STORIA ROMANA |
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La schiavitù nelle civiltà antiche
In 4.000 anni di storia si è passati da una sorta di schiavitù implicita, in cui il contrassegno era l'obbligo del tributo, che se non veniva pagato poteva portare il contribuente a una schiavitù esplicita, a una vera e propria schiavitù diretta, immediata, senza soluzione di continuità: un'esistenza in cui tutta la persona dello schiavo, con tutta la sua vita quotidiana, era un "tributo" al suo padrone. Nel mondo greco poté esserci un'attenuazione della schiavitù solo con l'emigrazione verso le colonie, nel senso che i coloni, tra di loro, cercarono di vivere nelle colonie una maggiore democrazia rispetto a quella della madrepatria. Nel mondo romano i conflitti sociali furono enormemente superiori a quelli del mondo greco e la trasformazione dello schiavo in colono fu solo la conseguenza della irreversibile decadenza dell'impero, incapace di fronteggiare i nemici esterni e la crisi interna. Forse si può dire che nello schiavismo implicito (quello egizio) la rappresentazione della forza si serviva di preferenza della proprietà agricola, nel senso che quante più terre si possedevano tanto più si era forti. Tuttavia, l'idea stessa di poter misurare la propria forza in rapporto alla quantità di terre possedute deve essere stata successiva all'idea di poter misurare la propria superiorità in virtù della pura e semplice forza fisica. Quindi all'inizio della proprietà privata deve esserci stato un conflitto di tipo personale, in cui i "Caino" e gli "Abele" della storia si sono misurati sul piano fisico, col risultato che ha prevalso quello che ha adottato i metodi più violenti, ma anche più subdoli, che risultarono inaspettati alla collettività. Poi, là dove la comunità ha reagito, il violento è stato emarginato o espulso; là dove invece la reazione non è stata adeguata, col tempo, in maniera progressiva, si è imposto un rivolgimento di valori. In altre parole, mentre sotto lo schiavismo implicito il più forte poteva servirsi della proprietà della terra per imporre la propria forza, senza dover necessariamente ricorrere alla forza fisica o militare, e questo presuppone ch'egli fosse già nel passato ricorso a tale forza e che ora non ne avesse più bisogno come prima, viceversa nell'epoca dello schiavismo esplicito la rappresentazione della forza aveva soprattutto bisogno della componente militare, con la differenza che la giustificazione di tale componente aveva bisogno di una legittimazione teorica più sofisticata, come p. es. il diritto. L'Egitto classico sperimentò il passaggio ai due tipi di schiavismo, ma quando entrò nella fase del secondo, accentuando di molto gli aspetti militaristici, incontrò degli avversari - in primis i romani - che sul piano specifico dell'organizzazione militare e della legittimazione teorica erano molto più evoluti. I romani avevano questa particolare caratteristica: il principio della forza militare veniva mistificato dalla finzione del diritto. Cioè nel passaggio dal dominio della terra al dominio militare, con cui viene difeso il possesso privato della terra e che separa peraltro il passaggio dalla repubblica all'impero, si ha un'accentuazione degli aspetti che in apparenza avrebbero dovuto essere antimilitaristici, come appunto il diritto, e che invece serviranno proprio per giustificare l'uso della forza più cieca. Questo non sarebbe mai stato possibile se all'origine dell'affermazione della terra come proprietà privata non ci fosse stato l'uso personale della forza fisica come criterio per risolvere le controversie sociali. In Egitto in luogo del diritto vi fu uno sviluppo eccezionale della religione, e solo nel momento in cui si cercò di realizzare il passaggio allo schiavismo esplicito si operò un tentativo di riforma, poi abortito, in direzione del monoteismo assoluto (tentativo poi portato avanti da Mosè e altri sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che mal sopportava l'acuirsi dello schiavismo). Il fallimento di questa riforma contribuirà decisamente al crollo della civiltà egizia. In ogni caso anche da queste cose si comprende il motivo per cui la civiltà egizia sia durata più di quella romana, anche se questa ha lasciato nella storia delle civiltà un segno maggiore. Al tempo dello schiavismo non esistevano vere e proprie ideologie, se non miti di tipo religioso, formule sacre da ripetere per la propria o altrui salvezza. Ciò che non si metteva mai in discussione era il primato della forza, che in quel momento veniva espresso dal monarca e dai suoi più stretti collaboratori e funzionari. L'ideologia invece è subentrata nel momento stesso in cui il concetto di forza aveva bisogno di una giustificazione teorica per poter continuare a sopravvivere in forme e modi diversi. Sia il sacro romano impero che l'impero bizantino sono stati il tentativo di giustificare lo schiavismo (poi attenuato nella forma del servaggio) realizzando una fusione ideologica tra diritto romano e religione ebraico-cristiana, ed è così che è nata la teologia, che è la prima vera ideologia delle civiltà antagonistiche del mondo occidentale. Oggi l'illusione di un diritto contrapposto alla forza è di molto superiore all'illusione che nelle civiltà antiche si aveva di mitigare l'eccesso della forza con le formule e i riti religiosi. Le civiltà sono state la più grande disgrazia dell'umanità e sarà possibile liberarsene solo quando si porrà fine alla proprietà privata e, di conseguenza, alle sovrastrutture che la difendono: apparati politici, militari, burocratici, fiscali ecc. * * * Bisognerebbe tracciare una linea evolutiva delle civiltà antiche in modo da dimostrare che l'impero romano si configura come l'organizzazione migliore nella gestione dello schiavismo. "Migliore" nel senso della capacità di sfruttare gratuitamente il lavoro altrui. Quali sono state le caratteristiche salienti dell'impero romano che nell'insieme lo hanno reso "migliore" rispetto a tutte le altre formazioni sociali schiavistiche?
La progressiva accentuazione di tutti questi aspetti, che ha avuto uno sviluppo impetuoso soprattutto dopo la morte di Cesare e la trasformazione della repubblica in impero, determinò una progressiva rinuncia alle lotte di liberazione, di cui l'ultimo significativo esempio è stato quello ebraico, anticipato un secolo prima da quello degli schiavi guidati da Spartaco. Una lotta di liberazione viziata dalla componente religiosa venne portata avanti dai cristiani, ma quando l'impero fu invaso dalle popolazioni cosiddette "barbariche" non si realizzò un vero superamento dell'ideologia e della prassi schiavistica, ma solo una trasformazione che ne attenuasse le asprezze: di qui la nascita del servaggio. E per altri mille anni il feudalesimo ha conosciuto conflitti di ogni sorta intorno ai concetti di proprietà e di libertà. * * * Bisognerebbe dimostrare che il mancato passaggio dallo schiavismo al capitalismo è dipeso non tanto o non solo da questioni tecniche o economiche (cioè di tipo quantitativo), ma anche e soprattutto da questioni culturali, nel senso che il rifiuto di considerare lo schiavo una persona (questione introdotta per la prima volta dal cristianesimo) ha impedito di realizzare un rapporto giuridico formalmente libero e quindi di indurre lo schiavista a trasformarsi in imprenditore, cioè a puntare l'attenzione sulla tecnologia per poter sfruttare come prima e meglio di prima una manodopera formalmente umana e non animalesca. Il mondo romano avrebbe potuto passare dallo schiavismo al capitalismo, saltando la fase del servaggio feudale, a condizione che l’accettazione e il rifiuto del cristianesimo avvenissero in tempi molto brevi. Tuttavia considerare lo schiavo una persona implicava un'altra cosa, che si considerasse il lavoro una forma emancipativa e non una condanna. E questo per tutta l'epoca classica, incluso il Medioevo, non s'è mai verificato. Ecco perché il capitalismo non è nato nel feudalesimo, dove pur esisteva il concetto di persona, per quanto limitato dal servaggio. Per far nascere il capitalismo ci voleva l'uomo formalmente libero e l'idea che col lavoro è possibile emanciparsi dalla schiavitù-servitù e contemporaneamente dal proprio passato, dalle tradizioni condivise, dalla comunità di villaggio, dalla chiesa... Per tutto il Medioevo non si è mai stati capaci di porre il lavoro al centro dell'emancipazione politica e sociale. Infatti il lavoro nell'accezione moderna (borghese) viene visto come occasione di affermazione del singolo contro la comunità (in Italia addirittura già intorno al Mille il borghese cominciava a guardare con disprezzo chi non lavorava, quindi non solo i feudatari e il clero ma anche i poveri). La borghesia ha ereditato dal cristianesimo il concetto di persona e ha fatto del lavoro non una dimensione degna dell'uomo ma un'occasione prima di emancipazione individualistica (nel commercio c'è il furto, l'inganno ai danni della collettività) e poi un'occasione di sfruttamento di chi è solo formalmente libero ma materialmente nullatenente. Se guardiamo il momento in cui in Italia sono rinati i commerci, intorno al Mille, noteremo subito che ciò avvenne mentre contestualmente nelle Università si stava teorizzando la fine del cattolicesimo tradizionale (papocentrico, gerarchico, integralistico ecc.), a tutto vantaggio della riscoperta dell’aristotelismo, del nominalismo, del relativismo dei valori, dell’affermazione dei valori borghesi, che in Italia andavano imponendosi, a livello di società civile, in ambito comunale, signorile… La nascita della borghesia europea è contestuale alla critica del cattolicesimo romano. Poteva avvenire una cosa del genere nel mondo romano? Le eresie sono state tantissime nel mondo romano-cristiano (dopo l’ufficializzazione di Teodosio), ma sono state tutte duramente represse, e il pensiero si è per così dire fossilizzato. La teologia agostiniana rimarrà in auge per tutto l’Alto Medioevo e verrà decisamente superata solo dal Tomismo, che aprirà le porte a un’esperienza della fede basata sulla razionalità, cioè su un atteggiamento che è l’anticamera del modo di porsi borghese, tant’è che il tomismo è ancora oggi la teologia dominante per il cristianesimo-borghese. E non a caso Wojtyla ha cercato, vanamente, di superarlo accentuando gli aspetti dell’integralismo preconciliare (operazione che poteva andar bene nella Polonia preborghese, in funzione anticomunista, ma che nell’Europa occidentale non ha avuto alcun seguito). Questo insomma per dire che se lo schiavismo non s’è trasformato in capitalismo non è stato perché mancavano delle basi strutturali, ma perché mancavano basi di tipo culturale, le quali, se fossero state poste, avrebbero generato le necessarie strutture. Il capitalismo infatti non sarebbe stato possibile senza un’esperienza alienata del cristianesimo, cioè senza la convinzione che l’ideologia cristiana, ai fini della giustizia sociale, sarebbe stata una clamorosa illusione. Ma perché maturasse questa convinzione occorreva del tempo: dalla fine dell’impero romano alla nascita del capitalismo sono occorsi praticamente mille anni. Dunque senza cristianesimo non avrebbe mai potuto esserci il capitalismo, e il cristianesimo che ha permesso la nascita del capitalismo è stato quello che ha tradito se stesso, i suoi principi, cioè anzitutto il cattolicesimo-romano, che ha tradito se stesso sul piano politico, con l'affermazione della monarchia pontificia, e successivamente il protestantesimo, che ha portato alle estreme conseguenze il tradimento cattolico, estendendolo a livello sociale: sotto il protestantesimo la corruzione non si pone solo a livello di istituzioni, gerarchia, papato, ma si estende a livello di società civile, di rapporti sociali quotidiani: tutti sono nemici di tutti. E questo in nome del dio cristiano, stravolto nei suoi contenuti originari. Il cattolicesimo ha posto delle premesse politiche a favore del capitalismo che il protestantesimo ha sviluppato a livello sociale. La condizione schiavileLa rivolta di SpartacoLa rivolta di VelznaMarxismo e società anticheLe due vie della nascita dello Stato nelle società anticheEnrico Galavotti |
- Stampa pagina Aggiornamento: 11/09/2014 |