ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA |
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Il Rinascimento iTALIANO MICHELANGELO BUONARROTI
Michelangelo, Pietà, 1497-1499, Basilica di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano La complessità della figura di Michelangelo (1475-1564) è figlia della stagione umanistica italiana, un fenomeno fatto di molte componenti giunte a maturazione poco prima della venuta del grande maestro toscano. Rappresentante di questa maturazione è Leonardo. Cerimoniere della stessa è Raffaello. Suo interprete per eccellenza è Michelangelo. L’eccellenza è nel valore dato alla personalità umana: l’uomo è finalmente consapevole della propria capacità di apprezzare il mondo. Sa l’importanza dello spirito, dialoga con l’intelligenza superiore, si riconosce, almeno eticamente, parte di Dio. Nel suo libro “De pintura antigua” datato 1548 (ma pubblicato nel XIX sec.) e precisamente nel capitolo dedicato ai “Dialoghi romani”, il miniaturista portoghese Francisco de Hollanda argomenta intorno alla divinità michelangiolesca, facendo del Nostro il “mostro” che conosciamo. Che Michelangelo godesse di enorme considerazione è provato anche dall’ammirazione che gli riserva il Vasari nella prima edizione del suo famoso trattato, lui ancora vivo (riguardo non riservato ad altri). Né meno ammirato appare il suo cronista ufficiale, Ascanio Condivi, anche suo aiuto, che fa del Nostro una specie di ribelle ante litteram, restituendoci, infatti, un Michelangelo orgoglioso e implacabile con la clientela: un imprenditore, convinto della propria bravura, della bontà dei propri prodotti, e dunque fra i primi esecutori autonomi delle proprie opere. Egli non avrà mai problemi di clientela. Scultore, pittore, architetto: in una parola “artista” a tutto tondo, buono per tutte le occasioni e di occasioni ce ne furono con la sete di potere e di gloria di papi e cardinali romani, e non solo, nonché della solita famiglia De Medici, oggi sull’altare, domani nella polvere e quindi di nuovo sull’altare, per le alterne vicende del tempo e per la modestia dei reggenti. Tutto ciò nonostante le simpatie repubblicane di Michelangelo. Il nostro grandissimo scultore, prestato ogni tanto a pittura e architettura, stando a Condivi, lavorava instancabilmente e non escludeva compratori perché, affermava, doveva badare al padre e ai fratelli, persone avide e senza scrupoli che pretendevano di vivere sulle sue spalle. Ma la spregiudicatezza di Michelangelo sarebbe anche dovuta a una convinzione di qualità eccelsa della propria arte da cedere solo a prezzi adeguati, cioè altissimi, da risorse imperiali o papali. La convinzione michelangiolesca deve essere del tutto condivisa. Sarebbe sufficiente la “Pietà” per sostenere la tesi. L’abbiamo grazie al cardinale francese Jean de Bilhères de la Groslaye che la commissionò a un Michelangelo ventenne (sensale della trattativa fu Jacopo Galli, attivo anche più tardi) appena venuto a Roma per l’imbroglio del “Cupido dormiente”, una scultura fatta passare per antica e venduta al cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV. Autore dell’imbroglio non fu Michelangelo, egli scolpì soltanto, ma Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, imparentato col Magnifico. Il Riario volle conoscere l’artista, Michelangelo entrò nel mondo romano e il cardinale francese gli commissionò la Pietà. Il nostro artista fece madre e figlio della stessa età, rifacendosi, pare, ad un passo dantesco: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”.
L’ambiente artistico romano non era tuttavia favorevole a Michelangelo (il Bramante teneva apertamente per Raffaello), che trovò così più conveniente rientrare a Firenze, dove da ragazzo era stato a scuola dal Ghirlandaio e aveva frequentato il Giardino di S. Marco, cenacolo retto da Lorenzo il Magnifico. In questo giardino conobbe Poliziano, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e divenne figlio adottivo della famiglia Medici. Poi ci fu la questione del “Cupido dormiente”. Ora, però, siamo negli anni 1501-1504 e Michelangelo porta con sé da Roma fama di artista sublime. Lavorerà parecchio per Firenze, realizzando, tra l’altro, il “David” che Leonardo, si dice, non amava per via della muscolatura troppo in primo piano (il “David” fu ricavato da un precedente marmo già sbozzato). E donerà al mondo dell’arte il “Tondo Doni” (ora agli Uffizi di Firenze), uno dei massimi dipinti rinascimentali (maestria che, a quanto pare, si ritrovava anche nel cartone per la “Battaglia di Cascina”, dipinto commissionato da Pier Soderini da porre in confronto ad un altro di Leonardo raffigurante la “Battaglia di Anghiari”). La monumentalità michelangiolesca non garbava a un neoplatonico convinto qual era Leonardo. Per quest’ultimo, il plasticismo doveva essere in potenza, come da insegnamenti classici, non in atto. Passare alla seconda posizione poteva apparire come una licenza artistica indebita, come un atto di superbia: la forma che sovrasta il contenuto. Nella realtà, va detto, Michelangelo non cercò mai di prevalere avvalendosi del virtuosismo di cui era ampiamente dotato, ma provò in tutti i modi di contenerlo entro una logica concettuale che tenesse conto di fede e di razionalità allo stesso tempo.
Questo tentativo spiega l’inquietudine e l’incontentabilità di Michelangelo. Egli aveva vissuto in prima persona la spiritualità di Savonarola, se ne era incantato, forse molto più delle dispute accademiche neoplatoniche nel famoso Giardino di S. Marco. Michelangelo conoscerà il tormento della fede, l’interrogativo esistenziale. Sarà un’avventura personale, lontana dalla religione istituzionalizzata, sebbene dalla Chiesa, e da quattro papi, il nostro artista trarrà i mezzi per affermare la sua arte. Fu Giulio II a reclamarlo a Roma nel 1505 (l’artista ci rimarrà sino al 1513): il papa lo voleva per scolpire la propria tomba, faccenda che sarà alquanto tribolata. Il progetto iniziale verrà più volte rimaneggiato e ridimensionato. Rimarrà il “Mosè”, possente e minaccioso, a testimonianza dell’impresa che non fu mai conclusa (la statua si trova nella Chiesa di S. Pietro in Vincoli, mentre la tomba di Giulio II è in Vaticano). E rimarranno i “Prigioni” (personaggi imprigionati nel proprio essere materiale, in attesa di salvazione), dispersi fra il Louvre e le Gallerie dell’Accademia veneziane. Il papa gli aveva fatto decorare anche la Cappella Sistina, opera titanica durata dal 1508 al 1511. Assolutamente straordinario l’esito, mai limitato alla didascalia. Michelangelo vi riversa la storia della Genesi biblica con vivezza impressionante. E’ una narrazione in crescendo appassionata e sentita come fonte di verità, come dovere di testimonianza del vero. Una dichiarazione aperta di filosofia e di approvazione razionale della trascendenza, dell’essere oltre l’apparenza. Giudice severo delle azioni umane è invece il “Mosè”: Michelangelo lo eleva ad esempio del carattere ammonitore, terrifico, dell’Antico Testamento. L’elaborazione scultorea prepara il terreno al Barocco. Numerosi gli altri lavori nella capitale e in altre città italiane. Dal 1516 al 1534 Michelangelo lavorò per i papi medicei, salvo un intervallo repubblicano, a Firenze (che gli fu perdonato), come conseguenza della decisione imperiale di togliere il potere imperiale alla Chiesa romana (Sacco di Roma, 1527). Numerose le opere michelangiolesche, anche come architetto (facciata di S. Lorenzo, Sagrestia Nuova, Biblioteca Mediceo-Laurenziana e altro) e sempre più frequente il ricorso ad aiuti. La novità, per il nostro artista, arrivò con il pontificato di papa Paolo III e precisamente dal 1536 al 1541 allorché questo papa confermò il, desiderio del precedente, Clemente VII, di vedere affrescata la parete dietro l’altare della Cappella Sistina con un “Giudizio Universale” per mano di Michelangelo. L’opera misura cm 1370x1220 ed è ricchissima di figure, ognuna compresa in un particolare atteggiamento a sostegno del terribile discorso finale che l’artista rende particolarmente solenne. Dopo il Concilio Tridentino, Daniele da Volterra (il “Braghettone”), fu incaricato di coprire le nudità, considerate sin da subito eccessive, oscene. Seguirono altri ritocchi. Il lavoro del “Braghettone”, per ragioni storiche, è stato mantenuto nel restauro del 1994.
A Roma Michelangelo rimase sino alla fine, provvedendo alla sistemazione di alcune piazze (Piazza del Campidoglio), alla realizzazione di due affreschi per la Cappella Paolina, a una serie di Crocifissioni, alla conclusione della tomba di Giulio II, alla scultura di diverse pietà, fra cui l’incompiuta “Pietà Rondanini” (ora al Castello Sforzesco di Milano). A Roma egli morì a quasi ottantanove anni assistito, fra gli altri, da Tommaso de’ Cavalieri, giovane nobile romano e suo amico prediletto da diversi anni, così come gli era amica Vittoria Colonna, signora di Pescara, poetessa allora molto ammirata in tutta Italia. L’amicizia con Tommaso de’ Cavalieri, destinatario di circa trenta dei trecento sonetti di Michelangelo (egli fu anche un apprezzato poeta), fu fonte di pettegolezzi e d’insinuazioni circa le preferenze sessuali (omosessuali) del grande artista. In un animo tanto elevato, tuttavia, la questione non deve assolutamente porsi, anche alla luce del fatto che, salvo per pochissime eccezioni, la figura femminile non godeva a quei tempi di alcuna considerazione. In effetti, l’Umanesimo e il Rinascimento esaltavano la fisicità maschile, la forza, attraverso la mediazione intellettuale. Personaggi come Tommaso de’ Cavalieri, degli efebi a “portata di mano” (il mondo femminile viveva appartato), richiamavano in qualche buon modo la figura angelicata, idealizzata, del periodo medievale ai piedi della quale pareva lecito tuttora inchinarsi. Il rinvenimento del “Gruppo del Laocoonte” (opera tardo-ellenistica del II a.C. circa) avvenuto nel 1506 in una vigna sul Colle Oppio, Michelangelo presente, ha fatto attribuire al grande artista italiano un vero e proprio amore per la scultura greca ellenistica. Il Gruppo è arcinoto per le sue volute e per il suo forte senso drammatico, cose tipiche della teatralità del più noto e influente movimento artistico del mondo antico. Più verosimilmente, Michelangelo ammirava la scultura greca classica, della quale rispettava il movimento in potenza, avventurandosi nell’atto (già nelle prime sue cose, fra cui la sorprendente “Madonna della Scala”) come prova di una comprensione di là dall’ideologia. La scultura, del resto, è l’attività artistica che più si presta al “fare” che all’ideare. Il Nostro tentò tuttavia di fondere le due cose, riuscendo con toni di autentica di poesia, nel caso della “Pietà”, opera somma fra le opere somme, o di asciutto, vigoroso lirismo, come nel caso del “Mosè”, un gigante che si ritorce sulla propria anima. Michelangelo è scultore, innanzi tutto, e infatti scolpisce anche quando dipinge. In entrambi i casi, egli presta al “fare” i propri sentimenti, le proprie idee, i propri turbamenti che sono sempre massimi, essenziali e “terribili” nel loro presentarsi per cercare una soluzione o per proporre delle fughe (da qui probabilmente i suoi “incompiuti”). Il segno è sempre forte, possente, titanico, senza mai una sbavatura, con continui, incessanti rimandi verso nuove proposte, nuove idee, nuovi programmi, nuove speranze e nuove certezze ad un passo dalla definizione. Le opere di Michelangelo sono vive, palpitanti. Possiedono una dinamica interiore che fatica a manifestarsi per oggettive difficoltà d’identificazione di sé e della materia entro cui si animano. Ma pure trasmettono una volontà imbattibile di vivere, di essere, d’incidere nel tutto per una sorta di missione di cui Michelangelo – uomo per eccellenza - cerca continuamente il capo nella speranza-convinzione di trovarlo. Dello stesso autore:
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