, in una nota di Preve, il riferimento compiaciuto a una lettera privata di L. Althusser, il quale afferma: “l'ateismo è un'ideologia religiosa... il marxismo non è un ateismo (in questo preciso significato)... non c'è conflitto di principio fra la religione e l'ateismo... l'ateismo come sistema teorico è sempre un umanesimo ed ogni tipo di umanesimo è un'ideologia di essenza religiosa”.
Non c'è “conflitto di principio”? Forse perché fino a quando si parlerà di “ateismo” bisognerà per forza supporre la presenza della religione? Ma l'alienazione non va forse combattuta, democraticamente, o dobbiamo aspettare ch'essa si estingua da sola?
Le tesi di Althusser avevano fatto il loro tempo ben prima ch'egli morisse. Dopo aver abbandonato la politica, Althusser aveva invano cercato un'impossibile “purezza” di Marx sul piano scientifico, convinto che le rivoluzioni fossero l'esito di eventi ineluttabili, a prescindere dalla volontà dei soggetti. Con fare tipicamente positivistico, egli cercò la perfezione del marxismo nella “teoresi”, cioè nell'analisi economica affrontata in modo filosofico, disprezzando infinitamente ogni forma di “umanesimo”: il soggetto, per lui, era troppo contraddittorio perché il marxismo potesse farsene carico. Di qui la sua ben nota e triste formula: “La storia è un processo senza soggetto”. Ovvero il soggetto rivoluzionario sono masse popolari i cui singoli individui hanno tutti la stessa faccia, poiché ciò che più conta è la loro capacità di adeguarsi a un fine o a una volontà che li trascende. Veramente C. Preve detesta l'idea che il marxismo possa essere considerato come un integrale umanesimo?
II
L'altro problema che Preve affronta nel suo saggio è il seguente: “com'è stato possibile che il cristianesimo abbia potuto sopravvivere, ed anzi prosperare, dopo la smentita della sua promessa massima e centralissima, quella della parusia, del secondo avvento del Cristo trionfante e del regno di Dio?”.
La domanda non è posta bene, però se ne intuisce lo stesso il significato. Cristo infatti non ha mai predicato alcuna “parusia”, ma semplicemente l'imminenza del regno (di “dio” è stato aggiunto da discepoli già estranei all'impegno politico, che, per questa ragione, elaborarono anche il concetto di “parusia”, onde ridare speranza a chi voleva andarsene dal movimento nazareno). Ma di imprecisioni come queste l'articolo è pieno: ad es. Preve afferma che “il sacramento della comunione deriva dai due dogmi dell'incarnazione e della transustanziazione”, quando, semmai, è vero il contrario. I sacramenti facevano parte della “prassi” primitiva della Chiesa apostolica: i dogmi emersero per espellere l'eresia dalla comunità.
La risposta che Preve dà alla suddetta domanda si biforca in due rivoli: il primo parte da una tesi di M. Weber, secondo cui “ad una fase 'settaria' delle religioni, caratterizzate da aspettative di tipo messianico ed escatologico, succede inevitabilmente una fase maggiormente 'quotidiana', in cui la secolarizzazione dell'originario contenuto messianico razionalizza gli ambiti 'mondani' dell'esistenza fino all'estinzione pressoché integrale del contenuto messianico stesso”.
Su questo due parole, prima di passare al secondo aspetto. Il movimento promosso da Cristo non fu affatto “settario”, né sul piano interno (in quanto si voleva una “rivoluzione di popolo” antiromana, con farisei, zeloti, esseni, battisti... alleati), né sul piano esterno (i numerosi rapporti con gli ambienti di cultura greca lo dimostrano). Che alle aspettative messianiche succeda “inevitabilmente” una fase “quotidiana”, questo può dirlo un sociologo borghese come Weber, ma fa specie che lo ribadisca anche Preve.
La pretesa “inevitabilità” di un processo del genere non può certo tenere in considerazione la natura delle “deviazioni” o dei “tradimenti” (più o meno coscienti) di cui il messaggio di Cristo è stato fatto oggetto. Parlare poi, al negativo, di “secolarizzazione dell'originario contenuto messianico” fa davvero ridere, poiché le aspettative di tipo “messianico” (sulla cui liceità si può sempre discutere, tant'è che anche il Cristo rifiutava, in certi casi, l'appellativo di “messia”) non riguardano certo la sola coscienza religiosa. Weber è un sociologo borghese non solo perché rifiuta il concetto di “rivoluzione”, ma anche perché squalifica per principio ogni attesa di cambiamento reale, bollandola col marchio di “messianismo religioso”.
Il secondo aspetto, di cui sopra, è preso a prestito da una frase di G. Lukács, il quale si richiama “all'intatto fascino che da questi due millenni irradia dall'immagine della personalità del Gesù neotestamentario”. Di che “fascino” si tratta? Questo – a detta di Preve – è il punto più importante della sua discussione. Qui però non vogliamo addentrarci in un'analisi su Lukács, e neppure possiamo perdere tempo a rilasciare attestati di merito a Preve per quelle parti del suo saggio condivisibili al 100%.
Ci limiteremo semplicemente a fare alcune osservazioni. Anzitutto ci spiace che l'autore metta sullo stesso piano “protestantesimo” e “cattolicesimo”. Ormai anche le pietre sanno che le migliori ricerche scientifiche sul cristianesimo primitivo sono state prodotte solo in ambito protestante (molte di esse, e non a caso, portano diritto all'ateismo).
È vero, in via di principio (anche se invece sul piano del “giudizio storico” l'ha fatto) il marxismo non può preferire il protestantesimo “borghese” al cattolicesimo “feudale” (in fondo la Teologia della liberazione è nata in un contesto cattolico), ma se non siamo davvero dei “gonzi” – come vuole Preve –, non si deve neppure diventarlo evitando di ammettere la netta superiorità “critico-teorica” del protestantesimo rispetto al cattolicesimo (la superiorità di quest'ultimo va semmai registrata sul piano etico-sociale). L'unico Paese capitalista in cui l'ideologia cattolica è un po' avanzata è la Francia, ove i teologi, forti delle tradizioni gallicane, possono appropriarsi, con relativa facilità (salvo poi “purgarle” quanto basta), delle migliori conquiste del pensiero evangelico. Persino la famosa frase che Preve attribuisce a Loisy: “Cristo predicò il regno di Dio ed è venuta la chiesa”, è stata detta da un teologo tedesco, von Harnack.
Così pure, l'entusiastico apprezzamento di Preve per il “metodo della storia delle forme” non fa che attestare la superiorità esegetica dei protestanti. Anche qui tuttavia bisogna stare attenti: la Formgeschichte (non meno peraltro della Redaktionsgeschichte) ha aiutato a “demitizzare”, cioè a smascherare censure, strumentalizzazioni e falsi (e il lavoro continua!), ma non ha mai aiutato a capire, in positivo, da un punto di vista strettamente laico-scientifico e umanistico, in che cosa il messaggio di Cristo poteva o può ancora oggi essere considerato “politicamente rivoluzionario”. In questo senso fa bene Preve a contestare Bultmann, ma fa male a contrapporgli Schweitzer: nessuno dei due, infatti, ha saputo impostare il problema.
Meglio sarebbe – e su questo anche Preve è d'accordo – riprendere il discorso, lasciato in sospeso poco prima dell'attuale ricaduta conservatrice, che una certa lettura “materialistica” dei vangeli, orientata a sinistra, aveva inaugurato, a partire dalle opere di Belo, Girardet e prima di loro Brandon. Grazie a questa esegesi si era arrivati alla conclusione che Gesù fosse stato un comunista ante-litteram (il che certo non avrebbe incontrato il consenso di un grande storico delle religioni come A. Donini). Tuttavia, secondo Preve si tratterebbe semplicemente di un “comunismo della distribuzione”... Come se una “distribuzione” comunista possa realizzarsi a prescindere da una “produzione” comunista!
Il limite maggiore di quella famosa lettura “materialistica” stava in realtà nel fatto che tutti gli autori si dichiaravano “credenti”. Belo, Girardet e Brandon erano addirittura preti o pastori: il che non poteva non influire sul modo d'intendere la presunta “divinità” del Cristo.
Naturalmente per poter superare tale limite non basta riprendere le loro ricerche dichiarandosi “atei”, ma non serve neppure proclamare – come fa Preve – che Gesù fu un “comunista”. Il solo modo scientifico sarebbe quello di corredare le proprie tesi di dati concreti alla mano, ma fino ad oggi l'unica cosa di rilievo che si è riusciti a dimostrare è stata la tendenziosità delle fonti neotestamentarie, frutto di una posizione politica conciliante verso il potere costituito. Si è insomma, per dirla con Althusser, “lavorato sui fantasmi”, e più di così, allo stato attuale delle fonti, non è possibile fare.
(torna su)18) Ha senso la teologia ateistica di Paul van Buren?
“La gente chi dice che io sia?” (Mc 8,27) – Gesù chiedeva ai suoi discepoli. E quelli riportavano le varie interpretazioni, una diversa dall'altra: “Sei come il Battista, come Elia, come uno dei profeti antichi...”.
Ebbene, non si capisce perché gli esegeti confessionali considerino le interpretazioni di quelli laici come delle assurde proiezioni dei loro desideri. Pensano che rifarsi a interpretazioni consolidate nel tempo sia il modo più sicuro per non sbagliare. Come se la storia non fosse piena di esempi che dimostrano il contrario: si pensi solo alle fantasiose credenze astronomiche.
Semmai dovrebbero dire che, nonostante per molti secoli si sia creduto in falsità, inesattezze o mitologie, gli esseri umani han potuto ugualmente vivere in maniera sobria e tranquilla; ovvero che, se e quando avvenivano delle tragedie, ciò non era da imputarsi alla loro ignoranza, bensì ai loro interessi smodati. Se lo facessero, potrebbero anche sostenere una tesi rovesciata – e nessuno avrebbe l'ardire a smentirli –, quella secondo cui non per il fatto d'aver acquisito maggiore consapevolezza delle cose, l'uomo odierno è più capace di comportarsi in maniera sobria e tranquilla.
Purtroppo invece gli esegeti confessionali s'intestardiscono a difendere le loro posizioni di potere, i loro privilegi acquisiti, per cui, quando incontrano chi non la pensa come loro, subito lo attaccano da tutte le parti. La Chiesa cristiana non smette mai di perseguitare chi professa idee eretiche.
Una categoria di esegeti particolarmente ostracizzata fu quella appartenente alla corrente di pensiero chiamata “Teologia della morte di Dio”, affine, ma solo per certi versi, a un'altra corrente, quella della “Teologia secolare”, entrambe sviluppatesi in ambito protestantico. Quest'ultima (i cui principali esponenti furono D. Bonhoeffer, J. A. T. Robinson, H. Cox, G. Vahanian e L. Dewart) prese atto che nella cultura secolarizzata del mondo contemporaneo la morte di Dio può essere considerata un dato sociologicamente acquisito, per cui essa si sforzò di trasmettere, in maniera obliqua o indiretta, un messaggio religioso per così dire “laicizzato”, cercando di salvaguardare, nel mare magnum dell'indifferenza religiosa, l'importanza dell'idea di “divinità”, come esperienza del “totalmente altro”.
Viceversa, i teologi della morte di Dio cominciarono a sostenere, negli anni Sessanta, che qualunque riferimento a un'entità divina andava rigorosamente evitato, in quanto il pubblico non avrebbe potuto comprenderlo o accettarlo. Paradossalmente quindi si arrivò a dire che l'unico modo per continuare a essere cristiani era quello di assumere una posizione ateistica.31
A questa corrente appartenevano T. J. J. Altizer, W. Hamilton, P. van Buren, H. Braun e, unica donna, D. Sölle, dei quali i primi tre vengono considerati i più significativi, benché la Sölle sia la più vicina alle idee del marxismo.
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Il più sistematico dei tre è Paul van Buren. Vediamone le tesi salienti. Il suo libro fondamentale è Il significato secolare del Vangelo (ed. Gribaudi, Torino 1969), che gli diede fama internazionale.32 In esso l'autore dichiara esplicitamente di voler applicare ai vangeli i princìpi della filosofia analitica inglese, in specie quella di Wittgenstein (altri filosofi, cui si rifà, sono A. Flew, R. M. Hare, J. T. Ramsey, T. R. Miles, R. B. Braithwaite).
Egli riconosce a Bultmann d'aver prodotto un lavoro considerevole nel cercare di smitizzare i vangeli, ma gli rimprovera di aver concesso troppo all'esistenzialismo di Heidegger, che a van Buren appare come una filosofia cripto-religiosa. Secondo lui è quanto meno incoerente studiare i vangeli come se si fosse atei e poi concludere la propria ricerca sostenendo ch'essi possono comunque offrire uno stimolo per credere in qualcosa di divino.
Van Buren pretende d'essere più radicale e, a tale scopo, si serve del principio di verificazione della suddetta filosofia analitica, secondo cui il significato di una parola sta nell'uso che se ne fa all'interno di un determinato contesto semantico, al di fuori del quale può non avere alcun significato, come p.es. la parola “dio” o la parola “natura”.
Pertanto, se oggi, laicizzati come siamo, ci risulta incomprensibile un qualunque discorso sulla divinità, in quanto non la riteniamo esperibile, l'unico modo per continuare a restare cristiani è quello di non parlarne affatto, nel senso che non è possibile restare fedeli a una tradizione teologica del passato (p.es. quella patristica), usando gli stessi concetti, persino la stessa terminologia dei Padri della chiesa: risulteremmo incomprensibili.
Già A. Ritschl e A. von Harnack si erano accorti – a suo dire – che la teologia del Nuovo Testamento, venendo a contatto col mondo ellenistico e trasformandosi quindi in teologia patristica, era diventata molto astratta e speculativa, trasformando il Cristo in un ente metafisico. Non a caso fu proprio questa teologia a rendersi responsabile dei dogmi della cristologia e a iniziare la persecuzione degli eretici.
Van Buren è convinto che la teologia, per modernizzarsi, abbia bisogno di maggiore antropologia, ma vedremo che, in questo suo tentativo, egli non andrà oltre le tesi di Feuerbach. Quando Engels diceva che Feuerbach costituiva il punto d'approdo di tutta la filosofia tedesca, aveva pienamente ragione (anzi, avrebbe potuto aggiungere “e di tutta la teologia tedesca”). Questo perché, se si vuole portare alle sue estreme conseguenze laicistiche l'idealismo hegeliano, si arriva, al massimo, a professare una sorta di materialismo umanistico e naturalistico o un'antropologia ateistica, oltre la quale, sul piano filosofico, non si può andare.
L'unico modo di superare Feuerbach è appunto quello di superare la filosofia con la prassi politica rivoluzionaria, di cui l'ateismo costituisce un aspetto culturale di secondaria importanza, che si sarebbe imposto da sé una volta risolti i problemi sociali del capitalismo. Questa la lezione di Marx ed Engels.
Purtroppo però van Buren non ha una consapevolezza marxista dei problemi sociali e si limita a fare un discorso filosofico o di teologia laicizzata. Noi però dobbiamo vedere fino a che punto egli si spinge nel delineare una rappresentazione ateistica del Cristo, perché è questa che ci interessa, essendo uno degli elementi fondamentali per iniziare una “Quarta Ricerca” su Gesù (l'altro elemento, ovviamente, è quello relativo alla politicità eversiva).
Tale argomento, infatti, non fu affrontato da Feuerbach, che si limitò a trasformare la teologia in una antropologia filosofica, favorendo, già col lavoro di Bruno Bauer e di David Strauss, un approccio mitologistico o positivistico ai vangeli, quello per cui gli eventi storici, in essi contenuti, sono talmente infarciti di miti e leggende che è impossibile risalire a una verità un minimo attendibile.
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Secondo van Buren la Cristologia del Logos divino fu elaborata in ambienti ellenistici per difendere i cristiani dall'accusa di “adorare” un uomo. Essa si sostituì progressivamente alla Cristologia dello Spirito, secondo cui Gesù era soltanto un uomo in cui albergava lo Spirito di Dio, in maniera analoga al Battista. Ebbene, è proprio quest'ultima Cristologia che – secondo lui – va recuperata, previa epurazione, beninteso, di qualunque riferimento alla divinità, sia esso letterale o simbolico.
L'ateismo va dunque assunto come norma interpretativa della fede. Senza tale premessa metodologica si finisce nei fallimenti delle teologie di Barth (di cui fu discepolo), di Bultmann e di Bonhoeffer, i quali non sono stati capaci di rinunciare a parlare di Dio.
La prima condizione è dunque quella di considerare esclusivamente l'umanità del Cristo, mentre la seconda è quella di ridurre i princìpi teologici a una questione di etica. Se si eliminano dai vangeli gli aspetti mistici, forse è possibile rintracciare in essi degli elementi di autentica storicità.
Ora la domanda cui van Buren cerca di rispondere è la seguente: se i vangeli, una volta purificati del loro misticismo, possono essere usati per ottenere una rappresentazione sufficientemente storica del Cristo, può questa immagine suscitare un interesse da parte dell'uomo contemporaneo? Il problema infatti non è solo quello di ritrovare la storicità del Cristo, ma anche quello di come renderla attuale per il mondo moderno.
Ed ecco la sua risposta: il Cristo mostrò di possedere una libertà eccezionale, con cui poteva apparire sia autorevole che disposto a trattare coi nemici; sia “figlio fedele” che svincolato da ogni soggezione familiare; sia capace di rispettare i precetti religiosi che di scavalcarli completamente. Lo consideravano un maestro, ma egli non si appellava all'autorità della tradizione, anzi sosteneva delle personali interpretazioni della legge mosaica, e senza chiamare in causa l'autorità divina. Non ebbe alcuna preoccupazione per le comodità mondane, né cerco di fare carriera ecclesiastica o politica, anche se mostrava di agire al posto di Dio quando perdonava i peccatori. Il suo modo di vivere era il servizio, la soddisfazione dei bisogni altrui.
Nonostante questo, quando fu arrestato, non uno gli rimase fedele. Egli, in sostanza, non fu capito mentre era in vita, ma solo dopo la sua morte. E – si badi bene – non fu capito perché, dopo morto, “riapparve” – come dicono i vangeli – per spiegare ai suoi discepoli come, d'ora in avanti, avrebbero dovuto comportarsi. Attenzione però che per van Buren la “resurrezione” è solo un concetto interpretativo (di tipo psicologico) della tomba vuota, non un evento storico. Cioè i discepoli cominciarono a capire, dopo la crocifissione, che Gesù non andava solo “ammirato”, ma anche “imitato” nel suo modo di vivere la libertà.33 In un certo senso avevano avuto bisogno che morisse!
È curioso come van Buren, che pur parte da presupposti altamente empirici, finisca col ridurre tutto a una psicologia minimalistica. I discepoli erano finalmente riusciti ad apprezzarlo proprio perché aveva insegnato loro come liberarsi dalla paura di essere diversi, controcorrente; li aveva liberati dall'ansia di non riuscire ad essere se stessi.
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Dunque van Buren professa soltanto un ateismo psicologico. Per quale motivo? Il motivo è molto semplice: egli non afferra minimamente il lato politicamente eversivo del messaggio di Gesù. Arriva a capire che quando Gesù afferma la propria identità col Dio-padre, sta in realtà facendo una professione di ateismo, in quanto è come se negasse l'esigenza di cercare un'entità divina al di fuori dell'uomo. Ma non arriva a capire che tale identità doveva valere per ogni uomo e non soltanto, in via esclusiva, per Gesù.
La prova del nove di questa limitatezza del suo pensiero sta proprio nel fatto che, con una vena di misticismo, arriva a dire che sull'identità di Dio, non potendo essere oggetto di esperienza diretta, è opportuno “tacere” (emulando, in questo, il famoso detto di Wittgenstein, secondo cui “Di ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere”). Tale velato misticismo se lo sarebbe potuto risparmiare se fosse arrivato a dire che non esiste alcun dio che non sia umano, e che qualunque caratteristica che va oltre l'umanità è una violazione, ipso facto, di questa stessa umanità, la cui principale facoltà è quella della libertà di coscienza, l'unica che distingue l'essere umano da qualunque altro essere dell'universo.34
In conclusione, è davvero così diverso il messaggio di van Buren da quello di Bultmann? Diciamo che sul piano terminologico è più radicale, ma su quello esistenzialistico le differenze restano minime. Egli è la classica dimostrazione che il passaggio dall'umanesimo laico o integrale al socialismo democratico non è scontato, cioè non è affatto vero che sia possibile comprendere adeguatamente l'autentico messaggio eversivo del Cristo, prescindendo dai suoi aspetti politici. Quindi non è soltanto vero che è un non-senso l'amore degli uomini nei confronti della divinità (su questo è impossibile dar torto al teologo americano e sacerdote episcopaliano); è un non-senso anche l'amore del prossimo, poiché esso non si giustifica mai da sé, a prescindere dal contesto sociale in cui lo si vuole vivere. Sotto questo aspetto, l'epoca contemporanea non è più vicina a realizzare gli ideali del socialismo solo perché è culturalmente più laica.35
(torna su)19) La teologia ateistica di Altizer
Alla fine degli anni Sessanta negli ambienti protestantici degli Stati Uniti era molto popolare la teologia di Dietrich Bonhoeffer, favorevole a un cristianesimo non religioso (egli fu martirizzato dalla Gestapo il 9 aprile 1945, a 39 anni, dopo due anni di prigionia). Ma erano molto note anche le opere del primo Karl Barth, che all'inizio degli anni Venti, con L'epistola ai Romani, diede inizio a un movimento denominato “teologia dialettica”, in virtù del quale si faceva della relazione paradossale, inconcepibile, di “rottura” tra Dio e il mondo un modo per contrapporsi alla “teologia liberale” di matrice storicistica e romantica, quella di Adolf von Harnack e Ernst Troeltsch, che vedeva invece una continuità tra Dio e l'uomo, considerando la fede come un elemento dell'interiorità psicologica dell'uomo e la teologia come l'analisi storico-critica della Scrittura. Molto apprezzato era anche Paul Tillich, che si preoccupava di dimostrare una certa affinità tra cristianesimo e socialismo, soprattutto in funzione anti-nazistica.36
È questo il background culturale in cui si forma la teologia radicale di Thomas J. J. Altizer, William Hamilton e Paul van Buren (a questa corrente si potrebbero aggiungere i teologi tedeschi Herbert Braun e Dorothee Sölle). Questi teologi raggiunsero una consapevolezza tale dell'importanza dell'ateismo che praticamente da allora le strade ulteriori che si potevano percorrere diventarono soltanto due: uscire definitivamente dalla Chiesa cristiana oppure fare un passo indietro, in direzione di una maggiore religiosità.
Ovviamente la prima alternativa, in sé, non implicava un impegno politico rivoluzionario contro il sistema capitalistico, poiché l'ateismo, se è indicativamente un progresso intellettuale rispetto alla fede religiosa e a qualunque superstizione, non è in grado di garantire una posizione politica davvero innovativa. Di per sé non è neppure in grado di garantire una migliore esperienza pratica dei valori umani. Al giorno d'oggi, poi, si possono trovare atei convinti in qualunque schieramento politico.
La teologia radicale resta comunque interessante perché per la prima volta spinge il discorso religioso verso concetti che il comune credente difficilmente potrebbe accettare, come p.es. “morte di Dio”, “ateismo cristiano”, “Cristo ateo”, ecc. Non a caso Altizer venne minacciato di morte. La sua è una teologia di intellettuali per intellettuali, che non si fa scrupolo di considerare gli irrazionalisti Kierkegaard e Nietzsche come propri maestri. Egli fu professore di Sacra scrittura e Religione presso l'Università di Emory, in Georgia, e la sua opera più significativa è The Gospel of Christian Atheism, del 1966.
Il libro che prenderemo in esame è La teologia radicale e la morte di Dio (ed. Feltrinelli, Milano 1981, ma la prima edizione è del 1969). Vediamone le tesi principali:
anzitutto l'autore sostiene che una teologia così radicale non sarebbe mai potuta nascere in Europa occidentale, poiché qui vi è un passato che frena lo sviluppo del pensiero ateistico in ambito religioso. Gli Stati Uniti invece, privi come sono di un passato culturale significativo, non hanno problemi del genere, per cui i credenti sono come costretti a guardare sempre avanti. Peraltro – dice Altizer – il carattere stesso degli americani è determinato da un certo “utopismo anarchico”, per cui molti credenti protestanti non hanno avuto particolari difficoltà ad accettare la demitologizzazione di Bultmann o l'ateismo di Nietzsche.
Altizer è altresì consapevole che lo stile di vita americano, così profondamente secolarizzato (almeno nella vita pratica), rende impossibile parlare di Dio come se fosse un'evidenza. Se esiste un'evidenza, è semmai opposta a quella cui il credente, nel passato, era abituato: nella società contemporanea Dio ha smesso di esistere.
Altizer dice che di questo si era già accorto Kierkegaard, il quale, parlando di “contemporaneità col Cristo”, finiva con l'azzerare tutta la tradizione storica del cristianesimo, considerandola ininfluente nei confronti della decisione esistenziale che deve prendere un credente.
Tuttavia Altizer non apprezzava Kierkegaard più di tanto, poiché lo riteneva fermo sull'aspetto della “negazione della cristianità”, quando invece il problema è, per lui, quello di creare una dialettica positiva, più vicina alle posizioni nicciane. Nel senso cioè che l'ateismo va considerato come un presupposto che lo stesso credente deve assumere per poter rifondare la propria fede. Ecco perché apprezzava molto di più l'opera di Dostoevskij e di William Blake, i quali “proclamavano un Cristo che può essere conosciuto solo dopo aver ammesso la morte di Dio” (p. 152). Secondo lui anche Hegel aveva compreso la necessità di un “ateismo teologico”.
Sulla base di queste considerazioni Altizer ritiene che negli Usa l'individualismo sia così forte da rendere impossibile una “rivoluzione sociale”. L'unica rivoluzione possibile, secondo lui, è quella del “pensiero”; e un pensiero davvero rivoluzionario è quello che si libera del proprio passato e guarda verso il futuro.
Altizer è contrario a qualunque forma di teologia: kerygmatica, dogmatica, ecclesiale, apologetica, mistica... L'unica possibile è quella del “silenzio”, quella che smitizza le proprie fonti e che assume lo stesso linguaggio del laicismo, tipico delle scienze non religiose, come la logica, la filosofia, la psichiatria e la psicanalisi, la critica letteraria e filologica, le scienze sociali in generale.
Questa mancanza di radici storiche e questo individualismo esasperato rendono possibili le sintesi più diversificate, le forme culturali più mixate, tant'è che non si ha pregiudizi di sorta nell'assumere, sul piano cristiano, tradizioni orientali come il taoismo, il buddismo zen, il tantrismo...
Altizer però rifiuta nettamente tutte le correnti di derivazione gnostica, in quanto le vede come una semplice negazione del mondo, mentre per lui il vero problema è come appropriarsene in maniera intelligente. Il sacro e il profano devono trovare una inedita coincidentia oppositorum, anche usando un linguaggio capace di scandalizzare coloro che temono di compiere salti nel vuoto.
Ma fino a che punto può spingersi la paradossalità di un ateismo cristiano? Altizer preferisce Nietzsche a Kierkegaard in quanto quest'ultimo non ha avuto il coraggio di dire che se Dio non muore, l'uomo non può rinascere. Kierkegaard – secondo Altizer – aveva capito che la filosofia moderna, a partire da Cartesio, era nata, seppur in maniera mascherata, per negare Dio, ma per tutta la sua vita egli non aveva fatto altro che assumere una posizione difensiva, opponendo una coscienza religiosa, vissuta in maniera paradossale, all'ateismo e al conformismo della fede istituzionale, quello della Chiesa di Stato danese.
In altre parole il problema non è soltanto quello di scindere la fede dalla cristianità stabilita, di opporre il singolo credente alle istituzioni ecclesiastiche di potere, quanto piuttosto è quello di eliminare qualunque rappresentazione di Dio come “altro da sé”. Solo in questa maniera l'individuo può davvero prendere il posto di Dio e sconvolgere l'umanità.
Due, secondo Altizer (ma anche secondo Nietzsche), sono state le persone che hanno saputo affermare l'ateismo, facendo di se stesse delle divinità: Zarathustra e Cristo (quest'ultimo, ovviamente, non secondo l'immagine falsificata del Nuovo Testamento).
Con loro due si abolisce la distanza che separava l'uomo dalla divinità. Ecco perché Altizer ritiene che l'incarnazione sia l'aspetto fondamentale del cristianesimo. In virtù di essa viene negata la trascendenza della divinità e ridotta a essenza umana. L'espressione “Dio è Gesù” altro non voleva dire che “Gesù è Dio”, e siccome egli è anche uomo, ogni uomo quindi è una divinità.
In tal senso il cristianesimo non può essere una delle tante religioni nostalgiche del paradiso perduto, ma deve guardare avanti, verso la conquista di un nuovo paradiso, in cui l'uomo abbia consapevolezza della propria natura divina.
Il messaggio di questi due profeti è stato però travisato, poiché i loro successori non hanno avuto il coraggio di portarlo alle sue estreme conseguenze, che sono appunto quelle della umana divinizzazione.
Secondo Altizer (in questo seguace di Nietzsche) è forse giunto il momento per realizzare la necessaria liberazione del credente dal male del mondo. Qui tuttavia sono forse presenti le tesi più irrazionali o mistiche di Altizer, in quanto egli inizia a parlare di “fede escatologica”, come quella dei primi cristiani o di Gioachino da Fiore, per il quale se l'epoca del Figlio (Nuovo Testamento) aveva rotto con l'epoca del Padre (Antico Testamento), ora era quella dello Spirito a dover superare l'epoca del Figlio.
Nelle sue forme e strutture la “fine del mondo” viene ritenuta da Altizer come la premessa del nuovo “Regno di Dio”. Altizer sembra essere favorevole a una soluzione estrema, quella per cui il mondo deve completamente negare se stesso per poter rinascere, e questo sulla base della dialettica hegeliana, ch'egli accetta in toto. Il mondo non va “redento”, ma superato. “Esistere nel nostro tempo significa esistere in un caos liberato da ogni parvenza di significato cosmologico o di ordine” (p. 120).
Un pensiero indubbiamente magico, questo di Altizer, in quanto attribuisce all'autodistruzione nichilistica del mondo il potere di risorgere in maniera positiva, conforme a verità, quando di ciò, in realtà, non si ha alcuna garanzia. È semplicemente ingenuo pensare che da una situazione senza via d'uscita, in cui si ha consapevolezza che tutte le soluzioni operate nel passato non possono più avere alcuna credibilità, possa emergere spontaneamente la scelta migliore, quella più efficace, ovvero che questa debba imporsi proprio perché le circostanze lo esigono. La filosofia di vita diventa quella del “tanto peggio, tanto meglio”.
Questo è il limite più grande di Altizer, il suo lato mistico, da cui non si è mai liberato, proprio perché non ha mai cercato di rinunciare completamente alla “coscienza religiosa”. Egli non è mai riuscito a condividere un'esperienza del tutto laica e contestativa del sistema dominante negli Usa, quello del capitalismo avanzato. Non ha mai neppure cercato un rapporto con la teologia della liberazione, che, al suo tempo, andava sviluppandosi in Sudamerica.
Forse la sua analisi migliore è quella riferita alle filosofie o religioni orientali del mondo asiatico. In ciò però è debitore delle ricerche di Mircea Eliade. Ad Altizer non piacciono le religioni orientali perché non le vede proiettate verso il futuro. Il bene, il buono, il vero per queste religioni o filosofie religiose è qualcosa di statico, di primordiale, che può essere recuperato solo annullando la coscienza, rendendo inattivo l'essere umano, che deve concentrarsi solo su di sé, lasciando perdere le distrazioni mondane, le futilità della storia.
Queste religioni non hanno alcuna intenzione di realizzare un “regno di Dio” calato nella storia, in una storia evolutiva, che cambia continuamente le sue forme. Esse vogliono “ridurre il cosmo all'Unità originaria, annullando quelle antinomie che hanno reso l'esistenza alienata ed estraniata” (p. 161). Non a caso non hanno mai elaborato una hegeliana “negazione della negazione”, in quanto non vedono l'esigenza di una sintesi che tenga conto degli elementi opposti che alienano l'esistenza umana. La loro coincidentia oppositorum elimina gli opposti rendendoli identici: il profano viene totalmente assorbito dal sacro. Cristo invece avrebbe superato le religioni orientali negando “un Verbo che attiri il credente in un regno primordiale ossia astorico” (p. 153).
Già da queste semplici affermazioni si comprende come la teologia in sé (non solo quella di Altizer) non sia in grado di capire le dinamiche della storia, delle formazioni sociali che si susseguono una dopo l'altra. Forse la teologia è in grado di intuire qualcosa di significativo, ma di sicuro non è in grado di individuare i metodi e gli strumenti con cui realizzare i propri obiettivi.
Infatti, se c'era una cosa che il Cristo voleva realizzare era proprio il ritorno al comunismo primitivo, quello antecedente alla nascita dello schiavismo. E se c'era un metodo con cui voleva realizzare tale obiettivo non era certo quello intellettualistico dell'ateismo religioso di Altizer, con cui si attende passivamente la mistica “fine del mondo”, per poi riproporre ingenuamente il tema del “regno di Dio”. Il metodo del Cristo era eversivo, politicamente rivoluzionario, teso a realizzare una insurrezione nazionale contro la dominazione romana, espellendo altresì dal Tempio la cricca dei sacerdoti corrotti e collusi col nemico.
Altizer è lontanissimo da queste idee e, per quanto il suo ateismo risulti inconsueto nell'ambito della teologia cristiana, non sarà certo in virtù di esso che si potranno porre le basi di una vera alternativa alla società borghese. Non solo, ma oggi l'esegesi laica dovrebbe recuperare il valore delle suddette filosofie orientali, portandole alla convinzione che per poter tornare all'Eden originario occorre una battaglia epocale contro il sistema che, per un motivo o per un altro, lo impedisce.
(torna su)20) William Hamilton e la morte di Dio
È incredibile che un professore di teologia come William Hamilton (1924-2012), dicesse negli anni Sessanta che la teologia era morta, soprattutto in un paese materialista come gli Stati Uniti, l'erede più radicale della riforma luterana. Bisogna proprio dire che gli anni Sessanta e Settanta sono stati tra i più significativi dal dopoguerra ad oggi.
Nel testo che andremo a esaminare, La teologia radicale e la morte di Dio (ed. Feltrinelli, Milano 1981), scritto con Thomas Altizer, tre suoi articoli sono molto eloquenti in proposito, anche se il suo testo più importante fu La nuova essenza del cristianesimo (ed. Queriniana, Brescia 1969, ma si veda anche a cura di R. Gibellini, Antologia del Novecento teologico, ed. Queriniana, Brescia 2011).
Per questo docente del seminario di Colgate-Rochester (Usa) non era morta solo la teologia (dogmatica), ma anche la Chiesa (istituzionale), la Bibbia (come strumento di lettura popolare), il cristianesimo in generale (che andava ogni volta riattualizzato per renderlo credibile) e persino il concetto di “Dio” (che all'uomo moderno non dice più nulla): tutti morti sotto il peso di un irreversibile e imponente progresso tecnico-scientifico e consumistico. Al teologo non resta che utilizzare il linguaggio laicizzato del mondo contemporaneo per riuscire a farsi capire.
Difficile trovare, nello stesso periodo, una radicalità del genere in Europa occidentale, benché lui stesso dica che i teologi della morte di Dio37 avevano tratto ispirazione da alcune opere di Hegel, Feuerbach (di cui apprezzavano la riduzione della teologia in antropologia), Nietzsche, Dostoevskij, ecc. In particolare Hamilton sostiene che la prima opera di teologia secolare, in area britannica, fu pubblicata nel 1956 da Ronald G. Smith, The New Man, ma ritiene che il movimento americano della teologia della morte di Dio abbia preso le mosse dall'opera del vescovo anglicano John A. T. Robinson, Honest to God (Lealtà verso Dio), del 1963, con cui veniva rifiutato il teismo oggettivato.
In Europa occidentale, restando nell'ambito della teologia, si era arrivati ad accettare la demitologizzazione dell'esegeta Bultmann, oppure si tendeva ad associare il cristianesimo col socialismo. Se qualcuno fosse arrivato ai livelli di autoconsapevolezza dei teologi americani, avrebbe fatto presto a uscire dalla Chiesa e a impegnarsi in tutt'altra direzione.
Infatti quel che non si capisce nell'atteggiamento di Hamilton è l'idea di voler tenere “due maschere”: una “moderatamente devota, zelante e seria, ed è quella che si mette quando insegna e durante il suo lavoro ecclesiastico. L'altra è moderatamente mondana, e la mette per i contatti coi suoi amici laici e nella vita comune. Qualche volta, deliberatamente, scambia le maschere e indossa la maschera mondana durante un sermone o una conferenza o nei discorsi coi parrocchiani. Ciò diventa causa di innocuo divertimento...” (p. 107).
Ci pare molto difficile che un soggetto del genere avrebbe potuto insegnare in un istituto religioso di un qualunque paese europeo. Le autorità ecclesiastiche di qualsivoglia Confessione, preoccupate per la fede dei propri adepti, non avrebbero visto in tale dicotomia esistenziale alcun “innocuo divertimento”.
Dunque, già negli anni Sessanta Hamilton rifletteva una crisi di valori religiosi molto forte negli Stati Uniti. Tuttavia, egli, invece di combatterla assumendo una posizione contro il sistema borghese o cristiano-borghese, responsabile di quella crisi, rifiutando cioè, pur nell'accettazione di una concezione laicistica della vita, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e sulla natura, preferiva dire che se doveva avere un modello da seguire, avrebbe scelto Dietrich Bonhoeffer, che l'Europa occidentale – secondo lui – aveva abbandonato come “guida teologica” (p. 110).
Lottare contro il sistema per lui voleva dire assumere una posizione da sconfitto o, se si preferisce, da “martire”: “il suo fragile, bisogno d'amore ha qualche cosa in comune con l'amore della Croce” (ib.). Indubbiamente molto kierkegaardiano in questa scelta di vita.
Davvero quindi la teologia della morte di Dio non aveva fatto altro che portare alle conseguenze più logiche le riflessioni dei grandi filosofi atei dell'Europa occidentale? Noi diciamo che tale consequenzialità è possibile rinvenirla solo nelle opere di Marx ed Engels, i quali avevano saputo unire l'ateismo col socialismo. Sotto quest'aspetto neppure la riduzione dell'idealismo hegeliano al materialismo naturalistico, compiuta da Feuerbach, poteva essere considerata sufficiente. La filosofia borghese ha eliminato la teologia cristiana, ma una rivoluzione socialista, come p. es. quella dell'Ottobre russo, aveva avuto la pretesa di superare la stessa filosofia borghese.
Viceversa, i teologi radicali, rifiutando il nesso strategico di ateismo e socialismo, finivano con fare della sofferenza causata dall'antagonismo sociale ed economico un male invincibile e, in fondo, del tutto incomprensibile. La loro è stata la classica dimostrazione che non basta dirsi atei per riuscire ad affrontare meglio le contraddizioni del presente.
Il sistema va politicamente rovesciato. Senonché questo non è mai stato un obiettivo di Hamilton, che vedeva nel Cristo soltanto un “servo sofferente”, totalmente privo di alcuna strategia eversiva: un Cristo che soccombe alle figure simboliche di Oreste o Prospero, i quali non hanno un rapporto travagliato col proprio padre (come Edipo e Amleto), ma anzi vivono come se non esistesse alcun padre, e non si lasciano determinare da forze imponderabili, ma anzi si affidano totalmente alla loro volontà, che non è certo una volontà democratica.
(torna su)Gli esegeti moderni e contemporanei, piuttosto che approfondire le tesi di Reimarus, hanno preferito arrampicarsi sugli specchi, tergiversare. Sembrava loro poco credibile che Gesù fosse stato un politico rivoluzionario. Era, questa, un'immagine troppo difforme da quella dei vangeli, che pur venivano considerati più “redazionali” che “storici”.
Facevano la parte di Nicodemo, quando, nel colloquio segreto con Gesù, ammetteva la giustezza dell'epurazione del Tempio, ma temeva che il coinvolgimento fattivo in quella iniziativa avrebbe in qualche modo danneggiato la loro identità politica, la loro reputazione, il prestigio acquisito dopo anni e anni di lotte per affermarsi come partito popolare, democratico.
Che faranno questi esegeti, che non sono mai riusciti ad accettare l'idea di un Cristo insurrezionalista, disposto a compiere una guerra di liberazione nazionale contro l'imperialismo romano e contro i collaborazionisti di tutta la Palestina, quindi disposto persino a compiere una guerra civile contro i sostenitori di quella casta sacerdotale che gestiva il Tempio nella maniera più corrotta possibile e ch'era collusa col nemico in patria?
Che faranno questi esegeti quando verranno a sapere che il Cristo non era solo tutto questo, ma era anche un ateo? Cioè una persona che non riconosceva alcuna entità esterna, di natura religiosa, al di sopra di sé? Continueranno a insegnare teologia? Continueranno ad avere la fede, seppur ridimensionata dalle esigenze di un'esegesi storico-critica? Come potranno continuare a rivestire delle cariche ecclesiastiche? Riusciranno a non essere più dei “discepoli occulti” del Cristo come Nicodemo? E a chiedere di poterlo incontrare pubblicamente tra chi rivendica pane e lavoro?
Sapranno davvero mettersi al suo servizio e lottare contro i sistemi dominanti, che sfruttano e opprimono non meno di quello romano? Riusciranno a capire come realizzare la strategia del Cristo democratico e comunista? Riusciranno, in tutta sicurezza, a non demandare nulla al Padreterno? A non attendersi alcuna parusia trionfale del Cristo? E a credere possibile una realizzazione su questa Terra di un regno di pace, di libertà e di giustizia? Riusciranno finalmente ad assumersi delle responsabilità personali e a liberarsi dei loro miti e delle loro leggende?
torna su1 Presa dal sito www.lanuovaregaldi.it - Novara, 16 maggio 2007.
2 Cfr www.aloha.net/~mikesch/ILP-1559.htm
3 Cfr L'enigma Gesù, ed. Carocci, Roma 2008, p. 97. D'ora in avanti si farà riferimento a questo testo.
4 A proposito di filologia, è noto che gli esegeti spesso si accontentano di mostrare dove è intervenuto un redattore credente a modificare un testo usato come fonte, scritto in precedenza da un altro redattore non meno credente. Un'esegesi laica non può ovviamente accontentarsi di precisazioni del genere, proprio perché è necessario considerare mistificante qualunque testo “religioso”, soprattutto se riferito al Cristo.
5 Sotto questo aspetto l'analisi che i due autori fanno dei rapporti tra Gesù e Giovanni Battista è del tutto fuorviante, persino nel punto in cui citano il vangelo di Giovanni, facendo risultare che anche Gesù “battezzava” (p. 63). In Gv 4,2 è detto chiaramente che Gesù non lo faceva mai: il che lascia pensare ch'egli non ritenesse quel rito politicamente significativo. Peraltro Gesù non si reca in Galilea dopo l'arresto di Giovanni, ma subito dopo la fallita prima insurrezione connessa all'epurazione del Tempio; e in Galilea, quando apprende che Giovanni era stato arrestato, intensifica la propria predicazione proprio allo scopo di poter avere dalla sua parte anche quei discepoli del Battista che durante l'epurazione del Tempio s'erano rifiutati di appoggiarlo. Se tra i due nacque una qualche intesa, fu soltanto nel senso che Gesù voleva trasformare il messaggio di Giovanni da “etico” a “politico”. Lo si capisce, oltre dal fatto che una parte del movimento battista aderì all'iniziativa dell'epurazione del Tempio, anche dal fatto che in Gv 5,31-47 Gesù, subito dopo l'arresto o forse l'esecuzione di Giovanni, tornò a Gerusalemme proponendosi come suo successore, senza però ottenere alcun consenso significativo. Tutte le narrazioni evangeliche riflettono invece un momento in cui il movimento nazareno era già diventato “cristiano” (secondo l'ideologia petro-paolina), avendo rinunciato a qualunque politica eversiva: ecco perché parlano della ripresa dei rapporti, su un piano meramente etico-religioso, tra cristiani e battisti. Gli uni avrebbero accettato il rito del battesimo, mentre gli altri l'idea che Cristo fosse risorto.
6 Uno dei pochi esegeti contemporanei che ha cercato di recuperare le tesi di Brandon è Richard A. Horsley, che si oppone alla spoliticizzazione del Cristo, anche se per lui, come d'altra parte per Brandon, la politicità di Gesù non poteva essere disgiunta da una certa teologia escatologica. Di lui vedi Gesù e l'impero: il regno di Dio e il nuovo disordine mondiale, EMI, Bologna 2008; Banditi, profeti e messia: movimenti popolari al tempo di Gesù, ed. Paideia, Brescia 1995; Galilea: storia, politica, popolazione, ed. Paideia, Brescia 2006.
7 deiricchi.it/index.php?docnum=1390#r_1163
8 Qui si può ricordare che il procuratore Floro e la sua guarnigione caddero nelle mani degli insorti di Gerusalemme in pochissimo tempo e persino il governatore della provincia di Siria, C. Cestio Gallo, accorso in aiuto di Floro, dovette ritirarsi con gravi perdite.
9 Peraltro ci pare illogico sostenere l'assoluta inesistenza del Cristo servendosi proprio delle fonti evangeliche, in cui appare nei panni di un esaltato o di una sorta di divinità dai poteri straordinari. Per dire che non è mai esistito ci vorrebbero delle fonti attendibili, non tendenziose. Di per sé i vangeli non escludono l'idea che Gesù sia stato mistificato o misconosciuto proprio negli elementi umani e politici che storicamente possedeva.
10 L'immagine di un Cristo politico si può trovare in L. Boff, Gesù Cristo liberatore, ed. Cittadella, Assisi 1973, ristampato nel 1982. Elementi di politicità si trovano anche nel libro di E. Schüssler Fiorenza, In memoria di Lei: una ricostruzione femminista delle origini cristiane, ed. Claudiana, Torino 1990. Tra le opere straniere si possono segnalare: J. L. Segundo, The Historical Jesus of the Synoptics (Maryknoll, New York: Orbis, 1985); R. David Kaylor, Jesus the Prophet: His Vision of the Kingdom on Earth (Westminster John Knox Press Lousiville, 1994); R. A. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence (San Francisco, Harper & Row, 1987), che riprendono i temi della teologia della liberazione.
11 Cfr La rivoluzione compiuta da Gesù, in AA.VV., Gesù di Nazareth: il “caso” non è chiuso, ed. Cittadella, Assisi 1984, p. 103, con successivi ampliamenti nel volume Gesù di Nazaret, apparso nel 1987.
12 Non è da escludere che quella sorta d'affidamento di Maria a Giovanni e viceversa non sia avvenuto esattamente come descritto nel quarto vangelo, poiché è difficile credere che l'apostolo fosse ai piedi della croce in quel tragico e pericoloso momento. Ciò non toglie che non possa essere stata la stessa Maria a rivelare a Giovanni le ultime intenzioni di Gesù e che l'evangelista abbia voluto svolgere la parte del testimone oculare per convalidare la dichiarazione di una donna. Il fatto stesso che Giovanni dia della crocifissione una descrizione più puntuale di quella sinottica, deve farci pensare che le donne, ai piedi della croce, scelsero anche lui, oltre che Pietro, come destinatario della loro testimonianza diretta. Certo è che se qui è intervenuta una mano redazionale volta a mettere in risalto la figura di Giovanni, il risultato ottenuto è stato controproducente, non solo perché non viene detto nulla circa il compito dell'apostolo di proseguire come leader la guida del movimento nazareno, ma anche perché si è sminuito il suo ruolo politico, riducendolo a un semplice ruolo etico, di assistente nei confronti di una vedova.
13 krst.iuppiter.eu
14 È bene comunque precisare che Tulip dichiara di rifarsi alle tesi di Charles François Dupuis, un ricercatore francese di fine Settecento, che col suo testo fondamentale, L'Origine di tutti i culti o religione universale, costituisce certamente, nell'ambito del mitologismo, uno spartiacque tra la storiografia confessionale e quella ateistica.
15 Il che non significa che anche la nostra storiografia, pur all'apparenza così scientifica, non possa essere tendenziosa.
16 Di lui bisogna leggersi Teologia del Nuovo Testamento, ed. Queriniana, Brescia 1992.
17 Anche M. Dibelius fu duramente attaccato. I più severi contro questi due esegeti tedeschi furono naturalmente i teologi cattolici, persino a livello istituzionale.
18 L'esegeta statunitense Robert W. Funk (1926-2005), cofondatore del Jesus Seminar e del Westar Institute, affermò che la distinzione tra Gesù storico e Cristo della fede è dirimente per capire se la ricerca su Gesù può aspirare a un minimo di criticità. Gesù va liberato non solo dai dogmi della Chiesa ma anche dagli stessi vangeli. Cfr Honest to Jesus: Jesus for a new millennium, San Francisco 1996. Anche Paul Hollenbach (favorevole alla teologia della liberazione) la pensava alla stessa maniera. Il teologo tedesco Gerd Lüdemann si spinse persino ad affermare che solo il 5% delle parole e delle azioni di Cristo si possono attribuire a lui. Per questa sua convinzione e per il fatto che si riallacciava al filone critico inaugurato da Reimarus e alle tesi di L. Feuerbach, secondo cui i dogmi cristiani hanno una spiegazione psicologica, fu rimosso dall'insegnamento universitario.
19 Il cristianesimo primitivo, ed. Garzanti, Milano 1964, p. 6.
20 Alcuni teologi, Thomas Altizer (Il vangelo dell'ateismo cristiano, ed. Ubaldini, Roma 1969), William Hamilton (La nuova essenza del cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia 1969 e con Altizer La teologia radicale e la morte di Dio, ed. Feltrinelli, Milano 1969), Paul M. van Buren (Il significato secolare dell'Evangelo, ed. P. Gribaudi, Torino 1969) e Gabriel Vahanian (La morte di Dio: la cultura della nostra era postcristiana, ed. Ubaldini, Roma 1966), si sono avvicinati all'idea di un Cristo ateo, ma senza comprendere l'aspetto sovversivo della sua politica democratica. Parzialmente su questa stessa linea laicistica vi era anche Harvey Cox (La città secolare, ed. Vallecchi, Firenze 1968 e Il cristiano come ribelle, ed. Queriniana, Brescia 1973. Si veda anche La controversia sulla morte di Dio, a cura di P. Vanzan, ed. Queriniana, Brescia 1974). Semmai chi, tra i teologia occidentali, si è avvicinato al Cristo politico della teologia della liberazione è stata Dorothee N. Sölle (di lei cfr La pazienza rivoluzionaria: meditazioni politiche, ed. Cittadella editrice, Assisi 1977; Rappresentanza: un capitolo di teologia dopo la 'morte di Dio', ed. Queriniana, Brescia 1970; Il ruolo sociale della religione: saggi e conversazioni, ed. Queriniana, Brescia 1977; Sofferenza, ed. Queriniana, Brescia 1976; Teologia politica: discussione con Rudolf Bultmann, ed. Morcelliana, Brescia 1973; Fantasia e obbedienza: riflessioni per una futura etica cristiana, ed. Morcelliana, Brescia 1970).
Tutti questi testi, dopo la stagione gloriosa del Sessantotto, proseguita negli anni Settanta, oggi sono finiti nel dimenticatoio, anche perché le speranze di un superamento del capitalismo sono andate deluse, soprattutto quelle connesse a una rivisitazione politica di un'immagine del Cristo incapace di rompere radicalmente con le confessioni cristiane. Un recupero di queste posizioni è possibile solo a due condizioni: che si consideri il Cristo ideologicamente ateo e politicamente sovversivo.
21 Da notare inoltre che chiama Gesù “il cosiddetto Cristo”, come se il titolo di “Cristo” fosse in realtà il suo cognome, quando uno come Flavio, che gli era quasi contemporaneo, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a definirlo come “messia”.
22 Onore e merito a questa casa editrice valdese ch'ebbe il coraggio di pubblicare un testo che certamente non era confessionale. Le citazioni riguardano questo libro.
23 In ambito strettamente ecclesiastico è solo con l'enciclica di Pio XII, Divino Afflante Spiritu, del 1943, che viene riconosciuto lecito ai cattolici ricorrere a strumenti di analisi testuale del N.T., la cui validità scientifica era già confermata dall'esperienza secolare di tanti studiosi non cattolici.
24 Non dimentichiamo che il prestito a interesse era vietato tra gli ebrei.
25 “Subasiatica” perché non vi erano – come in Asia – grandi opere idrauliche di irrigazione, anche se vi era uno sfruttamento statale del lavoro agricolo.
26 Il teologo J. Moltmann sostiene che mentre la prima parte di questo aforisma era di Bloch, la seconda invece era sua, detta in un dialogo privato con lui e che lui accettò di buon grado. In realtà, secondo me, fece male ad accettarla, poiché se è vero che l'ateismo può rappresentare non senza difficoltà il compimento del cristianesimo, non è possibile pensare che il cristianesimo possa approdare in maniera spontanea e naturale all'ateismo.
27 Gesù il ribelle, ed. Rizzoli, Milano 2013 (tit. or. Zealot: The Life and Times of Jesus of Nazareth).
28 “Nazireo”, non “Nazareno”, in quanto il titolo fatto affiggere da Pilato sulla croce non faceva riferimento a un'indicazione geografica, ma a una qualifica politica.
29 Naturalmente i vangeli sostengono proprio il contrario, e cioè che Gesù si vanta, davanti a Dio, di non aver perduto nessuno dei propri seguaci. Può dirlo proprio perché egli non vuole avere nulla di politico e accetta la propria autoimmolazione in chiave puramente religiosa.
30 Cfr. Science and Faith, Ljubljana-Rome 1984 e Società e valori etici, ed. Città Nuova, Roma 1987.
31 Non era molto lontano da questa posizione il marxista E. Bloch.
32 In lingua italiana di lui si può anche leggere, a testimonianza del suo interesse per la filosofia linguistica, Alle frontiere del linguaggio, ed. Armando, Roma 1977.
33 La differenza tra “ammirare” e “imitare” Cristo è un tema costante del filosofo irrazionalista S. Kierkegaard.
34 Da notare che l'ultimo van Buren, coi due saggi Theology now (1974) e The Burden of Freedom (1976), recupera proprio il concetto di “Dio come invocazione”. Cioè invece di usare Wittgenstein per dire che qualunque discorso su “Dio” è un non-senso, arrivò a dire che, almeno in un ambito religioso o esistenziale, quella parola continua ad avere un qualche significato.
35 Sulla teologia della morte di Dio si possono consultare: Thomas W. Ogletree, La controversia sulla morte di Dio, ed. Queriniana, Brescia 1974; Ved Mehta, Teologi senza Dio, ed. Einaudi, Torino 1969; AA.VV., Dio è morto? Ateismo e religione di fronte alla realtà odierna, ed. Mondadori, Milano 1967; P. Ricca, La morte di Dio: una nuova teologia?, ed. Claudiana, Torino 1967; G. Gozzelino, I vangeli dell'ateismo cristiano, ed. LDC, Torino-Leumann 1969; AA.VV., Teologia dal Nordamerica, ed. Queriniana, Brescia 1974.
36 Reinhold Niebuhr ebbe invece una notevole influenza negli anni Quaranta e Cinquanta con l'opera The Nature and Destiny of Man (pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943), in cui cercò di collegare la fede cristiana al realismo della politica e della diplomazia moderna, giungendo però su posizione anticomuniste alla fine della seconda guerra mondiale.
37 Oltre ad Hamilton e Altizer vanno annoverati Gabriel Vahanian e Paul van Buren, ma anche il teologo battista Harvey Cox, che difendeva la teologia della liberazione, simpatizzava per loro.
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