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Il realismo degli anni Trenta e il "neo-realismo" (I - II)

Come si vede, il realismo degli anni Trenta è molto vario, perciò giustamente Luperini insiste su quel nuovo, nell'espressione "nuovo realismo", un "nuovo" che significa reazione al frammentismo, ma non passivo ritorno al verismo, un "nuovo" che non esclude la poetica della memoria, il lirismo del ricordo (soprattutto evidente in Conversazione in Sicilia), ma non si esaurisce in questo, se non altro per il fatto che su tale lirismo si intende costruire un'opera narrativa di ampio respiro, specchio di un'epoca, un "nuovo" infine che non intende dimenticare la tradizione realistica italiana ma non disdegna affatto il surrealismo e lo sperimentalismo (Carlo Emilio Gadda, il modello della "neoavanguardia" e del "neosperimentalismo" italiani, esordisce nell'ambito di "Solaria" e su questa rivista pubblica un elogio di Alessandro Manzoni, cfr. Luperini [1]).

Carlo Emilio Gadda

E del resto, nell'Europa di quegli anni si parla di surrealismo, ma anche di "Neue Sachlichkeit" (in Germania a partire dal 1926), e conviene non dimenticare quest'ultimo fenomeno, giacché appunto con un calco di "Neue Sachlichkeit" si comincia a parlare in Italia, già negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta di "neo-realismo".

Ancora a proposito degli elementi compositi, eterogenei, che caratterizzano il "nuovo realismo", e dei suoi rapporti con la grande letteratura europea, ricordiamo che Vittorini stesso nel 1929 scriveva che i romanzieri scoprivano una stretta parentela con Proust e Joyce, che Proust era il maestro più genuino, che Svevo, venuto (cioè: scoperto, rivalutato) all'ultimo momento, aveva giovato meglio che vent'anni di pessima letteratura (cit. in Luperini, ivi: p. 469).

E ancora una questione dobbiamo trattare, per completare questo nostro quadro sommario. Vittorini fa pensare subito ad un altro scrittore, Cesare Pavese (1908-1950): essi hanno in comune la scoperta della cultura americana. Vittorini pubblica nel 1941 l'antologia Americana, immediatamente sequestrata dalla censura; per Pavese l'interesse affonda le radici nella formazione stessa.

Cesare Pavese

Pavese si laurea nel 1930 con una tesi su Walt Whitman. Nello stesso 1930 egli pubblica il saggio Un romanziere americano, Sinclair Lewis, nel 1931 un saggio su Sherwood Anderson e uno su L'Antologia di Spoon River, nel 1932 un saggio su Herman Melville e pubblica anche la traduzione di Moby Dick, nel 1933 il saggio John Dos Passos e il romanzo americano, ecc. (2)

Nessuno ha saputo meglio di Pavese stesso mettere a fuoco il ruolo culturale e di opposizione antifascista della 'scoperta dell'America' in un appassionato articolo pubblicato il 3 agosto 1947 su "L'Unità" (organo del Partito comunista italiano), edizione torinese. Vale veramente la pena di citare con larghezza (3):

Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere 'la speranza del mondo', accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l'America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia. Si scherza? Eravamo il paese della risorta romanità dove perfino i geometri studiavano il latino, il paese dei guerrieri e dei santi, il paese del Genio per grazia di Dio, e questi nuovi scalzacani, questi mercanti coloniali, questi villani miliardari osavano darci una lezione di gusto facendosi leggere discutere e ammirare? Il regime tollerò a denti stretti, e stava intanto sulla breccia, sempre pronto a profittare di un passo falso, di una pagina più cruda, d'una bestemmia più diretta, per pigliarci sul fatto e menare la botta. Menò qualche botta, ma senza concludere. Il sapore di scandalo e di facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i loro argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle pagine tradotte, riuscirono irresistibili a un pubblico non ancora del tutto intontito dal conformismo e dall'accademia. Si può dir francamente, che almeno nel campo della moda e del gusto la nuova mania giovò non poco a perpetuare e alimentare l'opposizione politica, sia pure generica e futile, nel pubblico italiano 'che leggeva'. Per molta gente l'incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci.

Pavese sottolinea bene l'impatto 'di massa' che ebbero le traduzioni di autori americani (e non solo: nel 1934 Pavese pubblica la traduzione di Dedalus di Joyce), la funzione di contrasto nei confronti della cultura ufficiale.

Ma non fu solamente questo: soprattutto per lui, per Pavese, la narrativa americana comportò una ricerca di lingua, di stile e di contenuti, attraverso il Middle West egli scoprì il Piemonte, la provincia contadina, e recuperò la lezione naturalistica di Verga, che egli combinava con la cultura decadente.

Esempio di ciò sono non solo le poesie di Lavorare stanca (1936), tentativo di impostazione di quella che l'autore chiamava 'poesia-racconto', cioè una poesia non lirica, non fondata su un folgorante uso dell'analogia, come la poesia ermetica, ma 'narrativa', una poesia che fa pensare per molti aspetti ad alcuni componimenti di Fernando Pessoa; ma anche e soprattutto il suo esordio narrativo, costituito dal romanzo breve Paesi tuoi, che esce nel 1941, chiaramente influenzato da Faulkner e Cain.

In breve si tratta di questo. Berto, meccanico di Torino, e Talino, un campagnolo, escono dal carcere torinese e, dopo aver vagabondato in città, raggiungono la campagna da dove proviene Talino, la cui famiglia possiede una proprietà, e dove Berto pensa di trovare lavoro. Berto è attratto da Gisella, sorella di Talino, la quale è legata al fratello da un incesto che egli consuma con violenza. Durante la trebbiatura, a causa di un futile motivo (Gisella ha rifiutato di dargli dell'acqua), Talino colpisce la sorella con un tridente. La trebbiatura continua, mentre Gisella muore lentamente dissanguata.

Colpì in questo romanzo lo sperimentalismo stilistico e la crudezza del contenuto. Paesi tuoi fu attaccato dalla critica ufficiale fascista, ed è chiaro perché. Si ricordi la battaglia del grano (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 2. Dalla "età di Giolitti" al fascismo): ebbene tale battaglia fu ripresa nel periodo delle sanzioni successive all'impresa coloniale in Etiopia (su tale impresa si veda La modellizzazione del totalitarismo).

Inoltre, per impedire che "la popolazione agricola eccedente continuasse a riversarsi in città, si dovette ricorrere a provvedimenti intesi a limitare il fenomeno dell'urbanesimo e la propaganda fascista si diede a esaltare la bellezza della vita rurale: la canzonetta Campagnola bella diventò uno dei motivi più in voga." (Procacci [4])

La realtà della campagna in Paesi tuoi non era affatto idillica, come in Campagnola bella, "e tanto meno in linea con le magnifiche sorti e progressive cui il regime pretendeva di aver sollevato la nazione" (Tondo [5]).

Vittorini e altri critici (cfr. Tondo, ivi) elogiarono Paesi tuoi, ma rilevarono solo l'aspetto naturalistico, o neo-realistico, non quello mitico-simbolico: l'immagine della collina come mammella femminile, la terra sessuata, dotata di grembo e vagina, la morte stessa di Gisella "che ha il valore mitico di un rito iniziatico (il sacrificio per la messe) e non certo quello realistico di documento sociale" (Luperini [6]).

L'opera successiva di Pavese si incaricherà di chiarire questi equivoci. Ciò che interessa qui notare è che il complesso panorama del realismo degli anni Trenta comprende anche questo: l'influenza della narrativa americana, in Pavese combinata con esperienze mitico-simboliche di derivazione decadentistica.

Cesare Pavese

Recensendo su "Oggi", il 19 luglio 1941, Paesi tuoi, Mario Alicata, poi fra i più importanti critici letterari comunisti, osservava (cfr. Asor Rosa [7]):

Pavese ha iniziato la sua carriera di scrittore negli anni nei quali si cominciò a parlare, qui in Italia, di realismo, di neo-realisti: con una formula descrittiva assai vaga e generica in verità, e destituita di ogni possibile risultato critico, se il realismo (sia esso psicologico o storico o che altro mai) mi sembra di per se stesso l'unica e necessaria condizione del racconto, e se per conseguenza il suo uso come termine di classificazione può essere così generoso e largo da bastare con comodità per tutti i casi.

Come si vede, si parla già di "neo-realisti". In effetti il vocabolo "neorealismo" (o "neo-realismo") appare verso la fine degli anni Venti quale calco del tedesco Neue Sachlichkeit e viene usato negli anni Trenta e fino al 1943 spesso con riserve, come è il caso di Alicata.

Ancora un esempio: il 23 settembre del 1934 Francesco Jovine scrive che ad una letteratura vuota di contenuto e ridotta a vana esercitazione retorica si oppone una letteratura che trae dalla realtà presente le proprie ragioni di vita. E tuttavia, secondo Jovine, "Per sfuggire alla retorica della pura forma i neo-realisti minacciano di crearne un'altra: quella del puro contenuto." (8)

Anche qui non mancano le riserve. Ora, succede un fenomeno veramente singolare, che mostra del resto un dato di fatto: quanto sia dinamica e talvolta contraddittoria la vita culturale. Nel 1942 il regista Luchino Visconti lavora al film Ossessione, tratto dal romanzo The Postman always Rings Twice di James Cain: fu questo il primo film di quella straordinaria stagione cinematografica che vanta opere come Roma città aperta (1945), Sciuscià (1946), Paisà (1947), Ladri di biciclette (1948), e che fu chiamata appunto stagione del neorealismo.

Luchino Visconti

Il 24 aprile 1965, nel fascicolo n. 17 di "Rinascita" (la rivista del Partito comunista italiano), Visconti raccontava: "Il termine 'neorealismo' nacque con Ossessione. Fu quando da Ferrara mandai a Roma i primi pezzi del film al mio montatore, che è Mario Serandrei. Dopo alcuni giorni egli mi scrisse esprimendo la sua approvazione per quelle scene. E aggiungeva: 'Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l'appellativo di neorealistico'." (cfr. Corti [9]).

Io non so se questo Mario Serandrei fosse o no al corrente del fatto che l'appellativo di "neorealistico" era stato già usato negli anni Trenta e ancora nel 1941 nella recensione di Alicata a Paesi tuoi. Ma anche se ne fosse stato al corrente, rimarrebbe il fatto che egli usò il termine in modo autonomo, e non solo perché lo usò in maniera del tutto positiva (giacché aveva approvato le scene inviategli da Visconti) e non con le riserve con cui lo aveva usato Alicata, ma anche perché lo applicò al cinema, cosa che prima non era stata mai fatta.

Comunque nel 1951 (si badi bene: nel 1951) Eugenio Montale poté dire che "L'etichetta neorealistica è, almeno in Italia, di origine cinematografica" (cfr. Corti, ivi), dimenticando che proprio lui aveva usato l'etichetta neo-realismo il 30 luglio 1942, in una recensione a Via de' Magazzini di Vasco Pratolini (cfr. Asor Rosa [10]).

Come si spiega questa contraddizione? Ci aiuta a capirlo Pavese, il quale nel 1950, in una intervista alla radio, parlò di "uno dei problemi più discussi della nostra cultura odierna", e cioè:

Eugenio Montale

Parlo del cosiddetto influsso nordamericano, cioè non soltanto di me, Cesare Pavese, bensì di quella piccola rivoluzione che, intorno agli anni della guerra, ha mutato - dicono - la faccia della nostra narrativa. Quando si parla di Hemingway, Faulkner, Cain, Lee Masters, Dos Passos, del vecchio Dreiser, e del loro deprecato influsso su noi scrittori italiani, presto o tardi si pronuncia la parola fatale e accusatrice: neo-realismo. Ora, vorrei ricordare che questa parola ha soprattutto oggi un senso cinematografico, definisce dei film che, come Ossessione, Roma città aperta, Ladri di biciclette, hanno stupito il mondo - americani compresi - e sono apparsi una rivelazione di stile che in sostanza nulla o ben poco deve all'esempio di quel cinematografo di Hollywood che pure dominava in Italia negli stessi anni in cui vi si diffondevano i narratori americani. Come avviene che la stessa etichetta definisca con lode una cinematografia e con biasimo una narrativa, che pure sono nate contemporaneamente sullo stesso terreno intriso di succhi nordamericani? (Saggi letterari, cit., pp. 263-264)

A questa domanda Pavese non risponde, egli nota che in effetti si può dire che gli americani hanno imparato in Europa il neo-realismo narrativo, così come adesso stanno imparando quello cinematografico, giacché le radici e i modelli storici della narrativa americana sono europei: per es. senza l'espressionismo tedesco e i russi non si spiegano né O'Neill né Faulkner, senza Maupassant non si spiegano Fitzgerald e Cain.

In altri termini, Pavese intende far notare che "non occorreva affatto uscire dall'Europa per diventare, come si dice, neo-realisti", giacché le radici del neorealismo sono in effetti europee. Comunque Pavese ci aiuta, come dicevo, a capire le contraddizioni nell'uso dell'etichetta di neorealismo. Egli sottolinea che oggi l'etichetta ha soprattutto un senso cinematografico, e un senso positivo. Mentre già prima l'etichetta veniva usata per gli scrittori influenzati dalla narrativa americana (e in realtà ancora prima: si consideri l'esempio di Jovine, precedentemente fatto), e in senso piuttosto negativo.

In effetti: la bellezza, la forza espressiva, l'indiscusso valore artistico di film come Ossessione e Roma città aperta hanno fatto sì che l'etichetta di neorealismo, proposta dal montatore di Visconti e divulgata, evidentemente, dal montatore stesso e da Visconti, si imponesse in modo, per così dire, autonomo rispetto all'uso, letterario, che ne era stato fatto in precedenza. E così furono ignorate, o 'rimosse', le riserve che avevano connotato il concetto di "neo-realismo" applicato alla narrativa.

Ma vi è di più. Pavese espresse i concetti citati nel 1950; Montale disse che "L'etichetta neorealistica è, almeno in Italia, di origine cinematografica" nel 1951, cioè nell'ambito di una Inchiesta sul neorealismo, curata da Carlo Bo (11).

In realtà, se si guarda con attenzione, si nota che nel periodo che va dallo scoppio della Resistenza alle elezioni del 18 aprile 1948 (cfr. infra, nel presente saggio) la parola "neorealismo" viene ben poco usata in riferimento alla narrativa: "Di un recupero generalizzato del vocabolo è possibile in effetti reperire ampia documentazione solo a partire da quest'ultima data" (Milanini (a cura di) [12]).

Non sono queste le uniche contraddizioni del neorealismo: giustamente Maria Corti [13] ha individuato nella "contraddittorietà" una "costante" del neorealismo. Ci conviene considerare più da vicino i fatti storici per cercare di orientarci nel fenomeno neorealista e di trovare qualche spiegazione della costante della contraddittorietà.


(1) Luperini, Romano, Il Novecento. Apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Loescher, Torino, 1981, p. 458 e 468 (torna su)
(2) Tutti i saggi 'americani' di Pavese sono raccolti nella prima parte, Scoperta dell'America, del volume: C. Pavese, Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968 (torna su)
(3) C. Pavese, Saggi letterari, cit., p. 173 (torna su)
(4) Procacci, Giuliano, Storia degli italiani, Laterza, Roma-Bari, 1975, p. 516 (prima edizione: 1968) (torna su)
(5) Tondo, Michele, Invito alla lettura di Pavese, Mursia, Milano, 1984-1985, p. 100 (torna su)
(6) Luperini, op. cit, pp. 582-583 (torna su)
(7) Asor Rosa, Alberto, Lo Stato democratico e i partiti politici, in Letteratura italiana, volume primo, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino, 1982, pp. 549-643, la cit. a p. 571 (torna su)
(8) F. Jovine, Aspetti del neo-realismo, in "I diritti della scuola", a. XXXVI, n. 1, 1934, p. 2; cfr. Milanini Claudio (a cura di), Neorealismo. Poetiche e polemiche, Il Saggiatore, Milano, 1980, pp. 7-8] (torna su)
(9) Corti, Maria, Neorealismo, in: Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, p. 29 (torna su)
(10) Asor Rosa, Alberto, op. cit, p. 571 (torna su)
(11) Inchiesta sul neorealismo, a cura di Carlo Bo, Eri, Torino 1951 (torna su)
(12) Milanini Claudio (a cura di), op. cit., p. 8 (torna su)
(13) Corti, Maria, op. cit., p. 32-33, 38 (torna su)
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L'autore di questo ipertesto è Giovanni Lanza il cui sito è qui: www.giovanni-lanza.de/appunti_sul_neorealismo.htm
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Ultimo aggiornamento: 12-08-11.