a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
A
Accumulazione, Accumulazione primitiva o originaria, Alienazione, Anarchia della produzione, Anarchismo, Antropologia, Aristocrazia operaia, Arricchimento della teoria, Attendismo o attesismo, Avventurismo.
L'accumulazione può essere considerata come il processo che determina la
produzione e la riproduzione sempre più allargata del capitale e, in generale, dei rapporti sociali di
produzione e del modo di produzione a esso corrispondente. Questo processo
presuppone l'accumulazione originaria,
cioè può verificarsi solo a condizione che esista, da un lato, una classe di
capitalisti, ossia di proprietari di mezzi di produzione e in generale delle
«condizioni di lavoro» e, dall'altro, una classe di lavoratori salariati (Proletariato). Secondo Marx: «adoperare
plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale
significa accumulazione del capitale». Infatti l'accumulazione del
capitale è il risultato che il capitalista ottiene anticipando parte del
plusvalore di cui è proprietario per disporre di nuova forza-lavoro e nuovi
mezzi di produzione, determinando così al tempo stesso un aumento del proprio
capitale e un ulteriore sviluppo delle forze produttive.
«Questo risultato diventa inevitabile
appena la forza-lavoro è liberamente venduta come merce dall'operaio stesso. Ma
è anche a partire da quel momento soltanto che la produzione delle merci si
generalizza, diventando forma tipica della produzione; e solo a partire da quel
momento ogni prodotto viene prodotto per la vendita fin da principio, e tutta
la ricchezza prodotta passa per la circolazione. Solo dove il lavoro salariato
costituisce il suo fondamento, la produzione delle merci si impone con la forza
alla società nel suo insieme; ed è anche solo a questo punto che essa dispiega
tutte le sue potenze arcane» (Il Capitale, libro I, p. 643).
Contrariamente a quanto hanno sostenuto le concezioni borghesi dell'economia
politica, l'accumulazione non è risparmio o semplice tesaurizzazione, ma è una parte
integrante ed essenziale dello stesso processo capitalistico di produzione.
Essa avviene non in base a presunte «capacità imprenditoriali», ma seguendo
leggi oggettive che sono caratteristiche dell'intero modo di produzione fondato
sulla proprietà privata dei mezzi di produzione separata dalla forza-lavoro
vivente e contrapposta ad essa e, in ultima analisi, seguendo le leggi che il
capitale impone alla società per accrescersi continuamente. Analizzando le
funzioni del capitalista «in quanto è capitale personificato» e dopo aver
definito il suo «istinto assoluto per l'arricchimento» come «effetto del
meccanismo sociale all'interno del quale egli non è altro che una ruota
dell'ingranaggio», Marx mostra come lo sviluppo della produzione capitalistica
renda necessario un aumento continuo del capitale investito in una impresa
industriale e la concorrenza costringa il
capitalista
«...ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può
espandere soltanto per mezzo dell'accumulazione progressiva... L'accumulazione
è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende, oltre la massa
del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista»
(ivi, pp. 648-49).
Inoltre l'accumulazione è, in quanto «capitalizzazione di plusvalore»,
essenzialmente appropriazione capitalistica, cioè impossessamento da parte di
«privati» di ciò che, secondo l'analisi marxista, è per sua natura sociale: il
lavoro, gli strumenti per realizzarlo, i mezzi di sussistenza dei lavoratori.
L'accumulazione capitalistica, come processo, tende a diventare aumento
illimitato della grandezza del capitale; ma questo «aumento illimitato» è
impedito non solo dalle sue contraddizioni (Crisi
economica) e debolezze particolari, quali ad esempio la sovrapproduzione
relativa di capitale e la sovrappopolazione relativa, o in generale la tendenza
alla caduta del saggio di profitto, ma
da ciò che esso stesso crea e che gli si contrappone: i bisogni sociali e il
lavoro salariato e, con esso, la classe che è in grado, secondo il marxismo, di
organizzare la produzione per la soddisfazione dei bisogni sociali stessi e non
sulla base delle leggi dell’accumulazione.
Accumulazione primitiva o originaria
E' il processo storico che ha determinato le condizioni fondamentali della
produzione capitalistica. Secondo Marx:
«Il rapporto capitalistico ha come
presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di
realizzazione del lavoro... Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è
altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di
produzione. Esso appare "originario" perché costituisce la preistoria
del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Il Capitale,
libro I, pp. 778-79).
Questo processo, molto complesso, in cui intervengono numerosi fattori, dalla
formazione del mercato mondiale del commercio, che ha inizio su vasta scala
dalla fine del XV secolo, allo sviluppo del sistema del debito pubblico e del
credito internazionale, ha come fondamento «l'espropriazione dei produttori
rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre» e, in generale,
«...l'accumulazione originaria del capitale significa soltanto l'espropriazione
dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata
fondata sul lavoro personale». Infatti il modo di produzione caratterizzato
dall'esistenza di lavoratori che hanno la proprietà privata delle loro
condizioni di lavoro, come ad esempio erano la maggior parte dei contadini e
degli artigiani in Inghilterra alla fine del XV secolo, si contraddistingue
necessariamente per l'estrema suddivisione della proprietà del suolo e degli
altri mezzi di produzione ed
«...esclude, oltre alla concentrazione
dei mezzi di produzione, anche la cooperazione, la divisione del lavoro
all'interno degli stessi processi di produzione, la dominazione e la disciplina
della natura da parte della società, il libero sviluppo delle forze produttive sociali.
Esso è compatibile solo con dei limiti ristretti, spontanei e naturali della
società» (ivi, p. 824).
Una vera e propria «rivoluzione» nel modo di coltivare la terra, che
esigeva la concentrazione di grandi proprietà coltivate estensivamente, accanto
alla formazione dell'industria manifatturiera (Manifattura) e in generale lo sviluppo tecnico e
un'ulteriore divisione del lavoro, costituirono il fondamento economico dell'accumulazione
originaria. Tuttavia la formazione di una classe di fittavoli capitalisti e di
capitalisti industriali assunse una funzione importantissima in questo
processo.
«La borghesia, al suo sorgere, ha
bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso per "regolare"
il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare
del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere
l'operaio stesso ad un grado normale di dipendenza. È questo un
momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria» (ivi, pp.
800-801).
Inoltre
«Non era possibile che gli uomini
scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per
l'espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla
manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel
proletariato veniva messo al mondo» (ivi, p. 797).
In conseguenza di ciò il periodo dell'accumulazione originaria è
contraddistinto, secondo Marx, da una vera e propria «legislazione sanguinaria
contro gli espropriati dalla fine del XV secolo in poi», dalla violenza e dalla
coercizione esercitate attraverso l'apparato statale o individualmente dai
singoli capitalisti.
«Così la popolazione rurale espropriata
con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi
fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di
marchio a fuoco e di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema
del lavoro salariato» (ivi, p. 800).
La coercizione immediata e violenta, «extraeconomica», che nel modo di
produzione capitalistico sviluppato continua a essere utilizzata dalla
borghesia, ma solo come «eccezione», fu invece uno dei principali strumenti che
questa classe adottò nel periodo dell'accumulazione originaria, quando la
dipendenza del lavoro dal capitale non era ancora assolutamente e rigidamente
determinata dalle condizioni stesse della produzione, garantita e perpetuata da
esse (Capitalismo).
Nel senso più generale indica la cessione, volontaria o meno, di un
bene; così nel linguaggio giuridico si parla di alienazione di un patrimonio o
di una parte di esso per significare che il proprietario lo ha in qualche modo
ceduto; in campo medico si parla, per analogia, di alienazione delle facoltà
mentali volendo indicare la perdita di queste.
Al fenomeno, che era sempre stato riguardato come un fatto negativo, Rousseau
diede per la prima volta una carica positiva: nel Contratto Sociale,
descrivendo il passaggio degli uomini da un primitivo stato naturale a quello
associativo necessario per fronteggiare gli ostacoli che il singolo non era in
grado di superare, parlò del tacito contratto stipulato in quella fase dello
sviluppo dell'umanità e delle sue clausole che, in fondo, «si riducono tutte ad
una sola cioè l'alienazione totale di ciascuno degli associati con tutti i suoi
diritti a vantaggio della comunità». In questo modo il singolo aliena
effettivamente la propria libertà individuale ma per ottenere i maggiori benefici
derivanti dalla sua appartenenza alla collettività.
Con Hegel, che aveva attentamente studiato gli ulteriori sviluppi del concetto
di alienazione presso gli illuministi e con particolare riguardo per Diderot,
il termine assunse nuovi significati che investivano piani diversi: da quelli
tradizionalmente appartenenti alla filosofia a quelli dei rapporti tra gli
uomini nella società; qui la parola alienazione designa il processo di
separazione degli uomini dal prodotto della loro attività.
La sinistra hegeliana approfondì questo argomento allargando la ricerca a nuovi
settori della realtà. Feuerbach, per esempio, analizzò il problema
dell'alienazione nel campo delle religioni sostenendo che l'idea di divinità
era il risultato di un processo in cui gli uomini avevano idealmente isolato le
loro migliori qualità per trasformarle in attributi divini, oggetto di
adorazione e di devozione; così gli uomini avevano separato se stessi dal
prodotto della loro attività creativa facendo di questo l'entità lontana, grandiosa
e onnipotente che ogni religione conserva tuttora al suo centro.
Moses Hess, a sua volta, studiò il fenomeno dell'alienazione a livello sociale
ed economico: nella società capitalistica i lavoratori alienano se stessi
attraverso la vendita della propria forza-lavoro
che si muta, come la divinità descritta da Feuerbach, in qualcosa d'altro, di
diverso e di estraneo provvisto di una sua potenza che domina coloro che l
'hanno creata.
Sulla base di questi studi considerati criticamente Marx elaborò il proprio
concetto di alienazione che comprendeva le forme diverse del fenomeno nella
sfera del lavoro, nell'ambito delle relazioni tra gli uomini e nell'immagine di
se stessi che gli uomini costruiscono; in ogni caso il termine di alienazione
mantiene il suo significato generale di separazione dall'uomo di ciò che
materialmente e spiritualmente gli appartiene a vantaggio di qualcosa che si
trova fuori dall'uomo stesso (Estraneazione).
Nella sfera del lavoro, l'alienazione si manifesta in primo luogo all'interno
della natura stessa di questa attività che in luogo di essere lo strumento per
soddisfare le necessità dell'uomo è un mezzo diretto a realizzare altri scopi e
cioè il guadagno immediato; conseguentemente il prodotto del lavoro diventa un
oggetto estraneo al lavoratore, non gli appartiene e contribuisce a costituire
un mondo di oggetti regolati da leggi proprie e sfuggito al controllo di chi ha
contribuito a costruirlo. In altri termini si è di fronte a un'espropriazione
generalizzata dell'umanità a beneficio dell'oggetto merce al cui possesso è
diretto ogni sforzo, in modo tale che la stessa vita interiore dell'individuo
viene immiserita fino a uno stadio pressoché animalesco; solo qui «nelle sue
funzioni bestiali, nel mangiare nel bere e nel generare, tutt'al più nell'avere
una casa, nella sua cura corporale, ecc.» il lavoratore può sentirsi libero.
L'alienazione del lavoro è la forma più importante di alienazione sulla quale
si fondano o alla quale si riconnettono tutte le altre forme. Nel lavoro
alienato intelligenza e capacità di decisione vengono eliminati, il lavoratore
compie meccanicamente le azioni necessarie alla produzione di oggetti che non
gli appartengono e dei quali caratteristiche e destinazione sono state decise
altrove senza la sua partecipazione e per finalità a lui estranee. Lo scopo
dell'esistenza umana appare rovesciato: il lavoro non è più il mezzo attraverso
il quale gli uomini realizzano se stessi migliorando le condizioni materiali e
spirituali della loro esistenza, ma un puro mezzo per sopravvivere;
paradossalmente «il lavoratore vive soltanto per guadagnarsi da vivere».
La teoria marxiana dell'alienazione, a differenza delle precedenti riflessioni
sull'argomento, colloca il fenomeno all'interno dei rapporti di produzione
dell'attuale società che impediscono tra l'altro lo sviluppo armonico e globale
dell'uomo, e spingono invece a forme di sviluppo umano irregolare e parziale
alle quali soggiacciono anche se in modi e misure diverse gli stessi uomini che
appartengono alle classi al potere. La fine dell'alienazione si potrà avere
soltanto quando i presenti rapporti di produzione saranno superati.
Ampiamente ripresi dopo il ritrovamento dei Manoscritti economico filosofici
del 1844, avvenuto negli anni trenta, i temi marxiani dell'alienazione sono
stati oggetto di un gran numero di studi e di interpretazioni diverse, spesso
collegate, appunto perché riguardanti la genesi della condizione attuale dell'esistenza
umana, con le correnti dell'esistenzialismo contemporaneo.
Approfondimenti e arricchimenti della teoria dell'alienazione sono stati
compiuti da vari studiosi e i,n particolare da quelli che nel loro insieme
appartengono a quell'indirizzo di pensiero noto come hegelo-marxismo o marxismo occidentale. La teoria
dell'alienazione è anche stata il luogo di incontro per confrontare le teorie
di Freud con quelle marxiane e marxiste.
In regime capitalistico la produzione è determinata dalla volontà unilaterale
del capitalista, il quale decide la qualità e la quantità della sua produzione.
Tale decisione deriva unicamente dalla necessità di acquisire il maggior profitto possibile che verrà accumulato e
reinvestito, per crearne del nuovo e in quantità sempre maggiore.
In base a questi calcoli il capitalista decide se aumentare, diminuire o
mantenere costante la propria produzione. Essa è dunque unicamente determinata
dalle leggi di mercato, non programmata in
base alle aspettative sociali come invece vorrebbe la trasformazione socialista
della produzione. Il regime produttivo è perciò «anarchico» , e in esso, come
afferma Engels, «il prodotto domina il produttore».
L’anarchia di produzione si ripropone su vasta scala anche con la concentrazione di capitale, poiché
nell’ambito del capitalismo
monopolistico il fine della produzione è pur sempre il massimo profitto non
più individuale, ma da ripartire tra le diverse figure del capitalismo
monopolistico stesso.
Una forma caratteristica di anarchia della produzione è rappresentata dalla
fabbricazione di prodotti industriali la cui vendita può essere sollecitata
solo artificialmente con mezzi pubblicitari, come nell’industria
dell’abbigliamento dove talvolta il reale fabbisogno dei prodotti è del tutto
secondario rispetto alle esigenze del profitto.
E’ la dottrina che teorizza la lotta per abolire ogni ordine e autorità
politica e sostituirvi la libertà dell’individuo; in particolare si contrappone
all’idea di Stato.
Tra i più noti teorici dell’anarchismo, il francese Proudhon, il tedesco
Stirner, il russo Bakunin.
Per gli anarchici il rifiuto dell’autorità è completo e si riferisce a
qualsiasi organizzazione statale; lo Stato è considerato una forma di tirannide,
per cui viene giustificato il ricorso a una strategia di violenza che abbia per
fine il suo abbattimento; chiunque detenga il potere è oppressore, e l’oppresso
che si sostituisce all’oppressore diventa egli stesso tiranno.
Marx polemizzerà con Bakunin accusandolo di ignorare le cause delle
trasformazioni sociali e della rivoluzione proletaria, cioè le condizioni
economiche della rivoluzione. Scriveva Engels a Cuno nel 1872:
«Mentre la grande massa degli operai
socialdemocratici sono, insieme con noi, dell’opinione che il potere statale
non è altro che l’organizzazione che le classi dominanti – proprietari fondiari
e capitalisti – si sono data per difendere i loro privilegi sociali, Bakunin
afferma che lo stato ha creato il capitale, che il capitalista ha il suo
capitale solo per grazia dello stato. Poiché dunque lo stato è il male
principale, si deve prima di tutto sopprimere lo stato, e allora il capitale se
ne andrà al diavolo da solo. Noi invece diciamo il contrario: distruggete il
capitale, l’appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte di pochi, e
lo stato cadrà da sé» (Marx – Engels, Contro l’anarchismo, pp. 60-61).
Da questa concezione dello stato deriva la predicazione di Bakunin contro la
partecipazione alle elezioni da parte della classe operaia, che avrà un esito
nefasto soprattutto in Spagna durante l’insurrezione del 1873.
Attualmente esistono correnti anarchiche collegate sul piano internazionale, ma
il loro peso politico è di scarso rilievo.
Letteralmente indica la scienza dell’uomo in generale e in tal senso viene
utilizzata sia per indicare l’insieme delle conoscenze relative all’uomo svolte
all’interno della riflessione filosofica, sia per quelle derivanti
dall’applicazione di concetti e metodi delle scienze naturali (anatomia,
fisiologia, biologia evoluzionistica, ecc.); si distingue così un’antropologia
«scientifica» nel senso stretto del termine. A questa distinzione, sorta nella
seconda metà del secolo XIX, ha fatto seguito in tempi più recenti un altro modo
di intendere lo studio dell’uomo; quello proprio dell’antropologia culturale
che spinge la sua indagine allo studio delle cause sociali che influenzano le
idee e le emozioni dalle quali gli uomini traggono le regole del proprio
comportamento (Cultura).
L’espressione «antropologia marxista» si pone principalmente sulla scia del
primo modo di intendere l’antropologia, ma non è estranea alla sfera
dell’antropologia culturale in quanto ricerca sulla società e sui rapporti tra
questa e le sue idee, le sue istituzioni, i suoi valori ecc. Il modo di
intendere l’uomo nell’antropologia marxista non è infatti quello
naturalisticocce si limita a considerare gli aspetti fisici né, d’altra parte,
quello astratto della filosofia precedente; l’uomo è considerato nella sua totalità che non esclude quindi le basi
materiali della sua condizione e mette in risalto il fatto che le forme di
coscienza, le idee, le relazioni con gli altri, sono strettamente legate alle
caratteristiche di una determinata società.
Quando Marx dice che l'uomo è l'insieme dei suoi rapporti sociali vuole, tra
l'altro, affermare l'impossibilità di una comprensione del problema dell'uomo
al di fuori delle concrete condizioni storico-sociali nelle quali si trova a
vivere ed operare; i concetti stessi usati da Marx per descrivere la realtà
storica nella quale viviamo, è stato fatto osservare, rinviano ad una sfera
antropologica: così per esempio sfruttamento, alienazione, reificazione, falsa coscienza sono termini che
descrivono modi di essere dell'uomo.
Nelle opere di Marx non si trova un'esposizione completa e a sé stante del
problema antropologico che va quindi ricostruito attraverso i vari testi. Il
generale interesse per l'uomo che muove le opere di Marx, specialmente nel
periodo giovanile, è alla base di interpretazioni che vedono nel pensiero
marxiano una nuova filosofia dell'uomo (Umanesimo);
d'altra parte la frammentarietà dei riferimenti e l'assenza di una loro
esposizione organica ha indotto altri a ritenere che un'antropologia marxista
sia ancora tutta da costruire. Ciò ha fornito l'occasione per versioni
esistenzialistiche del marxismo, come nel caso di Sartre, e, specialmente in
relazione alla costituzione della coscienza della psiche dell'uomo, per
introdurre concetti e metodi delle dottrine psicoanalitiche, come nel caso
degli studiosi della Scuola di Francoforte.
Definizione negativa di quella parte della classe operaia che, avendo
raggiunto un certo benessere economico, si allea con la borghesia venendo così meno ali suoi compiti di
classe. Ad essa si riferisce Engels in una lettera a Marx del 1852 quando parla
degli «operai perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperity».
Lenin condusse una violenta battaglia contro il dilagare di questo fenomeno che
aveva assunto a partire dalla seconda metà del1'800 proporzioni drammatiche sul
piano ideologico, perché induceva confusione nelle masse minandone l'unità, e
sul piano politico per le dirette connessioni con l'opportunismo e il revisionismo. Infatti, scriveva Lenin, «i
capi di questa aristocrazia operaia passavano continuamente dalla parte della
borghesia, erano mantenuti da questa direttamente o indirettamente», e la
stessa aristocrazia operaia veniva da lui bollata come «corporativistica,
gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo-borghese, di mentalità
imperialistica, asservita e corrotta dall'imperialismo».
La lotta contro l'aristocrazia operaia fu quindi una lotta per la conquista
delle masse e per l'unità della classe operaia; costituì uno dei temi del III
Congresso Comunista (1921) e si tradusse al IV Congresso dell'Internazionale
Comunista (1922) nella parola d'ordine del «fronte unico» della classe operaia.
Si intende con questa espressione il processo di allargamento coerente del marxismo, attuato successivamente alle
elaborazioni originarie. Quali arricchimenti della teoria sono stati
presentati, nell'ambito del marxismo, differenti e talora opposti contributi
non solo teorici, ma dati i rapporti intercorrenti tra teoria e prassi,
anche tattici e strategici. Taluni arricchimenti della teoria, tuttavia, vengono
riconosciuti come effettive negazioni dei presupposti del marxismo: tali
furono, ad esempio, il revisionismo e il riformismo.
Recentemente si è aperto un ampio dibattito su alcuni apporti di varia natura,
considerati come arricchimenti della teoria. Tale è, per esempio, sul piano più
propriamente teorico il subimperialismo, che indica, secondo taluni, il
modo di essere di quei Paesi a capitalismo
dipendente, i quali, nei limiti delle possibilità di iniziativa a loro
consentiti dall'imperialismo dominante (Imperialismo),
giocano un ruolo relativamente indipendente in politica estera, talvolta
marginalmente contraddittorio rispetto a quello dell'imperialismo dominante. La
situazione attuale del Brasile costituisce un esempio di subimperialismo.
Una esemplificazione, invece, di ipotesi strategica considerata quale
arricchimento della teoria, è il compromesso storico, proposto dal
Partito Comunista Italiano e ribadito nell'ambito del XIV Congresso (marzo
1975), come «...l'unica adeguata prospettiva per arrivare alla trasformazione
democratica del paese, e per garantirla...» (Il rapporto di Berlinguer al
XIV Congresso del PCI, in «1'Unità, 19 marzo 1975, p. 10).
Tale proposta, basata su «un vastissimo schieramento popolare», è stata
presentata come
«... un più avanzato terreno di lotta
ed è al tempo stesso, una sfida che il Partito comunista rivolge a tutte le
altre forze democratiche, soprattutto a quelle che si ostinano a mantenere la
vita politica del paese entro vecchie formule, più o meno rinverdite o magari
presentate in veste nuova, ma che hanno in comune l'insuperabile debolezza di
essere state tutte piuttosto a lungo e ricorrentemente sperimentate e di essere
tutte fallite .
Nel linguaggio politico designa l'atteggiamento di chi, in una determinata situazione storica e politica, dimostra la non volontà o l'incapacità di assumere posizioni nette e precise. E' da notare come con tale termine si suole indicare non tanto la prudenza che nasce da un'esigenza critica di orientamento, quanto piuttosto l'immobilismo di chi, attendendo l'evolversi delle cose, teme di compromettersi. In tale senso nella tradizione comunista il termine è stato unito a quelli di opportunismo e di revisionismo, in quanto proprio di tali tendenze è la caratteristica di non volgersi risolutamente verso gli interessi della classe operaia, attraverso l'azione concreta e quotidiana, bensì di indulgere a un atteggiamento passivo e anzi ostile a soluzioni innovatrici, favorendo oggettivamente gli interessi avversi.
La tendenza a dare il via a iniziative politiche senza aver prima considerato
con la necessaria attenzione le condizioni concrete della situazione storica in
cui esse sono o dovrebbero essere prese.
L'avventurismo è di solito la conseguenza di atteggiamenti basati su astratte
formulazioni che portano a ipotesi sbagliate o comunque lontane dalla realtà:
perciò indica sempre la presenza di un grave rischio di fallimento; sotto
questo aspetto è connesso tanto all'infantilismo e all'estremismo quanto alle incertezze sulla linea
politica da seguire in momenti di grande tensione.