TEORIA
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CONSIDERAZIONI SUL SUICIDIO I - II - III - IV - V - VI - VII
In Francia, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento si sviluppò una corrente antro-psico-sociologica dedicata al tema del "suicidio altruistico", cioè di quella forma estrema di sacrificio di sé in vista di un bene supremo (coincidente in genere con un ideale religioso o politico). Capostipite di tale corrente fu Émile Durkheim (1858–1917), che si rifiutò d'interpretare il fenomeno del suicidio come effetto di un mero disordine mentale individuale, spesso conseguente, a sua volta, di determinate tare ereditarie. Oggi è relativamente facile definire il suicidio altruistico come il tentativo di accettare passivamente la violenza su di sé, senza reagire con la violenza e senza provocare violenza su altri; o, al contrario, come la pretesa di trasformare attivamente il proprio corpo in un'arma letale contro il proprio nemico-usurpatore (di proprietà o di libertà). Una scelta del genere, che esplode quando si ritiene che il rapporto di forze sia troppo sbilanciato a favore del "nemico", e ovviamente quando si pensa che il gesto possa indurre, in qualche modo, il popolo oppresso (che può anche coincidere col proprio gruppo etnico o religioso o politico) a reagire agli abusi con maggiore solerzia e decisione. Martiri contemporanei, che rientrano in tale visione delle cose, li abbiamo spesso visti nel conflitto palestinese, in quello ceceno, iracheno, iraniano, libanese, tibetano; negli anni Sessanta e Settanta se ne vedevano in Cecoslovacchia, Ungheria, Vietnam, Cambogia...; prima ancora in India, in Russia e in tutte quelle popolazioni che nell'Ottocento combatterono per avere una propria nazione indipendente. Durkheim però fu il primo che cercò di collegare il suicidio al contesto socioculturale dell'individuo: confessione religiosa, famiglia, società politica, andando ben oltre la semplice analisi dei fattori psichiatrici. Nella sua pionieristica indagine sociologica, Il suicidio (1897), egli notò, avvalendosi di rilevazioni statistiche, che nelle società protestantiche, così fortemente basate sull'individualismo, i tassi dei suicidi erano nettamente superiori a quelli riscontrati nelle società di religione cattolica. I meno tentati da questo atto estremo erano, secondo lui, gli ebrei, a motivo del fatto che avevano saputo maturare un forte spirito di gruppo, come forma di reazione alle tante persecuzioni subite. Le tipologie di suicidio ch'egli riuscì a individuare furono quattro:
La conclusione della sua indagine era che il suicidio dipendeva più da dinamiche sociali che da problematiche individuali. La società non andava considerata come mera somma di individui, ma come qualcosa di molto più complesso, dotato di una propria autonomia, con cui uomini e donne devono saper interagire. Questo principio, per quanto l'analisi di Durkheim sulle società primitive fosse in gran parte errata, costituì per molto tempo un assioma su cui altri ricercatori basarono i loro studi. Notevoli, p.es., furono le indagini condotte da R. Hertz (1881-1915) sui Dayak del Borneo (La pratica della doppia sepoltura, 1907) e quelle di M. Mauss (1872-1950) che utilizzò le ricerche di due etnologi: Boas e Malinowski, per scrivere il suo capolavoro, Saggio sul dono (1923), in cui poté dimostrare che in tutte le società primitive la continuità dei rapporti umani veniva garantita dalla triplice obbligazione morale del dare, ricevere e ricambiare; non solo, egli arrivò anche a comprendere che azioni per noi del tutto naturali, come p.es. il parlare, il camminare e il dormire, in quelle società diventavano fenomeni sociali veri e propri. Qui intanto si può notare come le tipologie scelte da Durkheim per spiegare il suicidio altruistico, oggi si siano ulteriormente diversificate, chiamando p.es. in causa le gesta dei giovani palestinesi contro l'occupazione israeliana. In casi del genere l'altruismo riscatta un'intenzione che altrimenti apparirebbe come sconsiderata o, quanto meno, eccessiva. Ma c'è di più, seppur in forma negativa (in quanto col suicidio viene comunque spezzata una vita, e anche più di una, quando esso assume una forma di tipo terroristico): il suicidio altruistico è in grado di far percepire alla collettività oppressa che esiste un'alternativa "sociale" ai disvalori dominanti, un'opposizione irriducibile, di gruppo, al sistema coercitivo. Certo è che sarebbe difficile sostenere la stessa cosa pensando ai kamikaze giapponesi durante la II guerra mondiale, proprio perché qui il suicidio altruistico era dettato da una sorta di cieco fanatismo instillato da uno Stato militarista e imperialista. Indubbiamente negli ambienti militari qualunque gesto di abnegazione, fino al sacrificio di sé, viene considerato utile non solo a se stessi (in quanto si pensa che lasci di sé una percezione eroica), ma anche all'intero gruppo di appartenenza (che si sente confermato nel valore della propria missione); e tuttavia, quando le forze militari sono rappresentative di regimi autoritari, inevitabilmente il suicidio assume una connotazione ideologizzata, dove la strumentalizzazione da parte degli organi di potere è enorme. L'autoimmolazione è più la necessità di obbedire a un ordine autoritario che non una scelta consapevole a favore di un ideale che va oltre la contingenza del momento. Si è talmente abituati a obbedire che il rifiuto di accettare una richiesta del genere apparirebbe come una forma di tradimento. Basta vedere, p.es., a come si comportarono le divisioni naziste in Russia, quando una qualunque valutazione realistica consigliava la resa. Non si può parlare di "martiri della libertà" quando gli apparati politico-militari di appartenenza occupano territori altrui. Neppure quando si pensa di farlo nella convinzione di trasmettere una superiore civiltà. La storia, prima o poi, arriva a smentire queste pretese, denunciandone la mistificazione. Guardando invece i martiri palestinesi della libertà (ma lo stesso discorso potremmo farlo per i tibetani contro i cinesi), si deve constatare che il livello di istruzione di costoro non è affatto basso né le condizioni economiche di vita sono particolarmente indigenti. Queste tipologie di martiri sono persone comunissime, che non hanno mai manifestato sintomi di malattia mentale; è vero che possono avere un orientamento religioso determinato, ma non pare essere la religione il fattore fondamentale che li porta al suicidio, anche se indubbiamente essa conferisce una sacralità particolare a ogni atto di eroismo o di sacrificio personale. Questi "testimoni della verità" sono convinti di compiere qualcosa per il bene del paese in cui vivono. Si sacrificano per aiutare il loro paese a liberarsi da una insopportabile oppressione. E' molto difficile analizzare un fenomeno del genere, poiché anche il padre dell'esistenzialismo filosofico, S. Kierkegaard, era convinto che col proprio sacrificio avrebbe contribuito a far uscire il proprio paese da una forma di vivibilità del cristianesimo vuota di contenuto, ma il suo gesto viene unanimemente considerato quello di un irrazionalista, e non tanto perché ammantato di religione, quanto perché vissuto all'interno della mera individualità isolata, che si costruisce della realtà una rappresentazione univoca. Ora, è difficile sostenere che gesti del genere possono accampare una pretesa di razionalità soltanto perché, come nel caso dei palestinesi, vengono compiuti all'interno di una consapevolezza collettiva. Si tratta sempre e comunque di una forma di disperazione. I martiri volontari hanno solo astrattamente il senso della democrazia: di fatto non credono nella forza del popolo, restano malati di individualismo e, proprio per questa ragione, tendono a preferire i gesti estremi, spettacolari, eccezionali, che, quando sono in gioco valori religiosi, vengono enfatizzati con un'aurea di sacralità. L'antropologo francese René Girard ha scritto nel suo volume La violenza e il sacro (1972), che il suicidio non appare più oggi, a certa opinione pubblica, come un atto contronatura o contro dio, ma, al contrario, come un atto sacro, nel senso che il martire è allo stesso tempo sacerdote e vittima sacrificale. L'azione terroristica diventa un atto religioso di guerra. Tuttavia, questa forma di opposizione di massa, di strati sociali oppressi, che non riescono a rinunciare al lato mistico della loro ideologia e che restano incapaci di creare un vero movimento di liberazione nazionale, resta sempre una forma di disperazione, che di costruttivo non ha nulla. Anche G. Bataille (1897-1962) lavorò su questo argomento, arrivando però alla conclusione che l'aspetto mistico non stava tanto nell'ideale supremo del sacrificio, quanto nel sacrificio stesso, avente valore in sé o, al massimo, in rapporto alla propria, piccola, comunità d'appartenenza. Bataille non credeva nella possibilità che interi Stati potessero portare a suicidi di massa, proprio perché, secondo lui, ciò era incompatibile con l'individualismo dominante nei paesi del capitalismo avanzato. Eppure, se si guardano i totalitarismi del Novecento, bisognerebbe pensare proprio il contrario. Governi autoritari riuscirono a indurre milioni di persone ad accettare una gigantesca follia di massa, in cui il sacrificio di sé, concepito in maniera nazional-popolare, veniva assunto come valore supremo, soprattutto quando si prospettava il rischio di non potersi imporre con la forza sul proprio nemico: tutta la retorica nazifascista e nipponica ruotò attorno a questo tema. Secondo Bataille invece l'individuo che si autoimmola ritrova la comunità contro lo Stato, attraverso la riscoperta della dimensione del sacro, che è intrinsecamente violenta, trasgressiva, poiché solo così sente di poter far uscire, da un inconscio istituzionalmente represso, i propri valori di vita. Questo modo di ragionare, in realtà, è più tipico degli individui appartenenti alle comunità islamiche, oppresse da Stati autoritari, tanto che la parola "martire" (shahid) indica piuttosto un "testimone della verità". L'idea di martirio e i suoi interpreti Fonti
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