STORIA ROMANA


Marxismo e Società antiche

Come noto, Marx e Engels hanno elaborato una metodologia di lettura del divenire storico - definita materialistico-dialettica - che ancora oggi, anche tenendo conto delle molteplici revisioni e integrazioni (spesso tra loro discordanti) che ne sono state date, si pone alla base della ricerca storiografica.

Molto spesso, tuttavia, sono proprio i punti cardine o i 'princìpi' di un tale tipo di interpretazione a rimanere oscuri, in quanto dati per scontati, senza che del resto nessuno - o quasi - si sia preoccupato di metterli in chiaro, e ciò con pesanti ripercussioni sia sulla loro applicazione in sede interpretativa, sia sull'effettiva comprensione tanto del discorso storiografico marxiano quanto di quello più comune, che ad esso è comunque generalmente ispirato.

E' per tale ragione che si cercherà, qui avanti, di chiarire prima di tutto i punti salienti che stanno alla base della filosofia di Marx e Engels, e successivamente quelli che - secondo tale lettura - sono gli aspetti fondamentali (ovvero le fasi evolutive o i "periodi") della storia occidentale, a partire da quelle più arcaiche o 'tribali' per giungere fino a quelle 'servili' che caratterizzeranno il periodo feudale - il tutto rivolgendo poi un'attenzione particolare a quella fase intermedia, detta schiavile (che è poi anche quella più propriamente 'antica'), che è l'oggetto di questo lavoro.

  1. Il discorso marxiano sulla storia: la relazione tra produzione e organizzazione sociale

A - Cenni generali sul materialismo dialettico

Il primo punto da considerare, nell'avvicinarsi alla metodologia marxiana, è il fatto che in essa - a differenza che nei precedenti sistemi di lettura e di interpretazione storica: uno per tutti in quello hegeliano - è il fattore materiale o produttivo quello su cui viene posto l'accento. Anziché storia di eventi politici (guerre, rivoluzioni, ecc.) o di personaggi particolarmente celebri, essa è infatti prima di tutto la storia intesa come un avvicendarsi di differenti strutture produttive.

Cosa sono le strutture produttive? Per rispondere a questa domanda è necessario aver prima chiarito cosa, nella visione marxiana (e non solo in essa), distingua l'uomo dagli altri animali.

B - Dall'animale all'uomo

All'origine delle molteplici differenze che separano la dimensione umana da quella animale, vi è la capacità dell'uomo di produrre i mezzi alla base del proprio sostentamento e, più in generale, della propria sussistenza. Se l'animale dipende infatti totalmente dalla natura per ciò che riguarda il cibo, il riparo (la tana), la cura di sé e dei propri piccoli, l'uomo al contrario è in grado di interagire attivamente con l'ambiente nel quale si trova a vivere e, attraverso una tale interazione, di procacciarsi ciò di cui ha naturalmente bisogno, e molto di più (migliorando così in modo esponenziale il proprio livello di vita rispetto alla sua condizione originaria e naturale).

C - Il lavoro

Ma una tale creazione dei mezzi che sono alla base della propria concreta esistenza si attua attraverso un'attività specifica e peculiare dell'uomo, in quanto non condivisa da nessun altro animale: il lavoro, attività umana in quanto non istintiva, bensì volontaria e consapevole.

L'uomo insomma interagisce attivamente e consapevolmente con la natura, piegandola (in grado peraltro, almeno tendenzialmente, sempre crescente) ai propri fini peculiari, e creando in tal modo una dimensione propria, alternativa a quella strettamente naturale.

D - Evoluzione delle tecniche produttive

Come si è appena accennato, la capacità umana di interazione con l'elemento naturale aumenta costantemente col tempo, nella misura in cui crescono le conoscenze che egli ha di essa, nonché la capacità di utilizzarle ai fini del proprio concreto dominio. E' logico dunque come una tale crescita implichi parallelamente anche un aumento della complessità del lavoro, cioè delle attività poste in atto dall'uomo per mantenersi in vita e riprodurre la propria esistenza sul piano sociale.

E - Evoluzione delle forme produttive e divisione del lavoro

Veniamo ora al problema che abbiamo lasciato in sospeso al punto A.

La domanda era questa: cosa sono le forme produttive? Abbiamo ora tutti gli elementi per rispondere. Sappiamo infatti che la specie umana è in grado di piegare ai propri fini l'ambiente che la circonda, e che ciò avviene attraverso il lavoro; sappiamo anche che quest'ultimo, inteso come il complesso delle attività finalizzate al dominio della natura, conosce una notevole evoluzione nel corso delle successive generazioni (oggi poi un tale sviluppo ha raggiunto livelli mai visti, anche sul piano della rapidità…); intuiamo facilmente infine che maggiore è la complessità del lavoro, minore è la possibilità che esso venga svolto per intero da un'unica persona.

Il risultato della somma di tali aspetti è che col tempo il lavoro richiede una sempre maggiore specializzazione, ovvero - come la chiama Marx - una sempre maggiore divisione del lavoro, il quale viene così ripartito in diverse mansioni, svolte chiaramente da diversi individui.

Secondo Marx ed Engels, e in generale secondo la loro scuola di pensiero, è proprio una tale complessità la causa della differenziazione sociale: in altri termini, la divisione del lavoro porta con sé anche la nascita delle differenze sociali.

Certo, esse non assumono da subito una valenza 'di potere', o quantomeno di dominio e asservimento dell'uomo da parte dell'altro uomo, essendo all'inizio principalmente funzionali, e tuttavia la nascita della divisione - e della conseguente distribuzione - delle attività in seno alla comunità (fenomeno che avviene essenzialmente a partire dalla fase tribale) costituisce anche il sorgere delle prime differenze a livello sociale (ad esempio, nello stadio tribale, quelle tra i componenti del clan e i loro capi).

E' un fatto inoltre, che un tale schema (divisione del lavoro ---> organizzazione sociale) si possa, in linea di principio, applicare a tutte le società - dalle più semplici alle più complesse, come ad esempio quelle attuali - essendo la vita sociale sempre e comunque organizzata in modo da consentire, attraverso lo svolgimento di attività di varia natura, il mantenimento di quell'organizzazione che - in ultima analisi - dovrebbe rendere possibile, seppure in modi differenti e a differenti livelli, l'esistenza di tutti coloro - o almeno della maggioranza di essi - che ne fanno parte.

Ma vi è un altro punto, implicito in un tale discorso, ed è quello dello sviluppo della complessità delle società umane: crescendo infatti col tempo (nonostante - sia bene inteso - una tale tendenza possa anche conoscere delle interruzioni) la complessità delle attività produttive, cresce di conseguenza anche quella - che ne è in massima parte espressione - della società: della sua articolazione interna e dei ruoli che in essa vengono svolti.

Un altro aspetto poi del pensiero marxiano, che richiede tuttavia una trattazione separata, è quello inerente la nascita e il significato dello Stato, inteso come organismo politico e militare finalizzato al mantenimento dell'ordine sociale, ovvero alla salvaguardia delle strutture sociali (e gerarchiche) vigenti.

F - Lo Stato e la rivoluzione

L'assenza di una vera e propria divisione del lavoro nella fasi iniziali della storia umana (fasi che, paradossalmente, sono di gran lunga anche le più prolungate), determina quella condizione originaria delle comunità umane che suole definirsi "comunismo originario", e che è resa essenzialmente possibile dall'assenza di divisioni e diseguaglianze sociali.

Certo, anche nella famiglia esistono implicitamente delle differenze di ruolo (Marx dice, a tale proposito, che << la schiavitù, latente all'interno della famiglia, comincia [nella fase tribale] a svilupparsi a poco a poco con l'aumento della popolazione e dei bisogni… >> (K. Marx - F. Engels , "La concezione materialistica della storia" , 1845), sottolineando così la diversità di partenza delle attività umane e delle persone), ma alla nascita di una vera e propria gerarchia sociale si arriva solo con la fase tribale (divisa a sua volta, come si vedrà, in differenti sotto-fasi), mentre a quella dello Stato si giunge solo nel periodo schiavile, con l'aggravarsi delle differenze e degli squilibri sociali.

Lo Stato, d'altra parte, non è che uno strumento delle classi dominanti il cui fine consiste nel mantenimento di una data organizzazione sociale e produttiva: cosa necessaria in quanto essa è minata, oltre che dai nemici esterni, anche (almeno potenzialmente) da quelle fasce della popolazione interna che da una tale situazione traggono minor profitto e maggiori svantaggi (<<Lo Stato sorge dalla necessità di un gruppo sociale di organizzarsi per tenere sotto controllo l’intera struttura della società. Ciò che è decisivo e primario è sempre la produzione. Non appena sorgono differenze sociali (di classe o di casta) sorge lo sfruttamento, che determina la natura dell’epoca.>> (Xepel , "Le due vie della nascita dello stato nelle società antiche")).

Esso è quindi un mezzo, nelle mani essenzialmente delle classi più alte (ovvero del gruppo sociale dominante, coadiuvato peraltro da coloro che partecipano - seppur soltanto in parte - ai suoi privilegi), il cui fine è impedire lo scardinamento di quell'organizzazione che dà loro dei vantaggi palesi.

Vedremo meglio più avanti come un tale proposito di scardinamento dello Stato conosca diverse fasi:

- in una prima fase esso non è possibile se non come un 'sogno' o una vaga aspirazione degli 'scontenti', non essendosi ancora formati nuovi rapporti o nuove gerarchie sociali (il cui sviluppo sarebbe dovuto a quello di una nuova forma di organizzazione a livello produttivo) che giustifichino nuovi e differenti rapporti di potere;

- ma vi è anche una seconda fase, in cui i rapporti produttivi (quindi l'organizzazione del lavoro e della produzione) hanno oramai conosciuto cambiamenti tali da richiedere un nuovo assetto dei rapporti di potere: è allora che necessariamente avviene un processo - più o meno violento, più o meno conclamato - di sovvertimento delle gerarchie sociali, durante il quale vengono messe in discussione le basi stesse del precedente Stato e se ne prepara uno nuovo, in quanto espressione di una nuova classe dominante e di nuovi interessi, ideali, ecc.

G - Strutture e sovrastrutture

Bisogna ora analizzare più in dettaglio, anche per comprendere meglio il contenuto di quest'ultimo paragrafo, le molteplici implicazioni che un tale concetto di divisione del lavoro - nonché implicitamente quelli a esso connessi - non può non avere.

Come si è detto, la divisione delle attività atte alla riproduzione sociale è la base stessa dell'organizzazione sociale, ovvero della distribuzione dei ruoli e delle gerarchie di potere. Tali gerarchie inoltre, se da un lato riflettono quella che è la reale organizzazione della società sul piano produttivo, dall'altro sono però anche la cristallizzazione a livello giuridico, politico e… 'ufficiale', di tali rapporti di potere.

Da questo secondo punto di vista, quindi, esse sono uno strumento per quelle classi attorno alle quali si organizza il potere in un dato contesto sociale - cioè le classi dominanti - per difendere il proprio predominio e, con esso, anche i vantaggi che esse ne traggono.

Già da queste considerazioni si vede bene come il discorso sull'organizzazione del lavoro, e quello sull'organizzazione sociale che ne deriva, implichino due differenti ordini di problemi. Da una parte infatti tali concetti rimandano alla produzione sociale (cioè a quella che è l'effettiva base e il reale fondamento della società), dall'altra invece essi rimandano alla "cristallizzazione" - come già la si è definita - dei rapporti cui una tale organizzazione dà luogo (una componente che, in se stessa, finisce per acquisire una certa indipendenza dal fattore produttivo che l'ha generata).

Mentre il primo risvolto di questo discorso è definito nella filosofia marxista come strutturale, il secondo al contrario è definito come sovra-strutturale (per sottolinearne la natura fondamentalmente secondaria e derivata rispetto al precedente).

Mentre dunque le attività produttive sono primarie, in quanto da esse dipende la stessa sostanza della società (essendo essa una realtà innanzitutto produttiva); le attività concernenti invece la sfera sovrastrutturale sono secondarie in quanto il loro compito essenziale è di dare un sostegno di carattere 'morale' (si pensi solo all'elaborazione che ogni società fa di un proprio codice di azione e di comportamento… insomma di una propria 'ideologia', dalla quale derivano in buona parte le strutture politiche e giuridiche in essa prevalenti, le quali trovano comunque e prima di tutto in tale ideologia la propria giustificazione) ma anche pratico, attraverso l'azione coercitiva esercitata attraverso le proprie forze militari (le milizie, gli eserciti, la 'polizia' e tutte quelle istituzioni - antiche e moderne - preposte al mantenimento dell'ordine sociale).

Se inoltre, come si evince da ciò che si è detto, le strutture ricevono effettivamente un sostegno dalle sovrastrutture, ciò è vero soltanto nella misura in cui non avvengano (vedi sopra) dei cambiamenti - la cui origine peraltro molto spesso risiede nell'evoluzione delle tecniche produttive - sul piano dell'organizzazione del lavoro e quindi della stessa struttura sociale.

Quando infatti tali cambiamenti siano avvenuti, e si sia perciò modificata la stessa struttura produttiva alla base della società, tali gerarchie di potere cristallizzate ( che si identificano peraltro con gli apparati politici, giuridici, ecc.) finiscono per perdere gran parte del loro precedente ed effettivo significato, preparandosi quindi a essere sostituite da altri e più attuali rapporti di proprietà (cioè sovra-strutturali), frutto della nuova situazione che si è venuta a creare (<< A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.>>  K. Marx , "Economia politica" , 1859)).

Ma, oltre a un tale aspetto, per il quale le strutture modificano - seppure lentamente e indirettamente - le sovrastrutture sociali, ve n'è un altro (spesso dimenticato, o più semplicemente frainteso) per il quale le stesse componenti sovrastrutturali (in tutte le loro molteplici forme) possono influenzare, attraverso un effetto per così dire 'retroattivo', quelle stesse strutture economiche che stanno alla loro base.

E ciò in quanto, al di fuori di quello stadio primitivo nel quale la trasformazione del lavoro è necessitata dalle stesse esigenze produttive, ancora elementari (la protezione dagli agenti atmosferici, il nutrimento…), le sovra-strutture ideologiche divengono inevitabilmente - almeno in un certo grado - la 'bussola' che orienta le trasformazioni sociali e produttive, esercitando un'influenza sulle scelte produttive (oltre che politiche) della società.

Ciò non toglie, in ogni caso, che esse siano e rimangano sovra-strutture, in quanto non orientate all'azione produttiva, bensì a quella - sovrastrutturale, appunto - di consolidamento di determinati rapporti di potere, cioè alla difesa di uno status quo politico e giuridico.

In tutto questo discorso, è implicito il ruolo 'sovrastrutturale' dello Stato che - come entità politica, giuridica, ideologica e militare - si pone come garante di una determinata organizzazione sociale della produzione e dei rapporti di potere che ne derivano (anche oltre, peraltro, i rapporti meramente produttivi).

H - Riepilogo dei concetti precedenti

Abbiamo dunque analizzato finora i seguenti aspetti del pensiero marxiano:

lavoro -->
divisione del lavoro
-->
organizzazione sociale
(strutture produttive) -->
cristallizzazione delle gerarchie sociali
(sovrastrutture) -->
superamento delle prime da parte delle seconde
(che è poi causa dell'evento rivoluzionario) -->
ma anche l'azione delle seconde sulle prime (in quanto capaci di imprimere delle direzioni agli sviluppi produttivi) -->
lo Stato come l'insieme delle sovrastrutture (politiche, giuridiche, amministrative, ideologiche, ecc.).

  1. Le fasi principali delle antiche società occidentali: tribù, schiavitù, servaggio

A - Premesse di metodo

Il metodo che si deve seguire nel ricostruire la dinamica dello sviluppo della società umana a partire dalle fasi iniziali o tribali (e prima ancora 'naturali') fino a quelle servili, si basa sui presupposti metodologici sopra esposti, tiene conto cioè di due fattori essenziali:
a) l'evoluzione del lavoro, e b) quella altrettanto fondamentale - nonché conseguenza della prima - delle forme di proprietà, cioè di quei rapporti giuridici che sanzionano, come si è detto, su un piano 'ufficiale' o sovrastrutturale il precedente livello produttivo.

Si vedrà quindi come, alla base di tali trasformazioni, vi sia sempre l'evoluzione graduale delle forme dell'organizzazione della produzione, e come - proprio a partire da queste ultime - si sviluppino in seno alle comunità umane sempre nuovi rapporti di potere.

B - La tribù

Lo stadio tribale, ovvero il primo stadio sociale che vada oltre la condizione meramente naturale, sorge dall'aggregazione di più nuclei familiari in un unico clan o tribù.

Ovviamente una tale unione nasce dall'intuizione che la collaborazione possa fornire maggiori opportunità di sopravvivenza al nucleo familiare, rispetto all'isolamento. In questo primo stadio le forme produttive praticate sono prevalentemente la caccia e l'allevamento, oltre a volte all'agricoltura.

Una tale rivoluzione poi, che procura evidenti vantaggi alla comunità, favorisce la crescita numerica degli individui in seno ad essa e - con ciò - quella delle sue stesse esigenze a livello produttivo: un fatto questo, che alimenta e stimola nuovamente l'avanzamento della società sul piano 'tecnologico', nonché quindi dell'organizzazione della produzione.

Anche lo stadio tribale - pur ovviamente più semplice dei successivi - conosce una propria evoluzione interna.

Già nella prima fase, ancora fondamentalmente pacifica, sono presenti infatti delle divisioni sociali (le prime peraltro della storia umana) consistenti nella separazione tra il popolo e i capi-tribù. Questi ultimi, dotati agli occhi del clan di un profondo carisma, hanno il compito di 'tenere insieme' la comunità.

Col tempo poi, anche le differenze sociali tendono a radicalizzarsi e si sviluppa così un'articolazione più complessa.

Una delle cause essenziali di un tale processo sono le guerre tra clan rivali, scatenate presumibilmente dall'incontro/scontro tra di essi nel corso del processo di estensione dei propri territori, e il cui risultato sul piano sociale è la traduzione in schiavitù dei nemici fatti prigionieri.

Nasce da questa pratica il fenomeno del lavoro schiavile (che diverrà la base produttiva del successivo stadio della civiltà) il quale - assieme allo svilupparsi di altre differenze in seno alla comunità - sarà uno degli aspetti fondamentali della nuova e più complessa articolazione del lavoro e dell'organizzazione sociale.

Ma con la schiavitù fa la sua apparizione "ufficiale" anche un nuovo concetto, che rivestirà nelle prossime fasi un'importanza sempre crescente: l'idea di proprietà.

Non si tratta ancora - si badi - di proprietà privata, in quanto gli schiavi sono un bene comune e collettivo, ovvero dell'intera comunità. In ogni caso si tratta già di proprietà. Lo schiavo difatti è un uomo che, avendo perduto la propria libertà personale, non è più padrone di se stesso ed è perciò divenuto proprietà altrui!

Il suo non essere di se stesso implica quindi per lui la fine della libertà personale, e l'inizio di un'appartenenza 'al di fuori di sé', in quanto bene della comunità.

Nella fase tribale quindi - fase che, almeno da un certo momento in avanti, è anche già schiavile - le forme della produzione conoscono un notevole incremento e perfezionamento (si parte difatti dalla caccia e dalla pastorizia e si giunge poi all'agricoltura, che rafforza peraltro la stanzialità della comunità). Con le forme produttive inoltre, si sviluppa anche l'articolazione sociale (capi tribù --> popolo --> schiavi). La fase originaria del comunismo è quindi già stata sorpassata!

C - La fase schiavile (antica)

Questa seconda fase della civiltà umana sorge a partire dall'unione (più o meno forzata) di più tribù in un'unica comunità, il cui centro si colloca in una città. La fase schiavile, dunque, è anche - rispetto a quelle che la precedono e a quella che ad essa fa immediatamente seguito - cittadina.

  • Evoluzione dell'idea di proprietà nel mondo schiavile

Abbiamo visto come l'idea stessa di proprietà sia nata assieme alla pratica di ridurre i nemici in schiavitù.

Quest'ultima, del resto, si è trasformata molto rapidamente in una risorsa essenziale - e di conseguenza anche sempre più presente - all'interno dell'organizzazione sociale (ogniqualvolta difatti cresca - in virtù di una nuova 'scoperta' - la capacità produttiva, crescono di conseguenza anche le esigenze di consumo; Marx ed Engels fanno notare molto bene come tra questi due fattori, produttività e esigenze produttive, sussista una forte relazione reciproca: più aumenta la capacità di produrre infatti, più aumenta la stessa richiesta di beni [un fattore che, tra l'altro, si può ben vedere realizzato nelle odierne società industriali!]).

All'interno dello stadio tribale tuttavia (stadio del quale rimarranno a lungo, nelle società antiche, i segni) la proprietà rimaneva ancora meramente collettiva, mai privata o individuale.

Questo secondo tipo di proprietà, propria della fase schiavile, inizia a svilupparsi con l'aumento della complessità sociale. Già all'inizio della fase antica infatti, si è sviluppata una proprietà privata di tipo mobiliare - riguardante gli schiavi e gli animali (cioè gli 'strumenti produttivi') - , anche se non è ancora presente quella immobiliare o agraria. Quest'ultima poi, anche quando farà la propria apparizione, avrà inizialmente un carattere eccezionale.

In questo primo stadio della società antica quindi, si può essere effettivamente padroni di beni a titolo personale, ma soltanto di beni mobili: un fatto questo, che lega comunque gli individui - nonostante si stiano già sviluppando le prime differenze a livello economico e di censo - alla comunità. E' a partire da essa infatti, e solo da essa, che è possibile la loro ricchezza, poiché fuori dalla comunità la loro proprietà non potrebbe esistere.

Col tempo tuttavia, l'acuirsi delle differenze di censo porterà come conseguenza ad un'ulteriore crescita di tali squilibri sociali e economici. Verrà allora legalizzata, cioè prevista giuridicamente, anche la proprietà privata sulle terre, ovvero sui beni immobiliari.

Se dunque, già la proprietà personale di schiavi e di forza lavoro aveva incrementato - essendone al tempo stesso anche un prodotto - le differenze sociali e di censo presenti nelle stesse società tribali (differenze la cui origine stava, molto probabilmente, nella diversità dei ruoli a livello sociale), questo secondo sviluppo della proprietà - privata e immobiliare - porterà al definitivo decollo di quel processo di accentramento delle ricchezze fondiarie nelle mani di pochi, che caratterizzerà gli sviluppi futuri!

E' la crescita spontanea e incontrollata degli squilibri sociali insomma, squilibri dovuti al fatto che alcuni possiedano un maggior numero di schiavi e di mezzi di produzione, a determinare la nascita della proprietà privata (prima soltanto mobiliare e successivamente anche immobiliare), cioè di quel rapporto giuridico che di tali squilibri in fondo è il sanzionamento ufficiale, e che contribuisce al tempo stesso ad alimentarli.

E chiaro inoltre da questo discorso, come fondamentalmente siano le strutture (cioè il modo dell'organizzazione della produzione in un dato contesto economico) a dar vita alle sovrastrutture (le leggi), e non viceversa!

  • Evoluzione sociale del mondo antico

Si è già detto come col tempo coloro che sin dall'inizio possiedono maggiori risorse produttive, ovvero i soggetti socialmente più potenti (capi-clan, dignitari…), tendano a incrementare per un processo automatico la propria ricchezza. Il sanzionamento della loro condizione attraverso il diritto di proprietà non farà che favorire una tale ascesa sociale ed economica, causando contemporaneamente l'impoverimento e l'indebolimento dei soggetti sin dall'inizio più poveri.

Un tale processo di accentramento dei beni mobili e di quelli immobili nelle mani di pochi, culminerà con la fine stessa del mondo antico, attraverso la nascita delle grandi proprietà fondiarie e, con esse, con l'inizio del periodo cosiddetto feudale o servile (coincidente in Europa soprattutto con l'Alto Medioevo).

Se difatti inizialmente la comunità dei liberi, ancora 'compatta', si contrappone in modo unitario a quella dei non liberi - ovvero degli schiavi - traendo da tale coesione la sua stessa forza, in un secondo momento l'assottigliamento graduale dei soggetti autonomi - dovuto all'ingigantimento delle grandi proprietà terriere (ovvero all''infeudamento' di gran parte della popolazione precedentemente libera, in veste di coloni o servi dei grandi proprietari) - porterà come conseguenza alla parificazione sostanziale di questi ultimi agli schiavi, una fascia della popolazione la cui dignità sociale e giuridica ha peraltro conosciuto col tempo un complessivo innalzamento.

Secondo una tale visione quindi, il sistema produttivo alla base del mondo antico porta in sé - hegelianamente - il germe della propria stessa fine, attraverso la tendenza intrinseca all'accentramento delle ricchezze, soprattutto immobiliari, nelle mani di una ristretta fascia della popolazione.

[Marx vede peraltro, in un simile processo di concentrazione della proprietà, un elemento che accomuna la società antica e quella capitalistica moderna].

La fine della società schiavile - con le città, i traffici e la ricchezza sia culturale che materiale che la caratterizzano - si lega quindi alla decadenza dello stesso modo di produzione schiavile: decadenza dovuta al fatto della scomparsa pressoché totale della piccola proprietà e - con essa - della gran parte della popolazione libera - ovvero, in una parola, alla nascita del sistema economico latifondistico e servile.

  • Ascesa e decadenza delle città antiche

Come si è detto, il mondo antico nasce con le città, in quanto centri di aggregazione di più tribù in unica comunità, e muore con la loro sostanziale scomparsa.

Le città dunque, accompagnano l'evoluzione stessa della società schiavile dal suo sorgere al suo tramontare. Esse saranno la base stessa di tale civiltà, che è politicamente una civiltà di città-stato.

Ma quale ruolo esse svolgono concretamente in un contesto produttivo quale quello antico, ancora essenzialmente agrario e - chiaramente - preindustriale? Ovvero, che tipo di attività si svolgono all'interno dei centri urbani?

Essenzialmente centri di aggregazione per le campagne circostanti, all'interno dei quali vengono svolte sia le attività politiche e giuridiche ( concernenti la comunità cittadina e rurale della città-stato ) che quelle commerciali (riguardanti tanto il mercato locale, quanto, laddove quest'ultimo si sviluppa ulteriormente, le merci di scambio di provenienza più lontana), i centri urbani non costituiscono in massima parte il luogo della produttività - eccezion fatta ovviamente per gran parte delle attività artigianali - bensì piuttosto quello della vita politica, sociale e culturale, nonché dei traffici.

Esse sono insomma parte integrante della vita stessa del mondo antico, pur detenendo al suo interno un ruolo economico certamente non centrale: e ciò a causa sia della mancanza in esso di vere e proprie attività industriali (le quali, per quanto esistono, si svolgono soprattutto all'interno delle campagne, ovvero nelle grandi proprietà), che per la marginalità delle attività commerciali o degli scambi, e delle attività finanziarie.

E sarà difatti proprio la scomparsa delle attività cittadine - o comunque il loro forte ridimensionamento - una delle caratteristiche che segneranno il passaggio dalla civiltà schiavile e antica a quella servile successiva, caratterizzata da un punto di vista sociale dall'essere meramente agraria e latifondistica.

Né è necessario sottolineare come un tale tramonto dei centri urbani sia legato in massima parte al fenomeno - di cui si è già parlato sopra - dell'accentramento delle proprietà agricole nelle mani di pochi, e della conseguente scomparsa tanto della piccola proprietà quanto delle classi medie, rifluite all'interno delle grandi proprietà in veste di coloni. (Parleremo meglio più avanti - quando ci soffermeremo sui lineamenti del periodo servile - delle implicazioni di un tale tipo di trasformazione, la cui principale conseguenza è un notevole 'imbarbarimento' del sistema produttivo antico nonché, logicamente, un notevole impoverimento medio della popolazione).

  • Stati e Imperi nel mondo antico

Al contrario degli Stati moderni che, fondati come sono sulla presenza di mercati comuni a vaste aree geografiche, hanno una connotazione essenzialmente economico-politica, gli Stati antichi sono invece delle entità fondamentalmente politiche : sono cioè il risultato dell'unione di differenti città-stato - ognuna tendenzialmente autonoma dal punto di vista economico - che vanno a comporre delle federazioni, ovvero degli organismi politici a volte anche estremamente ampi (gli Imperi).

Si è già accennato alla presenza in gran parte del mondo antico (ad esempio in quello ellenistico o in quello romano) di commerci su larga scala. Non si deve tuttavia credere che tali attività commerciali 'internazionali' costituiscano una norma. Al contrario, esse rappresenteranno sempre una parte soltanto marginale delle attività di scambio complessive, le quali rimarranno sostanzialmente incentrate intorno ai commerci regionali o sulle brevi distanze.

Se l'economia antica è - in massima parte - il prodotto della somma di una serie di economie locali, i grandi Stati e Imperi non possono che essere di conseguenza delle realtà essenzialmente politiche e militari, la cui coesione è perciò decisamente inferiore - in quanto appunto scarsamente cementata dal fattore economico - rispetto a quella degli Stati moderni.

Non a caso Marx ed Engels, nel parlare di quelle invasioni barbariche che distruggeranno - come noto - il mondo romano occidentale, dividendolo in tanti sotto-stati, affermano: << Roma non fu mai niente di più che una città, ed era legata alle province da un rapporto quasi esclusivamente politico, che naturalmente poteva essere spezzato da eventi politici. >> (K. Marx - F. Engels , "La concezione materialistica della storia" , 1845), sottolineando così la fragilità di un Impero, quello romano, la cui natura è essenzialmente militare e politica (oltre che culturale), ma quasi per nulla fondata sui mercati comuni e sul commercio!

  • Conclusioni riassuntive

Abbiamo dunque brevemente delineato la visione marxiana della società antica, riassumibile attraverso i seguenti punti :

a) unione di più tribù in una comunità il cui centro è la città (città-stato) ;

b) organizzazione schiavile del lavoro ;

c) graduale sviluppo delle differenze di censo, dovuto al processo di accentramento delle proprietà fondiarie (latifondi) …

d) … e sanzionamento di tali differenze attraverso la legge sulla proprietà privata : prima solo mobilare, poi anche immobiliare ;

e) natura fondamentalmente politica e militare degli Stati e degli Imperi antichi, dovuta all'assenza di un mercato comune sulle grandi distanze.

D - La fase servile (feudale)

La fine del mondo schiavile si colloca convenzionalmente con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, e con l'inizio dei Regni romano-barbarici dell'Europa occidentale. Il che implica che il feudalesimo sia un fenomeno peculiare di tali zone, e che non riguardi - se non in un modo piuttosto attenuato - quelle orientali.

Tale periodo della storia si identifica appunto con la fase servile della società, fase riguardante molto più la linea evolutiva occidentale che non quella asiatica.

Analizzeremo in breve, qui avanti, le coordinate di un tale periodo della storia europea, con un'attenzione particolare alle differenze ma anche agli elementi di continuità di essa rispetto a quella che l'ha preceduta.

  • Dal mondo antico a quello feudale

Per comprendere gli sviluppi della società tra la fine del mondo romano e l'inizio di quello feudale, bisogna inquadrare più precisamente di quanto non sia stato fatto prima, la trasformazioni avvenute nel corso della fase del tardo Impero romano.

L'ingigantimento delle proprietà fondiarie infatti, aveva comportato l'abbandono di molte terre precedentemente tenute a coltura, e quindi anche una notevole diminuzione della produttività complessiva. Questo fattore è una delle basi del decremento della produttività e - come conseguenza - anche della diminuzione della popolazione.

La diminuzione della ricchezza aveva inoltre notevolmente indebolito la civiltà antica dal suo interno, e con essa lo stesso Stato sovranazionale che ne era la più alta espressione politica.

Assieme a tali fattori, vi era poi quello delle invasioni dei popoli barbarici, la cui presenza aveva seminato terrore miseria e instabilità all'interno della società antica, contribuendo in tal modo (quantomeno) ad accelerare il collasso di quel sistema produttivo e sociale che da sempre la caratterizzava.

Così, con la deposizione dell'ultimo imperatore occidentale nel 476, verrà soltanto sancita a livello ufficiale o di fatto una trasformazione in atto da oramai circa due secoli, attraverso la nascita di deboli entità politiche (gli stati 'locali') che nascondono la realtà di un'economia oramai divenuta:
a) totalmente locale e parcellare;
b) assolutamente agraria (senza più spazio quindi per attività di carattere industriale e commerciale, e senza più l'esigenza di centri urbani, sedi di attività politico-amministrative che accomunano le località circostanti).

  • La nuova organizzazione sociale e produttiva

Si delinea dunque una società divisa al suo interno, priva o quasi di scambi sia commerciali che culturali, nella quale all'antica contrapposizione tra una maggioranza di liberi e una - pur non esigua - minoranza di schiavi, si sostituisce quella tra una maggioranza di servi ( il nuovo ceto dei lavoratori ) e una minoranza di sfruttatori, costituita dalle classi nobiliari e dagli ordini intermedi tra queste e i servi della gleba, ovvero la classe militare (impegnata ovviamente nella salvaguardia dell'ordine sociale esistente).

Scrivono Marx ed Engels a tale proposito : << Come la proprietà tribale e la proprietà della comunità [antica] anch'essa [ quella servile ] poggia su una comunità alla quale sono contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la proprietà antica, ma i piccoli contadini asserviti. >> (K. Marx - F. Engels , " La concezione materialistica della storia " , 1845).

Si è già detto come diversi fattori (terreni incolti, guerre, carestie, insicurezza delle vie di traffico, influenza e contaminazione delle più primitive culture barbariche…) abbiano portato a un complessivo impoverimento della produttività e a una vera e propria decimazione della popolazione. A ciò dobbiamo aggiungere inoltre il fatto che essi abbiano causato anche un diffuso 'imbarbarimento' delle tecniche produttive nonché, di conseguenza, un'ulteriore involuzione dell'economia in direzione dell'autoconsumo e dell'autosussistenza : in un senso quindi decisamente regressivo rispetto alla precedente fase schiavile.

Tutto ciò ci fa capire come la differenza fondamentale tra le due, non stia tanto nel 'come' ma nel 'quanto'. Entrambi infatti sistemi produttivi fondamentalmente agrari e pre-industriali, il primo è però intrinsecamente più ricco da un punto di vista produttivo (non solo peraltro in un senso economico…), l'altro è invece caratterizzato da un complessivo depauperamento della popolazione, nonché di conseguenza da una profonda e consistente contrazione dell'organizzazione politica e sociale precedente.

Ma come l'economia e la società antica, anche quella feudale porta in se stessa il germe dalla propria fine. E se nel primo caso esso era costituito da un'incontrollata tendenza verso la concentrazione fondiaria, in questa successiva fase esso sarà costituito dalla disumanità stessa della condizione servile: una disumanità che spinge gran parte della popolazione asservita a fuggire (laddove ciò sia possibile) dai latifondi e ripopolare gli antichi centri urbani o, in altri casi, a fondarne di nuovi.

  • La rinascita cittadina

Con la fuga dalle campagne (ovvero dalle condizioni di vita estremamente dure che vi regnano) si ha la rinascita dei centri urbani.

A partire da un tale evento, avrà così inizio quel lungo percorso storico che culminerà con la rivoluzione industriale del secolo XVIII: un percorso nel corso del quale si svilupperà la moderna classe borghese, e con essa il sistema produttivo e sociale moderno, caratterizzato dal reinvestimento della ricchezza e dal lavoro libero, ovvero da un modo di organizzazione del lavoro alternativo tanto a quello basato sul servaggio quanto a quello basato sulla schiavitù.

Inizialmente tuttavia, nel corso ancora medievale di una tale rinascita cittadina (ovvero durante il cosiddetto 'periodo corporativo'), la vita sociale dei centri urbani sarà segnata molto profondamente tanto dalla debolezza delle attività produttive e economiche che vi si svolgono, quanto dalla contiguità con il mondo feudale e il suo modo di organizzazione del lavoro.

Alla dicotomia propria del mondo feudale tra servi e padroni (nonché alla tendenza a concepire la società come un insieme di ordini chiusi, basati sull'ereditarietà del mestiere paterno e della condizione sociale d'origine), farà da complemento l'organizzazione corporativa del lavoro nei centri urbani, fondata sulla contrapposizione tra apprendisti e maestri del mestiere.

Un tale tipo di rapporto, che si traduce per il garzone nell'obbligo di obbedienza nei confronti del suo maestro (padrone, tra l'altro, di un piccolo capitale privato accumulato nel corso degli anni), porterà col tempo allo svilupparsi di una primissima forma di attività commerciale di carattere capitalistico, comprendente inizialmente solo le aree agricole circostanti alla città, o al massimo i centri urbani a essa più vicini.

Tuttavia - ed è questa una differenza fondamentale rispetto all'organizzazione produttiva propria del mondo antico - in questo nuovo ambito le città non si svilupperanno in un rapporto di continuità rispetto alle campagne, bensì al contrario in un rapporto di contrapposizione!

Un fatto questo, che spiega la nascita col tempo della moderna borghesia industriale, caratterizzata da un livello di emancipazione molto superiore nei confronti della produzione agraria rispetto alla 'proto-borghesia' (ovvero ai ceti finanziari, commerciali, burocratici, ecc.) del mondo antico.

Se nel mondo antico erano infatti le città a dipendere fortemente dalle campagne, in quello moderno saranno invece queste ultime (la cui produzione diverrà oggetto di una sistematica speculazione capitalistica) che finiranno per dipendere dalle prime.

A partire dalla rinascita urbana del XII secolo, si delinea così l'ultima fase della civiltà occidentale, quella il cui corso ancora ci coinvolge!

    3. Il dibattito tra modernisti e primitivisti in storia antica

Vi sono attualmente più impostazioni complementari nella lettura dell'economia e della società antiche. Si parla a tale proposito di dibattito tra modernisti e primitivisti, a sottolineare i due possibili estremi all'interno della querelle.

Intendiamo, qui avanti, descrivere sommariamente le coordinate teoriche dei due diversi punti di vista, e di quello (quelli) a essi intermedio. 

  • Modernismo

La corrente modernista è caratterizzata - come si può arguire dal nome stesso - dalla tendenza a 'modernizzare' il mondo antico, ovvero a leggerne le strutture sociali e le attività economiche in stretta relazione a quello moderno.

Se tuttavia è vero che (come disse Marx) "l'anatomia dell'uomo è la chiave per l'anatomia della scimmia", non bisogna neanche cadere nell'eccesso di confondere la prima con la seconda!

Una tale lettura rischia infatti di valorizzare eccessivamente gli aspetti di somiglianza (pure indiscutibilmente esistenti) tra economia e società antica e economia e società moderna.

E' necessario difatti ricordare come nel mondo antico non si sia mai sviluppata una vita industriale vera e propria, né un mercato unico che leghi tra loro aree molto distanti - ad esempio l'Italia e l'Egitto, la Britannia e la Mesopotamia… E ciò nonostante siano attestati scambi commerciali non solo tra le differenti zone, anche le più distanti, dell'Impero, ma anche tra queste e - ad esempio - l'India!

Non si può scambiare insomma la presenza di relazioni commerciali anche stabili - sebbene marginali - tra zone estremamente lontane, con l'esistenza di un mercato comune.

Quest'ultimo difatti richiede che << la società sia organizzata in modo da soddisfare le sue necessità attraverso un enorme "conglomerato di mercati interdipendenti" >> (Moses Finley , "L'economia degli antichi" , 1973 ), ovvero che vi sia una stretta relazione tra le variazioni nei prezzi delle merci, piuttosto che nel costo del lavoro, tra aree geografiche anche molto distanti tra loro (e ciò a causa della loro stretta interdipendenza da un punto di vista commerciale).

La sopravvalutazione del ruolo del mercato porta come conseguenza anche a quella del suo peso nella vita sociale e nelle scelte politiche degli stati antichi (attraverso specialmente, l'equiparazione tra le politiche economiche moderne e le politiche, assolutamente non legate all'esigenza di estensione dei mercati, degli antichi!)

Un cenno deve essere fatto infine a quella che è, presumibilmente, la concezione di fondo della natura del divenire storico nella visione tipicamente 'modernista'.

Secondo essa, difatti, << il tempo storico si svolge secondo un processo circolare, raggiungendo vette di sviluppo per poi decadere ai livelli delle origini >> (D. Foraboschi , "Economie antiche"). Un atteggiamento che ovviamente favorisce una visione modernizzante dell'antichità, poiché pone le basi teoriche stesse dell'equiparazione tra mondo moderno e mondo antico.

  • Primitivismo

La concezione primitivista è, contrariamente alla precedente, tutta tesa a valorizzare gli aspetti pre-industriali e quindi pre-capitalistici dell'economia antica.

Come tale, essa si avvicina molto alla visione marxiana del divenire storico, che si fonda sull'idea di una evoluzione progressiva della società umana, la quale evolverebbe (come si è appena visto) passando attraverso differenti stadi: quello naturale, quello tribale, quello schiavile, quello capitalistico ed infine quello socialista.

Anche altri aspetti di fondo delle due visioni entrano in palese sintonia. Leggendo ad esempio il bilancio fatto da Moses Finley (uno dei più celebri esponenti della corrente primitivista, fiero oppositore delle posizioni moderniste di Michail Rostovtzeff) in merito alla realtà economica del mondo antico (in riferimento in particolare agli Stati ellenistici e all'Impero romano), possiamo sentire riecheggiare alcuni toni della trattazione marxiana della storia antica.

Si legge in esso ad esempio: << Sarebbe necessario mostrare l'esistenza di comportamenti e di reazioni congiunte in aree molto vaste - "l'enorme agglomerato di mercati interdipendenti" di cui parlava Erich Roll - nei settori dominanti dell'economia, per esempio nei prezzi dei generi alimentari e dei metalli; tutto ciò è impossibile, o almeno nessuno lo ha mai fatto. "Né il commercio locale, né quello sulle lunghe distanze - ha fatto studiare un noto studioso di geografia economica - disturbava il sistema fondamentale di sussistenza delle unità "familiari" delle società contadine. Il ruolo delle moderne gerarchie centralizzate, d'altra parte, è fondato sull'estrema divisione del lavoro e sull'assenza di gruppi familiari autosussistenti". Nessuna di queste due condizioni esisteva, in maniera sufficiente, nell'antichità. >> (Moses Finley , "L'economia degli antichi" , 1973).

La concezione primitivista della storia antica, quindi, tende - sulla scia delle posizioni marxiane - a valorizzare gli aspetti politici e militari come fattore unificante degli antichi imperi, lasciano quindi in ombra quelli più strettamente legati al mercato. << Nei suoi ultimi secoli il mondo antico ha costituito una singola unità politica, con una comune struttura culturale-psicologica, la cui importanza per uno studio dell'economia antica spero di poter mostrare nei capitoli seguenti >> (Moses Finley , "L'economia degli antichi" , 1973).

  • Posizioni intermedie

Oltre alle posizioni 'estreme' di Finley e Rostovtzeff, vi sono tutta una serie di posizioni intermedie, capaci cioè di controbilanciare e mediare gli eccessi dell'una e dell'altra. (Si badi poi, che anche all'interno di grandi categorie come 'modernismo' e 'primitivismo' sussistono notevoli differenze teoriche.)

Una per tutte, la posizione di Max Weber (celebre economista e sociologo tedesco), il quale sostiene che << non si può limitare la categoria di capitalismo alla realtà delle grandi imprese basate sul lavoro libero >> e che << le antiche aziende fondate sul lavoro degli schiavi sono una forma di capitalismo embrionale [poiché] ovunque oggetti possono essere posseduti e fatti circolare sui mercati per conseguire un utile si deve - secondo lui - parere di capitalismo. Anche se il capitalismo antico fu sempre subordinato alla politica e alla guerra. >> (D. Foraboschi , "Economie antiche").

  • Conclusioni

Le moderne teorie sulle società antiche oscillano tra tre differenti ordini di posizioni:

a) quella modernista (Mommsen, Rostovtzeff), che avvicina tali società - a livello produttivo e sociale - a quelle moderne, sorte ancora a partire dalla rinascita cittadina e con la prima comparsa della moderna borghesia ;

b) quella primitivista (Finley, Veyne), che tende a sottolineare al contrario come - nonostante i primissimi accenni di un'organizzazione del lavoro finalizzata al profitto commerciale - non si possa assolutamente parlare di un'economia veramente capitalistica nel mondo antico preindustriale;

c) ed infine quella intermedia (Weber), che ammette l'esistenza di un capitalismo, pur per vari ordini di motivi - tanto tecnici, quanto ideologici - estremamente arretrato, nelle società antiche più avanzate.

Adriano Torricelli

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014