Kant: i limiti e i fondamenti della conoscenza

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Kant: i limiti e i fondamenti della conoscenza

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Giuseppe Bailone

I limiti della conoscenza di cui si occupa Kant nella Critica della ragion pura non sono gli errori e le mancanze di singole imprese conoscitive, bensì quelli costitutivi della facoltà umana della conoscenza.

Facciamo un esempio: nei loro movimenti i singoli uomini possono realizzare prestazioni molto diverse, da quelle più straordinarie e ammirevoli a quelle più maldestre, ma tutti sono costituzionalmente limitati dall’avere due gambe, due braccia e altri limiti corporei comuni, che li mettono in condizione di camminare, correre, nuotare, ballare ecc., ma non di volare, come invece fanno normalmente gli uccelli.

Quali sono negli uomini i limiti analoghi nella conoscenza?

L’uomo pratica la conoscenza sensibile, quella scientifica e quella metafisica.

Qual è il grado di certezza che l’uomo può realizzare servendosi dei sensi?

Le leggi che la scienza ritiene di aver scoperto sono veramente universali e necessarie come si pretende che siano?

Nella ricerca metafisica quali sono le possibilità umane?

Il problema non è nuovo. È nato con la filosofia stessa.

Con la nascita della scienza moderna, tuttavia, questo problema ha impegnato la filosofia del Seicento e del Settecento con particolare urgenza e in una forma nuova: il successo crescente e continuo del nuovo tipo di ricerca, basato sull’uso della matematica e sull’abbandono del finalismo, è validamente fondato? Veramente la matematica non è un’opinione? Le sue verità valgono per tutti, anche per Dio, ammesso che esista? Lo studio della natura, con i mezzi offerti dalla matematica, può raggiungere risultati validi come quelli raggiunti in matematica? È vero che, come pensava Galileo, le verità matematiche valgono per noi tutti e anche per Dio allo stesso modo? È vero che la natura è scritta in caratteri matematici e che leggendola con quel codice possiamo coglierne l’ordine profondo che la costituisce?

Si tratta di problemi che sono sì generati dalla pratica scientifica, ma hanno natura metafisica. Kant ha imparato dai filosofi inglesi, in particolare da Hume, a diffidare della metafisica, ma è convinto del valore della scienza moderna: a differenza di Hume non riesce a riconoscere a essa solo il valore che può venirle dall’esperienza. Questo valore, infatti, consente di dire, ad esempio, che il sole è sorto tutti i giorni in cui gli uomini hanno osservato il fenomeno, ma non consente di dire che è legge naturale che sorga tutti i giorni e che, quindi, dovesse, deve e dovrà sorgere ogni giorno. L’esperienza accumula fatti, ma l’ordine che noi diamo loro è una nostra costruzione, di cui cerchiamo conferma ancora nell’esperienza. Questa conferma, però, ha natura particolare, non ha la validità universale e necessaria che, invece, attribuiamo alle leggi naturali. Allora, su quale fondamento si regge la validità universale e necessaria della scienza, di cui Kant è certo? È un fondamento metafisico? E possiamo avventurarci nella metafisica con fiducia?

Nella prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura, scrive:

“In una specie delle sue conoscenze la ragione umana ha il particolare destino di essere tormentata da problemi che non può scansare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma ai quali tuttavia non è in grado di dar soluzione, perché oltrepassano ogni suo potere. La ragione cade in questa difficoltà senza sua colpa. Essa prende le mosse da principi il cui uso risulta inevitabile nel corso dell’esperienza ed è da questa sufficientemente convalidato. Attraverso questi principi (come la sua stessa natura comporta) la ragione procede sempre più in alto, verso condizioni sempre più remote. Ma quando si accorge che per questa via il suo procedere è costretto a restar sempre incompiuto, perché i problemi non cessano di risorgere, si vede costretta a far ricorso a principi che oltrepassano ogni possibile uso d’esperienza e che tuttavia sembrano così al di sopra di ogni sospetto da riscuotere il consenso anche della comune ragione umana. Ma in tal modo essa cade in oscurità e contraddizioni, a causa delle quali può certamente rendersi conto che in qualche luogo debbono nascondersi degli errori di base; non le riesce tuttavia di scoprirli, perché i principi di cui si serve, ponendosi al di là di ogni esperienza, negano all’esperienza ogni possibilità di valere come pietra di paragone. Orbene, il campo in cui si combattono queste lotte senza conclusione si chiama metafisica”. 1

I problemi metafisici che l’uomo non può scansare né risolvere in modo che non si prestino a discussioni senza fine sono “Dio, la libertà e l’immortalità”.

Il successo della matematica ha illuso molti sulla possibilità di costruire sul suo modello una metafisica scientifica. Se non è difficile, però, imitare nei ragionamenti metafisici il rigore dimostrativo della matematica, non è possibile realizzare conclusioni altrettanto definitive. Infatti, i ragionamenti che i metafisici costruiscono sembrano avere il rigore e la necessità logica dei ragionamenti matematici, ma si prestano a discussioni senza fine.

Nell’introduzione alla Critica della ragion pura, Kant scrive:

“La matematica ci offre un chiarissimo esempio di quanto possiamo avanzare nella conoscenza a priori, indipendentemente dall’esperienza. È innegabile che essa ha a che fare con oggetti e conoscenze solo in quanto si possono rappresentare nell’intuizione, ma questa circostanza è facilmente dimenticata poiché si tratta di un’intuizione che può esser data a priori, e risulta quindi difficilmente distinguibile da un concetto puro. Esaltato da una tale dimostrazione della potenza della ragione, lo slancio ad estendere il conoscere non trova più freni. La leggera colomba, mentre nel suo libero volo fende l’aria, di cui incontra la resistenza, potrebbe immaginare di poter più agevolmente volare in uno spazio privo d’aria. Così appunto Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone assai ristretti limiti all’intelletto, e sulle ali delle idee si arrischiò al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro. Non si rese conto che, malgrado i suoi sforzi, non procedeva d’un palmo, non trovando una resistenza che gli servisse, per così dire, da punto d’appoggio su cui far leva ed a cui applicare le proprie forze per mettere in moto l’intelletto. Ma è un destino abituale della ragione umana nella speculazione quello d’innalzare al più presto il proprio edificio, indagando soltanto alla fine se esso poggi su salde fondamenta. Si va allora alla ricerca di ogni sorta di abbellimento per rassicurarsi della sua solidità, o anche piuttosto per scansare questa verifica tardiva e pericolosa”. 2

L’illusione metafisica si basa sulla dimenticanza del carattere intuitivo degli enti matematici: solo una rigorosa attenzione alla natura della matematica ci consente di evitare la vecchia e onirica metafisica e di costruirne una nuova capace di render conto del valore necessario e universale della scienza.

L’accostamento della filosofia platonica al sogno della colomba di volare nel vuoto ci mostra quel che Kant pensa della caverna platonica, delle difficoltà che l’uomo v’incontra nella ricerca di un sapere fondato e stabile, ma ci dice anche che la soluzione per lui non è l’uscita platonica dalla caverna: l’esperienza non basta a fare scienza, ma ne è condizione essenziale.

La vecchia metafisica, un tempo “la regina di tutte le scienze”, ha ormai perso il trono e si è aperta una fase di anarchia e di guerre intestine.

I metafisici nostalgici, che Kant chiama “dogmatici”, si battono per il restauro di quel regno, mentre gli “scettici”, “una specie di nomadi”, convinti che l’uomo non abbia la possibilità di acquisire conoscenze certe, mettono in crisi i loro piani. Le lotte di questi duellanti hanno, però, generato “la sfiducia e un radicale indifferentismo, portatore del caos e della notte delle scienze, ma insieme origine o almeno preludio di un prossimo capovolgimento e rischiaramento, se almeno è vero che esse sono state rese oscure, confuse e inutilizzabili da uno zelo mal posto”.

Kant non si fa scoraggiare dalle battaglie e dall’anarchia nel campo del sapere. Vede in esse l’indice di maturazione della “capacità di valutazione”. Pensa che si stia aprendo per il sapere una nuova era. Pensa di poter costruire una nuova metafisica rigorosa come la matematica e la fisica.

“Si sentono – scrive in nota – qua e là voci che lamentano la superficialità del modo di pensare del nostro tempo, nonché la decadenza del sapere fondato. Ma non vedo come le scienze il cui fondamento è ben posto, quali la matematica, la fisica ecc., possano meritare questo rimprovero; al contrario, esse conservano la vecchia fama di consistenza, accrescendola nei tempi moderni. Lo stesso spirito potrebbe dar buona prova anche negli altri campi del conoscere, purché si fosse proceduto prima di tutto al riesame dei loro principi. Ciò mancando, indifferenza e dubbio, e infine una critica rigorosa, attestano invece un modo di pensare fondato. Quella in cui viviamo è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve venir sottoposto. Con la sua santità, la religione, e, con la sua maestà, la legislazione pretendono solitamente sottrarsi alla critica: ma in tal modo esse sollevano nei propri riguardi un fondato sospetto, compromettendo quella stima non simulata che la ragione può concedere solo a ciò che si sia rivelato in grado di resistere al suo libero e pubblico vaglio”. 3

È quindi ora che la ragione si assuma “il più arduo dei suoi compiti, cioè la conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma tolga di mezzo quelle prive di fondamento, non già arbitrariamente, ma in base alle sue leggi eterne e immutabili; e questo tribunale non è altro che la critica della ragion pura stessa”.

“Con questa espressione – continua Kant – non intendo alludere a una critica dei libri e dei sistemi, ma alla critica della facoltà della ragione in generale, rispetto a tutte le conoscenze a cui essa può aspirare indipendentemente dall’esperienza; quindi alla decisione sulla possibilità o impossibilità di una metafisica in generale, alla determinazione tanto delle fonti quanto dell’estensione e dei limiti delle medesima, il tutto però in base a principi”. 4

Portando la ragione di fronte al proprio tribunale, Kant ridimensiona le pretese scientifiche della metafisica, e la riduce all’analisi della mente umana.

“Mi sono dunque incamminato per questa via, l’unica che restasse aperta, e mi lusingo di aver trovato in essa il modo di rimuovere tutti gli errori che hanno finora volto la ragione contro se stessa nel suo uso svincolato da ogni esperienza. Non ho fatto appello all’impotenza dell’umana ragione, magari per sottrarmi ai problemi che incontravo; li ho invece individuati secondo principi; e dopo aver messo in chiaro il punto di equivocazione della ragione con se stessa, ho dato loro una soluzione pienamente soddisfacente. […] Ciò a cui ho mirato in quest’impresa è stata la completezza, e mi permetto di dire che non può esserci neanche un solo problema metafisico che non trovi qui o la propria soluzione o la chiave per essa”. Il progetto kantiano è ambizioso, ma molto più modesto di chi si propone “la dimostrazione della semplicità della natura dell’anima, o della necessità di un primo cominciamento del mondo. Costui, infatti, – scrive Kant – si assume l’impegno di estendere la conoscenza umana al di là di ogni limite dell’esperienza possibile, mentre io confesso modestamente che ciò oltrepassa ogni mio potere, e che pertanto ho a che fare semplicemente con la ragione stessa e col suo puro pensiero, per la conoscenza adeguata dei quali non debbo, cercando, allontanarmi da me stesso, poiché li incontro entrambi dentro di me”. 5

La strada di Kant non è del tutto nuova: già Locke e Hume avevano praticato l’analisi dell’intelletto e delle sue attività al fine di scoprire i fondamenti del sapere. L’avevano però condotta come analisi psicologica, non riuscendo pertanto a spiegare come l’intelletto possa produrre conoscenze a partire dalle percezioni. L’indagine kantiana verte, invece, proprio su questa possibilità e sulle sue condizioni.

È vero, scrive Kant nell’introduzione alla Critica della ragion pura, che “ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza”, ma “da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe, infatti, avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che noi riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili); aggiunta questa che non distinguiamo da quella materia primitiva, fintanto che un lungo esercizio non ce ne abbia resi consapevoli, ponendoci in grado di separare i due fattori”. 6

La conoscenza, anche quella empirica più semplice, non è mai semplice passività, ma anche attività, costruzione della mente, che mescola alla “materia primitiva”, nell’atto stesso di riceverla, elementi formali suoi propri, e ne fa un composto. Ciò significa che la sensibilità e l’intelletto possiedono proprie strutture a priori, che sono il fondamento e il limite, al tempo stesso, del valore delle nostre conoscenze. Queste strutture permettono, infatti, la costruzione di giudizi dal valore universale e necessario, che Kant chiama “sintetici a priori”, distinguendoli da quelli “analitici a priori” e da quelli “sintetici a posteriori”.

Per capire queste espressioni kantiane, bisogna tener presente il significato dei quattro aggettivi che Kant usa per qualificare i giudizi, cioè le proposizioni conoscitive: sintetico, analitico, a priori, a posteriori.

Sintetico è il giudizio il cui predicato dice del soggetto qualcosa in più di quanto è già compreso nel soggetto.

Analitico è invece il giudizio che si limita a rendere esplicito ciò che già è compreso implicitamente nel soggetto.

A priori significa indipendente dall’esperienza.

A posteriori significa, invece, che dipende interamente dall’esperienza.

L’esistenza di giudizi scientifici sintetici a priori, di cui Kant è certo, significa che la scienza si alimenta di esperienza ma la accoglie e la elabora in forme che non derivano da essa, ma che ne sono condizioni a priori.

Il problema metafisico del fondamento del valore universale e necessario del sapere scientifico può trovare finalmente una soluzione attraverso l’indagine sugli a priori che rendono possibile l’esperienza e la sua elaborazione scientifica. Kant chiama trascendentale questa indagine metafisica critica e la tiene ben distinta dalla metafisica dogmatica che, uscendo dalla caverna platonica dell’esperienza, si occupa delle idee di Dio, di anima e di mondo.

Per marcare questa distinzione, Kant fissa anche quella tra concetti e idee e quella tra intelletto e ragione: i sensi ci offrono intuizioni, ma noi, con l’intelletto, costruiamo concetti, con la ragione, produciamo idee. Il termine ragione ha qui il significato particolare di organo della metafisica dogmatica, ma Kant usa la parola, come indicano anche i titoli delle sue tre Critiche, anche col significato generico di facoltà umana della conoscenza.

La scienza impegna l’intelletto che, organizzando in unità le esperienze, produce concetti. La metafisica tradizionale impegna la ragione che, uscendo dalla caverna platonica dell’esperienza, produce idee, affascinanti ma irreali.

Torino 23 febbraio 2015

NOTE

1 I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET 1967, p. 63.

2 Ib. pp. 78-9.

3 Ib. p. 65.

4 Ib. p. 65.

5 Ib. p. 66.

6 Ib. p. 74.


ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 10 febbraio 2015

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015