MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
La teoria della storia di Max Weber (1864 – 1920) parte seconda - Istituzioni occidentali e non occidentali Ma la particolarità della storia economica europea non si giustifica solo alla luce dei suoi sviluppi religiosi (si ricordi, a tale proposito, che il cristianesimo non fu prerogativa esclusiva dell’Europa, e che esso si diffuse indipendentemente anche in altre svariate parti del mondo). Agli sviluppi capitalistici europei infatti hanno, secondo Weber, contribuito anche fattori di natura diversa, essenzialmente istituzionale, che affondano le proprie radici nelle fasi arcaiche della storia europea. Anzitutto bisogna specificare cosa si intenda con il termine "istituzioni". La società, in quanto complesso organizzato di individui, si basa su una serie di regole e ordinamenti che le conferiscono stabilità e al termpo stesso pongono le basi (più o meno mutabili nel corso del tempo) del suo vivere interno. Tali regole sono appunto ciò che definiamo istituzioni. Queste possono essere di due tipi: alcune hanno un carattere ufficiale, ovvero sono codificate giuridicamente; altre invece, spesso non meno fondamentali delle prime, hanno un carattere consuetudinario. In ogni determinato contesto storico e geografico la vita tende a essere gestita attraverso istituzioni particolari, differenti rispetto agli altri. Il discorso di Weber pone in evidenza, anche per ciò che riguarda questo aspetto della società, come quelle che per Marx sono essenzialmente sovrastrutture, mero riflesso dell’organizzazione economica, svolgano invece in realtà un ruolo essenziale nel determinare quest’ultima. Gli aspetti su cui si sofferma Weber sono: a) i rapporti sociali; b) i rapporti istituzionali; c) l’organizzazione della proprietà e della produzione. a) Per ciò che riguarda il primo punto, è nelle città che Weber rintraccia il primo seme di 'occidentalità' dell’Occidente. Le città europee infatti, si pongono in un rapporto del tutto particolare con le campagne circostanti. Mentre nel resto del mondo esse – in qualità di centri amministrativi e politici – possono usufruire dell’apporto di beni dalle campagne circostanti, in Europa esse rimangono invece tendenzialmente estranee alla vita economica rurale. Non potendo quindi contare sul contributo solidale di beni provenienti dalle campagne, gli abitanti delle città debbono procurarsi il necessario per il proprio sostentamento attraverso gli scambi commerciali: sia attraverso la produzione artigianale (i cui prodotti si riversano nelle campagne come merce di scambio), sia sviluppandosi come centri di smistamento dei beni provenienti da altre regioni (mercati internazionali). Da una tale organizzazione originaria deriva la propensione delle città occidentali allo sviluppo di un’imprenditoria affaristica e, con essa, la loro peculiare attitudine alla razionalità e al calcolo economico. Il che – ovviamente – non implica che le città occidentali sviluppino da subito raffinati strumenti di carattere finanziario e contabile. In particolare, Weber vede nell’invenzione della partita doppia (XVI secolo) un vero e proprio spartiacque tra gli stadi ancora irrazionali dell’imprenditoria e quelli invece già orientati verso la pianificazione e il calcolo delle convenienze economiche. D’altra parte la stessa razionalità scientifica (i cui esordi si collocano ben prima della nascita della fisica moderna, avvenuta con Galilei nel XVII secolo) si situa nel contesto della tradizione razionalistica occidentale, della quale costituisce peraltro una delle tante espressioni, e che a sua volta alimenta. b) Anche sul piano sociale la tendenza alla razionalizzazione dei rapporti umani, ovvero al superamento di ogni logica corporativa e settaria (di casta), si fa sentire in Europa in modo molto più accentuato che nelle altre regioni del mondo. Weber contrappone a questo riguardo le società basate sulle caste a quelle basate sulle classi. Nelle prime valgono soprattutto rapporti consuetudinari, la società essendo basata su una scala sociale che dalle famiglie nobili, socialmente superiori, giunge fino a quelle più basse. I membri delle seconde sono legati alle prime da rapporti di vassallaggio o clientela, fondati sia su debiti contratti nel corso del tempo che su fattori di natura consuetudinaria. Per tali ragioni, a questo tipo di organizzazioni corrisponde quasi sempre un basso livello di sviluppo delle conoscenze scientifiche e della mentalità raziocinante e calcolante. Viceversa, nelle società di classe, l’appartenenza a un ceto superiore o inferiore non è principalmente legata a ragioni familiari (di stirpe), ma a fattori meritocratici. Dal momento infatti che la società non è qui "congelata" in rapporti basati sulle tradizioni e le abitudini, i criteri di affermazione sociale finiscono per basarsi soprattutto su principi oggettivi e razionali: essenzialmente cioè sulla capacità di affermazione del singolo sugli altri individui. Secondo Weber, le società europee, nelle quali da sempre particolarmente forti sono le istanze individualistiche e anarchiche, sono quelle in cui la tendenza alla selezione sociale attraverso la competizione agisce in modo più essenziale. Così come, d’altra parte, lo sviluppo graduale di tale competizione verso forme giuridicamente sempre più regolamentate e razionali, porta col tempo al sorgere del capitalismo. Una volta di più possiamo qui osservare come, per Weber, la razionalità costituisca – oltre e più che un effetto dell’evoluzione capitalisitica della società – una causa essenziale di essa. c) Infine, Weber si sofferma sulla trasformazione dell’organizzazione della proprietà e della produzione (due aspetti istituzionali essenziali per ogni società) caratteristica dell’Occidente e dell’Europa, e sulla differenza di un tale percorso rispetto a quello delle altre civiltà mondiali. Pressoché ovunque infatti la cellula produttiva si è emancipata dalla forma originaria dell’oikos familiare, ma solo in Europa essa è infine divenuta vera e propria azienda capitalistica. Certo, anche al di fuori di tale continente si sono sviluppati grandi assembramenti di proprietà, spesso tramite i profitti di attività commerciali, e quindi grandi squilibri nella ricchezza personale e privata, ma solo in Europa si è giunti alla nascita di un’organizzazione economica di tipo capitalistico. Analizziamo ora quelli che, nella visione weberiana, sono i tre stadi fondamentali dell’organizzazione della proprietà e della produzione: (1) Il primo stadio è quello dell’oikos o "azienda familiare". In esso l’organizzazione produttiva è essenzialmente incentrata sul nucleo familiare (del quale fanno parte anche i servi o schiavi, almeno laddove – ad esempio nell’antica Grecia – siano diventati strumenti produttivi usuali e indispensabili). La produzione è qui ancora di 'piccolo cabotaggio', ovvero più che altro finalizzata al mantenimento degli elementi dello stesso nucleo familiare. L’idea di profitto commerciale è quindi, se non del tutto assente, ancora marginale rispetto alla pratica dell’autoconsumo. E del resto, la maggior parte dei beni prodotti viene consumata se non subito, su tempi brevi. Non esiste quindi la possibilità di un consistente accumulo di ricchezze, cioè di formazione di grandi capitali privati. La proprietà è qui ancora pienamente collettiva o familiare, e come tale gestita secondo criteri 'ingenui' (la sopravvivenza collettiva, la redistribuzione della ricchezza tra i membri della comunità, l’assenza di precisi fini di lucro, ecc.), molto distanti dal calcolo spietato delle convenienze che caratterizzerà l’azienda capitalistica moderna. Dominano dunque il "pressappoco", l’incertezza e l’imprecisione, sia a livello di stili produttivi che nella distribuzione della proprietà. (2) Stadio successivo è quello della grande azienda, ovvero della grande proprietà. Ne sono un esempio, tra gli altri, le villae d’epoca tardo-romana: grandi agglomerati di terre (nei quali si svolgono anche attività di tipo manifatturiero e semi-industriale) capaci di produrre grandi quantità di beni di consumo, riversate poi in gran parte sul mercato, e i cui profitti possono essere reinvestiti ai fini dell’accrescimento dell'azienda, secondo una logica già capitalistica. Ma perché si possa parlare di capitalismo vero e proprio non basta la presenza delle idee di profitto e di reinvestimento – e degli atteggiamenti a esse connessi –, bisogna infatti che tutto ciò abbia anche raggiunto un sufficiente grado di razionalità e sistematicità. E questo stadio di razionalità economica qui manca ancora. Non vi è infatti né una divisione rigida tra la proprietà familiare e quella propriamente aziendale (cioè una separazione netta tra il "pressappoco" degli affetti, delle consuetudini, delle tradizioni, e la logica spietata della competizione economica, dell’ottimizzazione dei mezzi rispetto ai fini); né l’utilizzo di una manodopera libera e salariata (proletarizzata), che sola permetterebbe – in virtù della sua flessibilità e precarietà – una programmazione efficiente e adeguata alle esigenze di crescita sistematica propriamente capitalistiche; né vi è infine un’idea forte di reinvestimento della ricchezza (la quale, al contrario, viene ancora in gran parte accumulata e lasciata immobile e infruttuosa). La mentalità è qui infatti ancora troppo patriarcale e conservativa. Il perdurare degli antichi fattori consuetudinari, la divisione della società in caste (che implica, tra l’altro, un rapporto di vassallaggio tra il datore o proprietario e i suoi lavoratori), il basso sviluppo delle tecniche contabili e – non in ultimo – della tecnologia produttiva, non permettono che si sviluppi un’economia davvero moderna. A tale proposito, si usa distinguere tra capitalismo e mercantilismo. In quest’ultimo, pur essendosi già affermata la moneta come mezzo di scambio e sviluppate consistenti attività di tipo creditizio, affaristico e finanziario, non si è ancora giunti a un utilizzo sistematico del lavoro salariato, a una vera e propria programmazione d’impresa e a tutti quei fattori che – come vedremo – caratterizzano l’ultimo dei tre stadi individuati da Weber. È opportuno infine rilevare una volta di più, come l’economia mercantilistica si affermi col tempo praticamente in tutte le zone avanzate del mondo: dalla Cina al Medio Oriente, all’Europa. Con essa poi si affermano anche grandi disparità economiche tra i membri della società, impensabili laddove la cellula produttiva si identifichi con la piccola azienda di tipo familiare. (3) Infine, si giunge all’azienda capitalistica. In essa la "dimensione calcolante" prevale nettamente su quella del "pressappoco", dominante negli stadi precedenti: e ciò sia nella distribuzione della proprietà che nell’organizzazione del lavoro e nella pianificazione economica. L’azienda infatti è qui totalmente distinta dalla proprietà familiare, il che favorisce (e anzi richiede) una gestione della prima in termini impersonali, senza (almeno teoricamente) alcun riguardo per fattori di carattere affettivo, i quali entrerebbero invece in gioco se essa fosse sentita come qualcosa di personale, di familiare. La società per azioni è un esempio molto comune e molto esplicativo di ciò. Laddove la proprietà d’impresa sia condivisa da più persone (gli azionisti), senza che tra esse sussistano legami di carattere parentale, affettivo o clanico, ma solo o innanzitutto di convenienza economica (cui fanno da cornice rapporti di assoluta parità giuridica e morale), essa non potrà essere gestita secondo criteri soggettivi ed imprecisi, ma in termini di calcolo e di previsione razionale delle convenienze comuni. L’azienda capitalistica è quindi qualcosa di molto ben distinto dalla proprietà familiare. Così come - e proprio per questo - la pianificazione economica ha in essa raggiunto vertici di razionalità (e ciò anche grazie a strumenti contabili di grande efficienza e precisione) prima assolutamente impensabili. Un’altra notazione di Weber, che peraltro lo avvicina a Marx, riguarda il tipo di lavoro impiegato in questa fase. Come per il filosofo di Treviri infatti, anche per Weber il lavoro salariato (che presuppone il distacco della manodopera dai mezzi del proprio lavoro) è un ingrediente fondamentale per la nascita e il sussistere di una vera e propria economia capitalistica: ed anzi egli nota come l’assenza o la presenza di un tale tipo di lavoro costituisca una delle discriminanti essenziali tra lo stadio capitalistico e quello mercantilistico (nel quale, come si è detto, la logica dell’accumulazione e del reinvestimento della ricchezza esiste ancora in una forma spontanea, pre-razionale). Tuttavia, mentre Marx vedeva il lavoro salariato come il prodotto di un lungo processo di trasformazione delle strutture economiche dalle fasi primitive a quelle moderne, Weber pone in evidenza come esso sia soprattutto il risultato di un processo di graduale razionalizzazione della società in tutti i suoi aspetti. È in particolare l’affermarsi del principio giuridico di parità tra individui della stessa comunità ciò che, in un contesto di mercato (basato cioè sulla legge della domanda e dell’offerta), favorisce lo sviluppo di un’economia basata sulla contrapposizione tra classe borghese, proprietaria dei mezzi produttivi, e classe proletaria, costretta a vendere la propria forza-lavoro per un salario. Ed è infine il lavoro salariato (flessibile e revocabile) ciò che consente al capitalista di pianificare in modo razionale le proprie strategie d’impresa, aprendo quindi la via alla nascita di un’economia puramente concorrenziale, differente dalle precedenti organizzazioni di mercato, ancora di carattere "corporativo". Weber osserva infatti come, laddove il proprietario dei mezzi di produzione deve portare sulle proprie spalle il "peso morto" della servitù, dei clienti, ecc. (cioè di legami non paritetici), un tale processo di razionalizzazione e lo sviluppo capitalistico conseguente non possano – anche laddove esistano elementi di mercato – avere luogo. Weber dunque dimostra attraverso la sua analisi come l’economia capitalista sia il prodotto di processi di sviluppo di carattere culturale e istituzionale (che si intrecciano ovviamente con processi di natura economica) che portano ad una razionalizzazione progressiva della vita sociale. Secondo lui dunque il capitalismo sarebbe, tra l’altro e soprattutto, la traduzione sul piano dell’organizzazione economica di una trasformazione in atto nelle sfere non economiche della società. Quanto al perché un tale tipo di evoluzione sia avvenuto solo in Europa, si può dire che per Weber ciò sia dovuto a una serie di fattori concomitanti e in gran parte casuali, non facilmente riconducili cioè a elementi determinati. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - Sintesi in pdf-zip Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia |