MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
Gli stadi evolutivi delle società umane nella visione di Marx (1818 – 1883) parte terza - il capitalismo (economia, società e Stato) Si cercherà qui avanti di descrivere le dinamiche che, secondo la visione marxista, furono alla base della nascita del sistema di produzione capitalista. Ma per fare ciò dobbiamo, prima di tutto, occuparci della rinascita delle città negli stadi più avanzati del periodo feudale. Fu infatti a partire da alcune trasformazioni essenziali che interessarono il (rinato) mondo cittadino che sorsero in Europa – fatto del tutto inedito anche rispetto al resto del mondo – le premesse di un’organizzazione produttiva di tipo capitalista. Più avanti ci occuperemo del ruolo assunto dallo Stato in questo nuovo tipo di organizzazione economica e sociale. Le città scomparvero (seppure, soprattutto in Italia, mai del tutto) con la fine del mondo classico. La produzione si concentrò allora sempre di più nei feudi o latifondi, la popolazione si contrasse considerevolmente, mentre scomparve pressoché del tutto la forza e la presenza delle istituzioni statali nella vita sociale. I centri urbani, prima luoghi essenziali sia della produzione che dello scambio, si rarefecero enormemente, trasformandosi soprattutto in sedi dei poteri sia ecclesiastici sia temporali. Finché durò una tale situazione, durò il periodo 'feudale' propriamente detto. Ma, come tutte le forme di organizzazione economica, anche il feudalesimo maturò col passare del tempo le premesse per il proprio superamento. Ciò avvenne in particolare per effetto della stabilizzazione della situazione dopo i primi e turbolenti secoli segnati dalle invasioni barbariche e dalla disgregazione violenta delle città-stato e della società antica. In seguito a una tale stabilizzazione ebbe luogo un lento e progressivo miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, anche in conseguenza di alcuni fondamentali progressi nelle tecniche agricole. Questa nuova situazione determinò un primo innalzamento del volume della popolazione: una trasformazione questa, che non fu priva di conseguenze per la stessa economia feudale, dal momento che – ora ancor più che in precedenza – essa si rivelò insufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare delle masse contadine. Per tale ragione, se da una parte si diede inizio in tale periodo a un processo di estensione delle terre coltivate (con la messa a coltura di nuovi territori), dall’altra cominciò un lento processo di ripopolamento delle città, e con esso un primo affrancamento di parte della popolazione minuta dalle condizioni servili (cioè feudali) della produzione. E fu appunto soprattutto la rinascita dei centri urbani il fattore alla base dei meccanismi che, nei secoli immediatamente successivi all’XI, avrebbero portato all’affermazione in Europa di un’economia indirizzata sempre più in senso capitalistico. In particolare, bisogna distinguere tra due diverse fasi nello sviluppo delle città: una prima fase nella quale la struttura economica e sociale urbana rimase fortemente debitrice all’organizzazione delle campagne; e un’altra fase in cui, invece, essa iniziò ad assumere molti dei caratteri propri della futura organizzazione capitalistica. Le città del medioevo, come del resto quelle antiche, furono caratterizzate sin dall’inizio dal fatto di costituire un elemento di decisa rottura rispetto alle vicine campagne. In esse infatti, si svolgevano tipi di attività – ad esempio una produzione artigianale caratterizzata da un livello di specializzazione più alto rispetto a quello delle vicine zone rurali, e il commercio sulle brevi e sulle lunghe distanze - che le rendevano alternative rispetto alle prime. Nelle città si formò così un’imprenditoria privata che si accompagnò a un sempre più ampio uso della moneta, espressione di un’organizzazione economica basata su attività, di carattere commerciale, radicalmente alternative a quelle di autoconsumo praticate nei feudi. Come già nel mondo antico quindi, anche nel periodo tardomedievale i centri urbani furono luoghi nei quali si organizzò una vita sociale ed economica molto diversa da quella delle zone rurali circostanti (peraltro fonte delle materie prime di cui le città avevano bisogno), e che col tempo avrebbe preso piede anche in queste ultime. Nella prima fase dello sviluppo cittadino tuttavia, ancora molto marcate restavano le connotazioni 'feudali' dell’economia e della produzione. Come nelle campagne, anche nei centri urbani l’economia era infatti organizzata in base a una gerarchia tendenzialmente chiusa ed essenzialmente finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari dei propri membri (e citiamo qui, ancora una volta, il discorso di Marx sull’organizzazione corporativa del lavoro nelle fasi precapitalistiche della produzione: "Nell’artigianato cittadino [antico e medievale, n.d.r.], sebbene esso poggi sullo scambio e sulla creazione di valore di scambio, lo scopo fondamentale, immediato di questa produzione è il sussistere in quanto artigiano, in quanto maestro artigiano: dunque valore d’uso, non valore di scambio; non arricchimento, non valore di scambio in quanto valore di scambio"). La tipica struttura gerarchica delle campagne (i cui estremi erano: i contadini o produttori primari da una parte, e il nobile possidente e proprietario del castello dall’altra), trovava il suo corrispettivo urbano in un’organizzazione basata sulle gilde o corporazioni dei mestieri, la cui gerarchia interna comprendeva da una parte gli organi decisionali comuni e, sotto essi, i "maestri d’arte" (proprietari e gestori della singola impresa) giungendo dall’altra ai garzoni o agli apprendisti, ultimi anelli della catena del lavoro. Come le corporazioni antiche, anche quelle medievali avevano prima di tutto il compito di garantire ai propri aderenti la sopravvivenza, e ciò ovviamente mitigando gli effetti della concorrenza commerciale tra essi (in quanto, ovviamente, tutti concorrenti sul mercato). Esse inoltre - come vedremo meglio qui avanti - avevano anche il compito di difendere i propri membri da eventuali 'aggressioni' esterne. La novità delle città medievali, rispetto ai feudi, stava quindi essenzialmente nel fatto che ciò che producevano (manufatti, vestiti, arnesi...), in quanto di solito non direttamente consumabile o comunque non sufficiente a garantire la sopravvivenza dei produttori, diventava inevitabilmente merce di scambio con i prodotti delle zone agricole circostanti. Tali transazioni richiedevano poi, o comunque favorivano fortemente, l’uso della moneta. Ma la ricerca di valore di scambio era ancora finalizzata a procurare al produttore il necessario per vivere, anziché a un’accumulazione indefinita del profitto (autovalorizzazione del capitale). Successiva alla fase corporativa, fu quella (che a essa peraltro, da un punto di vista cronologico, si sovrappose largamente) basata sul lavoro salariato, come tale orientata in senso capitalistico. Si pone allora, in base a quanto si è già detto riguardo alle città-stato antiche (e ai loro sviluppi mercantilistici e monetari), una domanda. Perché, se già nel mondo antico si era affermata un’economia creditizia, artigianale e commerciale, non finì per svilupparsi anche in esso – come appunto avvenne nelle città moderne – un’organizzazione di tipo capitalistico? Anche se Marx non tratta mai approfonditamente questo problema nei suoi scritti, sembra di poter dedurre da essi che il suo pensiero dovesse essere all’incirca questo. Nel mondo antico, l’economia era basata essenzialmente sull’impiego di una forza-lavoro di carattere schiavile. Gli schiavi – come si è detto – erano legati al loro padrone come un possesso privato, costituendo per tale ragione una delle tante espressioni della sua 'rendita'. Proprio per questo, egli non poteva o non voleva liberarsene anche in situazioni nelle quali essi, anziché una risorsa, costituivano un vero e proprio peso morto per i suoi bilanci. Mancava insomma, nel mondo antico, il prerequisito essenziale dell’economia capitalistica: ovvero la possibilità, da parte del proprietario dei mezzi produttivi, di dare o togliere lavoro a individui formalmente liberi, a lui legati da un contratto revocabile basato sul principio della reciproca convenienza. Ed è infatti questo elemento di flessibilità ciò che, prima di tutti gli altri, conferisce all’organizzazione economica moderna – capitalistica – la capacità di ottimizzare i mezzi produttivi rispetto al fine economico fondamentale di massimizzare i propri profitti. È dunque a partire dall’impiego di lavoro libero e salariato, come tale revocabile in ogni momento, che sorge il capitalismo, con tutti i suoi attributi. A questo proposito, scrive Weber (le cui analisi sono spesso pienamente compatibili con quelle marxiste) in un libro dedicato alla storia economica mondiale che "il signore [nell’ergasterion, ovvero nell’equivalente antico della manifattura moderna] non compare come imprenditore, ma come redditiero che utilizza la forza-lavoro degli schiavi come rendita". Gli schiavi insomma, in quanto rendita, sono per il padrone/imprenditore una parte fissa della propria proprietà. Tanto da finire, in certi momenti, per costituire un peso morto e un fardello che lo impoverisce e che impedisce uno sviluppo economicamente razionale della sua impresa (su tale argomento torneremo nel capitolo dedicato a Weber). Ma se la ragione di questi diversi e opposti tipi di sviluppo risiede nella presenza o meno del lavoro salariato, ci si deve chiedere come e perché quest’ultimo potesse sorgere e divenire primario nel contesto del tardo feudalesimo e non in quello antico. La ragione di ciò sembra risiedere innanzitutto – almeno nella visione di Marx – nel fatto che la società feudale, nella quale la figura dello schiavo (individuo privo di ogni libertà personale) era stata sostituita da quella del servo (il quale, pur legato a un individuo padrone dei mezzi [terre, bestiame, arnesi] alla base del proprio lavoro, non è comunque espropriato delle libertà personali fondamentali), costituisse un terreno più fertile per l’affermazione del principio e della pratica del lavoro salariato come base, se non unica almeno principale, dell’organizzazione produttiva. Tuttavia, questa spiegazione pone a sua volta una domanda: se infatti – come abbiamo già mostrato – almeno per un lungo periodo il lavoro delle città si organizzò sulla base di strutture chiuse e 'corporative' (quindi fondamentalmente antitetiche rispetto a quelle, aperte e flessibili, del capitalismo), per quale ragione a un certo punto un tale trend si invertì e, in modo sempre più marcato, si affermò la consuetudine di impiegare un tipo di manodopera precaria, retribuita a giornata? Senza dubbio, la ragione di ciò risiedette fondamentalmente nella difesa dei vecchi interessi corporativi. Il costante afflusso di manodopera dalle campagne infatti, rischiò da un certo momento in avanti di scardinare le strutture corporative delle città. Esse avevano infatti – come già abbiamo detto – il fine precipuo di difendere i propri aderenti sia dalla concorrenza interna (da quella cioè che essi reciprocamente esercitavano), che da quella esterna. I nuovi cittadini provenienti dalle campagne d’altra parte, in quanto parte ormai della popolazione urbana, premevano per divenire a propria volta membri delle corporazioni, al fine di usufruire dei vantaggi connessi a tale condizione. Ciò suscitava però l’ovvio disappunto dei membri di queste ultime, ben consapevoli del fatto che l’allargamento della propria comunità avrebbe comportato un’elisione dei propri privilegi sociali e finanziari. Fin dall’inizio ristrette e tendenzialmente chiuse ("corporative", appunto), le gilde o associazioni di mestiere divennero così col tempo delle entità sempre più esclusive, retaggio di una cerchia sempre più esigua di individui (l’appartenenza alle quali, inoltre, si tramandava molto spesso di genitore in figlio). E fu appunto paradossalmente (o dovremmo dire "dialetticamente") un tale meccanismo di autodifesa posto in atto dalle corporazioni ciò che, sui tempi lunghi, ne decretò il declino e la scomparsa. La grande massa di individui che (per le ragioni cui si è accennato in precedenza) dalle campagne affluivano nelle città, trovava infatti il proprio sostentamento prestando lavoro a giornata al servizio di imprese i cui proprietari erano (di solito) membri delle associazioni di mestiere. E una tale massa di persone, non più indissolubilmente associate a un "padrone", ma libere da ogni vincolo di fedeltà e a disposizione di chiunque fosse disposto a pagar loro un salario per una prestazione determinata, costituiva un’opportunità nuova per i proprietari dei mezzi produttivi (borghesi). Questi ultimi infatti, si accorsero presto che una tale manodopera "flessibile" poteva fornire notevoli vantaggi sia in termini di costo del lavoro, sia – almeno in seconda battuta – in termini di programmazione economica. L’impiego di tale manodopera permetteva agli imprenditori sia di risparmiare sul costo del lavoro (e quindi di investire una parte maggiore dei propri utili in una crescita strutturale delle proprie attività), sia di pianificare lo sviluppo di queste ultime in modo più mirato e funzionale che in passato. Col tempo quindi, a dispetto delle corporazioni e della loro logica, il lavoro salariato divenne sempre di più la soluzione standard dell’organizzazione del lavoro. Erano poste così, attraverso il superamento della logica dell’economia associativa o corporativa del tardo medioevo, le basi di un’economia di tipo capitalistico. Analizzeremo ora quelle che, secondo la visione marxista, sono le caratteristiche salienti dell’economia e della società capitalista. 1) Caratteristica primaria dell’economia capitalista è il fatto di basarsi sull’impiego di lavoro salariato. Una tale forma di organizzazione produttiva implica, tra il padrone dei mezzi produttivi e il lavoratore, un rapporto totalmente squilibrato a favore de primo: quest’ultimo infatti ha la possibilità di utilizzare il lavoro del dipendente (ferma restando, ovviamente, la possibilità anche da parte di quest’ultimo di interrompere il rapporto di lavoro) solamente nella misura in cui esso gli appaia necessario e conveniente ai propri fini di guadagno. Già nelle precedenti forme di organizzazione produttiva (servaggio e schiavitù) esisteva uno squilibrio tra il proprietario (il latifondista, ad esempio) e il lavoratore (ad esempio, il contadino…). Ma solo nel capitalismo tale rapporto è costruito in modo da rendere il lavoratore del tutto estraneo (sia giuridicamente che praticamente) ai mezzi del proprio lavoro, e come tale quindi da essi separabile in qualsiasi momento. Questa condizione è definita da Marx alienazione ed è l’aspetto centrale della sua critica morale all’economia capitalistica. Ma questa caratteristica se ne porta dietro delle altre, da essa discendenti in modo più o meno evidente. La prima è il fatto che l’economia capitalistica, contrariamente a quelle che l’hanno preceduta, si basa su un processo di accumulazione indefinita della ricchezza monetaria. Mentre infatti, in precedenza, anche l’acquisizione di "valore di scambio" (moneta) era qualcosa di subordinato essenzialmente all’idea di consumo delle ricchezze acquisite, nell’economia capitalistica la maggiore possibilità sia di pianificazione dello sviluppo dell’impresa sia di risparmio sul costo del lavoro, e quindi la possibilità di maggiori investimenti strutturali, porta come conseguenza al sorgere di un trend di crescita costante dei profitti, circolarmente reinvestiti poi in nuove strategie di crescita ed espansione dei profitti stessi. L’economia capitalistica dunque, fondata sull’idea di un’accumulazione indefinita dei profitti d’impresa (la cui natura è ovviamente monetaria), si dissocia radicalmente da tutti i modi produttivi che l’hanno preceduta. E se è vero che il circolo guadagno->investimento->maggiori guadagni->nuovi investimenti, ecc. non è come tale un’invenzione del capitalismo, è anche vero che le condizioni materiali (ovvero sociali) in cui avviene la produzione capitalistica, favoriscono lo sviluppo di un tale processo in un modo e in una quantità mai vista prima. Altra conseguenza di una tale competizione di mercato, priva o quasi di freni, fu la graduale elisione nel contesto delle città degli antichi privilegi corporativi, la difesa dei quali aveva appunto creato le condizioni materiali della nascita del lavoro a giornata. I produttori infatti, che da tali condizioni traevano maggiori occasioni di guadagno, finirono per emanciparsi gradualmente dai limiti posti alla concorrenza di mercato dalle regolamentazioni corporative. Queste ultime finirono allora per decadere, lasciando il campo alla libera concorrenza come unica legge dell’economia. Fu allora giocoforza per ogni imprenditore adattarsi a queste nuove condizioni della produzione, pena l’essere spazzato via dalla concorrenza degli imprenditori rivali. Il capitalismo ha insomma tanto la caratteristica di permettere, rispetto ai periodi e agli stili produttivi precedenti, un maggiore sviluppo dei profitti e della produzione, quanto quella di favorire in modo particolarmente virulento la crescita di alcuni imprenditori a scapito degli altri, sconfitti dalla lotta per la conquista dei mercati. A partire da queste considerazioni, non deve stupire il fatto che, dalle città, questo nuovo modo produttivo presto o tardi si diffonda anche nelle vicine campagne, dove ha inizio un graduale processo di conversione degli antichi stili economici basati sul servaggio e sul colonato nei nuovi stili basati sul lavoro salariato e sulla produzione sistematica di beni per i mercati. Proprio nelle campagne inoltre, sorgono a partire dal XVI secolo le manifatture, che costituiscono un primissimo esperimento di produzione di merci su larga scala. La stessa produzione industriale del resto, che avrà inizio all’incirca dal XVII secolo e sarà resa possibile dall’invenzione di nuovi e più sofisticati mezzi tecnologici, e la cui sede saranno di nuovo le città, costituirà in qualche modo un perfezionamento degli stili produttivi "seriali" inaugurati dalle manifatture contadine. 2) Se questa era l’analisi della struttura economica del capitalismo, vogliamo ora analizzarne la struttura sociale. E tuttavia dev’essere chiaro come questi due tipi di analisi non siano affatto estrinseci tra loro, ma anzi si completino reciprocamente e – in una certa misura – siano due facce di una medesima medaglia. L’economia infatti, costituendo il modo in cui un determinato gruppo sociale si organizza per riprodurre se stesso, è qualcosa di intrinsecamente sociale. Non a caso, i rapporti economici trovano in quelli sociali (ovvero nella divisione della società in differenti classi o gruppi) un pressoché esatto corrispettivo. Se l’economia capitalista ha bisogno di proprietari dei mezzi produttivi e di proletari costretti a vendere il proprio lavoro dietro un compenso o salario, la società capitalista si divide – per logica conseguenza – tra un ceto 'alto' ed economicamente egemone costituito appunto dai proprietari dei mezzi di produzione (capitalisti o borghesi), e un ceto a esso subordinato costituito dalla classe lavoratrice (proletari). Peculiarità di questa forma di organizzazione dell’economia è quindi l’esistenza di una separazione radicale tra coloro che possiedono le leve (materiali e finanziarie) della produzione e coloro che invece le utilizzano, senza poter rivendicare su di esse alcuna forma di possesso, per delega dei loro proprietari. Anche nei precedenti modi produttivi, al di fuori della fase socialista ed egualitaria, esisteva una notevole distanza tra ricchi e poveri, tra proprietari ed espropriati. Ma in essi – e proprio questo è l’elemento principale che li separa dal capitalismo – questi ultimi godevano sui mezzi del proprio lavoro di un sostanziale rapporto di possesso, nella misura in cui (almeno in linea di massima) rimanevano a essi stabilmente legati. Se ad esempio il servo o colono era vincolato alle terre del feudatario da una sorta di rapporto di "usufrutto", e lo schiavo era parte integrante della proprietà del padrone, il proletario moderno rimane invece intrinsecamente separato dai mezzi del proprio lavoro, dipendendo integralmente dalla volontà del capitalista. Un altro carattere distintivo della società capitalista è il fatto che la separazione tra borghesi e proletari tenda necessariamente nel corso del tempo a inasprirsi. Ciò per un inevitabile processo di proletarizzazione in atto all’interno della stessa classe borghese, dovuto al fatto che gli imprenditori che escono sconfitti dalla lotta di mercato e che quindi falliscono, diventano a loro volta lavoratori alle dipendenze di altri capitalisti, quindi proletari. Basato sulla legge della concorrenza di mercato priva o quasi di limitazioni, il capitalismo implica infatti che alcuni imprenditori ne sopraffacciano costantemente altri, con la conseguenza di una concentrazione dei capitali finanziari in un sempre più esiguo numero di persone. D’altronde, secondo Marx, solo questa concentrazione di capitali (oltre alla necessità di investirli in una crescita strutturale d’impresa, al fine di salvaguardarsi dalla concorrenza) permette di porre in essere quei poderosi investimenti finanziari che portano alla nascita di grandi industrie, i cui livelli produttivi sono quantitativamente molto superiori a tutti gli standard produttivi precapitalistici (per inciso Marx riconosce il ruolo positivo svolto dalla classe borghese, attraverso il rivoluzionamento radicale dei mezzi produttivi, nella storia umana; è invece sul fronte della distribuzione della ricchezza che egli è molto critico verso di essa, e massimamente verso le fasi più avanzate del suo sviluppo, nelle quali la sperequazione tra ricchi e poveri si fa insostenibile). Il capitalismo dunque contiene sin dall’inizio al proprio interno, secondo Marx, i semi di una deriva autoritaria ed elitaria, nella misura in cui il suo sviluppo porta necessariamente alla nascita di una classe economicamente egemone sempre più ristretta, nonché alla conseguente esasperazione di quelle divisioni sociali che sin dall’inzio lo hanno caratterizzato. 3) Infine, lo Stato. Nella visione marxista lo Stato – in quanto istituzione sociale fondamentale – svolge essenzialmente, attraverso le proprie iniziative politiche e militari, il ruolo di favorire la classe dominante nei suoi interessi economici. Esso è quindi principalmente uno strumento di classe. E se nei sistemi antico e feudale lo Stato è espressione soprattutto degli interessi delle classi possidenti, in quello capitalista moderno è espressione di quelle borghesi. Lo Stato inoltre non è soltanto una delle formazioni sovrastrutturali che la società, in quanto entità economica, produce, ma la principale tra esse. L’intreccio tra interessi economici e scelte politiche infatti, lungi dall’essere un fatto secondario, costituisce secondo Marx una delle condizioni basilari dell’economia e della società capitaliste. Si deve osservare infine come quello dell’influenza esercitata dalle istituzioni sulla crescita e sull’indirizzo economico della società, sia uno dei temi marxiani più ampiamente sviluppati nel pensiero weberiano, tanto da costituire uno dei principali elementi di continuità tra questi due pensatori. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - Sintesi in pdf-zip Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia |