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Il Rinascimento in
Europa
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II -
III - IV -
V
Dario Lodi
Il Rinascimento in Europa è un prolungamento di
quello italiano. L’eccezione reale è fornita dall’opera
di Rabelais che tratta l’Umanesimo come un periodo di pretese
intellettuali eccessive. Secondo il grande autore francese, sarebbe
indispensabile una riflessione. Secondo lui l’umanista non può
vantare conoscenze assolute. E’ indispensabile un
ridimensionamento, non per giungere a una bocciatura dell’uomo
del tempo, ma per incitarlo a fare meglio e cioè a evitare le
soluzioni semplicistiche. Rabelais non fu ascoltato, ma rimane un
riferimento importante per la dignità intellettuale e morale.
Il francese va quindi oltre la visione delle cose di
Erasmo da Rotterdam. Quest’ultimo rimane legato alla mentalità
umanistica corrente, agendo all’interno di essa con originalità
di ragionamento dipendente dalle situazioni, pur mantenendo un certo
rispetto delle posizioni personali. Ad esempio, Erasmo non accettò
Lutero: eccessiva la rivoluzione del tedesco e allo stesso tempo
datata.
Lutero fu l’involontario strumento di un
cambiamento epocale. La sua lotta contro la chiesa romana fu nuova
nel senso che trovò appoggio e aiuto presso i principi
tedeschi. La questione religiosa, per quanto sentita nella sua
purezza, ovvero nel ripristino della stessa da parte di Lutero,
divenne una questione laica a causa dell’attacco a Roma portato
con determinazione. L’opposizione romana, guidata
dall’imperatore Carlo V che pretese la purificazione
dell’istituto (Concilio Tridentino), si rivelerà
formalmente religiosa e praticamente materiale per via dei
possedimenti ecclesiastici o coperti, a vario titolo, dalla chiesa.
La cosa sfocerà nella seicentesca Guerra dei Trent’anni
e nelle successive guerre dinastiche, sino alla formazione della
moderna Europa degli Stati.
Un tentativo eroico di fermare il degrado civile
ereditato dal Medioevo fu fatto da Tommaso Moro, assassinato da
Enrico VIII d’Inghilterra per aver voluto difendere la primazia
papale. Il distacco inglese si poteva in fondo tollerare, trattandosi
allora di un’isola, l’Inghilterra, del tutto trascurabile
per la storia europea. Nella realtà, la defezione di Londra fu
un duro colpo per la credibilità di Roma. Tommaso Moro, poi
santo, fu il primo martire moderno, sul momento misconosciuto.
A coronamento di tutto questo giunse la voce di
Montaigne, un moralista lucido, che in certo qual modo mise in prosa
le idee di Rabelais. Diede a essa forma aforistica (i famosi “Saggi”)
e non disdegnò di far del moralismo vero e proprio: sono cose
spesso risapute i suoi pensieri, eppure continuano a incantare, a
interessare. Montaigne funziona, è chiaro nelle sue opinioni,
determinato nelle sue indicazioni. Egli si sostituì alla
religione ufficiale, usando meno retorica, più convinzione e
maggior senso realistico.
A
rappresentare tutto questo, l’arte pittorica provvide in modo
esaustivo, muovendosi intorno ad un genio, Albrecht
Dürer
(1471-1528), un artista poliedrico, imbevuto di italianità (fu
due volte in Italia, soprattutto a Venezia), ma autonomo per quanto
riguarda l’ispirazione di fondo. Tale ispirazione è un
insieme di misticismo allo stato puro, con timori di eccessi
autonomistici ravvisabili soprattutto in molte sue incisioni (il
bianco e nero era un contrasto ideale per questo suo tipo
d’espressione), con gesti coraggiosi di carattere umanistico.
Del secondo genere sono numerose sue tele, a partire
dall’”Autoritratto con guanti”, del 1498 (al Prado
di Madrid) per finire alla “Festa del rosario” del 1506
(alla Nàrodni Galerie di Praga). Il primo ci mostra un Dürer
quasi timoroso di mostrare il proprio talento e la propria
personalità, e allo stesso tempo fiero di poter fornire una
testimonianza profonda, incisiva. All’apparente debolezza
congenita nell’essere umano, il nostro pittore oppone una forza
sottintesa, in fieri, con cui è pronto a superare qualunque
ostacolo. Non gli preme la vittoria personale, ma quella generale
della genia umana. |
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La “festa del rosario” è invece
il punto di arrivo della fede. Dürer esprime con gioia, con
liberazione, la bellezza della spiritualità. L’opera è
un’esplosione (ordinata) di colore e di figure colte in un
momento di beatitudine, di emozione superiore per l’avvenimento.
Si parla di religione codificata, ma è un pretesto per
esprimere una religione autentica, non ferma al dogma, ma
travalicante qualunque forma di contenimento dello spirito. Il
dipinto è attraversato da una tenerezza incontenibile, fresca,
sincera, spontanea. I colori sembrano trovare una collocazione ideale
e sono i veri protagonisti del quadro. Il disegno, perfetto,
equilibrato, è un inno al significato della scena, si adegua,
come seguendo un copione sentimentale, alle suggestioni create dalle
tinte che si condizionano idealmente a vicenda per il raggiungimento
di una specie di sonorità, di musicalità senza pari. Il
Nostro fu un maestro nelle tecniche del bulino e dell’acquaforte. |
Collezionò una fortuna con le sue xilografie. Dürer
conobbe tre potenti dell’epoca, l’elettore di Sassonia
Federico il Saggio che gli commissionò diversi lavori, pur
preferendogli Lucas Cranach il Vecchio, Massimiliano I, cui fece uno
splendido autoritratto, e Carlo V (nell’occasione visitò
i Paesi Bassi e fece tesoro della tecnica fiamminga attraverso
numerosi ritratti) che ripristinò un beneficio economico
emanato da Massimiliano stesso, morto nel 1519. L’incontro del
rigore di Lutero, portò il nostro pittore all’adozione
di un misticismo serrato, ben ravvisabile nelle ultime incisioni, di
cui qui è ricordata la famosa “Melencolia I” (la
copia migliore è conservata dallo
Staatliche
Kunsthalle
di Karlsruhe)
che rappresenta la virtù intellettuale (esiste anche
l’incisione raffigurante il
“San
Girolamo nella cella”
e quella raffigurante “Il
cavaliere, la morte e il diavolo”,
relative alle virtù morali e teologiche: un trittico
realizzato fra il 1513 e il 1514). La “Melencolia I” è
particolarmente importante per il contenuto esoterico e simbolico che
la caratterizza, mentre “Il cavaliere, la morte e il diavolo”
è una specie di manifesto del Protestantesimo, della sua
rigidità mistica. Il “San Girolamo” è uno
studio accurato della profondità del senso morale. |
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Dürer
s’innamorò dell’arte italiana e specialmente di
Leonardo, al quale s’ispirò in tutti i sensi. Il nostro
pittore scrisse anche dei trattati (non finiti), di pittura, di
antropometria, di astronomia. Apprezzò le regole prospettiche
di Luca Pacioli, ma non ne fu un seguace. Diceva che era meglio
fidarsi della propria sensibilità. Intendeva per dare vita,
aria, al dipinto e non per costringerlo entro una gabbia. Di sicuro
Pacioli (e Leonardo) non pensava alla gabbia, ma a un ordine a
imitazione di quello divino. Che il Nostro voleva raggiungere con il
solo sentimento, ovvero con la ragione al servizio dello stesso.
Molteplici, quindi, le concessioni di Dürer, tutte in senso
positivo: i risultati sostengono una personalità fra le più
originali ed espressive della storia della pittura.
La pittura nel resto d’Europa mantiene un impianto
tardogotico con fughe verso gli stilemi italiani legati al
Rinascimento. Le incertezze verso una completezza di discorso nuovo –
con l’uomo in posizione centrale – non vengono nascoste.
Il fenomeno religioso rimane psicologicamente imperante nelle sue
fattezze di straordinarietà favorevole all’epifania
quasi per degnazione.
L’artista si adegua a questa mentalità, pur
mostrandosi curioso nei confronti della decisione di familiarizzare
con la trascendenza, così come fa l’Umanesimo italiano
sfociato gloriosamente nel Rinascimento. L’analisi non è
esatta perché, in realtà, l’evoluzione umanistica
è finita col glorificare la trascendenza non in maniera
diretta, ma tramite la Chiesa, grazie al suo potere economico. Dunque
involuzione, non evoluzione, tuttavia in parte: finito il potere
temporale ecclesiastico, le caratteristiche fondamentali
dell’Umanesimo troveranno spazio ed evoluzione autentica nella
creazione della scienza moderna. Ma dobbiamo tornare al’4-‘500
per vedere come l’arte figurativa (specialmente la pittura)
fuori d’Italia cerchi di trovare una credibilità nuova:
la ricerca avviene prima di tutto tecnicamente. La forma,
suggestionata dai turbamenti dell’animo per i cambiamenti
psicologici in atto, prevale generalmente sul contenuto, nel senso
che il secondo è in sviluppo, mentre la prima può
avvalersi della tecnica con cui può intervenire sulle vecchie
simbologie e aggiornarle. Non va scordata l’influenza
dell’ermetismo, enorme nel periodo.
D’impianto umanistico è anche la pittura
giovanile di Hans Memling, un
artista tedesco di formazione fiamminga. Era nato intorno al 1435 e
morì nel 1494 a Bruges dove esercitò per tutta la vita.
Memling pare fosse allievo di Rogier van der Weyden, ma l’influsso
del grande artista fiammingo si rivelerà nelle opere più
tarde. Stranamente Memling ebbe una sorta di involuzione, ritornando,
dopo le prove giovanili, a uno stile tardo-gotico, a una staticità
tradizionale, quasi avesse avuto un pentimento per le prime allusioni
a una possibile centralità umana.
La Passione, detta “Passione di Torino”
perché custodita dalla Galleria Sabauda della città
piemontese, è un’opera di grande respiro, del 1470-71,
dove la vicenda cristiana è trasportata in una città
fiamminga, come per dare una prova vicina, incombente, del dramma di
Cristo e della pochezza degli uomini. Memling offre un momento di
meditazione più che di devozione, elevando l’importanza
della figura umana. La cura dei particolari, fatta con precisione
lenticolare, tipica della migliore pittura fiamminga, vuole essere
una giusta valorizzazione delle cose e una promessa solenne, sentita,
di applicazione della morale divina. Entro questa logica, Memling si
trova con Hugo van der Goes,
pittore sublime di scene devozionali, ma non solo, e Petrus
Christus, fra gli estremi cantori della
pittura tardo-gotica, con celebrazione, però non meccanica,
della trascendentalità irrazionale.
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Fustigatore della presunzione umana, attraverso la
caricatura dei ceti dominanti, è il fiammingo Quentin
Metsys (1466-1530).
Nel dipinto “La duchessa brutta”,
che fa parte di un dittico (questa parte è
alla National Gallery di Londra, l’altra al Museo
Jacquemart-Andrè di Parigi) il pittore arriva al grottesco,
pur mantenendo una certa grazia compositiva. Si parla dell’insieme
e non certo del volto, che è marcatamente sottolineato da una
volontà di denigrazione che solo una certa ironia riesce ad
attenuarne la ferocia L’opera è del 1513, nel pieno
della maturità dell’artista, peraltro chiamato a
realizzare quadri religiosi, cosa che fece con molto impegno e
passione. Sarà proprio questa passione religiosa a portarlo
verso le caricature dei laici, dai reggenti ai banchieri e alle
rispettive mogli. Metsys era animato da un’eticità di
primordine che vedeva la religione come guida, come faro, senza
tuttavia cadere in atti di devozione privi di consapevolezza: una
novità nel mondo fiammingo. Suo nipote, con lo stesso nome, è
considerato fra i migliori ritrattisti fiamminghi del ‘500. |
Singolare è la vicenda di
Matthias Grünewald (1470?-1528):
così il Vasari tedesco, Joachim
Sandrart battezzò, nel 1675, un non meglio identificato
Matthaes di Aschaffenburg (in terra tedesca), togliendolo dall’oblio
e dandogli un nome e cognome precisi, per quanto il secondo di
fantasia. Il battesimo consentì una concentrazione sulle opere
di un pittore molto particolare per personalità e impeto.
Numerose sue opere erano state attribuite ad altri, persino a Dürer,
del quale Grünewald è tecnicamente meno scrupoloso, più
immediato: un artista quasi di getto, con un notevole talento
naturale e un’immaginazione non comune.
Ma soprattutto questo artista è in possesso di
una fede eccezionale, che lo fa diventare l’autentico
interprete della religiosità del nord, una religiosità
da autoflagellazione. Lo dimostra bene questa grande Crocifissione
(alla Kunsthalle di Karlsruhe). Alla passione di Cristo partecipa
anche il legno della Croce, piegato ad arco (una novità, per
sottolineare la tragedia universale in atto), la mestizia degli altri
due personaggi sacri, più sbozzati rispetto alla figura
lacera, fisicamente distrutta del personaggio principale. La
distruzione è vista come evento irrimediabile che neppure la
filosofia dell’Umanesimo in atto in tutta Europa riesce a
riscattare.
In Germania, dove Grünewald vive e opera, questa
filosofia giunge come più come curiosità che come nuova
disciplina mentale superiore da seguire e da adottare. L’artista
sembra ribadire, specialmente con la sua opera tarda (questa
Crocifissione è del 1525), che la questione religiosa è
molto più importante delle dispute umanistiche. Perché
il ribadimento sia esemplare, ecco una sorta di Cristologia oltre il
limite di sopportazione, per quanto le figure di contorno – in
fondo più umane che divine – lascino ben sperare (ma è
una speranza esile e comunque legata indissolubilmente alle
problematiche fideistiche). Grünewald lasciò opere in
molte città tedesche, soprattutto ad Aschaffenburg, Issenheim,
Halle, Magonza. A dare vita, consistenza alle sue composizioni, sono
in particolar modo i colori, quanto mai veristici, naturali, fatti
più di sangue e carne che di tinte e sfumature. Il segno
appare talvolta incerto, ma più verosimilmente è
congruo rispetto al messaggio che l’artista intende dare,
togliendolo da sé, dal proprio animo con la più
credibile accoratezza. |
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Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553)
è importante per aver dato un carattere preciso alla cultura
tedesca del momento. E questo grazie alla sua amicizia con Martin
Lutero, di cui il nostro pittore assorbì certamente la
mistica. La svolta religiosa imposta da Lutero, e appoggiata dai
Principi tedeschi (senza questo appoggio il Protestantesimo non
sarebbe nato), diede un riferimento preciso alla fede nordica: la
Bibbia e specialmente l’Antico Testamento. Il Dio punitivo
prendeva il sopravvento su quello misericordioso a causa degli
strappi della Chiesa romana, con relativa decadenza morale. Un
lassismo insopportabile per i credenti e dunque opposizioni e
decisioni puriste, pena il castigo, per chi non si ravvedeva. Solo
Lutero riuscì nell’improbabile impresa (gli eretici
esistevano da almeno tre secoli) grazie alle armi laiche. La “Testa
di Cristo con la corona di spine” (forse 1510, collezione
privata) è la testimonianza del cambiamento: Cristo è
attonito, sembra rimproverare, in silenzio, chi lo sta schernendo, ma
anche assicurargli una punizione. La pena è attenuata da una
promessa di reazione che si riflette nell’umanizzazione del
volto. Non siamo a una visione umanista, ma a una trasformazione più
semplice del fattore divino in sembianze umane per maggiore presa
morale. Lucas Cranach fu il pittore prediletto da Federico il saggio,
elettore di Sassonia e anche dai suoi successori. Il figlio, con lo
stesso nome (Lucas Cranach il Giovane) sarà un notevole
ritrattista (eccezionale il ritratto del padre) e un raffinato
incisore. |
Amico, invece, di Erasmo da Rotterdam (che non amava le
tesi luterane) fu Hans Holbein
(1497?-1553), forse il maggior ritrattista del tempo, che visse e
operò fra Basilea (un centro umanistico) e Londra. Finì
per stabilirsi in quest’ultima città al servizio di
Enrico VIII, realizzando opere religiose e laiche (le seconde più
numerose) in numero ragguardevole. Gli “Ambasciatori”,
opera qui riprodotta, non interamente, è un olio su tavola di
notevoli dimensioni, 206x209 cm, forse del 1533, custodito dalla
National Gallery di Londra, è probabilmente la sua più
matura: Holbein vi registra il successo del mondo laico, ormai
lanciato verso la conquista del mondo. Gli ambasciatori sono
messaggeri di una potenza reale che sta sostituendo quella ideale
della Chiesa e della filosofia, in qualche modo, e comunque,
emanazione della stessa. Si sa che Enrico VIII si oppose alla Chiesa
romana, creando il rito anglicano, ma si sa anche che lo fece
ispirato da questioni dinastiche (la ricerca di un maschio, che gli
verrà negato) e non certo da mire puristiche. |
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Sulla scia di
questa decisione materiale, si mosse l’intero mondo inglese,
senza l’intenzione di offendere la visione religiosa e
spirituale della vita, ma con la determinazione di evitare dipendenze
da Roma. Non poteva che derivare un sistema dispotico condizionato
dalla figura regale, anche se temperato da comprensibili timori
autonomistici, con inevitabile rispetto verso la religione. Tutto
questo si avverte poco nella pittura di Holbein perché
l’entusiasmo laico riesce ad avere la prevalenza sul
condizionamento tradizionale fornito dalla vecchia religione. Holbein
è più incisivo nella rappresentazione delle cose che
delle persone (ferme, statiche, in posa celebrativa di un fenomeno in
via di completamento, quasi fosse già compiuto e quasi non vi
fosse convinzione del compimento). Alla fine si manifesta una sorta
di contemplazione dei nuovi strumenti umani per sfidare il mondo, vi
è una loro sacralizzazione a “prescindere”, con
rifiuto di ogni riscontro oggettivo. Holbein registra tutto questo
con una certa freddezza, limitandosi alla calligrafia (e che
calligrafia!). Dentro la quale si nasconde un trionfalismo pronto a
esplodere: è quello relativo al riconoscimento delle
importanti risorse umane.
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Superbo ritrattista è François
Clouet (1510?-1572), figlio di Jean, pittore
anche lui. La sua tecnica è di derivazione fiamminga, la
grazia è italiana, la mentalità francese. Il ritratto
di Elisabetta d’Austria, regina di Francia (era figlia del
grande imperatore Carlo V), è forse il suo ultimo (data 1572
ed è al Louvre): si noti lo sfarzo regale, la serietà
del volto e il senso di comando che emana dalla figura. Più
che un ritratto personale sembra un simbolo della nuova era che si
sta aprendo dopo i torbidi romani, la caduta della centralità
della Chiesa, l’avvento del protestantesimo e la reazione
Cattolica. Nello stesso anno del dipinto, era avvenuta la “Notte
di S. Bartolomeo” con lo scannamento nelle strade di Parigi (e
poi nell’intera Francia) degli Ugonotti, ovvero dei Protestanti
francesi, per ordine di Caterina de’ Medici, reggente di
Francia. Il dipinto sembra in qualche modo presagire l’evento.
Una sorta di quiete sussiegosa prima della tempesta di cui, peraltro,
lei, molto giovane, fu spettatrice. Clouet, con i suoi ritratti
regali (fu al servizio di tre re, Enrico II, Francesco II, Carlo IX)
sprovincializzo l’arte francese e fece conoscere la mentalità
laica, vincente, all’intera Europa (si trattava di un laicismo
che si avvaleva della religione per ragioni di ordine pubblico,
dunque di un regime ben più opportunista di quello bizantino,
dove l’imperatore aveva anche competenza religiosa e la
esercitava coscienziosamente, mentre il re di Francia pretendeva
l’asservimento del clero e la sua assenza governativa
primaria). |
Per quanto di circa una generazione più vecchio
di Clouet e di Holbein, Albrecht Altdorfer
(1480-1538) è più moderno dei
due, come dimostra la “Battaglia di Alessandro e Dario a Isso”,
una tavola di notevoli dimensioni, cm. 158x120, custodita a Monaco,
nell’Alte Pinhakotek. Fu realizzata su commissione di Guglielmo
IV di Baviera per decorare la propria residenza. E’ uno dei
primi paesaggi indipendenti della storia dell’arte. Questa
realizzazione si deve alle decisioni prese dalla “Scuola
danubiana”, di cui Altdorfer fu uno dei fondatori, fra cui
quella, determinante per il pittore tedesco, di nobilitare la natura,
l’ambiente (in modo più marcato, la scuola s’ispirò,
poi, a Dürer).
Altdorfer, per quanto riguarda i lavori religiosi, fu
condizionato dal tardo-goticismo e da Cranach in particolare, ma per
quanto riguarda quelli laici – fra cui il presente è
sicuramente il più ragguardevole – il suo comportamento
fu molto originale. Pare lecito pensare che oltre al fatto
decorativo, il commissionario intendesse avere un’opera
beneaugurante in merito ai segnali di scontro fra principi tedeschi e
l’imperatore Carlo V, cosa che avverrà con fragore negli
anni immediatamente successivi il dipinto (che è del 1529).
Da parte sua, Altdorfer curò il particolare, ma
inserendolo in una visione generale dove le piccole cose umane
sembrano confondersi, scomparire. A testimonianza del valore
dell’uomo, rimane una lussuosa, ed elegante visione d’insieme
a volo d’uccello, quasi si volesse fuggire dal dolore e
dall’orrore, leniti, nel frattempo, da uno sguardo fiabesco
sull’insieme (come se la lotta fosse in fondo finta, una cosa
da parata).
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Un secolo dopo la morte di Altdorfer, nasce Domenico Theotokopoulos (El
Greco, 1541-1614): un pittore
che, nella tarda età, portò novità straordinarie
nella concezione pittorica europea. El Greco sosteneva che il colore
doveva avere predominanza sul disegno, e cioè che il
sentimento aveva il diritto-dovere di sopravanzare la ragione. Era,
in apparenza, un ritorno alla mentalità medievale, rafforzata
dall’esperienza della Controriforma. Nella sostanza, un
ripensamento religioso inserito nel riconoscimento della superiorità
della fede, la sola che possa salvare l’uomo dalla dannazione o
dal nulla (le due cose, a ben vedere, filosoficamente combaciano).
Quanto sia macerata la fede di El Greco è ravvisabile in
questo dipinto estremo, l'Adorazione
dei pastori”, un olio su tela di 320 x 180 cm., databile
1612-1614, al Prado di Madrid. L’artista l’aveva
concepito per la propria tomba. Le figure sono disposte a spirale,
secondo una visione ascensionale - ideale - della vita in modo
persino ossessivo, esasperato, allucinato. El Greco, nato a Creta
(allora sotto la Repubblica di Venezia), cresciuto artisticamente in
Italia, a Venezia, a Roma, e quindi in Spagna, a Toledo, sotto
l’esigente re Filippo II (che arrivò anche a criticarlo
aspramente per la sua inortodossia: la rigidità
controriformistica non ammetteva libertà interpretative), finì
con il dipingere come voleva e sentiva, inserendo, nella storia della
pittura, un elemento espressivo di notevole fascino (influenzerà
anche pittori del ‘900, persino gli astrattisti e gli
informali, come Pollock): il segno condizionato dal colore che è
dichiarazione immediata dello stato d’animo. Questa
dichiarazione sembra possedere un suo codice interno, personale e
misterioso, capace di leggere la realtà trasognata e di
imporla come verità autentica da perseguire. El Greco non
impone un nuovo modo di vedere le cose, ma suscita riflessioni che
conducono ad una maggiore profondità nella ricerca del vero:
la sua visione è in sé scontata dal sopravanzare del
divino, ma è tutta da vivere, da provare dall’interno e
quindi la profondità speculativa è una conseguenza,
porti dove porti.
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Dello stesso autore:
- Fatti e misfatti, 2011, Prospettiva Editrice
- La rivoluzione cristiana,
2010 Prospettiva Editrice
-
Dentro
la storia, 2010, Mjm Editore
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Notte senza fine,
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