Kant: l’idea di Dio

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Kant: l’idea di Dio

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Giuseppe Bailone

L’idea di Dio è l’idea più importante della filosofia, da quando essa ha cominciato a coniugarsi con le grandi religioni monoteiste della nostra storia. È l’idea dell’essere reale per eccellenza, della causa e del fondamento di tutto ciò che è reale e possibile. È l’idea di ciò che non può essere pensato che come realissimo e perfettissimo.

Per Kant è non solo possibile, è naturale che l’uomo si formi quest’idea; ma, ciò non significa che essa corrisponda a un oggetto reale.

Che l’uomo pensi Dio non significa che Dio esista, come invece sosteneva Anselmo d’Aosta, con argomenti poi ripresi da Cartesio e da altri grandi filosofi. Neppure il fatto che l’uomo, per spiegare il mondo e se stesso, ricorra a Dio, come causa prima e fondamento di ogni realtà, prova che Dio esista.

Su questo punto Kant ha già le idee molto chiare nel 1763, quando, nello scritto L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, dimostra la fallacia dell’argomento di Anselmo d’Aosta, che chiama “la così detta prova cartesiana”.

“Si immagina, prima di tutto, un concetto di una cosa possibile, nella quale ci si rappresenta congiunta ogni vera perfezione. Ora si ammette che l’esistenza sia anche una perfezione delle cose, e si conchiude quindi dalla possibilità di un Essere perfettissimo alla sua esistenza. In tal modo si potrebbe dal concetto di ogni cosa, purché rappresentata come la più perfetta della sua specie, concludere alla sua esistenza; per esempio, concludere alla esistenza di un mondo perfettissimo, già per il solo fatto che può essere pensato. Ma, senza impegnarmi in una dettagliata confutazione di questa prova, confutazione già fatta da altri, io mi riporto soltanto a quanto è stato già dimostrato a principio di quest’opera, che cioè l’esistenza non è un predicato, e quindi non è predicato neppure della perfezione, e che perciò non si può da una definizione che contenga un’arbitraria unificazione di diversi predicati allo scopo di costituire il concetto di una qualche cosa possibile, concludere giammai alla esistenza di questa cosa, e conseguentemente neppure all’esistenza di Dio”.1

L’esistenza è un dato, diventa un predicato solo in base all’esperienza che ci fornisce il dato. Non può essere ricavata con il semplice rigore logico dall’idea di una cosa. Dall’idea di una cosa possiamo ricavare tutte le proprietà implicite nella sua definizione, non la sua esistenza reale.

Definire una cosa e dichiararla reale sono due operazioni ben distinte.

L’intelletto umano ha sì tra le sue categorie anche quella dell’esistenza, ma la può applicare validamente solo per connettere dati empirici.

“Dio esiste” non può essere un giudizio a priori, né analitico né sintetico.

Non può essere un giudizio analitico a priori, perché dall’analisi dell’idea di Dio come cosa possibile non si può dedurre la sua esistenza reale, ma solo la sua esistenza possibile. Non può essere un giudizio sintetico a priori perché l’esistenza di Dio non è un dato empirico.

La distinzione kantiana tra logica formale e logica trascendentale e la corrispondente distinzione tra predicato logico e predicato reale sono alla base di questa critica della prova ontologica dell’esistenza di Dio. Esse, infatti, rendono evidente la confusione che regge questa presunta prova.

La prova ontologica è una semplice elaborazione concettuale, non si basa su nessuna sintesi alimentata dall’esperienza.

Cartesio ha scambiato un predicato logico per un predicato reale.

“Il concetto di un essere assolutamente necessario è un puro concetto della ragione, un’idea, la cui realtà oggettiva è assai lontana dall’essere provata dal bisogno che la ragione ha di essa; questa idea non designa altro che una certa compiutezza, tuttavia irraggiungibile, e serve piuttosto a limitare l’intelletto che ad allargarlo a nuovi oggetti. Incontriamo qui una situazione strana e assurda, perché l’argomentazione da una data esistenza in generale a un’esistenza assolutamente necessaria si presenta come rigorosa e corretta, ma nello stesso tempo ha contro di sé tutte le condizioni dell’intelletto per elaborare un concetto di tale necessità.

In ogni tempo si è discorso dell’essere assolutamente necessario, ma più che por mente a stabilire se ed in qual modo sia possibile anche soltanto concepire qualcosa del genere, ci si è dedicati a dimostrarne l’esistenza. Certamente la definizione verbale di questo concetto non presenta difficoltà, limitandosi ad affermare che esso consiste in qualcosa il cui non essere è impossibile; ma questo non ci dice ancora nulla circa le condizioni che rendono necessario considerare assolutamente impensabile il non essere di una cosa, condizioni che costituiscono proprio ciò che desideriamo sapere; cioè, se mediante questo concetto pensiamo o no qualcosa. In realtà, il liberarsi, con la parola incondizionato, di tutte le condizioni di cui l’intelletto non può fare a meno per considerare alcunché come necessario, è ben lungi dal bastare a farmi comprendere se mediante il concetto d’un essere incondizionatamente necessario io pensi ancora qualcosa o se invece non pensi più a nulla”.2

La prova ontologica è una “sottile sofisticheria” che, riducendo l’esistenza a una nota concettuale, confonde un puro concetto della ragione con una realtà oggettiva. Se l’esistenza fosse una nota concettuale, il contenuto di un concetto verrebbe arricchito quando ad esso si aggiungesse l’esistenza e diminuito se le si sottraesse l’esistenza; ma il concetto di un triangolo solo pensato e quello di un triangolo realmente esistente sono del tutto identici.

“Oggetto e concetto non possono avere che un contenuto rigorosamente identico, e nulla può essere aggiunto al concetto (che esprime la semplice possibilità) per il fatto che il suo oggetto sia pensato come assolutamente dato (mediante l’espressione: esso è). E dunque il reale non contiene niente più del semplicemente possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla in più di cento talleri possibili. Infatti, poiché i secondi stanno a significare il concetto, e i primi l’oggetto e la sua posizione in sé, se l’oggetto possedesse qualcosa di più del concetto, questo non esprimerebbe integralmente l’oggetto e non ne sarebbe il concetto adeguato. Certamente – aggiunge con ironia Kant – rispetto alle mie disponibilità finanziarie i cento talleri reali contengono qualcosa di più del mero concetto di essi (ossia della loro possibilità). Infatti, quanto alla realtà, l’oggetto non è contenuto in modo meramente analitico nel mio concetto, ma si aggiunge invece sinteticamente a tale concetto (che è una determinazione del mio stato), senza però che i cento talleri subiscano il benché minimo accrescimento in virtù di questo essere, che si trova fuori del mio concetto. […]

Tutti gli sforzi e tutta la fatica dedicati al così celebre argomento ontologico (cartesiano) dell’esistenza di un essere supremo in base a concetti, sono dunque stati vani; e un uomo, in virtù di semplici idee, potrebbe arricchirsi di conoscenze non più di quanto un mercante si proponesse di migliorare il proprio patrimonio aggiungendo alcuni zeri al suo attivo di cassa”.3

Demolito “l’infelice argomento ontologico”, “scaturito dalle escogitazioni della mentalità scolastica”, Kant passa a dimostrare l’impossibilità della prova cosmologica dell’esistenza di Dio, che, partendo dalla natura contingente delle cose di questo mondo arriva a sostenere la necessità che esista un essere assolutamente necessario. Così, però, per quanto sia partita da una posizione opposta a quella della prova ontologica, essa arriva a presupporre la validità proprio di quella prova: muovendo, infatti, dal contingente al necessario, dal condizionato all’incondizionato, sconfina dal mondo empirico di partenza e approda a un’idea altrettanto pura di quella ontologica.

La prova fisico-teologica “è sempre degna d’esser menzionata con rispetto”. Si tratta dell’argomento del disegno intelligente, accettato allora da Newton, ma respinto da Hume. Essa si basa “sull’analogia fra alcuni prodotti naturali e ciò che l’arte umana produce quando domina la natura e la costringe a deflettere dai suoi fini per conformarsi ai nostri (basandosi cioè sull’analogia con le case, le navi, gli orologi)”, arrivando a sostenere “che a fondamento della natura deve trovarsi una causalità dello stesso genere, cioè intelletto e volontà”. Questa prova, però, “può giungere al massimo a provare un architetto del mondo, ostacolato comunque dalla resistenza della materia da lui trattata, ma non un creatore del mondo, alla cui idea tutto debba sottostare; e questo certo non basta al grande scopo cui tende, cioè alla dimostrazione di un essere necessario onnisufficiente. Nel caso che volessimo dimostrare la contingenza anche della materia, si renderebbe necessario un argomento trascendentale, che è proprio ciò che qui si voleva evitare. […] Una volta giunti all’ammirazione della grandezza, della sapienza, della potenza, ecc., del creatore del mondo, non essendo possibile procedere oltre, si tralascia d’un tratto questa argomentazione condotta su basi empiriche, per far ritorno alla contingenza del mondo, dedotta dal principio dall’ordine e dalla finalità del mondo. Solo muovendo da questa contingenza, e mediante concetti trascendentali, si conclude all’esistenza di qualcosa di assolutamente necessario, e poi, dal concetto della necessità assoluta della causa prima, al concetto – completamente determinato o determinante – del medesimo, ossia al concetto di una realtà onnicomprensiva. Trovandosi dunque incagliata, la prova fisico-teologica si toglie d’impaccio passando di salto in quella cosmologica; e poiché questa si risolve in una prova ontologica camuffata, la prova fisico-teologica riesce a giungere in porto soltanto facendo ricorso alla ragion pura, malgrado il rifiuto iniziale di ogni parentela con questa, e il proposito di basare l’intero procedimento su prove lampanti desunte dall’esperienza.

Non c’è dunque alcuna ragione perché i fisico-teologi dimostrino tanta sufficienza nei riguardi della prova trascendentale e, arrogandosi il ruolo di chiaroveggenti conoscitori della natura, la guardino dall’alto in basso come una ragnatela intessuta di oscuri cavilli. Se, infatti, prendessero in esame se stessi, si renderebbero conto che, fatto un certo cammino sulla strada della natura e dell’esperienza e constatato di restare pur sempre egualmente lontani da quell’oggetto che sembrava alla portata della loro ragione, essi abbandonano subitaneamente questo terreno per passare nel regno delle mere possibilità, nutrendo la speranza di poter raggiungere sulle ali delle idee ciò che era sfuggito alla loro indagine empirica. […]

A fondamento della prova fisico-teologica sta dunque quella cosmologica, la quale, a sua volta, poggia sulla prova ontologica dell’esistenza di un unico essere originario quale essere supremo; e poiché, fuori di queste, non ci sono altre vie aperte alla ragione speculativa, ne segue che la prova ontologica, fondata su puri concetti della ragione, è l’unica possibile, nell’ipotesi che sia almeno possibile una prova per una proposizione che di tanto oltrepassa l’uso empirico dell’intelletto”.4

Torino 13 aprile 2015

Note

1 Kant, L’unico argomento per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Scritti precritici, Laterza 1990, p. 202.

2 Kant, Critica della ragion pura, Utet 1967, p. 477.

3 Ib. pp. 481-83.

4 Ib. pp. 498-501.


ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015